Mese: ottobre 2019

Il falso mito del tocco magico del sistema elettorale maggioritario di Enzo Paolini

Il falso mito del tocco magico del sistema elettorale maggioritario di Enzo Paolini

I fondatori del Pd sostengono il sistema maggioritario perché «le elezioni non sono fatte per fare la fotografia del Paese ma per assicurare la governabilità» (Prodi) e perché il proporzionale assicurerebbe la «pretesa di contare, a formazioni sotto il 4%» (Veltroni ).

Dispiace dover constatare che due aspiranti Presidenti della Repubblica, invece di stagliarsi rispetto al dibattito di piccolo cabotaggio teso ad assicurare una stabile occupazione delle istituzioni da parte di un ceto politico autoreferenziale, ne assecondino l’ingordigia senza accorgersi (se in buona fede) del vulnus al principio costituzionale di rappresentanza, oltre che al senso delle istituzioni, ed al buon senso politico.-

E’ dura contraddire chi ha fatto due volte il presidente del Consiglio, ma le elezioni sono fatte proprio per rappresentare la fotografia del Paese. In nessuna parte della Costituzione è scritto che esse debbano garantire la “governabilità” o che la sera dello scrutinio si debba sapere chi ha vinto e chi ha perso. Questo succede allaDomenica sportiva.

La governabilità non è la causa delle elezioni, ma il necessario, auspicato effetto, determinabile dalla convergenza delle forze politiche rappresentate in Parlamento sui programmi proposti agli elettori e sulle mediazioni imposte dalle alleanze atte a costituire le maggioranze utili per governare. Questa è la governabilità.

E infatti, la sera del 4 marzo 2018 tutti sapevamo chi aveva vinto, cioè il M5S, ma nessuno si è scandalizzato se l’incontro politico per la governabilità sia avvenuto dopo oltre un mese e sulla base di un compromesso addirittura definito “contratto” tra chi aveva “vinto” (appunto i 5 Stelle) ed un aspro avversario arrivato terzo (la Lega). Né ci si è posto il problema se dopo un anno e mezzo il governo (ed il contratto o la governabilità) sia saltato e sia stato ricostituito sulla base di un altro compromesso tra i due ex nemici 5 Stelle e Pd.

Dunque il maggioritario (cioè con un sistema che assegna alla formazione che non ha raggiunto la maggioranza ma è prima in classifica, un premio in seggi che, in barba alla volontà popolare, la fa diventare ancor più maggioranza), non è assicurata ipso facto la stabilità, a meno di un risultato elettorale con una maggioranza assoluta (…i “pieni poteri”).

La differenza tra i due sistemi (oggi con le nomine dei capipartito, ieri con il proporzionale e le preferenze degli elettori) è una sola: la qualità della classe dirigente. La storia di questo ultimo anno e mezzo e dell’annesso cambio al governo (ma possiamo dire la storia del Paese da quando c’è il maggioritario per nomina, sia esso Porcellum, Italicum o Rosatellum con i suoi ribaltoni, cambi di casacche, compravendita di parlamentari) lo dimostra.

La spiegazione è semplice: il sistema pensato dai costituenti, cioè il proporzionale puro con le preferenze, non fu scelto solo per impedire nuove temute derive autoritarie. La paura o meglio il rifiuto della tirannide era il presupposto. Ma il sistema recava in sé un fine tessuto di ingegneria costituzionale.-

Fotografava il sentire del popolo italiano, fino a quello dell’ultimo cittadino, con un voto “diretto, libero ed uguale” per cui la sera dello scrutinio si sapeva chi eravamo, cosa pensavamo, quali erano gli orientamenti condivisi ed in quale misura, appunto proporzionale, si traducevano in seggi parlamentari.

Così che i rappresentanti istituzionali sin da subito potevano/dovevano avviare i confronti per giungere alle alleanze, alle maggioranze necessarie. Un lavoro duro e affascinante che si chiama politica. Il quadro poteva mutare sulla base di questioni politiche non di migrazioni di senatori e deputati fondate su posizionamenti e convenienze personali. Essendo i parlamentari eletti con le preferenze, rispondevano del loro comportamento agli elettori che tali preferenze avevano espresso e non , come oggi avviene al capo del partito che li nomina o che gli promette la rinomina (l’esodo renziano di questi ultimi giorni è, in questo senso, significativo per tutti quelli che non vogliono bere la bubbola del “lo facciamo per i giovani”).

In questo sciagurato mo(n)do il Parlamento viene nominato dai cosiddetti leader, non viene assicurata alcuna governabilità politica, (ma solo quella delle convenienze del momento) le maggioranze sono drogate dai premi, la vera volontà popolare non conta niente, e le elezioni sono solo esercizi di posizionamento personale. Ciò è peraltro affermato dalle ripetute sentenze della Corte Costituzionale sui Parlamenti che ormai da un decennio sono eletti sulla base di leggi dichiarate incostituzionali. Verrebbe quasi voglia di ricordare all’on. Veltroni che i partitini del 4% hanno espresso gente come La Malfa, Pannella, Saragat, Vecchietti, Malagodi, Bozzi, Foa, Valiani e tanti altri che nelle istituzioni hanno dato senso ai voti ricevuti.

IL MANIFESTO

8.10.2019

Il destino del movimento e del pianeta di Piero Bevilacqua

Il destino del movimento e del pianeta di Piero Bevilacqua

 Abbiamo troppa esperienza politica per sapere che il movimento mondiale avviato da Greta Thumberg, prima o poi, si spegnerà. Tutti i movimenti – che rappresentano l’”eccezione” di fronte alla normalità della vita quotidiana – a un certo punto esauriscono la loro carica vitale ed escono di scena. Ma non passano mai invano. A seconda della loro durata e incisività lasciano in eredità istituzioni o quanto meno mutamenti culturali più o meno di grande rilievo. In Italia, ad esempio, il movimento partigiano ha lasciato in eredità la Repubblica e la Costituzione, il ’68-69 ha prodotto la demolizione di vecchi rapporti autoritari, l’affermarsi di una nuova soggettività e altro ancora. Il movimento globale degli adolescenti – forse geograficamente il più vasto che si sia visto sinora – sta già avviando una trasformazione culturale che durerà oltre il suo passaggio.Qui ha ragione Guido Viale.L’aver mostrato al mondo, con tanta forza, la minaccia mortale che incombe sulla nostra vita comune, ha un effetto dirompente sul pensiero unico capitalistico: mostra che la cultura dominante, quella che si fonda sulla retorica del nuovo continuo, del futuro che inizia ogni giorno, non è che un vecchio e cadente edificio. E non c’è accusa più devastante per i ceti dominanti e dirigenti che mostrare la loro “vecchiezza” rispetto alla realtà effettuale. Imprenditori,manager, capi di governo, uomini politici, i cantori delle magnifiche sorti, il cui unico repertorio argomentativo è fatto delle parole crescita, sviluppo, grandi opere, Pil, oggi spruzzate con un po’ di green orecchiato dai movimenti, vengono ammutoliti. D’ora in poi sentiranno il vuoto e l’inconsistemza delle parole   con cui hanno sinora giustificato il loro dominio.

Ma deve apparire chiaro che questo non basta. Il movimento dovrebbe darsi una struttura organizzativa in rete, pronta a scattare ad ogni campagna di massa, avviare inziative di breve periodo che diano obiettivi concreti ai militanti, e infine avere una visione politica di prospettiva, capace di prevedere scenari realistici di dominio e di conflitto futuri.

Un obiettivo mobilitante nell’immediato è inserirsi in una iniziativa già avviata in vari paesi:E’ quella di piantare alberi ovunque sia possibile. In Italia, ad es., un movimento di piantumazione di alberi, orti, siepi ecc. per produrre ossigeneo e trattenere carbonio, potrebbe coincidere con una vasta opposizione popolare al processo di consumo di suolo. I ragazzi devono saper dire che ogni nuovo edificio che sottrae verde, danneggia il clima e quindi costituisce un danno a tutta la collettività. Così che il movimento possa imporre ai sindaci delle città un nuovo governo ambientale dei nostri centri urbani.

Ma il movimento deve compiere un duplice salto di consapevolezza: comprendere il meccanismo che regola il capitalismo mondiale oggi e avere una prospettiva realista del futuro nel medio periodo. Occorre avere chiaro che la distruzione crescente e dissennata delle risorse e dunque il riscaldameno globale, sono il frutto di una macchina mondiale semovente che non riesce a fermarsi.Questa macchina è costituita dalla divisione del pianeta in singoli stati in competizione tra loro e che dunque devono continuamente crescere.Una vecchia eredità storica, gli stati-nazione, pesano sul nostro presente e minacciano il futuro. Se noi osserviamo il pianeta da un satellite, non scorgiamo confini, divisioni, configurazioni statuali, ma un corpo cosmico unitario. Se la Terra venisse considerata così, vista l’enorme ricchezza materiale di cui dispone la maggioranza degli stati, non sarebbe più necessario che ciascuno competesse con l’altro, come avviene oggi, per produrre di più, conquistare nuovi mercati, saccheggiare le risorse, condurre guerre distruttive, ecc. Un accordo mondiale tra gli stati potrebbe abolire la corsa alla crescita – che è la ragione segreta grazie a cui ogni ceto dirigente nazionale impone ai propri cittadini le “necessità” dello sviluppo capitalistico – e dar vita a un accordo mondiale in cui la salvezza della Terra dovrebbe costiruire il principio ispiratore fondativo.

