Mese: aprile 2019

La sanità regionale commissariata, vulnus democratico di Enzo Paolini di Enzo Paolini

La sanità regionale commissariata, vulnus democratico di Enzo Paolini di Enzo Paolini

 Il decreto sulle misure emergenziali sulla sanità in Calabria è incostituzionale e il presidente Oliverio

annuncia il ricorso alla Corte: un po’ come chiudere la stalla delle istituzioni legittime ed elettive,

dopo che i buoi delle prerogative sono da tempo scappati per l’indifferenza della classe dirigente,

tutta ripiegata a coltivare interessi propri, leciti e non leciti.

Ma il punto non è una invettiva contro l’insipienza di una politica debole, inconsapevole, spesso

incompetente e poco incline alla tutela del bene comune. Non servirebbe a niente.

E’ il mutamento che sta accadendo in Italia, silenziosamente e nell’indifferenza di tutti quelli che

pensano di eleggere deputati e senatori, mentre invece ci limitiamo, ormai da più di vent’anni, a

ratificare le liste predisposte dai leader.-

Il Parlamento non risponde più agli elettori ma ai suoi capi.

La democrazia presuppone invece una connessione – concreta – tra il popolo ed i suoi rappresentanti

nelle istituzioni. Se questo manca è perché la legge elettorale assegna la scelta a un capo, e la

democrazia si traduce in oligarchia e poi in regime.

L’applicazione del regime è di ieri, con decreto sul servizio sanitario in Calabria, quello infestato da

corruzioni e peculati, produttore di disservizi e di spreco immane di denaro pubblico, incapace di

organizzare una rete ospedaliera minimamente efficace ed efficiente e, per questo commissariato da

nove anni, durante i quali nessuna delle emergenze di cui sopra è stata però né risolta ne attenuata

in minima parte. Anzi ciascuna di esse ha presentato una crescita esponenziale ed incontrollata

grazie anche alla (in) sensibilità di commissari e governatore i quali, invece di collaborare per

l’interesse pubblico, hanno pensato a sabotarsi a vicenda per tentare di mantenere o conquistare

spicchi di potere.

Nessuno in Calabria può smentire i fatti. Il rimedio a una situazione insostenibile ed inaccettabile

avrebbe dovuto essere – in un paese normale – quello di restituire prerogative e responsabilità alle

Istituzioni, sanzionandone le inefficienze, le negligenze, o i reati, caso per caso, ma, ristabilendo, sul

piano politico l’equilibrio dei poteri e delle competenze che la Costituzione stabilisce.

Invece, in un crescente delirio di onnipotenza il consiglio dei ministri, costituito sulla base delle

stratificate prove generali di regime, da uomini e donne avulsi dal senso dello Stato, decide di

affidare il destino di un servizio essenziale per la vita e la libertà dei calabresi (la salute è un

presidio di libertà) ad un uomo solo: il Commissario, il quale provvisto di tutti i poteri e di tutte le

necessarie risorse, ed avvalendosi di enti para-governativi ben remunerati e della Guardia di Finanza,

nomina altri commissari, assegna risorse, decide addirittura sulla edilizia sanitaria e sulla

programmazione, come e quando vuole.

Non una sola parola o una sola misura per l’organizzazione o l’efficientamento del servizio, per

l’erogazione appropriata delle prestazioni, per la restituzione di dignità agli operatori ,per le

assegnazioni di appositi fondi straordinari o per consentire il risparmio degli sprechi è contenuta nel

decreto. Non una.

Deciderà il commissario il quale risponderà solo al governo. E tutto avviene nell’assoluto, intimidito,

silenzio di una classe politica regionale che, evidentemente, ha tanti di quegli scheletri nell’armadio.

In conclusione non è questa una critica al merito del provvedimento (il commissario è persona

perbene e avveduta) né un invito al Parlamento a non convertirlo in legge. Sarebbe ingenuo solo

sperarlo, sapendo come è composto.

E’ ancora una critica di metodo: la storia insegna che i problemi di un paese non si risolvono con gli

autoritarismi che, sempre, prima o poi, degenerano. E’ un allarme (forse l’ultimo) agli uomini e alle

donne che pensano che la democrazia rappresentativa, come pensata e voluta nel 1948, sia in

pericolo e che occorre una vera sollevazione per ripristinare le regole – per prima quella elettorale –

quali erano nel momento in cui il paese aveva bisogno di una ricostruzione morale e politica. Proprio

come ora.

 

 

Il Manifesto

24.04.2019

Scuola lombardo-veneta: il miraggio degli schei, al prezzo della libertà di Rossella Latempa

Scuola lombardo-veneta: il miraggio degli schei, al prezzo della libertà di Rossella Latempa

Sono un’insegnante della scuola italiana, ma lavoro in Veneto, e dunque potrei esserlo ancora per poco. La cosiddetta regionalizzazione dell’istruzione, parte di quel processo di frantumazione dello Stato ben più ampio e pericoloso (G. Viesti, “Verso la secessione dei ricchi?” Laterza, 2018; M. Villone “Italia, divisa e diseguale”, Editoriale Scientifica, 2019; entrambi scaricabili gratuitamente) che interessa anche sanità e infrastrutture, ambiente, beni culturali e molto altro, procede carsicamente e potrebbe arrivare a compimento nei prossimi mesi. Tuttavia, la scuola procede, coi suoi ritmi e le sue attività, senza ben comprendere il destino che la attende: non se ne parla nei collegi docenti, nelle aule insegnanti, nelle riunioni di fine anno, nei corridoi. L’autonomia differenziata sembra una questione tecnica e fiscale, da giuristi o economisti, oppure un problema delle regioni più povere. Nel lombardo-veneto, in fondo, non cambierà nulla, si pensa. Anzi: forse guadagneremo qualcosa in più, perché siamo più efficienti. Eppure, non è così. Difficile farsi un’idea precisa, vista la mancanza di documentazione e di dibattito pubblici. Le bozze di intesa rese note surrettiziamente dal blog ROARS nei primi di febbraio – e poi scomparse – danno un’idea del percorso su cui ci incamminiamo. Lombardia e Veneto vogliono tutto. Pretendono che 14 “pezzi” di potestà legislativa in materia di istruzione (Articolo 10, lettere a, p) vengano espropriate allo Stato e trasferite alle regioni. Ciò significherebbe contratti e carriere regionali per dirigenti, insegnanti e personale amministrativo e ausiliario; mobilità e trasferimenti tutti da rivedere (ancora possibile spostarsi da una regione all’altra?); concorsi e contingenti regionali, finanziamenti alle scuole paritarie decisi a livello locale. Ma c’è di più. Cosa studiare e con quali scopi – disciplina, finalità e obiettivi della programmazione scolastica – come formare gli insegnanti sarà stabilito a livello regionale. La valutazione sarà regionale, con ulteriori indicatori INVALSI –prevedibilmente, nuovi TEST – definiti su base territoriale. Il tempo e le risorse per l’Alternanza Scuola Lavoro, i percorsi dell’istruzione degli adulti e l’istruzione tecnica superiore saranno decisi a livello territoriale, con progetti sempre più spinti dalle esigenze della produttività locale. Il modello a cui si guarda è quello della scuola trentina, punta di diamante, eccellenza nei test standardizzati nazionali. Nel sentire comune, i trentini sono “fortunati”: guadagnano di più (circa 190 euro in più lordi al mese). A quale prezzo? I dirigenti scolastici sono assegnati alle scuole a discrezionalità del governo locale, che ne cura la formazione e fissa i criteri di mobilità. Il contratto provinciale degli insegnanti trentini si discosta da quello nazionale. Vige l’obbligo di insegnare in 50 minuti, e il tempo risparmiato si recupera in attività pomeridiane di varia natura, con massima disponibilità alle modifiche del proprio orario di lavoro, talvolta giornaliere. I soldi in più non sono regalati: sono prestazioni aggiuntive. Si guadagna di più perché si lavora di più e in maniera più flessibile: circa 120 ore di attività cosiddetta funzionale, tra potenziamento formativo e recupero. Nelle scuole trentine la giunta provinciale indica gli obiettivi dell’insegnamento attraverso i Piani di Studio Provinciali; stabilisce i corsi di formazione accreditati per gli insegnanti; promuove il trilinguismo (italiano, tedesco e inglese), in ossequio alla cultura autonomistica locale, con insegnanti madrelingua scelti dai dirigenti scolastici del tutto liberamente. “Ciascuno fa quello che deve fare a casa propria”, ha dichiarato recentemente il governatore leghista Zaia (Limes 2/19). E nel Veneto solerte e operoso non si perde tempo. È già iniziata la formazione regionale dei docenti sulla storia e sulla cultura ed emigrazione veneta (Roars, La bona scola de la Lega). In un recente convegno organizzato da l’Academia dela Bona Creansa, che tiene corsi sul dialetto veneto (pardon, lengua veneta) nelle scuole vicentine, si è parlato di “CLIL veneto di storia”: insegnamento “bilingue” della storia, in italiano e veneto. Più schei, dunque, per gli insegnanti, è vero. Ma pagati a caro prezzo: quello di svuotare completamente il proprio stato giuridico, rimpicciolendolo da statale a regionale, svolgendo attività integrative che poco hanno a che fare con lo studio e l’approfondimento specifici del proprio percorso intellettuale e professionale. Abdicando completamente all’esercizio della propria libertà di insegnamento e diventando maggiordomi al servizio dell’indirizzo politico degli assessori locali. Anche per questo i lavoratori della scuola, definitivamente spogliati della loro funzione civile e privati di un orizzonte di libertà culturale, devono rifiutare con ogni mezzo il progetto di regionalizzazione.

