Mese: maggio 2020

I partigiani calabresi.-di Piero Bevilacqua

I partigiani calabresi.-di Piero Bevilacqua

Un importante contributo alla storia, alla memoria civile e all’immagine pubblica della Calabria – forse la regione più gravata di stereotipi denigratori dell’intera Penisola – è appena uscito presso un editore calabrese, per merito di Pino Ippolito Armino, Storia della Calabria partigiana, Luigi Pellegrini Editore Cosenza, 2020, pp. 351.

Si tratta di un voluminoso testo di ricerca che corrisponde pienamente all’ambizione del titolo, e che innanzi tutto si fa apprezzare per la luce che getta su un aspetto poco esplorato della nostra storia, oltre che per meriti morali. Vale a dire per l’onore che rende ai tanti ignoti, o dimenticati, che pagarono con la vita la loro generosità e il loro coraggio di combattenti.

Dopo un originale saggio di storia economica comparativa, meritevole di più ampia diffusione, Quando il Sud divenne arretrato, pubblicato nel 2018, Ippolito torna ai suoi temi di storia politica con un lavoro che muove da una dichiarata intenzionalità etico-politica, come diremmo con vecchio linguaggio crociano. La illustriamo con le stesse parole dell’autore, che contengono, in breve, anche una sacrosanta rivendicazione storiografica del carattere non casuale e forzato, ma volontario e progettuale della Resistenza italiana.

Se, ricorda Ippolito, «accertato è il contributo niente affatto marginale, che i meridionali diedero alla lotta di liberazione nei venti mesi in cui l’Italia del Nord si oppose all’occupante tedesco. Se tutto questo può considerarsi ampiamente acquisito, è ancora dura a morire l’opinione che i meridionali vi parteciparono in quanto soldati sbandati, impossibilitati a far ritorno alle proprie case, in un certo senso costretti dalle circostanze a entrare nella Resistenza.

La tesi contiene elementi di verità ma non può essere considerata assorbente ed esplicativa di ogni situazione, per non cadere nella trappola di chi, con analoga semplificazione, ritiene che i partigiani settentrionali fossero in larga parte giovani che sfuggivano alla leva della Repubblica Sociale Italiana(RSI) o alla tradotta in Germania». Tesi importante che Ippolito convalida persuasivamente in 350 pagine di testo con uno sforzo documentario davvero ammirevole, portando un ulteriore contributo alla stessa storia della Resistenza italiana, oltre che al ruolo svolto dai calabresi nelle sue file.

Il libro ha un carattere sistematico e ad ampio raggio, geografico e temporale. Inizia con la Resistenza prima della resistenza, come titola il primo capitolo e ricorda i primi tentativi e i primi programmi insurrezionali nel marzo 1943 a Reggio Calabria, da parte di gruppi di operai, studenti e professionisti, seguiti più tardi da vere forme di mobilitazione armata. È quella che si svolge in seguito allo sbarco degli inglesi fra Roccella e Caulonia, sullo Jonio, e a Palmi, sul Tirreno, che vede già protagonista Pasquale Cavallaro.

Il futuro artefice della Repubblica di Caulonia. In questa area della Calabria si ha la prima vittima della lotta antitedesca. In seguito a un atto di sabotaggio, contro le armate tedesche in ritirata, a Taurianova, viene ucciso Cipriano Scarfò, socialista, fucilato dopo un rito sommario.

Comincia da qui il racconto di stragi e uccisioni in cui i calabresi hanno sempre, a diverso titolo una parte. Ancora in Calabria, i tedeschi, che il 6 settembre cannoneggiano il paese di Rizziconi, lasciando a terra 17 morti, per lo più adolescenti, e 56 feriti, si fanno esecutori della fucilazione, ad Acquappesa, di 5 giovani militari originari della piana di Gioia, che avevano abbandonato il loro reggimento, probabilmente per unirsi agli anglo-canadesi appena sbarcati, e combattere contro i tedeschi.

Dalla Calabria, secondo un ordine temporale e al tempo stesso, come abbiamo detto, geografico, da Nord a Sud, quasi a ridosso della direzione della stessa guerra, Ippolito passa alla resistenza romana. E qui troviamo in posizioni spesso di primo piano, calabresi che vivono nella capitale, da più o meno tempo, come Giuseppe Albano, originario di Gerace, noto come il Gobbo del Quarticciolo, che si batte con altri sottoproletari contro i tedeschi a Porta San Paolo. Accanto a lui una figura presente nell’immaginario di tutti noi, Teresa Talotta Gullace, immortalata da Anna Magnani in Roma città aperta, di Roberto Rossellini.

E ritroviamo anche uno studente marinaio, Ettore Arena, di Catanzaro, militante di Bandiera Rossa, una delle principali formazioni antifasciste di Roma, fucilato a 21 anni a Forte Bravetta. Arena ha ricevuto la medaglia d’oro alla memoria. Ci sono anche quattro calabresi fra i morti nel massacro alle Fosse Ardeatine, tutti esponenti della Resistenza romana, a 3 dei quali sarà conferita la medaglia d’argento al valor militare.

Con grande passione documentaria l’autore segue vicende e destini dei calabresi anche fuori d’Italia, come per quei soldati che alla data dell’8 settembre si trovavano, ad esempio, in Montenegro, Slovenia, Erzegovina, dove si sviluppò la resistenza armata. Naturalmente l’autore non si limita a inseguire i singoli casi personali di eroismo, ma racconta le vicende storiche complessive, sia che si tratti, poniamo, della tragedia di Cefalonia, in Grecia, sia della Resistenza nel Regno del Sud e poi della Resistenza nel suo nucleo armato più consistente, sulle montagne del Nord d’Italia.

In una breve recensione non è possibile dar conto analiticamente di un libro, tanto più, come in questo caso, se si tratta di un testo ricco di vicende e di eventi, alcuni peraltro poco noti, che gettano luce su una pagina drammatica e dolorosa, ancora con tanti punti oscuri, della nostra storia. Ma quel che va detto e ripetuto al lettore, è che Ippolito non si limita a ritagliare, per amore di campanile, la vicenda dei suoi tanti eroi calabresi – in appendice si contano 165 partigiani caduti, molti dei quali con rispettiva città e provincia – dalla massa dei grandi fatti storici.

Rischio che naturalmente corre chi possiede una prospettiva culturale e storiografica provinciale. Accade, in questo libro, il contrario. E cioé che dalla ricostruzione dei grandi fatti collettivi della Resistenza italiana, dall’Appennino Umbro- Marchigiano alla Valle d’Aosta, Dall’Ossola alla Valsusa, finiscono con l’emergere anche i singoli eroismi in cui spesso si consumano le vite dei giovani combattenti calabresi. Quelle vicende singole che insieme fanno la stoffa di una storia complessa, ma unitaria , su cui si fonda la nostra Repubblica.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 maggio 2020

Il Piano Sud: ancora più necessario con la pandemia.-di Gianfranco Viesti

Il Piano Sud: ancora più necessario con la pandemia.-di Gianfranco Viesti

A metà febbraio il Ministro Giuseppe Provenzano ha presentato il “Piano Sud“. Dopo una sommaria discussione, l’interesse per il tema è immediatamente scemato, travolto, nell’interesse collettivo, dalla diffusione della pandemia Covid e della sue innumerevoli e gravi conseguenze: sanitarie, economiche, sociali.

C’è ben altro di cui occuparsi in questo periodo, si potrebbe pensare. Invece, se il nostro paese vuole aumentare le possibilità di tornare a ritmi di sviluppo più elevati, rendendo sostenibile il suo indebitamento, e contrastando le disuguaglianze che la pandemia purtroppo accrescerà, deve recuperare la sua capacità di “allungare lo sguardo” verso il futuro; e rendersi conto che questo sarà possibile solo mobilitando e mettendo a valore, nell’interesse collettivo, le risorse e le potenzialità di crescita disponibili in tutti i suoi territori, a cominciare da quelli più deboli.

Uno sviluppo migliore e più intenso potrà essere possibile solo se il nostro paese seguirà un cammino profondamente diverso da quello degli ultimi due decenni: un’occasione decisiva per tornare ad affrontare il grande, irrisolto, problema delle disparità territoriali e del modestissimo sviluppo del Mezzogiorno.

Ma quali sono i possibili punti di forza e di debolezza del Piano Sud? In primo luogo, sembra corretta la sua indicazione politica di fondo: il Piano Sud è un progetto per l’Italia. Per ripartire il paese deve valorizzare tutte le risorse disponibili, a partire da quelle umane; rivitalizzare la capacità di produrre beni e servizi; e quindi rilanciare anche la domanda interna, con una stagione di ripresa dei consumi e soprattutto degli investimenti, pubblici e privati.

È assai opportuno il richiamo che il Piano fa alle interdipendenze fra i territori: l’economia non è un gioco a somma zero; la crescita delle regioni più deboli aiuta quella delle aree più forti. Un concetto fondamentale in un’Italia segnata e indebolita da egoismi e sovranismi territoriali; che rischiano di accrescersi, in una rinnovata competizione per le scarse risorse pubbliche a disposizione.

Condivisibili, nelle loro linee generali, appaiono le cinque grandi priorità indicate dal Piano: la preoccupazione per i più giovani, l’inclusione sociale, le compatibilità ecologiche, l’apertura internazionale e al Mediterraneo, l’enfasi sull’innovazione. Opportuna anche l’ottica decennale: per trasformare davvero la situazione del Mezzogiorno, dopo un ventennio di forte rallentamento e la persistente depressione dell’economia nell’ultima decade (e ancor più con i rischi di oggi con la pandemia) non bastano certo pochi mesi o anni.

Sono proprio questi aspetti condivisibili che fanno sorgere interrogativi e qualche preoccupazione. Il primo quesito riguarda certamente la condivisione politica generale di questi obiettivi: quanto il progetto del Ministro era davvero condiviso dall’intero governo, e ancor più dalla maggioranza che lo sostiene? Tanto i 5 Stelle quanto il Partito democratico non si sono particolarmente impegnati in riflessioni e proposte su questi temi negli ultimi anni.

In un mondo normale un piano del genere, così ambizioso, dovrebbe essere il frutto di una stagione di discussioni, politiche e tecniche; di esperienze, proposte, confronti. Invece, nasce prima il Piano della discussione collettiva: il suo obiettivo sembra quello di stimolarla. Non sarà semplice. Un documento come il Piano Sud si traduce in una grande politica pubblica solo se con il tempo diventa un patrimonio condiviso di migliaia e migliaia di uomini politici, amministratori, uomini di cultura. Il rischio è che questo – senza una potente spinta che duri a lungo – possa non avvenire.

Un altro grande interrogativo viene dal necessario raccordo fra questo programma di interventi e le politiche pubbliche ordinarie. Dal Piano traspare quanto questo raccordo sia indispensabile. Ma non è certo garantito. Una politica di particolare rafforzamento dell’istruzione e degli edifici scolastici non può che raccordarsi con le scelte di lungo termine sulla scuola. L’obiettivo di potenziare la dotazione di ricercatori nel Mezzogiorno deve fare i conti con le scelte per l’università e il sistema della ricerca italiani.

L’enfasi sulla realizzazione di nuove reti ferroviarie, e soprattutto l’ammodernamento di quelle esistenti per produrre risultati concreti deve raccordarsi con le politiche regionali e ancor più nazionali di regolazione e finanziamento del servizio ferroviario, locale e interregionale; con la logica aziendalistica che presiede, in mancanza di un forte indirizzo politico, le scelte del gruppo Ferrovie dello Stato.

In generale, richiede di affrontare i tanti fondamentali aspetti del regionalismo italiano, che hanno rischiato di aggravarsi nel 2019 con il progetto dell’autonomia differenziata e nel 2020 con l’accresciuta confusione istituzionale nelle risposte alla pandemia: quali regole e quali criteri per assicurare sia responsabilità ed efficienza delle amministrazioni, sia la definizione e il finanziamento di livelli essenziali delle prestazioni, cioè di diritti di cittadinanza, uguali per tutti gli italiani? Come sarà la sanità italiana, ad esempio, nei prossimi anni?

Tenderanno ancora a crescere fortemente, come avvenuto nell’ultimo decennio, disparità nelle dotazioni strumentali ed umane, nella capacità di erogazione dei servizi, territoriali ed ospedalieri, e quindi i fenomeni di mobilità ospedaliera? Ovvero si tenderà a correggere gli squilibri, recuperando l’ottica di un Servizio Sanitario Nazionale?

Ancora, uno degli elementi più importanti dello scenario internazionale e una delle chiavi per la ripresa dell’Italia sono le economie urbane. Le città, in questo secolo più che nei decenni finali del Novecento, sono i motori dell’economia, i luoghi dove nascono nuove imprese. Bene che il Piano Sud ne parli, anche se forse l’enfasi avrebbe dovuto essere ancora più forte. Ma questo riporta alla nostra mente la debolezza della riflessione nazionale sulle città.

I Sindaci e gli attori urbani sono fondamentali; ma la politica urbana non può che essere una grande politica nazionale di sviluppo, che destini risorse di investimento e di funzionamento, e disegni regole di funzionamento, adatte all’economia del XXI secolo, ancor più con la pandemia e tutte le incertezze dovute al distanziamento inter-personale.

Il Piano è molto determinato nell’indicare la necessità di riequilibrio della spesa per investimenti in Italia garantendo equità territoriale nella sua allocazione attraverso la cosiddetta clausola del 34%. Lo è altrettanto nell’indicazione di utilizzare le risorse latenti del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC, cioè i fondi nazionali per il riequilibrio territoriale): presenti da anni solo nelle programmazioni d’insieme, ma prive degli stanziamenti di bilancio per poterle effettivamente utilizzare.

Questioni ancora più importanti alla luce del crollo degli investimenti pubblici registrato negli ultimi anni, e dalla necessità di accelerare per recuperare almeno in parte i grandi gap che si sono creati: gli investimenti pubblici in Italia e nel Mezzogiorno sono ai minimi storici.

Ce la può fare l’amministrazione pubblica italiana, nazionale, regionale e locale a trasformare in realtà obiettivi così ambiziosi? Il Piano ha molti temi, e il rischio evidentissimo è che ciò possa dare copertura a processi di programmazione operativa, di dettaglio, che tendano a ripetere ancora una volta gli errori del passato: dato che serve tanto, facciamo un po’ di tutto; e dato che bisogna fare un po’ di tutto frammentiamo le risorse fra mille obiettivi e fra tanti centri di spesa. Così da ritrovarsi con gli stessi problemi di sovraccarico amministrativo, parcellizzazione degli interventi, e modesti avanzamenti sul piano delle realizzazioni che hanno caratterizzato le politiche di coesione territoriale negli ultimi anni.

Se il Piano rappresenta una cornice politica condivisa, il governo deve avere la forza di indirizzare su chiare, limitate priorità e specializzare sia i fondi europei sia quelli nazionali; e conseguentemente dare indicazioni e porre vincoli alla tendenza, già mille volte vista, delle amministrazioni regionali a soddisfare mille esigenze, anche per motivi di consenso politico di breve periodo. La programmazione per il ciclo di spesa 2021-27 sia dei fondi comunitari che del FSC dovrebbe allora segnare una rottura profonda con il recente passato, anche per le nuove, gravi sfide poste dalla pandemia e dalle sue conseguenze. I documenti che abbiamo oggi a disposizione non sembrano andare pienamente in questo senso.

Il grande rischio è che il Piano Sud provochi alzate di spalle; l’idea, esplicita o implicita, che si tratti di un ennesimo libro dei sogni. Soprattutto che oggi ci siano altre priorità; altri interessi, più forti, che debbano prevalere, avere la precedenza. L’opportunità è che faccia partire una grande riflessione in tutto il paese su un percorso più ambizioso del galleggiamento che abbiamo vissuto negli ultimi anni, e delle prospettive così preoccupanti che sono davanti a noi. È una condizione necessaria affinchè si traduca davvero in realizzazioni concrete.

Il Piano Sud: ancora più necessario con la pandemia


Foto di iXimus da Pixabay

La riforma del Catasto come strumento di perequazione fiscale.-di Gaetano Lamanna

La riforma del Catasto come strumento di perequazione fiscale.-di Gaetano Lamanna

Tra gli effetti di questi due mesi di lockdown si prospetta una grave crisi fiscale dei Comuni. A lanciare l’allarme è Il sindaco di Bari e presidente dell’Anci, Antonio Decaro, che ha denunciato la perdita di ingenti risorse per le mancate
entrate locali.

