Mese: luglio 2020

Il modello lombardo non sia la base della nuova Sanità.- di Gianfranco Viesti

Il modello lombardo non sia la base della nuova Sanità.- di Gianfranco Viesti

Lo si sente spesso dire. Anche ieri dal premier: avviamo la ripresa non per tornare a come eravamo ma per costruire progressivamente un Paese migliore. Giustissimo. Ma questa affermazione va poi sistematicamente calata nella realtà e precisata. Un ambito nel quale ha un valore molto forte è quello della sanità.

Proviamo ad abbandonare un clima nel quale si pensa che la questione sia delimitata dai confini regionali, e ci si continua a vantare di vere e presunte superiorità – un altro esempio lo abbiamo avuto ieri – di un sistema territoriale rispetto agli altri; come se questo garantisse dei confini in casi come quello che stiamo vivendo; come se pretese virtù non fossero state messe a durissima prova proprio dal corso degli eventi di questi mesi.

Torniamo a ragionare di Servizio Sanitario Nazionale, per tutti gli italiani; e di come quello di domani può e deve essere diverso da quello di ieri. Lo si può fare su base documentale seria, chiara. Proprio l’altro giorno l’Istat, nel suo Rapporto Annuale 2020, ci ha fornito molti elementi, utili per la loro precisione e per l’autorevolezza della fonte. Un istituto di statistica che, è bene ricordarlo, non si limita a fornirci numeri ma ormai li accompagna da molti anni con analisi molto ben approfondite e articolate.

Quali sono i punti principali di questo confronto fra ieri e domani? Possono emergere con chiarezza proprio ripercorrendo il Rapporto. E dunque, un sistema sanitario troppo poco finanziato; e troppo incentrato sull’assistenza ospedaliera e con un presidio del territorio troppo debole. Nell’insieme spendiamo per la sanità il 6,5% del Pil contro il 9,3% della Germania e il 9,3% della Francia; ma sull’assistenza territoriale spendiamo meno della Germania (1,2% contro 2,9%) e degli altri migliori paesi europei.

Un sistema sanitario in cui la spesa per investimenti è caduta dai 2,4 miliardi del 2013 a 1,4 nel 2018; con una conseguenza grave per la tutela della nostra salute: l’obsolescenza delle apparecchiature, «un parco tecnologico non sempre al passo con l’innovazione».

Ancora, un sistema nel quale le risorse umane, soprattutto infermieristiche, si sono troppo ridotte: abbiamo 350 mila infermieri, circa la metà rispetto a Germania e Francia. E risorse umane, anche fra i medici, che stanno pericolosamente invecchiando e che vanno rimpiazzate con attenzione.

Una sanità, e questo è ben noto, con troppe e crescenti disparità territoriali. Già la spesa pro-capite varia dai 2.085 euro dell’Emilia-Romagna ai 1.705 della Calabria, seguendo la struttura della popolazione per età, ma trascurando gli effetti della povertà e dei minori livelli di istruzione sulla salute. Con 296 posti letto per abitante, sempre in Calabria, contro i quasi 400 del Trentino-Alto Adige. E così le dotazioni e la capacità di fornire proprio quella cruciale assistenza territoriale: i casi trattati di assistenza domiciliare integrata vanno dagli oltre 3 mila (per 100 mila abitanti) in Veneto, Emilia-Romagna e Toscana a meno della metà in grandi regioni quali Lombardia, Lazio, Campania.

Tendenza all’approfondimento dei divari, che potrebbe proiettarsi nel futuro: nelle regioni del Centro-Sud sottoposte ai piani di rientro, ci dice l’Istat, «gli interventi messi in campo per l’abbattimento del deficit potrebbero ridurre, nel medio-lungo periodo, la capacità di assistere la popolazione in maniera adeguata».

Infine, sistemi molto diversi anche per il rapporto pubblico-privato; i posti letto in strutture private sono oltre un terzo del totale in Lombardia, il 10% in Veneto; e con una spesa privata delle famiglie, che lega troppo strettamente la salute alla situazione economica, che è ormai arrivata al 23% del totale. E che è rilevantissima, e discriminante, in particolare in alcuni casi, come nella farmaceutica o nella spesa destinata ad apparecchiature terapeutiche.