Il manifesto

14 aprile 2019

 

Patrimoniale, perché sì di Piero Bevilacqua

Patrimoniale, perché sì di Piero Bevilacqua

 Anche le parole, come i libri, hanno la loro fortuna e il loro destino. In Italia patrimoniale è fra quelle che si portano dietro un’aura di sventura tale da farla fuggire come la peste. Eppure è la parola chiave, l’idea-leva che potrebbe rovesciare la tendenza al declino del paese Italia. Perché uno dei meccanismi che bloccano il dinamismo economico e sociale è la sempre più squilibrata disuguagliana della ricchezza e la latitanza di un potere pubblico in grado di rovesciarla in tempi brevi, tramite un piano strategico di investimenti.

In Italia il fenomeno universale della disuguaglianza si intreccia a un’altra grave questione: un frattura crescente con le nuove generazioni. E’ in atto da anni una lotta di classe che la mia generazione   muove contro la gioventù italiana. Dieci anni fa Massimo Livi Bacci documentò con ricchezza di dati gli svantaggi dei nostri giovani rispetto alle posizioni dei loro coetanei europei nei confronti dei loro padri: sul piano del reddito, dell’accesso al lavoro, dell’autonomia, godimento di servizi, ecc. (Avanti giovani, alla riscossa, il Mulino, 2008) C’è ragione di credere che da allora le cose siano peggiorate. Tale sopraffazione si dispiega oggi non solo con leggi sul mercato del lavoro, con l’istituzione della precarietà anche nella PA, con la sottrazione di risorse alla scuola, all’università, alla ricerca, con la devastazione dell’ambiente. Alcune forme di sbarramento hanno del clamoroso. Siamo al paradosso che imponiamo il numero chiuso all’accesso all’Università e mancano i medici per far funzionare gli ospedali. Quando il rettore della maggiore Università d’Italia difende il numero chiuso per l’iscrizione a medicina, con la motivazione che chi supera la selezione gode delle stutture didattiche in maniera ottimale, incarna l’immagine paradigmatica di una classe dirigente rassegnata allo status quo.

Ma c’è una sopraffazione di fondo che occorrerebbe mettere in luce. Come mostrano periodicamente le statistiche della Banca d’Italia, le famiglie abbienti aumentano costantemente i loro risparmi, mentre il paese non è in grado di fare investimenti significativi nella formazione e nella ricerca. Nel 2016, nonostante il calo di valore degli immobili, nonostante le modeste prove dell’economia generale del Paese,a dispetto dell’aumento ben noto della povertà tra ampi   strati di popolazione, la ricchezza totale delle famiglie italiane era ben 8,9 volta il reddito disponibile, fra le più alte dei paesi ricchi.Inoltre, degno di nota, << Nel confronto con gli altri paesi, il debito delle famiglie italiane rimane il più basso.>>. Ma nella Indagine del novembre 2018 è segnalato un dato che conferma la concentrazione della ricchezza tra le generazioni anziane e il loro connotato conservatore e difensivo: gli << strumenti assicurativi e pensionistici sono al massimo storico del 23 per cento della ricchezza finanziaria.>>

Dunque mentre   tantissime famiglie accumulano risparmi, i loro figli sono costretti a andare in giro per il mondo se vogliono laurearsi, trovare lavoro, fare ricerca. Mentre i rapporti asimmetrici nel lavoro e un sistema fiscale non progressivo perpetuano le disuguaglianze, accrescono un risparmio passivo sottratto agli investimenti utili alle nuove generazioni all’intero paese.

Ma come si rovescia tale tendenza? E’ evidente che quelli che continuiamo a chiamare partiti, ridotti ad agenzie di marketing elettorale, non si avventurano a propugnare una patrimoniale, perché è parola d’ordine che non porta voti: l’unica mira ideale del ceto politico contemporaneo. Occorrebbe una mobilitazione di massa, rendere consapevoli le nuove generazioni che la posta in gioco è il loro avvenire e che gli avversari da persuadere sono i loro padri e i loro nonni, nella attuale configurazione polìtica e di classe.Come stanno facendo gli studenti di tutto il mondo per riscaldamento climatico. Essi non persuaderanno nessuno se non irrompono sulla scena con una capacità intransigente di conflitto, con idee e proposte fattibili a cui piegare la volontà dei governi. Ma i giovani possono montare manifestazioni, non possiedono organizzazioni stabili che li supporti.

Per questo trovo di portata strategica l’irruzione del sindacato su tale terreno. La recente intervista a Landini (Repubblica, 3.4.2019) in cui si propone << un piano straordinario di investimenti pubblici e privati che si inserisca in una idea di Paese basata su un nuovo modello di sviluppo>>, va incoraggiata, anche per le modalità adombrate di realizzazione: << sperimentare veicoli finanziari alimentati da banche e Cdp finalizzati a investimenti>>. Se il termine patrimoniale spaventa si potrebbe pensare ad un prestito forzoso a lunga scadenza con un bassisimo tasso d’interesse, destinando un massa cospicua di risorse agli obiettivi proposti da Landini.

Ma occorrerebbe una discussione seria nel paese.Persuadere i ceti dominanti dell’utilita generale di tale operazione. Chiamando la patrimoniale un “patto di coooperazione tra due generazioni”.

 

 

Il Manifesto

6.4.2019