Nei mesi di marzo e aprile, gli ottomila Comuni italiani hanno incassato mediamente il 65 per cento in meno rispetto agli stessi mesi del 2019: da 2,5 miliardi di euro si è passati a 867 milioni, come documenta uno studio di Demoskopika. Da Imu, tassa dei rifiuti, addizionale Irpef, tassa di occupazione di suolo pubblico sono venuti a mancare più di 1,6 miliardi di euro.

Gli interventi del governo, con gli ultimi decreti, non bastano a compensare le perdite subite, col
rischio concreto che molti Comuni, soprattutto del Sud, non siano in grado di garantire importanti servizi essenziali. Stanno venendo, dunque, allo scoperto le bugie e la demagogia che hanno accompagnato alcune riforme della fiscalità
locale avvenute nell’ultimo decennio. Mi riferisco, innanzitutto, all’Imu, l’imposta che più caratterizza l’autonomia impositiva degli enti locali.

Averla abolita per tutte le prime case ha comportato per le casse comunali la perdita di circa 4 miliardi di euro all’anno. Sarebbe bastato, con un po’ di buon senso, mantenere l’Imu per i proprietari più abbienti per evitare un conflitto, ormai quasi perenne, tra Stato e istituzioni locali. C’è da aggiungere, inoltre, che la totale abolizione
dell’Imu sulla prima casa manca di equità non solo in quanto è estesa ad una platea vasta di proprietari che, in base al reddito, avrebbe potuto permettersi il pagamento dell’imposta, ma anche perchè la riduzione della pressione fiscale su
un bene patrimoniale, che per definizione esclude dal beneficio chi non lo possiede, non ha certamente una valenza redistributiva.

L’esperienza di questi anni ci ha mostrato, inoltre, i guasti prodotti da questa scelta. I Comuni sono stati spinti
a comportamenti poco virtuosi, per non dire miopi, pur di incassare altri proventi, per esempio tramite gli oneri di urbanizzazione. Quante concessioni edilizie e quanti programmi di trasformazione urbana si sono rilevati un grande affare per i grandi gruppi immobiliari ma non per le comunità locali. Non è un caso che l’incremento dei valori delle grandi aree urbane sia cresciuto in modo esponenziale e, con esso, i guadagni della rendita.

Una radicale riforma dell’autonomia impositiva dei Comuni, in questo contesto, rappresenta, da un lato, una delle condizioni principali per regolare un mercato che oggi risponde unicamente agli interessi della speculazione edilizia e della rendita urbana, dall’altro, l’occasione per rilanciare politiche coerenti di sviluppo delle nostre città all’insegna della solidarietà, della sicurezza e dell’efficienza dei servizi.

Al centro della riforma deve esserci il Catasto e il suo effettivo decentramento, finora realizzato solo parzialmente. Una gestione decentrata del Catasto, che affidi ai Comuni compiti, responsabilità e strumenti nuovi, dovrebbe
coerentemente attribuire loro anche i tributi di riferimento (per un ammontare che, tra imposte catastali, ipotecarie, di registro, supera i 7 miliardi di euro ogni anno) oggi incassati unicamente dallo Stato.

I Comuni potrebbero così risolvere l’anomalia per cui, allo stato attuale, rispetto alla dimensione gigantesca degli
affari immobiliari sul proprio territorio, non vi è alcuna ricaduta in termini di entrate locali. Inoltre, un uso flessibile delle aliquote massime e minime dell’Imu (su seconde case, grossi patrimoni, immobili a uso terziario), soprattutto in presenza della rivalutazione degli estimi catastali, potrebbe contribuire ad una redistribuzione più equa del carico fiscale sugli immobili oltre che incoraggiare comportamenti virtuosi nel mercato dell’affitto.

I Comuni avrebbero infine strumenti adeguati sia nell’azione di contrasto dell’elusione e dell’evasione fiscale molto diffuse in campo immobiliare sia nell’intercettare, tramite una nuova Invim, le plusvalenze derivanti dai processi di rinnovo urbano e dalle conseguenti transazioni immobiliari (ricchezza che sfugge quasi totalmente al fisco). Solo così, attraverso il controllo fiscale del proprio territorio, i Comuni potranno finalmente riappropriarsi di una vera autonomia politica.

Gaetano Lamanna

Dopo 50 anni un “Nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori”.- di Massimo Covello*

Dopo 50 anni un “Nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori”.- di Massimo Covello*

Il 20 Maggio del 1970, 18 anni dopo che Giuseppe Di Vittorio ne aveva lanciato la proposta in un congresso della Cgil, entrò in vigore la Legge n. 300 più nota come “Lo Statuto dei lavoratori e delle Lavoratrici”. Fu una grande conquista sociale, democratica per il cui positivo epilogo furono determinanti prima il Ministro G. Brodolini ed insieme a lui il Prof. G. Giugni e l’on. C. Donat-Cattin, che seppero tradurre in legge le grandi spinte per lo sviluppo democratico delle relazioni industriali.

Il riconoscimento del ruolo della rappresentanza sociale e della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro, del diritto alla contrattazione per il salario integrativo, per il giusto inquadramento professionale, per l’organizzazione del lavoro, dell’orario, della tutela della salute, del diritto a manifestare le proprie opinioni politiche, le proprie convinzioni religiose senza essere discriminati, la libertà di iscriversi al sindacato ed avere il diritto di assemblea durante l’orario di lavoro.

Lo Statuto era stato per anni una delle rivendicazioni principali, insieme al collocamento pubblico ed al superamento delle “gabbie salariali” attraverso il CCNL, delle grandi lotte operaie del Nord e contadine del Sud. Col senno di poi suscita scalpore l’astensione del PCI, che pur all’epoca era il partito che più di tutti godeva del consenso della classe operai, motivata dalla giusta considerazione sulla non applicazione dello stesso alle aziende al di sotto dei 15 dipendenti.

Quelli che seguirono sono stati anni importanti per la tutela dei lavoratori e qualcuno giustamente arrivò a dire che con lo Statuto finalmente la Costituzione democratica entrava nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, non si fermava davanti ai cancelli. Oggi a cinquant’anni di distanza non ci troviamo a celebrarne la conquista ma a fare i conti con le continue manomissioni, ridimensionamenti a seguito di un attacco feroce e per molti aspetti vincente che è stato e che viene costantemente condotto da forze politiche ispirate dal pensiero neoliberista dominante, da un ventennio ormai, anche nel nostro Paese.

La narrazione che ha fatto breccia racconta che il conflitto tra capitale e lavoro è ormai superato, che la competizione è globale, che le tutele migliori sono individuali, che la remunerazione del lavoro la decide il mercato e quindi non serve il CCNL, che l’organizzazione del lavoro, dell’orario è prerogativa solo dell’azienda, che le tutele sono rigidità, che i lavoratori e le lavoratrici devono essere flessibili, adattabili per competere nei mercati mondiali.

In questa visione il lavoro ha perso ogni suo valore, la rappresentanza sindacale un impaccio e i lavoratori e le lavoratrici sono considerati pura merce. Eppure come ha sostenuto in un suo importantissimo saggio del 2007, uno dei più grandi sociologi Italiani, il Prof. Luciano Gallino scomparso nel 2015 : “ Il lavoro non è una merce”.

La realtà del mercato del lavoro odierna dimostra che aver ridimensionato le tutele ed i diritti, che con lo Statuto erano stati introdotti, non ha migliorato ne ha rafforzato il sistema industriale e produttivo, ne la ricchezza del Paese. Semmai ciò che ha prodotto è precarietà, disuguaglianze, povertà crescenti.

Certo il fronte democratico, sindacale, pur cercando di resistere come seppe fare la CGIL nel 2002 con la più grande manifestazione della storia del nostro Paese il 23 Marzo a Roma, con la quale si impedi momentaneamente l’abolizione dell’art. 18, ha subito poi pesanti sconfitte anche per responsabilità di Governi formalmente progressisti, ma sostanzialmente nemici dei lavoratori, essendo diventati agenti concreti della cultura neoliberista dominante. Oggi la questione che si pone è come invertire la rotta e riconquistare un “ Nuovo Statuto delle lavoratrici e dei lavoratori”.

Una Carta che sappia ridare dignità, diritti e tutele ad ogni forma di rapporto di lavoro, che sappia includere e ricomporre universalità di tutele, legittimare nuove e moderne relazioni industriali attraverso una parallela legge sulla “rappresentanza sociale”. Questo è il tema dell’oggi: ripensare e rilanciare la “democrazia sociale”. Un rinnovato patto che recuperi la migliore tradizione del “modello sociale europeo” tra imprese, lavoro e Stato.

Cinquant’anni sono tanti, lo sviluppo tecnologico, l’innovazione telematica hanno aperto scenari inediti nel bene e nel male e come ha scritto nei giorni scorsi “ L’Avvenire” sono possibili scelte importanti anche sulla redistribuzione del lavoro consentendo di lavorare meno, tutti, oltre che su cosa e come produrlo. La condizione attuale della vita delle persone in tutto il pianeta è dettata da una pandemia che ha mostrato una rinnovata gerarchia delle priorità.

Unica costante essenziale si è mostrata la centralità dei lavoratori e delle lavoratrici. Ecco serve ripartire dal dettato Costituzionale, riaffermando che non ci sono luoghi in cui il diritto del lavoro si ferma; che la salute, la
salvaguardia dell’ambiente nel pianeta, il bene comune, come sostiene da tempo Papa Francesco, vengono sempre prima del profitto privato. E’ una lezione che serve alla rappresentanza sociale ma anche a quella politica in Italia, in Europa,
nel Mondo.

*Segretario regionale della Fiom Cgil Calabria
Casali del Manco, 21 Maggio 2020

Foto: http://www.lombardiabeniculturali.it/fotografie/schede/IMM-2w020-0003435/

L’economia italiana dopo la pandemia. -di Gianfranco Viesti

L’economia italiana dopo la pandemia. -di Gianfranco Viesti

Le prospettive dell’economia italiana a medio termine sono ancora avvolte da un rilevante grado di incertezza, connesso alle dinamiche della diffusione del coronavirus (nel nostro paese e all’estero e nell’estate e poi nell’inverno 2020-21). Permanere dell’incertezza che già di per sé può determinare un rinvio dei piani di investimento delle imprese e comportamenti di consumo più cauti da parte delle famiglie. Su questi ultimi potrà poi pesare, in direzione e in misura difficile da prevedere, l’effetto psicologico dei provvedimenti di divieto di circolazione e delle successive riaperture. E’ opportuna grande cautela nelle previsioni.

Tuttavia, già con i dati e le informazioni disponibili alla metà di maggio 2020 è possibile costruire alcuni scenari con un elevato grado di probabilità di realizzarsi. E in base a questi scenari è possibile sostenere che il nostro paese è già davanti a grandi scelte sul proprio futuro (quantomeno: sulla sostenibilità dei conti pubblici, sulle disparità sociali, sulla velocità della crescita economica) che potranno essere affrontate solo con una significativa discontinuità rispetto alle politiche economiche seguite nel primo ventennio di questo secolo.

Il più probabile scenario di medio periodo (fino alla fine del 2021) del nostro paese, così come leggibile nel maggio 2020, può essere riassunto nei seguenti punti (rinviando per maggiori dettagli ad un quadro più particolareggiato che ho offerto qui):

1) L’impatto della crisi legata alla pandemia sul Pil italiano 2020 sarà severissimo, molto maggiore di quello della recessione del 2009. Le previsioni di consenso (non solo del Governo, ma anche di FMI, Ocse e Commissione Europea) indicano una possibile contrazione dell’attività economica che sfiorerà i 10 punti nell’anno. Le stesse previsioni indicano (con un livello di incertezza però ancora maggiore) una significativa ma parziale ripresa nel 2021.
Il ritmo di ripresa dell’economia italiana, coerentemente con quanto avviene dalla metà degli anni Novanta, ed in particolare nell’ultimo decennio, potrebbe essere il più lento fra i paesi avanzati. Potrebbe essere tale da determinare un livello del Pil 2021 di 4 punti inferiore a quello del 2019; il che significa di 7-8 punti rispetto ai valori del 2007; cioè su una dimensione comparabile con fine anni Novanta.

2) Questa crisi così ampia potrebbe essere molto selettiva: fra settori, fra territori, fra lavoratori.

3) L’impatto settoriale della crisi sarà fortemente diversificato, a causa delle differenti durate delle chiusure finora disposte, delle diverse possibilità di fronteggiare le esigenze sanitarie di distanziamento inter-personale e dei vincoli alla ripresa di alcune attività economiche. Certamente, rispetto a precedenti episodi recessivi vi è una grande differenza: il terziario è stato e sarà colpito tanto quanto l’industria manifatturiera, e non potrà svolgere un ruolo di “spugna” occupazionale e sociale.
Alcuni dei comparti del terziario (in primo luogo le filiere della cultura-intrattenimento e del turismo-viaggi, si veda ancora qui per indicatori e dati dettagliati) potrebbero essere colpiti in maniera estremamente ampia e duratura, con tutto ciò che ne consegue in termini di impatto sulla sopravvivenza delle imprese e sull’occupazione.

4) L’impatto economico territoriale della crisi non sembra correlato all’intensità dei problemi sanitari, ma alle chiusure e alle diverse strutture produttive. Sarà dunque intenso in tutta Italia. Potrebbe differenziarsi con il tempo, dato che nelle regioni relativamente più forti la ripresa sarà più collegata alle performance della manifattura (e all’export) e in quelle più deboli (incluse Liguria e Lazio) all’andamento del terziario.
Problemi particolari potrebbero porsi per le aree/regioni a maggiore intensità turistica, in tutto il paese (forse maggiori per le città d’arte, e per le aree raggiungibili maggiormente o solo in aereo, come la Sardegna). Nel Mezzogiorno tuttavia, la disoccupazione è già molto più alta: maggiore la quota di occupazioni più deboli (occupati a termine) nei settori più a rischio; minore la diffusione e la possibilità dello smart-working (per i dati si veda ancora qui).

5) L’impatto della crisi sarà probabilmente molto più forte delle precedenti sull’occupazione, anche a causa del ruolo del terziario, e dell’incertezza delle prospettive per alcuni suoi comparti. Le previsioni sono molto diverse: dal Centro Studi Confindustria che prevede per fine 2020 una caduta delle ore lavorate a fronte di una tenuta del numero di occupati; al DEF che prevede mezzo milioni di occupati in meno, sempre per fine 2020; a Banca Intesa e Commissione Europea che presentano stime peggiori sull’incremento dei disoccupati: fino ad un milione. I primissimi dati Anpal confermano tendenze assai negative già in corso sull’occupazione.

6) Questo impatto sarà fortemente selettivo. Tutte le analisi finora disponibili (si vedano ad esempio quelle di McKinsey e del JRC) mostrano che saranno colpiti in misura relativamente più forte i lavoratori più deboli: dipendenti a termine, lavoratori stagionali (specie nel turismo), occupati a più bassa qualifica e con meno possibilità di lavoro da remoto. Le difficoltà occupazionali saranno poi molto più forti per i giovani. Le stime disponibili concordano nel prevedere una risalita lenta, con un tasso di occupazione a fine 2021 che potrebbe essere sensibilmente più basso di quello di inizio 2019. Tenderanno quindi a crescere le disuguaglianze sociali (non solo in Italia, come ricordato anche dal FMI).

A fronte di questa situazione il Governo italiano ha preso provvedimenti di grande dimensione finanziaria. Essi mirano a contenere le ricadute economiche d’insieme; soprattutto, mirano ad evitare fenomeni irreparabili di crisi aziendale e di difficoltà sociale per i nuclei familiari più deboli o più colpiti.

Rinviando ad altra sede per analisi puntuali, essi paiono per molti versi opportuni; allo stesso modo, sono complessivamente molto più orientati alla difesa della società e delle imprese dal primo impatto della crisi (anche con interventi apprezzabili, come il reddito di emergenza o il pur modestissimo provvedimento di regolarizzazione dei lavoratori stranieri), che a costruire condizioni per una ripresa dell’economia italiana più vivace che in passato. Ad esempio, l’ampia strumentazione di sostegno e di incentivazione alle imprese appare priva di condizionalità ed incentivi che possano configurare indirizzi di politica industriale.

Tali provvedimenti produrranno inoltre un aumento del deficit pubblico all’11% del PIL nel 2020 e al 5,6% nel 2021 (Commissione Europea), con un aumento di circa venti punti (in lieve riduzione nel 2021) del rapporto debito/Pil: circostanza assai preoccupante nel quadro delle regole fiscali europee, attualmente sospese ma non modificate. E’ già in corso nel nostro paese una forte offensiva, da parte di settori accademici e di interessi imprenditoriali, affinché si torni a ferree regole di austerità e, per questa via, si riduca ulteriormente, drasticamente, il perimetro dell’intervento pubblico.

In conseguenza di questo insieme di eventi, poi, lo spread rispetto ai titoli pubblici tedeschi, pur estremamente variabile, è salito di circa 100 punti rispetto al minimo di febbraio, con un maggiore costo unitario del finanziamento del settore pubblico e un maggior carico di interessi prevedibile per il futuro.

L’implicazione di questa assai sommaria analisi sembra chiara. Il rischio di un circolo vizioso per l’Italia è alto: crescita assai modesta; ampia e persistente disoccupazione; accresciuti squilibri sociali; necessità di politiche di austerità per contenere il deficit pubblico, con effetti negativi di ritorno su produzione, occupazione, disuguaglianze.

E’ viva in queste settimane la discussione su “un futuro diverso”, con molti interessanti spunti politici, culturali, sociali, tecnologici. Quel che qui si vuole semplicemente argomentare è che non si tratta di un dibattito solo culturale: un futuro diverso – rispetto al circolo vizioso che ha alta probabilità di delinearsi – è l’unica possibilità per l’Italia di raggiungere risultati accettabili in termini di benessere ed equità.

Ciò significa che affrontare i tre grandi vincoli che in questo secolo hanno condizionato il paese non è una opzione ma una necessità: la gestione del debito pubblico, le regole fiscali europee e le politiche fiscali nazionali; le disuguaglianze sociali e territoriali, le condizioni dei lavoratori e la garanzia dei diritti di cittadinanza (salute, istruzione, welfare); e infine, la capacità di innovazione, il modello di sviluppo e il complessivo ritmo di crescita del nostro paese.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Musei-bigiotteria, il falso mito.- di Salvatore Settis

Musei-bigiotteria, il falso mito.- di Salvatore Settis

Da almeno vent’anni non si fa che discorrere di “museo come impresa”. Si è diffusa la favola di musei che si auto-sostengono grazie a introiti di biglietteria e bigiotteria, attirano investimenti produttivi, prosperano sul mercato rendendo superfluo ogni finanziamento pubblico.

Si esaltano i musei americani, dimenticando che lì i privati non investono ma fanno donazioni, premiate da cospicue esenzioni fiscali. Sotto l’assalto del virus, questa rozza mitologia all’italiana va in briciole e la fragilità dei bilanci museali viene allo scoperto. È dunque il momento di ricordarci che il museo pubblico come istituzione è un’invenzione assai recente (il primo caso al mondo sono i Musei Capitolini, fondati nel 1734 da Clemente XII). E che tutto ciò che ha una data di nascita ha anche una data di scadenza. Anche l’istituzione-museo può morire.

Per ora i nostri musei potranno aprire solo con precauzioni eccezionali e per un pubblico ridotto e guardingo. Un rapporto della Rete delle istituzioni museali europee (NEMO, Network of European Museum Organisations) consente uno sguardo d’insieme sugli effetti del CoViD-19. Dei 650 musei considerati, distribuiti in 41 Paesi, il 92% sono chiusi, ma nei pochi rimasti aperti il numero dei visitatori è cresciuto. I musei delle zone più turistizzate registrano un drammatico crollo degli introiti. Hanno chiuso tutte le mostre temporanee in corso, e si è sospesa la programmazione di quelle previste fino a un bel pezzo del 2021.

Sono fermi molti progetti a lungo termine sulle collezioni permanenti, la manutenzione e aggiornamento delle architetture, le nuove infrastrutture. Il personale temporaneo è a rischio, i programmi gestiti da volontari sono sospesi. L’80% dello staff stabile svolge da casa una parte del lavoro, ma il limitato accesso alle collezioni incide negativamente sulla qualità della ricerca. In metà dei Paesi considerati è previsto un contributo pubblico straordinario per arginare l’emergenza, negli altri nulla. Il 70% dei musei si sono concentrati sulla presenza online e nei social, ma impegnandovi solo risorse esistenti, senza nuovi investimenti né staff dedicato; forte comunque la risposta del pubblico online, che in alcuni musei è cresciuto fino al 500%.

Per dirla in due parole: l’assenza, anche per pochi mesi, degli introiti di biglietteria genera una crisi fortissima anche nei musei più grandi e importanti. Da ogni parte si levano grida di disperazione: questo è a tutti gli effetti, ha detto il direttore di un grande museo, “un bagno di sangue”. Come lo si affronterà, secondo strategie diverse di Paese in Paese, vedremo. Ma è il caso di richiamare alcuni valori e problemi di fondo, che non sono polverose pignolerie d’archivio, anzi dovrebbero orientare l’analisi politica oggi e le azioni di rimedio domani.

Se oggi la caduta degli introiti mette in ginocchio un museo non ne siamo né sorpresi né scandalizzati. Lo consideriamo anzi normale, tanto è radicato il mito del museo-impresa che di introiti vive, puntando su caterve di turisti ed effimeri eventi blockbuster. Abbiamo dunque dimenticato un dato indubitabile di storia istituzionale: le collezioni museali non sono nate per vivere dei propri introiti. Altre crisi (pestilenze, guerre, disastri naturali) non ne hanno mai messo in dubbio, come oggi, la stessa esistenza.

La più gran parte dei nostri musei nascono da collezioni sovrane (i papi, i re di Napoli e di Sardegna, il granduca di Toscana, i duchi di Modena e di Parma…), create e alimentate come poderosi status symbol in una competizione di orizzonte europeo che proprio in Italia ebbe la sua origine. O da collezioni private di ecclesiastici, eruditi, nobili, ricchi borghesi…., trasmesse di generazione in generazione e di famiglia in famiglia. Per secoli, a nessuno venne in mente che quelle raccolte dovessero essere (come si dice oggi, ma non si diceva allora) “aperte al pubblico”. Vi accedevano pochi privilegiati di alto rango, o anche artisti ed eruditi con le debite entrature. Quando nacquero i Musei Capitolini nel 1734 non c’era a Parigi nessun museo pubblico, e il British Museum sorse a Londra nel 1759 con raccolte insignificanti.

Il passaggio dalle collezioni sovrane o private al museo pubblico fu l’effetto di un doppio processo: da un lato l’idea che la frequentazione delle opere d’arte avesse effetti benefici sulle manifatture e più in generale sulla cultura, dall’altro – dopo la Rivoluzione francese – il trasferimento della sovranità dal Re al popolo, che diventava l’erede del sovrano spodestato o affiancato dai Parlamenti. Nella stessa Roma il primo museo fu legato al Campidoglio, luogo di governo della città, e le enormi collezioni sovrane dei Papi al Vaticano cominciarono ad aprirsi al pubblico solo nel 1771. Comuni e Province, dopo l’Unità d’Italia, divennero i principali luoghi di aggregazione, accogliendo opere d’arte da enti ecclesiastici soppressi o famiglie locali di buon censo.

Nei governi e nei Parlamenti sempre si discusse e si combatté sul se, e come, e quanto lo Stato dovesse spendere per i musei, ma a nessuno venne mai in mente di subordinarne la stessa esistenza alla capacità di autofinanziarsi con un frenetico mostrismo e un numero sempre più alto di visitatori. Quando armate di invasori (i francesi a fine Settecento, i tedeschi nella Seconda guerra mondiale) depredarono i nostri musei, chi combatté per le restituzioni (per dire, Canova dopo il 1815) non lo fece in nome del museo-impresa, ma di un generale beneficio dei cittadini. Per questo, e non per amor di cassa, eroici Soprintendenti nascosero migliaia di opere d’arte durante la guerra sottraendole a bombe e razzie. Per questo, e non perché pensassero a sbigliettare, i Costituenti scolpirono tra i principi fondamentali dello Stato l’art. 9 (“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”).

Fronteggiamo oggi un’eccezionale emergenza, e ogni idea per uscirne è benvenuta (anche usare i musei come aule scolastiche, come ha proposto in queste pagine Tomaso Montanari). Ma nulla salverà l’istituzione-museo da un fatale declino, che proprio come il virus ucciderà per primi i più deboli (i musei piccoli), se non sapremo gettare sul tavolo una domanda più radicale: a che cosa “serve” il museo del futuro? Dobbiamo investirvi in vista di un ritorno economico, o di un più vasto e vario beneficio della nostra comunità?