Questo era il Servizio Sanitario Nazionale prima dell’emergenza Covid-19, per usare il titolo del capitolo del Rapporto Istat dal quale si sono presi tutti i dati citati. E’ a vantaggio di tutti gli italiani la possibilità che quello che avremo fra tre o cinque anni possa esserne progressivamente diverso in molti cruciali aspetti: dai divari sociali a quelli territoriali, dall’organizzazione assistenziale alla disponibilità di nuovo personale giovane.

Certo, bisognerà fare i conti con quel che ci potremo permettere: ma non è solo questione di spendere di più ma anche diversamente e meglio. E soprattutto di pensare che stiamo parlando di un grande investimento sul nostro benessere, sulla nostra salute; e, come abbiamo imparato dalla terribile pandemia, anche sulla nostra economia, nell’evitare i danni più atroci di eventi negativi sulle persone e sulle loro attività economiche.

Meno autocelebrazioni, meno liste di viziosi e virtuosi e più riflessioni su come costruire il Servizio Sanitario Nazionale del dopo. Così il futuro può cominciare ad essere diverso dal passato.

da “il Messaggero”, 8 luglio 2020

Foto di Sasin Tipchai da Pixabay

Tre mosse per aiutare gli studenti più in difficoltà.- di Domenico Cersosimo

Tre mosse per aiutare gli studenti più in difficoltà.- di Domenico Cersosimo

La drammatica recessione economica indotta dall’emergenza sanitaria rischia di provocare un’ulteriore contrazione del sistema universitario nazionale. Le evidenze empiriche di lungo periodo mostrano un nesso causale robusto tra crisi economiche e tassi di accesso all’università, soprattutto per le classi sociali medio-basse e basse.

E’ già successo nella precedente grande recessione del 2008: nel quinquennio successivo, un decremento del passaggio dal diploma all’università di oltre otto punti nel Mezzogiorno, pari ad una riduzione assoluta di oltre 21mila immatricolati (+4.000 nel Centro-nord). Meno immatricolati e in prospettiva meno laureati prefigurano una Italia con minori opportunità per i singoli e minore benessere collettivo.

Per evitare che i diplomati delle famiglie economicamente e scolasticamente più fragili non continuino gli studi, occorre una didattica in presenza, il potenziamento dell’apprendimento e l’azzeramento delle tasse di iscrizione per gli immatricolati: sono tre “mosse” che potrebbero contrastare il declino della formazione terziaria.

Prima mossa: Tutte le aule dotate dei requisiti di sicurezza sanitaria dovrebbero essere destinate in primo luogo alla didattica in presenza per i nuovi iscritti. Lezioni universitarie in remoto per gli immatricolati significherebbe di fatto allungare di un anno la scuola secondaria, continuare ad aggrapparsi, per i fortunati, ai vantaggi di vivere in case e famiglie ricche di mezzi o, continuare a subire, per gli sfortunati, gli svantaggi di case e famiglie poco dotate. Le aule universitarie sono luoghi insostituibili di apprendimento critico, ma anche spazio della prossimità con la diversità, della cittadinanza matura. Il primo anno è predittivo della carriera universitaria, non può dunque che cominciare in presenza, per tutti i corsi, per tutti i giorni di lezione.

Seconda mossa: Nell’insieme i neodiplomati 2019-20 hanno subito danni gravi in termini di apprendimento scolastico, oltre che sotto il profilo della loro crescita sociale, emotiva e civile. Non pochi hanno subito penalizzazioni più forti perché residenti in aree non coperte dalla banda larga, perché appartenenti a famiglie povere senza wi-fi, perché più bisognosi di contatti ravvicinati con altri studenti per apprendere in modo adeguato.

Tutto ciò è più grave nel Mezzogiorno, dove le scuole sono meno attrezzate di spazi e tecnologie, i professori meno giovani, le “comunità educanti” meno diffuse. L’università non può attribuire le colpe al ciclo precedente di studi e disimpegnarsi da qualsiasi azione attiva mirante a colmare i deficit formativi accumulati in questi mesi di lezioni a distanza.

D’altro canto, le lacune in ingresso tendono a riprodursi nel corso degli studi universitari se non ad ampliarsi, e ad alimentare negli anni l’abbandono degli studi. Le università possono fare moltissimo per porre rimedio a questa perdita: corsi di potenziamento delle conoscenze di base (matematica, logica e comprensione del testo) prima e durante l’anno accademico; cicli di lezioni preregistrate propedeutiche all’ingresso in aula; tutoraggio e sostegno individuale; occasioni di formazione interdisciplinare nelle ore o nei giorni “vuoti” di attività didattica convenzionale; attività di sostegno allo studio tra pari, con studenti iscritti ad anni successivi al primo che affiancano le matricole.

Terza mossa: Zero tasse per gli immatricolati in atenei del Sud è in primo luogo una mossa simbolica: la manifestazione che lo stato attribuisce un’importanza assoluta alla formazione terziaria, ma anche la presa d’atto che il nostro paese ha un numero troppo basso di studenti che si iscrivono all’università e un altrettanto modesto numero di laureati. Con pochi laureati il paese non cresce, ristagna nell’equilibrio di bassa produttività, è condannato inesorabilmente a livelli di sviluppo sotto il potenziale.

Peraltro, zero tasse per gli immatricolati meridionali comporterebbe un impegno relativamente modesto in termini di spesa pubblica aggiuntiva, che, al netto della no tax area, ammonterebbe a poche decina di milioni, che potrebbero essere agevolmente attinti dai singoli Piani operativi regionali cofinanziati dall’Ue, e dunque senza perdita di gettito per le università. Tre mosse, attivanti, per incoraggiare,. Per garantire un ritorno ad una “nuova” normalità delle università meridionali, per accrescere le immatricolazioni nel Sud (e dunque in Italia), per lenire e possibilmente colmare le ferite formative dei neo-diplomati in questo terribile anno scolastico Covid-19.

da “il Manifesto”, 7 luglio 2020

Foto di Wokandapix da Pixabay

Per un censimento dei beni pubblici del Sud.- di Piero Bevilacqua

Per un censimento dei beni pubblici del Sud.- di Piero Bevilacqua

Questi brevi suggerimenti nascono dalla necessità di fornire, in tempi il più possibile brevi, delle oppurtunità di lavoro ai tanti giovani, in gran parte laureati, spesso di ritorno nel Sud a causa della pandemia, perché trovino per lo meno ragioni di permanenza temporanea, suscettibile di sviluppi futuri.

Io credo che la grandissima maggioranza dei comuni meridionali ignorino i patrimoni pubblici che pure amministrano (terreni, edifici e vari beni immobili, monumenti artistici, acque interne, risorse naturali, dotazioni ambientali e di biodiversità) per i quali i giovani lauerati in scienze agrarie, in economia, in architettura, in giurisprudenza, in ingegneria, materie umanistiche, ecc potrebbero in breve tempo essere chiamati a compiere una ampia operazione di ricognizione e di censimento di comprensibile utilità.

Pensiamo al lavoro per rendere noti i terreni potenzialmente disponibili ad uso agricolo. Naturalmente non tutti i comuni sono nelle stesse condizioni, ma assai spesso si tratta di fare emergere, soprattutto nelle campagne interne, tanto i fondi e i beni comunali,che quelli demaniali, gli usi civici, ma anche le terre private abbandonate.

Ricordo che tale lavoro risulterebbe utile non solo ai fini propriamente agricoli, ma anche per individuare i siti, poco vocati all’agricoltura, o ad altro l’uso produttivo, in cui installare veri e propri centri di generazione di energia solare.Il territorio improduttivo ma che gode di prolungato irraggiamento può essere utile anche a questo.

Una operazione simile andrebbe condotta inoltre, per conto dei comuni e in collaborazione con gli istituti competenti, nei tanti paesi, borghi, cittadine in vie di spopolamento per avere un quadro del patrimonio abitativo in abbandono, dei beni artistici e monumentali spesso dimenticati, del loro stato di conservazione, dei tanti lasciti spesso preziosi di conventi,palazzi padronali, fontane, cisterne, canali, ponti, briglie idrauliche, ecc.

Moltissimi comuni del Sud avrebbero bisogno di conoscere lo stato dei loro suoli e corsi d’acqua di cui ci si ricorda quando esondano per qualche alluvione.Un tempo i grandi geografi italiani facevano il censimento delle frane dell’Appennino, oggi, con i tecnici comunali e provinciali che teoricamente dovrebbero sovraintendere alla loro sorveglianza, i giovani potrebbero offrire un di più di conoscenza diretta , per potere intervenire con piani preventivi di contenimento. E’ con le piccole opere diffuse e capillari che si evitano i grandi disastri.

Si parla sempre e con asfissiante monotonia di ambiente, ma pochi sanno di che cosa realmente parlano. Eppure l’ambiente meridional e presenta grandi problemi e straordinarie potenzialità. Qualche esempio per atterrare dalla nuvola “ambiente” alla realtà. I nostri boschi sono spesso in condizioni di grave degrado.

In tanti casi la macchia selvatica li rende impraticabili e talora arriva ad ucciderli. Io ho visto personalmente sul Monte Reventino, in Sila, migliaia di alberi soffocati dalla vitalba, un’elegante parassita infestante, che si estende in alte liane per via area e con radici sotterranee.

In Aspromonte si possono scorgere vaste pinete con le chiome degli alberi letteralmente coperte da nidi di processionarie che li stanno uccidendo o li hanno già uccisi. Solo alcuni esempi per indicare un immenso patrimonio naturalistico in pericolo che potrebbe peraltro conoscere forme di valorizzazione economiche incredibilmente trascurate.

Noi importiamo legname pregiato da opera, (castagni, noci e ciliegi) e non riusciamo a coltivarne le essenze neanche in habitat vantaggiosi. Senza dire che in queste terre d’altura non si fanno allevamenti di volatili e di piccoli animali, realizzabili con poca spesa. Mentre le acque interne (torrenti, piccoli laghi, stagni) raramente danno luogo ad attività di acquacoltura.

Si parla spesso di biodiversità da tutelare. Sarebbe molto utile conoscerla e tanti giovani agronomi e laureati in scienze naturali potrebbero, ad esempio, essere impiegati, in cooperazione con gli esperti dei luoghi, a censire nei vari siti le erbe officinali di cui è ricca la flora meridionale.Erbe, oggi anche coltivate, che trovano impiego nella produzione di articoli di largo commercio, nell’alimentazione macrobiotica e nella cosmetica.

Analogo censimento meriterebbe tanto il patrimonio della biodiversità che della varietà agricola, (alberi e piante da orto), ignorato, possiamo dire, dall’intera popolazione meridionale, mai educata a conoscere la propria straordinaria eredità, storica e naturale. Esistono in alcune regioni, come la Calabria, dei tesori di varietà delle piante da frutto, e anche di vitigni antichi, sopravvissuti alla fillossera, che sono custoditi nel vivai o dispersi nei fondi privati, e che non conoscono da oltre mezzo secolo alcuna valorizzazione agricola.

Naturalmente ci sarebbe anche altro da censire, nel loro stato attuale e nei loro bisogni di riparazione: dalle chiese rupestri, ai siti archelogici in abbandono, ai lidi marittimi colpiti da fenomeni di erosione, o gravemente inquinati da corsi d’acqua di cui si ignora l’origine.Ma di straordinario rilievo sarebbe anche indagare sui luoghi e presso le famiglie l’evasione scolastica dei ragazzi, talora il lavoro minorile dei nuovi poveri del Sud. Per il potenziamento della cultura al Sud, attraverso la costituzione di biblioteche popolari, e altri centri di formazione che cooperino con le scuole, occorrerebbe ovviamente una riflessione a parte.

Qui si son voluti fare solo degli esempi e spetterebbe ai comuni, ai sindacati, agli stessi giovani, elaborare con impegno e creatività progetti capaci di soddisfare queste esigenze. Stimolare una nuova intelligenza pubblica dei beni comuni, naturali e storici, può aiutare molto, non solo a fornire nuova vitalità economica e sociale alle nostre aree interne, ma offrirebbe occupazione qualificata alle nuove generazioni. Tenendo sempre presente che di queste fanno parte, a pieno titolo, i migranti che fuggono da guerre, miseria e catastrofi climatiche.

da “il Quotidiano del Sud”, 5 luglio 2020

Quando l’economia diventerà equonomia? -di Piero Bevilacqua Recensione a “Pandeconomia. Le alternative possibili” di Tonino Perna.

Quando l’economia diventerà equonomia? -di Piero Bevilacqua Recensione a “Pandeconomia. Le alternative possibili” di Tonino Perna.

TUTTI gli eventi catastrofici hanno un effetto dirompente, più o meno durevole e grave, a seconda della loro portata e durata, su quella complessa macchina sociale che chiamiamo economia. Terremoti, guerre, epidemie incidono in genere sulla struttura demografica, sull’apparato produttivo, sui livelli dei consumi, sulle risorse naturali e sulle infrastrutture.

Tuttavia, nonostante la loro frequenza e rilevanza sulla vita delle società, solo per le guerre esiste una una vasta memoria e pubblicistica storica, ricerche e studi che non si hanno, se non in forme sporadiche, né nel caso dei terremoti (così frequenti nella nostra storia e in quella delle regioni mediterranee), né nel caso di epidemie e pandemie.

Eppure, come ricorda Tonino Perna nel suo recente e tempestivo lavoro, “Pandeconomia. Le alternative possibili” (Castelvecchi Editore, 2020) nei paesi del «Sud-Europa, ci sono Madonne e Santi che sono venerati come Protettori di città e borghi antichi perché almeno una volta li hanno salvati dalla peste, dal colera e altre pandemie. Nel tempo, nella memoria collettiva si è persa l’origine di questi riti religiosi, che ormai vengono vissuti come giorno di festa».

Sugli effetti della guerra l’autore ricorda un accenno di Adam Smith e le riflessione, in età contemporanea, di Walter Ratnenau e John Maynard Keynes. Il grande intellettuale tedesco, manager industriale e ministro della Ricostruzione e poi degli Esteri, in Germania, fu il primo economista nel ’900 ad occuparsi delle dinamiche dell’“economia di guerra” e a trarne conseguenze rilevanti.

Dalla sua diretta esperienza di manager e di ministro osservò – sottolinea Perna – alcune trasformazioni “fondamentali che riscontriamo oggi nell’economia della emergenza, o meglio nella “pandeconomia” che stiamo vivendo. La prima è la messa in discussione, o comunque la riduzione dei processi di globalizzazione. La seconda è una conseguenza di questi processi di de-globalizzazione con una ripresa di ruolo e valore del mercato interno. La terza riguarda il potere dello Stato che si rafforza e delle istituzioni che sono obbligate a trasformarsi”.

Paradossalmente, per citare le parole con cui Keynes riprende Rathenau, “riusciremo così a cogliere l’occasione della guerra per realizzare un progresso sociale positivo”. È quanto ci aspetteremmo, con vacillanti speranze, dal presente governo.

Perna getta un sguardo sintetico ed essenziale sulle epidemie anche dell’età moderna, sottolineando l’ampiezza e la ricorrenza delle devastazioni che interessarono le più ricche e popolose città italiane, quelle più legate al mercato internazionale: “Ma, quello che più colpisce” – aggiunge – “e che è stato in parte ignorato, è che molte città sono state colpite dall’epidemia più volte: Venezia 21 volte dal 1348 al 1630, Parigi 23 volte dal 1379 al 1596, Firenze 25 volte dal 1348 al 1630-31, e Besançon addirittura 40 volte.”

Tali funeste ricorrenze hanno avuto una incidenza molto grave sulle strutture demografiche degli stati, con un impatto economico depressivo che si protraeva per decenni. Nello stesso tempo, tuttavia, esse alimentavano una crescente concentrazione dei poteri dello Stato, che inaugurava nuovi strumenti di controllo sanitario. E qui Perna ricorda le note tesi di Michel Foucault sul ruolo che la medicina e la clinica hanno giocato nell’accrescere il potere dello Stato sul corpo dei sudditi e dei cittadini.

Naturalmente la parte centrale del libro si concentra su quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. E l’autore avvia la sua rapida ricognizione ponendosi la domanda fondamentale: “È legittimo domandarsi: questa pandemia tende a incrinare o rafforzare il finanzcapitalismo? Ovvero: le trasformazioni economiche causate da questa epidemia quali ripercussioni, di medio-lungo periodo, avranno sul modo di produzione capitalistico, nell’era dell’egemonia finanziaria?”.

La risposta al quesito, ovviamente problematica, prende in considerazione fenomeni in atto, ma anche previsioni di medio periodo, come la caduta del PIL delle varie economie nazionali, il crollo dell’occupazione, la paralisi di alcune componenti fondamentali dell’economia globale, come il turismo, ma nello stesso tempo l’incremento sempre più dispiegato del capitalismo delle piattaforme. Una estensione del processo di accumulazione e al tempo stesso “il modo con cui si sta trasformando il capitalismo finanziario, sempre meno visibile e controllabile. Piattaforme digitali che diventano i custodi e padroni dei nostri dati sensibili, delle nostre scelte di consumo, della nostra vita”.

L’opera non si limita ad analizzare l’esistente, uno dei suoi pregi è lo sguardo che getta sia sugli effetti economici, sociali e ambientali della pandemia in corso, sia sui possibili scenari futuri. Con alcune sorprese. La paralisi dell’attività economica, ad esempio, ricorda Perna, “tra riduzione dell’inquinamento, delle vittime sul lavoro e sulla strada, ha salvato qualcosa come 420 mila persone, di tutte le età e di tutti paesi del mondo che hanno adottato misure di contenimento della mobilità delle persone e della produzione di merci.

” Uno degli “effetti desiderati” si potrebbe dire, di un evento contagioso che sta ancora provocando centinaia di migliaia di vittime. Quanto agli scenari auspicabili, Perna sottolinea la ripresa, in tempo di crisi, delle economie di prossimità, quelle fondate sulla piccola agricoltura, sull’accorciamento della filiera agro-alimentare, il piccolo commercio, la vita di quartiere e la rivitalizzazione del territorio.

In tale direzione si muove la necessaria rivalutazione delle aree interne e una nuova politica per le città, oggi svuotate della loro vita pubblica e selvaggiamente mercificate. Infine, la rivalutazione dei sentimenti di solidarietà promossa dal drammatico imperversare delle morti, dovrebbe animare i comportamenti anche in tempi normali e ispirare la condotta economica dei cittadini, tanto sul piano produttivo che su quello dei consumi.

da “il Quotidiano del Sud”, 21 giugno 2020

L’uso del salva-Stati.- di Gianfranco Viesti L’occasione per colmare il gap sanitario tra le Regioni.

L’uso del salva-Stati.- di Gianfranco Viesti L’occasione per colmare il gap sanitario tra le Regioni.

Siamo stati colpiti duramente dal coronavirus sul piano sanitario, e siamo stati e saremo colpiti sul piano economico dalle sue conseguenze: non possiamo permetterci il lusso di ignorarne gli insegnamenti per cambiare strada rispetto al passato. Uno dei più importanti è che la salute è, come recita la Costituzione, tanto un nostro fondamentale diritto individuale quanto un “interesse della collettività”.

La salute è un bene pubblico nazionale. Anzi, dovrebbe diventarlo a scala europea: bene ha fatto la Commissione UE ad inserire nella sua proposta per il Piano di Rilancio un nuovo intervento (EU4Health) che, seppur con un finanziamento appena iniziale, mira a rafforzare la capacità di risposta comune degli stati membri: vaccini, dispositivi, prevenzione.

L’Italia ha in questi mesi l’occasione storica per tornare a dotarsi di una strategia nazionale di lungo termine e per ripensare alla struttura e al funzionamento di un Sistema Sanitario che negli ultimi venti anni è stato progressivamente definanziato e abbandonato alle gestioni regionali.
E’ balzato agli occhi di tutti come la sanità sia divenuta troppo differenziata in Italia: sia perché sono state fatte scelte di fondo molto diverse da regione a regione, che hanno poi determinato una capacità di risposta alla pandemia completamente diversa.

Sia perché i cittadini possono fruire di dotazioni e servizi sanitari in quantità e qualità molto dispari a seconda del luogo in cui vivono. Ma la salute, ecco la grande riscoperta, non è questione locale: in un paese in cui il diritto alla libera circolazione è e deve essere indefettibile, è questione di tutti gli Italiani.

Questo ha due grandi implicazioni. La prima è che Parlamento e Governo devono tornare ad esercitare il proprio ruolo di coordinamento ed indirizzo, e non limitarsi ad erogare risorse della fiscalità generale alle regioni. Ciò significa indicare le linee di fondo di una strategia per la salute, ad esempio, fortemente centrata sui servizi socio-sanitari terririali di prevenzione e cura (di cui qualche traccia si vede in alcune scelte contenute negli ultimi decreti): decisione fondamentale in un paese destinato ad un forte invecchiamento della popolazione. Ma anche definire reti nazionali di strutture per la gestione delle emergenze, come le – purtroppo ben note – terapie intensive.

La seconda è che si deve mirare a garantire simili diritti alla salute per tutti gli Italiani, indipendentemente da dove vivono. Le disparità, specie fra Nord e Sud, oggi sono elevatissime; dipendono da un complesso intreccio di cause, dai criteri di finanziamento stabiliti all’inizio del secolo alla gestione di diverse regioni: cattiva, in alcuni casi pessima.

Queste disparità si sono fortemente accentuate negli ultimi anni, in cui la sanità è stata sempre e solo vista come un costo da tagliare, e non come un investimento collettivo. Nelle risorse umane: nelle regioni più deboli del paese le dotazioni di personale medico ed infermieristico sono inferiori alla media nazionale. E nelle risorse strumentali: come documentato in una Nota recentemente pubblicata sul Menabò di Etica ed Economia, non solo nell’ultimo decennio gli investimenti pubblici in strutture e apparecchiature in Italia si sono ridotti ai minimi storici (cosa che ci ha penalizzato nella gestione della pandemia), ma sono stati ancor più scarsi nelle regioni che già avevano dotazioni inferiori.

Negli ultimi venti anni sono stati investiti in nuove dotazioni sanitarie 16 euro all’anno per ogni calabrese e 84 per ogni emiliano (per non parlare dei 183 euro a Bolzano). Regioni con meno strutture, apparecchiature più obsolete e un personale meno numeroso e più anziano non potranno mai garantire livelli di servizio accettabili; genereranno sempre i tristi fenomeni di “migrazione sanitaria”. Ma quello che dovremmo aver imparato dalla crisi del coronavirus è che questo non è un problema calabrese: è un problema italiano.

Il grande investimento che dovremo fare nei prossimi dieci anni sulla nostra salute, anche per prevenire meglio malaugurate nuove epidemie, passa attraverso queste due grandi scelte. Che portano con sé un corollario altrettanto importante.

Quali che saranno le decisioni che il Parlamento vorrà prendere in materia di competenze e di organizzazione sanitaria fra Stato e Regioni (che ragionevolmente non potranno che intrecciarsi) un principio dovrebbe tornare centrale: i beneficiari delle risorse economiche che noi forniamo con le nostre tasse per la tutela della salute non sono gli amministratori regionali: siamo noi stessi in quanto cittadini. Non possiamo più permetterci di distribuire fondi e considerare che ormai sono “cosa loro”, delle Amministrazioni Regionali; limitandoci a sperare che facciano del loro meglio.

Constatando poi impotenti che i livelli essenziali di assistenza non sono garantiti, o che i medici di base sono stati mandati allo sbaraglio. Il rilancio della politica per la nostra salute deve passare attraverso indicatori di risultato precisi e tempestivi, e poteri sostitutivi incisivi.

Se vogliamo davvero imparare la lezione, dobbiamo provare a lasciarci alle spalle l’Italia degli ospedali incompiuti da decenni e delle assunzioni in sanità come bacini di voti; e puntare a costruire un paese nel quale fra cinque anni ci siano già ovunque reti di servizi socio-sanitari territoriali capillari ed efficienti, e si stia completando la rete ospedaliera, con le dotazioni necessarie.

Per invecchiare con più tranquillità e fiducia. E per documentare con fierezza ai nordici che disprezzano il nostro paese i risultati ottenuti con le risorse che l’Europa ci avrà messo a disposizione.

da “il Messaggero”, 30 giugno 2020

Foto di Gerd Altmann da Pixabay