Si tratta di un obiettivo gigantesco. Ma è l’unica prospettiva di salvezza e spiegherò a breve perché.

Noi siamo di fronte a politiche di potenza da parte dei vari stati che sarà difficile smontare. Questa poltica significa oltre mille miliardi di dollari all’anno in armamenti, cioè in mezzi di distruzione di uomini e territori e di deterioramento del clima. Immense risorse che potrebbero essere utilizzate per scopi opposti. Assistiamo al paradosso di un ‘Europa allineata la Patto atlantico, un’organzzazione che produce e distribuisce armamenti, genera e alimenta conflitti, ed è piegata agli interessi degli USA.Un paese che con il 5% della popolazione consuma oltre il 30% delle risorse mondiali e contribuisce più o meno nella stessa proporzione al riscaldamento globale. Un paese governato da un presidente che nega il riscaldamento climatico in atto e continua nella sua politica dissennata, appoggiando il saccheggio dell’Amazzonia perseguita dal presidente del Brasile.

Occorre perciò azzardare qualche linea di prospettiva. Il mondo non finirà né domani né dopodomani.L’Apocalisse ambientale non ci sarà. Quel che è tuttavia realistico immaginare è una crescente e alla fine drammatica riduzione delle risorse disponibili: terre fertili, acqua, materie prime, territori abitabili, ecc. Se questo è la scenario fisico più probabile del nostro prossimo futuro è evidente che, restando in piedi l’attuale architettura di divisione competitiva del mondo in stati, l’esito inevitabile sarà la guerra. La terza, ultima, definitiva guerra mondiale. << E’ probabile – ha scritto con amarezza George Steiner – che tutto finisca in un massacro.>> Contro questa prospettiva l’obiettivo necessario che il movimento dei giovani deve perseguire è la sostituizione a livello mondiale di una intera generazione di dirigenti. In Europa già nei prossimi anni essi potrebbero mandare a casa governanti e politici sopravvissuti a un’epoca ormai tramontata, e avviare lo smontaggio della Nato. Il centro politico-militare che contribuisce più di altri poteri all’attuale divisione del mondo.

 

Il Manifesto

6.10.2019

L’uso del suolo e lo sviluppo insostenibile di Massimo Veltri di Massimo Veltri

L’uso del suolo e lo sviluppo insostenibile di Massimo Veltri di Massimo Veltri

L’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) è un ente pubblico di ricerca, istituito con legge dello Stato nel 2008 e operativo dal 2010. E’ sottoposto alla vigilanza del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e, fra le sue meritorie iniziative, produce periodicamente un rapporto sul consumo di suolo in Italia. Un rapporto che assume la forma di un volume di centinaia di pagine, ricco di dati, elaborazioni, cartine, grafici, raffronti, stime e valutazioni oltre che di suggerimenti e proposte. Articolato, dopo uno studio a scala nazionale, per regioni e province si avvale del contributo delle agenzie regionali del Ministero cui è sottoposto e, per come si va configurando negli anni, assume il significato oltre che il valore di un vero e proprio indispensabile vademecum per chi si occupa, a diverso titolo, di discipline, studi e interventi sul territorio.

Il terzultimo Rapporto, in ordine di tempo, sul consumo del suolo fu presentato nel 2015 a Cosenza alla presenza fra gli altri del presidente pro-tempore dell’Ispra, prof. Bernardo de Bernardinis. Ci fu una animata e partecipata discussione con gli interventi di tecnici, ricercatori, ambientalisti, operatori politici e amministrativi riassumibile, forse un po’ troppo drasticamente, nella constatazione di come fosse indispensabile intervenire al più presto in termini normativi con una legge sulla limitazione e\o regolazione dell’uso del suolo, sull’arresto di nuove edificazioni, sull’accentrare l’attenzione sul recupero e la riqualificazione dell’esistente.

In Parlamento giacevano all’epoca disegni di legge orientati in tal senso, così come pure in periferia e in Calabria era nettamente percepibile l’attenzione verso il recupero dei centri storici, il riequilibrio territoriale fra aree collinari e montane con quelle vallive, un allarme non solo declamatorio per le varie situazioni ambientali che via via andavano aggravandosi.

Oggi, a quattro anni di distanza, coglie in qualche modo di sorpresa il fatto che sia passata sostanzialmente sotto silenzio la presentazione del rapporto 2019 sul consumo del suolo nel nostro paese. Un rapporto ancora più ricco dei precedenti, più ‘informato’, più articolato e territorialmente dettagliato, illustrato e analiticamente descritto: sarebbe proprio il caso di adoperare l’espressione ‘strumento didascalicamente indispensabile’. Sotto silenzio, dicevamo, proprio quando il clamore dell’uragano Greta è arrivato fino alle Nazioni Unite, nelle nostre scuole si sciopera perché i ghiacciai si stanno sciogliendo, tutti i parlamenti di mezza Europa, e non solo, annunciano che l’emergenza ambientale è a tutti gli effetti una priorità.

C’è, oggettivamente, uno stridore nel non cogliere i nessi evidenti fra i due accadimenti e sarà perciò utile soffermarsi brevemente qui nel ricordare sostanzialmente due fatti. Il primo risale allo sviluppo e ai suoi limiti: senza andare al Club di Roma di Aurelio Peccei e ai suoi sodali degli anni sessanta del secolo scorso non si può non ribadire – ma non per fare il verso a coloro i quali predicano la decrescita felix (inattuale  e impraticabile) – che talune ma prevalenti ipotesi che si sorreggevano sullo sfruttamento  indiscriminato delle risorse naturali, quali che fossero, rinnovabili o meno, sono pesantemente da rivedere e senza indugi, pena il collasso del mondo che abbiamo costruito. Da più parti e in maniera irresponsabile si odono irrisioni per i toni definiti allegramente catastrofistici mentre le validazioni scientifiche inoppugnabili dei dati e delle situazioni che abbiamo vanno univocamente verso la progressiva insostenibilità del sistema. Il secondo: si ripropone in tutta la sua capacità di mettere un freno all’entropia nella quale siamo immersi la necessità di avvalersi di strumenti di pianificazione. Strumenti non mastodontici, rigidi e onnicomprensivi ma agili e duttili, rimodellabili e ricalibrabili, in grado però di prefigurare nel tempo usi, destinazione di comparti e allocazione di insediamenti fra loro armonizzati e, soprattutto sostenibili.

Non si rinvengono elementi più efficaci e paradigmi più idonei di quelli che seguono, per rendere impellente e ineludibile una serie di azioni concertate volte a prospettare un’azione per il nostro futuro. Da una parte le parole di Martin Heidegger che, com’è stato di recente ricordato, nel 1951 a Darmstadt ammoniva: «I mortali abitano in quanto salvano la terra. Ma salvare la terra è qualcosa di più che riutilizzarla o addirittura affaticarla. Salvare la terra non significa dominarla né sottometterla, dalla qualcosa manca solo un passo allo sfruttamento illimitato». Dall’altra il ribadire assenza e ritardi governativi di una legge nazionale del consumo di suolo, evidenziando nel contempo la ridotta capacità delle amministrazioni regionali di arrestare la tendenza dei fenomeni di consumo e depauperamento del suolo e del territorio.

I dati sono impietosi: nel biennio 2017- 2018 il consumo di suolo in Italia ha riguardato più di cinquanta chilometri quadrati al giorno, con gli stessi altissimi ritmi del biennio precedente. I cambiamenti maggiori si sono verificati “nelle aree di pianura del nord, della Toscana, nell’area metropolitana di Roma, lungo le coste romagnole, nella bassa Campania, nel Salento, e dov’è localizzata la maggiore presenza di superfici artificiali si registra un incremento di temperatura estiva pari a due gradi centigradi”.  Le aree del nord del paese a più alto gradiente di crescita mostrano i dati più allarmanti, a dimostrazione della fragilità di un modello di sviluppo tutto da rivisitare, ma anche quelle protette e vincolate, quelle ad alto rischio idraulico, da frana e sismico non evidenziano alcuna inversione di trend. ‘La velocità del consumo di suolo è in ogni caso molto lontana dagli obiettivi comunitari di azzeramento del consumo netto di suolo’.

Accanto a dati non confutabili e a impostazioni culturali e politiche scevre di ideologismi non si può che prendere atto della insostenibilità della situazione e promuovere rapide e consapevoli inversioni di tendenza. La parola ai responsabili: a partire dal Governo centrale, dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. I dati e le considerazioni che costituiscono l’ossatura di queste note provengono da un Istituto che è sotto la sua tutela.

In allegato al Def, la nota che spinge sull’autonomia di Massimo Villone

In allegato al Def, la nota che spinge sull’autonomia di Massimo Villone

Il governatore Cirio a Torino nel convegno celebrativo della Corte dei conti ha rilanciato sull’autonomia differenziata. Forse per la presenza di Mattarella ha aggiunto una mozione degli affetti richiamando la bandiera italiana (Stampa Torino, 02.10). Ma le carte cantano. E le pretese del Piemonte per quel che si sa sono ricopiate da quelle del Veneto, mentre è firmato l’asse con la Liguria (Repubblica Genova, 24.09). Il separatismo nordista attacca. Il 15 ottobre si terrà in una scuola di Padova un incontro sull’autonomia differenziata, organizzato dall’ufficio scolastico regionale, ambito territoriale di Padova e Rovigo. Sarà relatore Bertolissi, ordinario di costituzionale a Padova, e membro della delegazione trattante con il ministero. Lo stesso Bertolissi sul Corriere della sera del 23 settembre ci informa che al Nord tira una brutta aria. È autore di un libro sull’autonomia di cui la giunta veneta ha deliberato di acquistare mille copie, al prezzo scontato di 6 euro ciascuna. Nelle parole di Zaia «… fornisce un prestigioso contributo scientifico alla tematica dell’autonomia differenziata … l’Amministrazione Regionale intende acquistarne un congruo numero di esemplari per la loro diffusione …» (Gr Veneto, 30.07.2019, in Bur n. 27.08.2019, n. 97). Una campagna pubblicitaria. Sulla iniziativa del 15 ottobre bene hanno fatto le segreterie regionali scuola Cgil, Cisl, Uil, Snals, Gilda a sottolineare che la discussione andrebbe «allargata anche ad altre presenze di pensiero divergente. In caso contrario sarebbe utile annullare l’iniziativa». Ci chiediamo cosa pensi il ministro Fioramonti – quello che l’autonomia nella scuola non si fa – della sua organizzazione periferica. Un anticipo di co-dipendenza funzionale? Sulla scuola gli aspiranti secessionisti mantengono alta la pressione. Le ragioni sono ovvie. Anzitutto, è l’occasione di mettere le mani su una massa di manovra elettoralmente preziosa di decine di migliaia di docenti e personale scolastico. Inoltre, alla bassa cucina si affianca una motivazione strategica: avere gli strumenti per costruire una cultura separatista che nobiliti lo strappo. Un obiettivo che in specie Zaia da tempo persegue. Ricordiamo il protocollo d’intesa trionfalmente firmato con l’allora ministro Bussetti (leghista) per l’insegnamento della storia e della cultura veneta nelle scuole (Il Gazzettino.it, 16.10.2018). Si onora l’accordo con i sindacati scuola siglato il 24 aprile dal precedente governo? Non fa argine – e speriamo sia solo apparenza – la posizione di Boccia. Le sue aperture sulla scuola sono in diretto contrasto con Fioramonti. Anche Provenzano è su una linea diversa. Dunque, sull’autonomia un indirizzo di governo non c’è. Non si capisce quale sia l’orientamento della maggioranza. Una posizione condivisa sarebbe quanto mai opportuna, prima di parlare. Perché intanto Boccia non rende pubblici i 36 rilievi che – leggiamo – ha presentato ai governatori? O riprende la trattativa segreta in stile Stefani? Si aggiunge ora la nota di aggiornamento del Def a firma Conte e Gualtieri. Tra i ddl che il governo dichiara collegati alla decisione di bilancio uno reca «interventi per favorire l’autonomia differenziata ai sensi dell’articolo 116 comma 3 della Costituzione attraverso l’eliminazione delle diseguaglianze economiche e sociali nonché l’implementazione delle forme di raccordo tra Amministrazioni centrali e regioni, anche al fine della riduzione del contenzioso costituzionale». L’ambiguità continua. Favorire? E come? Il richiamo alle diseguaglianze sembra legarsi ai livelli essenziali delle prestazioni. Si intende che debbano essere stabiliti in via prioritaria, al fine appunto di «favorire»? E che sono le «forme di raccordo»? Strumenti di concertazione permanente da sostituire in tutto o in parte alle intese? O invece da affiancare ad esse per contenere i danni? Ridurre il contenzioso, come? Fontana e Zaia potrebbero dire che è appunto quel che vogliono, ritagliando competenze e funzioni. Sull’autonomia differenziata il governo rischia la babele. Qui le differenze sono anzitutto a Palazzo Chigi, mentre il fronte separatista è compatto. Ma la pubblicità ingannevole lasciamola a Fontana e Zaia. Perché stiano sereni non diciamo che gli antichi giuristi di Roma avevano in tempi assai risalenti già inventato la categoria giusta per loro: il dolus malus. Manifesto 3 ottobre 2019