Il “modello Italia” della tutela ha messo a punto nel corso dei secoli tre caratteristiche essenziali: la concezione del patrimonio culturale come un insieme organico legato al territorio e ai paesaggi; l’idea che il patrimonio nel suo complesso alimenta la coscienza civile, la solidarietà sociale e il concreto impegno produttivo dei cittadini; infine, la centralità del patrimonio artistico (non meno dell’istruzione, della sanità e della ricerca) nelle strategie di gestione dello Stato. Principi e temi, questi, che oggi più che mai dovrebbero ispirare non solo il governo, ma noi tutti. Tutti saremo infatti corresponsabili del disastro, se non riusciremo a provocare una riflessione istituzionale, un’inversione di tendenza.

Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 12 maggio 2020

Se un fisico scrive alla politica indicando con garbo ciò che c’è da fare.-di Piero Bevilacqua

Se un fisico scrive alla politica indicando con garbo ciò che c’è da fare.-di Piero Bevilacqua

Per chi segue la letteratura sul riscaldamento climatico è difficile trarre interesse da qualche nuovo testo che non riveli clamorose novità. Tuttavia, pur essendo privo di notizie eclatanti, il saggio di Angelo Tartaglia, Il riscaldamento climatico. Lettera di un fisico alla politica, (Edizioni Gruppo Abele. pp. 97, euro 7,99) si legge d’un fiato. E per più ragioni.

A cominciare dalla tonalità media, cordiale, del ragionare – il saggio ha la forma di una missiva al presidente del Consiglio – per continuare con la nitidezza della scrittura, che non indulge nel tecnicismo o nell’ostentazione di oscure formule matematiche, per finire con la sua finalità politica di fondo: mostrare, smontando una a una tutte le retoriche correnti, che oggi nulla si sta facendo in Italia e nel mondo per contrastare l’avanzare del riscaldamento globale.

Tartaglia, non disdegna di spiegare al lettore anche le cose all’apparenza ovvie, ma che tali non sono, e che vanno chiarite, altrimenti non si comprende la gravità dei fenomeni. Il «problema – ricorda – non è il cambiamento in sé, ma la rapidità con cui avviene e di conseguenza la frequenza dei fenomeni “anomali” che lo accompagnano».

E infatti l’opinione corrente si ferma all’innalzamento della temperatura media – che peraltro si svolge in modo disuguale nelle varie aree del pianeta – mentre minacciosi sono gli effetti collaterali: scioglimento dei ghiacciai, incremento imprevedibile della temperatura dei mari, loro innalzamento e sommersione delle aree costiere, alternanza caotica di siccità e inondazioni, shock imprevedibili ad animali e piante.

L’AUTORE CHIARISCE SUBITO, in modo lapidario quale sia la causa di tutto: «Tutti noi siamo parte di un sistema socioeconomico globale che per funzionare ha un grande bisogno di energia. Oggi, l’81% di quell’energia (aggiungendo le biomasse arriviamo al 91%) è ottenuto mediante processi di combustione». Dunque non è questo o quell’eccesso di sfruttamento o di economia estrattiva a generare il mutamento in atto, ma l’intero assetto mondiale della produzione e del consumo. E questo è necessario stabilirlo, perché l’opinione pubblica non venga ingannata dal ceto politico con i soliti pannicelli caldi di qualche pannello solare in più.

Per non lasciare alcuno scampo ai minimalisti, Tartaglia ricorda anche quello che avviene in settori in cui all’apparenza sono meno rilevanti i processi di combustione, ad esempio in un ambito vitale dell’economia planetaria, l’agricoltura: «la nostra agricoltura impostata su un sistematico uso di fertilizzanti chimici porta a una progressiva riduzione del contenuto organico nel suolo e il carbonio che non resta nel terreno si ritrova nell’atmosfera.

Nelle grandi pianure americane lo spessore dello strato organico nel terreno si misurava, nell’800, in metri, oggi in centimetri. E qualcosa di simile avviene anche nella pianura padana». L’economia capitalistica brucia il patrimonio di biomasse accumulato in milioni di anni nel sottosuolo, altera il clima, ma libera anche CO2 dal suolo isterilendo lo strato da cui inizia la vita.

UN PREGIO DI QUESTO SAGGIO è l’intelligenza politica che sorregge ogni sua pagina e che lo rende particolarmente efficace. Non è solito trovare negli scritti degli scienziati (se è per questo anche degli storici, soprattutto italiani) il garbo, l’ironia, la costante attenzione alla comunicabilità del messaggio. Il tutto indirizzato a demolire uno dopo l’altro i pregiudizi e le menzogne con cui i poteri dominanti continuano a condurre l’economia globale. Tartaglia fa giustizia, con argomentazioni scientifiche, della superstizione secondo cui l’innovazione ci salverà.

I limiti invalicabili della natura non consentono facili scorciatoie. Allo stesso tempo chiede al presidente del Consiglio, per esempio, di fronte alla imponente campagna mondiale di trivellazioni da parte dell’ Eni, industria di stato, che contributo si dia al contenimento dei gas serra. Quando secondo gli scienziati occorrerebbe che l’80% dei carburanti fossili rimanesse nel sottosuolo per conseguire gli obiettivi.

Ma dalla critica di Tartaglia esce a pezzi uno dei miti della nostra classe dirigente, priva di ogni visione e creatività: le grandi opere, che appaiono, dati alla mano, grandi divoratori di energia. Senza dire che il consumo di suolo continua in Italia al ritmo di 2metri quadrati al secondo (51 km2 nel 2108)

IN VERITÀ, tutto continua come prima. Eppure molte cose potrebbero essere realizzate per invertire la tendenza. Tartaglia non è avaro di consigli. Ma la logica dominante è riparare, quel che si rompe, non prevenire. Così, se non li fermiamo, la festa continuerà, salvo parentesi pandemiche, fino alla catastrofe.

da “il Manifesto”, 12 maggio 2020

Foto di Kessa da Pixabay

Se le regioni corrono, lo Stato frena.-di Massimo Villone

Se le regioni corrono, lo Stato frena.-di Massimo Villone

Dalla cacofonia istituzionale si passa alle carte bollate. Il ministro Boccia impugna un’ordinanza della presidente della Calabria Santelli, che pare tiri dritto per la sua strada. Sindaci calabresi – in prevalenza di centrosinistra – disapplicano con propria ordinanza quella della presidente Santelli. La fase 2 preannuncia turbolenze. Si delineano tifoserie istituzionali di opposto schieramento.

Un preannuncio potrebbe venire dalla lettera dei governatori di centrodestra a Mattarella che hanno censurato l’azione di governo per incostituzionalità. Così come la destra – con l’ottima compagnia di Renzi – ha contestato Conte in parlamento.

Il conflitto ribolle sotto traccia, e per un verso era scritto. Viene ora in primo piano la crisi economica, con situazioni e interessi diversificati. Pesano i ritardi nel sostegno a imprese e famiglie. Per governatori e sindaci essere protagonisti è una carta preziosa nella politica locale, specie in uno scenario pre-elettorale. Non si può lasciare il boccino a palazzo Chigi.

Fibrillazioni e turbolenze sono e saranno in agenda. Ci sono alternative alla via giudiziaria? Sì. L’articolo 120 Costituzione prevede che il governo possa sostituirsi a organi di regioni ed enti locali. Tra i casi previsti rientra certo il coronavirus. La legge 131/2003 disciplina l’esercizio di tale potere. In particolare, per l’art. 8, co. 1, «… il Consiglio dei ministri, sentito l’organo interessato … adotta i provvedimenti necessari, anche normativi, ovvero nomina un apposito commissario». L’articolo 8 al comma 4 dispone inoltre: «Nei casi di assoluta urgenza … il Consiglio dei ministri … adotta i provvedimenti necessari …». È diffusa l’opinione che uno dei punti deboli del Titolo V riformato sia la mancanza di una supremacy clause a favore dello Stato. Potrebbe essere opportuno introdurla in termini generali, ma almeno per l’emergenza possiamo ritenere che la clausola già esista,

Il governo potrebbe sostituirsi anche nell’esercizio dell’autotutela. Nella specie, potrebbe in via di sostituzione revocare l’ordinanza Santelli su bar e ristoranti. Perché non lo fa, agitando invece le carte bollate? Forse per una ragione politica. Cosa accadrebbe se dovesse essere sostituito un governatore vicino alla maggioranza? Può non essere un caso che Toti difenda la linea ligure anche affermando che i suoi provvedimenti sono uguali a quelli di Bonaccini in Emilia-Romagna. E avrebbe poi il governo abbastanza coraggio da sostituire Fontana, Zaia o Cirio, piuttosto che la presidente della Calabria?

Il governo ha invece scelto di non avere – o di non esercitare – una supremazia nel caso di dissenso, puntando al consenso nelle cabine di regia e le conferenze stato-regioni-enti locali. Ma ha così reso evanescente il proprio indirizzo anti-crisi. Il paese arlecchino e il fai da te in ultima analisi nascono qui. E le carte bollate potrebbero essere una pistola in buona parte scarica. È improbabile nel contesto dato la concessione di sospensive a raffica. Tra una diffida e il termine per adempiere, la risposta dell’amministrazione, e la fase giudiziale potrebbero passare settimane. Per i tempi imposti dalla pandemia, troppo.

Emerge poi l’inventiva meridionale. Il governatore De Luca adotta l’ordinanza 41, parzialmente difforme dai dpcm governativi in specie sul punto di blindare i confini regionali avverso i rientranti da altre regioni. Poi la invia a palazzo Chigi come proposta per un nuovo dpcm. Mossa che si spiega forse con la consapevolezza che l’iniziativa sarebbe preclusa, come ho scritto, dall’articolo 120 Costituzione con un esplicito divieto. Ma nessuno avrebbe notato una mera proposta al governo per un nuovo dpcm. Invece, De Luca ha adottato un’ordinanza formale. Certo, se il governo non lo seguisse, potrebbero nascere problemi, e si vedrà. Intanto, prende la bandiera di aver difeso i campani senza se e senza ma. Elettoralmente, questo conta.

In questo contesto confuso spiccano le scuse del presidente Conte agli italiani per i ritardi. Un gesto cortese, forse, ma politicamente discutibile. Se ci sono ritardi, il governo provveda. Ha tutti gli strumenti necessari, mettendo pressione dove serve, o scrivendo nuove regole. Tra l’altro, ogni ritardo nella risposta alla crisi economica indebolisce anzitutto Conte, nella maggioranza e nell’opinione pubblica. Dunque presidente, anche nel suo interesse, non fiori ma opere di bene.

da 2il Manifesto”, 5 maggio 2020

Il vero virus è la città-prigione.- di Salvatore Settis

Il vero virus è la città-prigione.- di Salvatore Settis

L’emergenza creata dal rapido diffondersi del Covid-19 non sarebbe così minacciosa se non si innestasse su un tessuto planetario ormai determinato dall’indiscriminata espansione delle città: perché è in città – specialmente nelle più grandi – che il contagio è più facile e veloce, la mortalità più alta, le strategie di contenimento più ardue.

A metà Ottocento solo il 3% della popolazione mondiale viveva in città, oggi questo valore ha raggiunto il 56% e si avvia a superare il 70% entro i prossimi vent’anni. La città si allarga in estensione (urban sprawl) e in altezza (vertical sprawl) e lo fa con più velocità e intensità in Asia e in Africa, specialmente dove manca un “centro storico”, o dove (come in Cina) si è spesso deciso di distruggerlo, magari lasciandone qualche residuo fossile, più simile a un theme park che a una città.

Spesso l’urbanizzazione contribuisce all’impoverimento di chi, trasferendosi in città, si aspetterebbe una vita migliore: già oggi un miliardo di esseri umani vivono in bidonville che di città non meritano nemmeno il nome. Fra la megalopoli e la baraccopoli si è venuta a creare una perversa contiguità.

L’emergenza virus ci costringe a riconsiderare questi sviluppi, a cominciare dal rapporto fra città e campagna. Intanto il più intelligente e visionario cantore della forma urbana contemporanea, Rem Koolhaas (autore nel 1978 del mirabile Delirious New York), è diventato un fervente apostolo della campagna. Ma anche la sua grande mostra (Countryside. A Report), aperta il 20 febbraio 2020 al Guggenheim Museum di New York, ha dovuto presto chiudere (come tutto il museo) a seguito delle misure antivirus.

“Oggi la campagna sfugge in gran parte al (nostro) radar, è un regno sconosciuto” scrive Koolhaas nella pagina di apertura del catalogo. E continua: “Per molto tempo, dall’Urss agli Usa del New Deal, ai Paesi europei, alla Cina di Mao la dialettica fra città e campagna fu essenziale per definire il significato dell’una e dell’altra, mentre oggi non abbiamo più né una dialettica né una vera definizione.

[…] Tutto il periodo dal 1991 in poi, è stato invece caratterizzato dalla compiaciuta convinzione che una sola versione della civiltà – metropolitana, capitalistica, agnostica, occidentale – sarebbe rimasta, forse per sempre, il solo modello per lo sviluppo del mondo. Ma questo modello ignorava trasformazioni radicali nel Medio Oriente, in Africa, Asia, e trascurava totalmente il cambiamento climatico e l’ambiente.

[…] Viviamo entro una prigione che abbiamo imposto a noi stessi, quella dello spazio urbano, cercando di nasconderci che dalla vita urbana non c’è da aspettarsi più nulla. […] Ma davvero ci stiamo indirizzando verso un risultato assurdo, in cui la vasta maggioranza dell’umanità debba vivere sul 2% della superficie terrestre, superpopolata dagli spazi propriamente urbani, mentre il restante 98 sarebbe riservato a un quinto dell’umanità, al servizio di chi vive in città?

[…] In questo 2020, due sfide emergono in modo lampante: dobbiamo mettere in discussione l’inevitabilità dell’Urbanizzazione Totale, e la campagna dev’essere riscoperta come un luogo dove potersi trasferire per restare vivi: una nuova, gioiosa presenza umana deve rianimarla con nuova immaginazione. […] Può essere il punto di partenza per vivere in un mondo migliore”.

La ricomposizione dell’originaria unità città-campagna (configurata dalla nostra Costituzione nell’endiadi paesaggio-patrimonio storico e artistico) richiede la piena coscienza della loro necessaria complementarietà e il ripristino, fra l’una e l’altra, di confini chiari alla mente, ma anche fisicamente percepibili. Questa è dunque una possibile strategia per immaginare il nostro futuro.

Intanto, sotto la pressione del contagio anche le nostre città, svuotate dalle misure di contenimento del Covid-19, sono diventate “un regno sconosciuto”. E in questo regno dove ci aggiriamo guardinghi non è solo la nostra salute o la nostra vita a esser messa in forse, lo sono anche i nostri diritti costituzionali. Senza dimenticare che l’emergenza che stiamo affrontando sarebbe assai meno drammatica se solo non si fossero fatti sui fondi destinati alla sanità tagli drastici e sconsiderati.

Secondo i conti pubblici territoriali messi a punto dall’Agenzia per la Coesione territoriale che opera presso la Presidenza del Consiglio, gli investimenti pubblici in sanità, pari a 3,4 miliardi di euro nel 2010, da allora non hanno fatto che calare, fino a 1,4 miliardi nel 2017, una cifra del 60% più bassa. Il disinvestimento, poi, è ancor più preoccupante, perché comporta gravissimi squilibri fra le varie regioni d’Italia, con una concentrazione degli investimenti nelle regioni del Centro-nord.

È necessaria, dunque, una domanda ancor più radicale: la segmentazione regionale del SSN (Servizio sanitario nazionale) non va forse in senso opposto all’articolo 32 della Costituzione, nel quale si prescrive che il diritto alla salute abbia un identico livello in tutta Italia? E quando lo stesso articolo 32 parla di “interesse della collettività”, parla forse delle separate collettività di ciascuna regione o non intende riferirsi a una sola collettività, quella di chi abita l’Italia intera? Ma assai più importante è pensare al futuro: ripristinare un adeguato livello di investimenti in sanità, puntare sulla prevenzione, ridare piena dignità alla salute di tutti in quanto parte essenziale della dignità della persona umana consacrata dalla Costituzione.

Anche perché la morsa del contagio rende più che mai evidente che nessun essere umano è un’isola non solo dal punto di vista affettivo, ma anche per la propria fisicità e corporeità, a cui solo la morte pone fine. Nessuno al mondo è oggi in condizione di prevedere il decorso della pandemia. Dato e non concesso che in Italia la curva del contagio cominci a scendere in modo significativo e che sia possibile tornare alle nostre attività lavorative, che cosa ci assicura che non vi saranno altre esplosioni del contagio nei prossimi sei, dodici o diciotto mesi?

Il sollievo che proveremo alla fine delle “zone rosse” ci farà dimenticare tutto, tornando alla condizione di beata (o stolta) incoscienza che ci ha fatto subire senza fiatare la riduzione dei finanziamenti di settore? Ma se vogliamo davvero adottare uno sguardo lungimirante (dal quale troppo spesso rifugge una politique politicienne prigioniera di orizzonti temporali assai corti) la decisiva misura contro le pandemie del futuro è ripensare la forma della città, il suo rapporto con la campagna.

Arrestare la cementificazione dei suoli agricoli, governare la crescita urbana anche mediante misurate azioni di riciclo (o anche abbattimento) di edifici abbandonati, contrastare il diffondersi dei ghetti urbani mediante accorte politiche dell’abitare, scoraggiare il moltiplicarsi di quartieri o edifici superaffollati, privilegiare la diversità urbana e le caratteristiche uniche dei centri storici, tutelare l’ambiente e il paesaggio storico come pegno vivente di una vita urbana che non intenda divorziare dalla natura.

È su temi come questi che dovremmo, fuori dall’emergenza e pensando al futuro, concentrare la nostra mente e la nostra discussione. Come gli ateniesi a cui parlava Pericle, se dall’esperienza della pandemia ci verrà una qualche saggezza, dovremo saper “giudicare delle cose di generale interesse ponderandole nel nostro animo e discutendone collegialmente; infatti, il dibattito è necessario per meglio formarsi un’opinione prima di decidere il da farsi”.

da “il Fatto Quotidiano”, 7 maggio 2020

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Le vite salvate dal Corona-virus.-di Tonino Perna

Le vite salvate dal Corona-virus.-di Tonino Perna

Sappiamo che finora le vittime del Corona-virus sono state circa 200mila nel mondo e sicuramente saliranno ancora. In Italia dovrebbero attestarsi sulle 35.000, nella Ue intorno a 150mila, quanto si stima arriveranno negli Usa. Numeri pesanti che sarebbero stati ben maggiori se non ci fosse stato il lockdown in molte aree del mondo, a cominciare dalla Cina. Ma, proprio questo blocco delle attività umane, questo improvviso crollo della mobilità delle persone e della caduta della produzione, ha involontariamente determinato una forte riduzione nel numero delle vittime di questo modello di sviluppo. A cominciare dall’inquinamento.

Secondo Marshall Burke, del dipartimento di Scienze della Terra dell’università di Stanford, in Cina sono bastati due mesi di riduzione dell’inquinamento per salvare le vite di quattromila bambini sotto i cinque anni e 73mila adulti sopra i settant’anni. ( cfr. Meehan Crist, The New York Times, trad. “Internazionale” del 28 Aprile).

Se questi dati hanno un fondamento scientifico allora si può ipotizzare che si può prudentemente moltiplicare del 3 il numero di vite salvate per la caduta verticale dell’inquinamento. In particolare, si stima che la CO2 in due mesi sia scesa in Cina del 25 per cento, di circa il doppio nella Ue e del 40 per cento negli Usa.

Un altro dato da prendere in considerazione sono gli incidenti sul lavoro. Se consideriamo solo i morti, senza considerare i feriti gravi, gli invalidi, il dato mondiale è di circa due milioni l’anno (fonte ILO). Considerando che il blocco delle attività è stato parziale e mediamente non è durato più di un mese, possiamo stimare in circa 70mila circa le vite risparmiate.

Ancora un dato sorprendente: le vittime da incidente d’auto. Sono circa 100mila persone al mese che muoiono nel mondo per incidenti sulle strade. Se anche in questo caso consideriamo prudentemente poco più di un mese di stop, allora abbiamo altre decine di migliaia di vite risparmiate. Solo in Italia nel week end pasquale e ponti del 25 aprile e 1 maggio morivano per incidenti stradali mediamente trecentocinquanta persone ogni anno, su un totale di circa 3.400 morti l’anno.

Complessivamente- tra riduzione dell’inquinamento, delle vittime sul lavoro e sulla strada – il lockdown ha salvato qualcosa come 420mila persone, di tutte le età e di tutti paesi del mondo che hanno adottato misure di contenimento della mobilità delle persone e della produzione di merci. Se ci fossimo fermati tutti per tempo e in maniera drastica probabilmente il numero delle persone salvate sarebbe stato superiore alle vittime da Covid-19.

Certo, per essere intellettualmente onesti, bisognerebbe considerare gli effetti di questo blocco della produzione sui paesi del Terzo Mondo, soprattutto quelli che sono fortemente dipendenti dall’export delle materie prime (compreso il petrolio che è finito sotto zero). Bisognerebbe poter conoscere il numero di coloro che sono morti di fame o di malattie legate alla malnutrizione, più di quanto mediamente non succeda.

In ogni caso, questo bilancio deve farci riflettere per non ripartire ad occhi chiusi verso l’agognata normalità.

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Le barche e la salute dei calabresi.-di Battista Sangineto

Le barche e la salute dei calabresi.-di Battista Sangineto

Il presidente Santelli ha emanato, nel corso della tarda serata di mercoledì, un’ordinanza che, a dispetto dei suoi precedenti proclami e provvedimenti reclusorî, riapre a moltissime attività e a molti spostamenti, in barba alle raccomandazioni degli epidemiologi e in spregio alle norme del DPCM.

Quello stesso Presidente che non ha ancora detto ai calabresi: quanti posti di terapia intensiva in più sono stati approntati, rispetto ai poco più di 100 che erano presenti sul territorio regionale all’inizio della pandemia; quanti guariti ci sono per ricoverati; quanti e quali D(ispositivi) p(rotezione) i(ndividuale) sono stati distribuiti ai medici e agli infermieri degli Ospedali e, soprattutto, ai medici di base nel territorio; quanti e quali, con esattezza, Ospedali sono stati dedicati alla cura del Covid-19, in Calabria; se sono state previste squadre sanitarie che si occupano dei malati a domicilio ; se sono state disposte ispezioni in tutte le RSA convenzionate con la Regione; se e quale strategia (di categoria, geografica, sociologica, demografica etc.) è stata seguita per i tamponi e per l’esame sierologico.

Il Presidente che aveva negato con tutte le forze il ritorno, fino a ieri, dei calabresi che studiavano o che lavoravano in altre regioni, nella notte di mercoledì ha emanato una ordinanza con la quale si è premurata che, con i primi due articoli del provvedimento, fossero consentiti gli sport extra-comunali e gli spostamenti per raggiungere le imbarcazioni di proprietà (da diporto) da sottoporre a manutenzione e riparazione, ma, per carità, una sola volta al giorno.

Con i rimanenti articoli, invece, dà il via libera all’apertura di bar, pasticcerie, pizzerie e ristoranti che servano all’aperto e di tutti i negozi di fiori e sementi, anche ambulanti. I calabresi, dunque, avranno la possibilità di mangiare una pizza all’aperto, magari dopo aver passato un paio di mani di antivegetativo alla carena della barca e comprato un mazzo di fiori alle fidanzate che non vedevano un paio di mesi. Non potranno, però, fare un’ecografia e le analisi del sangue in un laboratorio o farsi operare d’ernia addominale in una clinica, perché l’attività degli Ospedali è limitata alle urgenze indifferibili.

L’ordinanza della Santelli e l’occupazione del Senato da parte dei leghisti fanno parte, è evidente, di una ben orchestrata manovra politica tesa a mettere in crisi l’azione del Governo in uno dei momenti più difficili del nostro Paese, dalla fine della Seconda Guerra mondiale.

Jole Santelli avrebbe dovuto, e dovrebbe, occuparsi di intervenire sulle disastrose condizioni in cui versa la Sanità calabrese, predisponendo piani sanitari, implementando le scarsissime dotazioni, strutturali e di personale sanitario, dei nostri Ospedali e della medicina del territorio per affrontare, con meno terrore, il lungo periodo nel quale dovremo convivere con il virus, invece di compiere spericolate fughe in avanti con una del tutto improvvida riapertura.

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay