Mese: giugno 2020

Il ritorno al Sud dei giovani e la rigenerazione del settore pubblico.- di Giuseppe Provenzano La risposta del ministro Provenzano alla lettera di Perna, Bevilacqua, Cersosimo, Marchetti, Sangineto e Ippolito.

Il ritorno al Sud dei giovani e la rigenerazione del settore pubblico.- di Giuseppe Provenzano La risposta del ministro Provenzano alla lettera di Perna, Bevilacqua, Cersosimo, Marchetti, Sangineto e Ippolito.

Cara direttrice,

ho letto con interesse la lettera di Tonino Perna, Piero Bevilacqua e altri che ringrazio per le loro riflessioni. Pochi giorni prima del lockdown, abbiamo presentato il Piano Sud 2030, con una premessa e una conclusione: i giovani devono essere liberi di andare, ma devono avere l’opportunità di tornare; di più, il nostro compito è garantire un «diritto a restare».

Durante la pandemia abbiamo assistito a un certo ritorno al Sud, ma non quello a cui ambivamo. Tuttavia, anche il ritorno «forzato», frutto di contingenze tragiche, ci ricorda che la fuga non è un destino irreversibile.

E ora, che fare? Come offrire un’opportunità a questo straordinario patrimonio di energie e competenze che si temeva perduto alla causa del Sud? Come impedire che questo ritorno resti soltanto l’attesa di una nuova ripartenza?

La pandemia ha fatto giustizia di tanti luoghi comuni, a partire da quelli che inquinano da decenni il dibattito tra Nord e Sud, la rappresentazione per cui da una parte c’è la virtù e dall’altra il vizio, e il vizio coincide sempre con la povertà.

I cittadini italiani, tutti hanno mostrato grande senso di responsabilità, accettando sacrifici che hanno consentito di arginare il contagio.
Tra questi, anche i giovani rientrati, in larga maggioranza, hanno seguito scrupolosamente le prescrizioni delle autorità sanitarie.

Eppure qualcuno, che in loro avrebbe potuto vedere la potenzialità del domani o il riflesso delle proprie mancanze di ieri, li descriveva a mezzo stampa o sui social come «untori».

Nulla sarà più come prima, si dice, ma nessuno può sapere come sarà il dopo. Sappiamo solo che non dobbiamo tornare al mondo di ieri. Sarebbe uno spreco.

IN QUESTI MESI abbiamo mobilitato risorse senza precedenti e nuove vie di sviluppo discenderanno dalle scelte europee dei prossimi giorni. Dobbiamo essere pronti e vigili, si sta aprendo una partita che vorrebbe contrapporre sviluppo ed equità: un approccio ideologico di cui abbiamo misurato i fallimenti ma dietro cui ancora oggi si nascondono interessi potenti.

Senza giustizia sociale non può esserci ricostruzione. Senza un riequilibrio territoriale, non solo del Sud ma anche delle aree interne, non ci sarà uno sviluppo durevole, sostenibile.

LA PANDEMIA ha rivelato nuove disuguaglianze. L’innovazione, senza scelte politiche chiare, può essere anche un potentissimo fattore di esclusione sociale. Sull’infrastruttura e i servizi digitali registriamo ritardi inaccettabili. Io stesso ho richiamato più volte gli operatori della banda ultra larga alle loro responsabilità. Anche perché rischiamo di perdere fondi europei, che invece abbiamo riprogrammato con Ministeri e Regioni proprio per sostenere la digitalizzazione delle comunità, delle famiglie e delle imprese al Sud.

Lo dico perché anche così si possono creare occasioni di lavoro buono per i giovani che prima andavano a cercarlo altrove, trasformando aree marginalizzate in ecosistemi dell’innovazione: è accaduto a San Giovanni a Teduccio, può accadere altrove, ne stiamo discutendo con il Ministro Manfredi.

Lo stesso smart working, se accompagnato a nuovi diritti, compreso quello alla «disconnessione», a una più moderna e democratica organizzazione del lavoro, potrebbe diventare una forma strutturale di lavoro dei giovani meridionali, che possono restare al Sud, senza essere costretti a un difficile pendolarismo o a nuove vie di emigrazione.

O riconquistare le aree interne che, a dispetto della retorica sul «secolo delle città», non sono »piccolo mondo antico» ma luoghi in cui maturano modelli di sviluppo e di organizzazione più sostenibili, prossimi ai bisogni delle comunità. E lo abbiamo visto durante la pandemia.

Tra Legge di Bilancio e Dl Rilancio abbiamo destinato alle aree interne oltre 500 milioni, le abbiamo messe al centro della nuova programmazione dei fondi europei. Per garantire servizi ma anche per sostenere le attività economiche e commerciali.

OPPORTUNITÀ CONCRETE per i giovani, che si affiancano a strumenti specificamente rivolti ai giovani meridionali, come il potenziamento di «resto al Sud» o il «credito di imposta per ricerca e sviluppo».

Ma la verità è che, senza un’amministrazione più giovane, non potremo vincere la sfida dello sviluppo sostenibile e del digitale, al centro e nei territori.

Per anni è stato denigrato lo Stato, salvo poi riscoprirne il ruolo nell’emergenza. Ora dobbiamo tornare a dare opportunità di lavoro anche nel settore pubblico, dirlo senza timidezze: riportare nello Stato la generazione esclusa è un grande investimento.

È un impegno messo nero su bianco nel Piano Sud, servono da subito migliaia di giovani qualificati per garantire servizi e realizzare gli investimenti. E potremmo anche partire, grazie a un emendamento parlamentare, con una piccola ma significativa sperimentazione: i dottorati comunali.

LE ISTITUZIONI DA SOLE non possono farcela, devono costruire alleanze sociali. «Alleanza» è una parola chiave del Piano Sud, con cui abbiamo avviato due iniziative: una «Rete» per mettere in relazione chi è emigrato e chi sta nei territori, per far circolare progetti e buone pratiche e un «Osservatorio Sud 2030», per mobilitare la cittadinanza attiva sugli obiettivi di sviluppo del Sud e delle aree interne.

Questo è il succo della lettera-appello che voglio raccogliere: è qui la chiave per rendere i giovani meridionali protagonisti di uno sviluppo nuovo, che li renda liberi di tornare e restare nella loro terra.

Abbiamo vissuto una «lunga notte» del Sud, un’ombra lunga su tutta l’Italia, che via via ha ristretto anche altrove le opportunità per i giovani meridionali.

Ma è tempo di dire, con Rocco Scotellaro: «È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi».

* L’autore è ministro per il Sud e la coesione territoriale

da “il Manifesto” del 20 giugno 2020

Caro ministro Provenzano, che si fa con i giovani tornati al Sud? Lettera aperta di Tonino Perna, Piero Bevilacqua, Laura Marchetti, Domenico Cersosimo, Battista Sangineto, Pino Ippolito

Caro ministro Provenzano, che si fa con i giovani tornati al Sud? Lettera aperta di Tonino Perna, Piero Bevilacqua, Laura Marchetti, Domenico Cersosimo, Battista Sangineto, Pino Ippolito

Per decenni leader sindacali, politici, giornalisti si sono strappati le vesti denunciando la fuga dal nostro Sud dei giovani: quasi due/terzi della generazione nata negli anni ’90 è emigrata dal Mezzogiorno!

Fiumi d’inchiostro si sono spesi per denunciare un viaggio che fino all’arrivo della pandemia sembrava irreversibile.

Una delle conseguenze del Covid-19 è stata quella di aver fatto rientrare nel Mezzogiorno decine di migliaia di giovani provenienti dal Nord Italia e dall’estero.

Una svolta storica, un’occasione unica, un’opportunità imperdibile. Purtroppo, il ritorno «forzato» dei nostri giovani emigranti è stato visto finora solo come un pericolo.

Alcuni presidenti di regioni meridionali (Calabria e Sicilia in primis) hanno visto nel ritorno solo l’invasione dei lanzichenecchi, la marcia degli untori.

Si è parlato di una strage che avrebbe colpito il popolo meridionale per via di questi figli irresponsabili ed egoisti: per fortuna non è avvenuta, la gran parte di questi ragazzi ha seguito le regole, fatto la quarantena e ora sta aspettando.

Queste figure vivono oggi in un limbo, senza prospettive per il futuro, incerti se restare o ritentare la fortuna nel Nord Italia o all’estero, dove però la crisi economica ha tolto loro molte occasioni di lavoro, sia pure precario.

Caro ministro,
ci appelliamo a lei perché prenda atto che siamo di fronte ad una opportunità storica per il nostro Sud che non si ripeterà.

Bisogna prendere immediatamente dei provvedimenti a favore dei giovani “rientrati” che si sono fatti registrare.

Decine di migliaia di giovani meridionali, rientrando a casa, si sono dichiarati e sono andati in quarantena (solo in Calabria più di 20.000).

Un atto di lealtà e responsabilità a cui le istituzioni dovrebbero rispondere in maniera adeguata. Innanzitutto, chiedendo a questi giovani “rientrati” di fare delle proposte, di cominciare a immaginare che cosa potrebbero fare hic et nunc, quale lavoro e attività intraprendere in questa terra da cui sono dovuti fuggire.

Noi ci permettiamo di suggerire l’idea di un piano, partecipato, che tenga conto dei bisogni economici, demografici e ambientali del nostro territorio e insieme delle forze disponibili, delle risorse di energia, talento e creatività di questa generazione.

Occorre rammentarsi che Sud significa in gran parte Appennino. Non si può pensare di lasciare in abbandono questo immenso patrimonio territoriale dell’Italia intera.

Occorre perciò immaginare una vasta opera di infrastrutturazione di ferrovie leggere, che valorizzi le vecchie linee abbandonate e ne crei di nuove, in modo da formare un nuovo sistema circolatorio delle aree interne e togliere dall’isolamento paesi, colline, cittadine, aree agricole e forestali oggi emarginate.

L’agricoltura, che non è più pensabile come semplice produttrice di derrate agricole, va aiutata con risorse della PAC a diventare centro di servizi avanzati: alimentando la filiera alimentare, facendo ristorazione, turismo, accoglienza sociale, conservazione del suolo e difesa del paesaggio.

I paesi che escono dall’isolamento, anche grazie alla cablazione e alla rete, che custodiscono un patrimonio abitativo immenso, offrono la possibilità di trasformare gli edifici di pregio in centri di ricerca, abitazioni per giovani coppie, alberghi, centri di accoglienza, di svago, di recupero sociale.

E infine risorse a Università e ricerca finalizzate alla conversione ecologica oggi più che mai necessaria. Molti di questi giovani sono intelligenze che cercano altrove la possibilità di applicare la loro creatività.

Caro ministro,
le stiamo indicando solo delle potenzialità, che lei peraltro ben conosce, ma per alludere alle enormi potenzialità che oggi abbiamo davanti.

Le risorse finanziarie non mancano, sia quelle dei fondi strutturali europei, sia quelle che arriveranno dai vari stanziamenti dell’Unione.

Quel che a questo punto manca è un atto coraggioso di volontà politica. Si potrebbe cominciare consultando i presidenti delle Regioni, ma è evidente che le forze su cui far leva saranno i comuni.

Siamo certi che una vasta campagna di valorizzazione delle nostre giovani intelligenze e delle risorse meridionali aprirebbe una nuova stagione di slancio politico e di speranze. Servirebbe d’esempio all’Italia intera, incontrerebbe di sicuro il favore e l’appoggio dell’opinione pubblica nazionale.

* Tonino Perna, Piero Bevilacqua, Laura Marchetti, Domenico Cersosimo, Battista Sangineto, Pino Ippolito

da “il Manifesto”, 9 giugno 2020

Manifesto del Collettivo Valarioti.

Manifesto del Collettivo Valarioti.

Il Collettivo Peppe Valarioti nasce nel pieno di una crisi mondiale. Siamo un gruppo di studenti, ricercatrici e ricercatori sparsi per l’Europa che, all’alba dell’emergenza Covid-19, si è chiesto come la Calabria, con tutti i suoi problemi strutturali e atavici, avrebbe reagito. Mentre si temevano le conseguenze sulla popolazione di una sanità commissariata da anni, noi ci siamo anche domandati come si sarebbero potuti salvare coloro che vivono nella regione senza l’accesso ai servizi essenziali.

Mentre l’OMS ordinava di lavarci più spesso le mani e di mantenere le distanze, noi conoscevamo le condizioni dei lavoratori della terra, ammassati in alloggi di fortuna, senz’acqua. La tendopoli di San Ferdinando (RC) rappresenta uno dei tanti nervi scoperti di una Calabria che può solo sperare che il destino, ancora una volta, le sia benevolo.

San Ferdinando è un Comune noto per le condizioni disumane in cui versano i braccianti agricoli stagionali che da più di vent’anni raggiungono la Calabria per sostenerla nella raccolta degli agrumi, degli asparagi, delle fragole, dei pomodori.

San Ferdinando è la conseguenza di una politica fatta di slogan, di interessi personali e incapace di fornire formule risolutive per la crescita del territorio nel rispetto della dignità umana; una realtà che all’arrivo della pandemia ha solo potuto sperare di essere ignorata finanche dal virus.

Nel marzo 2020 abbiamo smesso di ascoltare le risposte di una politica inadeguata e iniziato ad indagare.
“Per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice ed è quella sbagliata”, scriveva Eco ne “Il Pendolo di Foucault”.

Questo l’assunto che abbiamo potuto constatare ad ogni passo della nostra indagine. Dove si perdono i milioni di soldi stanziati? Come si possono riproporre tavoli di lavoro inconcludenti? Perché nascondere il vuoto di una cattiva amministrazione con la retorica? Queste le nostre domande, interrogativi che non concernono soltanto il problema di San Ferdinando, ma riguardano la Calabria in tutti suoi aspetti.

Una regione che, stretta tra gli interessi di pochi e l’incapacità di fare squadra, ha perso ogni sua occasione di rivalsa e di crescita. Una crescita soprattutto economica tale da consentire, a chiunque lo voglia, di vivere in Calabria.

Alla luce di ciò, noi, in qualità di Collettivo Peppe Valarioti, abbiamo deciso di opporci allo status quo, all’idea che le cose non possano cambiare. La nostra indagine è partita dal problema della tutela dei braccianti agricoli che rappresentano uno dei motori dell’economia calabrese, da sempre fondata sull’agricoltura. Ma questo vuole essere solo il punto di partenza del nostro lavoro. Vogliamo diventare un osservatorio vigile, attento e pronto a denunciare, carte alla mano, tutte le occasioni di miglioramento che ci verranno sottratte.

Tra gli anni ‘70 e ‘80 la ‘ndrangheta inizia ad uccidere esponenti del partito comunista legati al mondo sindacale. Peppe Valarioti, professore, studioso, una vita spesa per la giustizia ed il futuro della Calabria, viene ucciso l’11 giugno 1980 sotto i colpi di una lupara.

Raccogliamo oggi questo testimone. Mettiamo a disposizione le nostre forze, il nostro tempo, le nostre competenze per rafforzare la consapevolezza dei diritti di ogni essere umano, studente, lavoratore che abiti questa regione. Non vogliamo essere cittadini passivi, non vogliamo aspettare che qualcuno lo faccia al nostro posto.

Di costruire prospettive nuove per la Calabria in troppi lo hanno promesso, pochi lo hanno fatto, tanti ci hanno deluso. Non è più il tempo di delegare, vogliamo essere i protagonisti. Senza doppi fini, senza guadagni personali, ma “solo” guidati dall’orgoglio di appartenere, ognuno a modo suo, ad una perla nel cuore del Mediterraneo.

Ma questa perla non appartiene solo ai calabresi. Le sorti del suo futuro sociale, civile ed economico dipendono da un interesse plurale che supera i confini regionali. La Calabria è in Europa ed è Europa. Il nostro obiettivo è far sì che essa possa diventare un territorio dove decidere di vivere e non dal quale scappare. Progettualità, collaborazione e coraggio: ciò che rende un progetto, da ambizioso e difficile, possibile e avverabile.

Peppe Valarioti, ben quarant’anni fa, aveva dato inizio a questo cambiamento. Il suo motto era: “Se non lo facciamo noi, chi deve farlo?”.

Noi vogliamo portare avanti un sogno lasciato in sospeso. “Se non lo facciamo noi, ora, quando e chi lo farà?”. Siamo europei, quindi siamo calabresi, e nessun problema sarà mai troppo lontano da noi per non occuparcene.
“Se mai qualcuno capirà, sarà senz’altro un altro come me”

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Rilanciare l’industria, occasione Centro-Sud.- di Gianfranco Viesti

Rilanciare l’industria, occasione Centro-Sud.- di Gianfranco Viesti

Impossibile non essere molto preoccupati per l’economia italiana. Ancor più dopo le previsioni della Commissione Europea di ieri: che confermano una possibile caduta del Pil 2020 superiore al 9%, e che indicano una possibile contrazione degli occupati del 7,5% (oltre un milione e mezzo), ben più alta di quella prevista nel Def. E impossibile non essere preoccupati per le loro possibili conseguenze: una corsa di interessi, associazioni di rappresentanza, territori ad ottenere il massimo per se stessi; a provare a salvarsi da soli.

Quello che ci serve, al contrario, è un ragionamento d’insieme sul sistema-paese; su come tutti insieme ci possiamo salvare, senza lasciare dietro macerie imprenditoriali, sacche di disoccupazione, territori ancora più indebolite. Perché solo con un progetto unitario l’Italia si può riprendere: ricordando che restiamo una grande economia avanzata; e mettendo a valore tutte le nostre risorse, a cominciare dalle persone e dalle interdipendenze fra imprese, settori e regioni che fanno sì che della crescita degli uni traggano vantaggio anche gli altri.

Un ragionamento che ha diverse facce. Una di esse, come ricordava domenica su queste colonne Romano Prodi, deve essere quella di una intelligente politica industriale. Quale? Nessuno ha la ricetta in tasca, anche perché viviamo tempi largamente ignoti. Quel che serve è una grande mobilitazione cognitiva: una discussione pubblica aperta, critica, senza preconcetti, su quel che qui e ora, con le conoscenze e le risorse di cui disponiamo, si può provare a fare. Con umiltà, ma anche con un pizzico di coraggio.

In questo spirito, si può provare a riprendere per cominciare uno dei temi sollevati dallo stesso Prodi: il reshoring. Di che parliamo? Nei due decenni a cavallo del nuovo secolo una parte significativa della capacità produttiva italiana ed europea è stata trasferita all’estero, alla ricerca di minori costi del lavoro.

Nel periodo più recente questo processo si è arrestato, ma non si è invertito. Ma oggi ci sono due dati di fatto: i rischi connessi a catene produttive troppo estese geograficamente sono molto cresciuti nella percezione delle imprese; la totale mancanza di capacità produttiva in alcuni ambiti (si pensi alle mascherine) viene avvertita dalla nostra società, e dai decisori politici, come un rilevante problema.

Dunque il tema è discutere se e quanto sia possibile far rinascere o nascere in patria, in Europa, questa capacità produttiva (reshoring). Ne hanno parlato nei giorni scorsi il Presidente francese Macron e il ministro tedesco della Salute Spahn; il Giappone ha avviato alcune iniziative concrete di supporto alle imprese. Parliamo certamente di produzioni alimentari, della filiera della salute, ma anche, molto, di componentistica meccanica e per i settori leggeri, di prodotti finiti.

Ha ragione Prodi: È evidente la necessità di fare in modo che questo processo coinvolga l’Italia con la massima possibile intensità. Come? Non si tratta di riportare, d’imperio o d’incanto, quelle produzioni così come sono realizzate ora, a costi del lavoro impossibili per l’Italia. Ma di provare a ridisegnare i processi produttivi (con parziali automazioni) e logistici (per accrescere flessibilità e puntualità dei flussi) per renderli compatibili con le nostre condizioni produttive. Per fortuna, non esistono solo gli impianti ipertecnologici automatizzati e i capannoni del Bangladesh in cui si cuce.

Nell’economia contemporanea esiste una gamma di possibilità intermedie, con un mix di innovazione tecnologica ed organizzativa, e formazione del personale. Quel che può fare la politica industriale è favorire questi processi: riducendo gli ostacoli burocratici, rendendo disponibili servizi per una logistica efficiente; promuovendoli esplicitamente con opportuni incentivi: tanto all’innovazione nei processi, quanto al costo del lavoro. Non destino scandalo: come ha argomentato recentemente l’economista di Harvard Dani Rodrik, il cambiamento tecnologico può, deve, essere incentivato a fornire soluzioni compatibili con una maggiore occupazione; e con la prospettiva di un altro milione e mezzo di disoccupati, in aggiunta ai 2,5 milioni che abbiamo, investire risorse pubbliche sul lavoro è una assoluta priorità.

La politica industriale può fare un ulteriore, importante, passo. Può favorire esplicitamente la localizzazione di queste attività nel Centro-Sud, ovvero l’area fortunatamente meno investita dal contagio. Attrezzando con regole e servizi aree specifiche, ad esempio le Zone Economiche Speciali che già esistono, con collegamenti già buoni sia con l’interno sia via mare (la rilocalizzazione può essere anche parziale e integrare semilavorati che arrivano dall’estero).

Incrociando questi obiettivi con la costruzione dei programmi per i fondi strutturali dell’immediato futuro, con provviste finanziarie dedicate.

Far ricrescere imprese e lavoro al Sud fa benissimo all’intero Paese: stimola forniture di macchinari e attrezzature dal Nord, può far crescere la competitività d’insieme delle filiere, mette all’opera saperi e competenze, riduce le necessità di interventi di emergenza. Accresce quella domanda interna che rischia di deprimersi: e su cui (sempre in una logica di apertura, non protezionista) l’Italia dovrà fare maggiormente conto nei prossimi anni.

Come dopo le devastazioni del dopoguerra, si riparte solo con un grande cambiamento politico-culturale: ricreando uno spirito pubblico nazionale coeso, e indirizzando quante più risorse possibile agli investimenti. In questa ottica, il Sud si trasfigura, rispetto alle bolse rappresentazioni correnti: non una palla al piede, ma una risorsa da valorizzare per accrescere il benessere di tutti gli Italiani. Non è retorica. È politica economica.

da “il Messaggero”, 7 maggio 2020

Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay