Mese: marzo 2023

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di D.L. di Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione, oltre che della Sanità (concordo con quanto detto a tal proposito da Enzo Paolini sul Quotidiano del Sud) , di molte materie che riguardano settori fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione (sono d’accordo con le argomentazioni di Filippo Veltri sulla scuola espresse sul Quotidiano del Sud), la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il Patrimonio della cultura ed il paesaggio

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente collegati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli: “L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità”.

Il sunnominato D.L. leghista è dotato di un “Elenco delle materie che, ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene modifiche anticostituzionali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico affidandole alle 20 Regioni-staterelli. La potestà legislativa sul paesaggio e sul patrimonio -messa in discussione dal nuovo D.L. art. 117, secondo comma, lettera s – è, ad oggi, prerogativa della Repubblica, del Ministero dei Beni Culturali, non delle Regioni. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del Ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, a partire dal governo Gentiloni, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, in particolar modo la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna di Bonaccini.

Già Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché aveva ben presente che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.

In preda ad un delirio secessionista, la Lega e il governo di destra vogliono mettere sotto il controllo politico regionale organi dello Stato che dovrebbero essere terzi. Un delirio assecondato dalla precedente riforma Franceschini (Renzi, del resto, aveva scritto che: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia”) che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali dando la stura alla privatizzazione ed alla regionalizzazione del Patrimonio.

Se dovessero passare queste modifiche anticostituzionali ed antiunitarie, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, non sarebbero più prerogative dello Stato, ma verrebbero sminuzzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine unitario alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto, per sempre, quello storico tessuto connettivo che tiene insieme il Paese, quel “particolare modo di essere che è l’essenza stessa della nostra personalità”, del nostro essere italiani.

L’eclisse dei valori della Costituzione.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 marzo 2023
La foto ritrae un gioco ideato dalle Scuole Montessori

Il Ponte non è una protesi.-di Tonino Perna

Il Ponte non è una protesi.-di Tonino Perna

Ci risiamo, anche se è solo il primo passo di una insulsa propaganda di regime come presto verrà a galla. Durante il ventennio le opere di regime sono state tante, c’è stata la ricostruzione, in stile liberty, delle città di Reggio e Messina, completamente distrutte dal terremoto del 1908 con la morte di 100.000 abitanti dell’area dello Stretto. Ma questi odierni epigoni sono talmente incapaci da aver scommesso su un’opera impossibile da realizzare, dove, purtroppo, si butteranno miliardi e dove, se non ci sarà come è probabile, una forte resistenza del territorio interessato, si creeranno danni ambientali irreversibili.

Procediamo con ordine. Quello che è stato approvato dal Consiglio dei Ministri è il finanziamento di un progetto esecutivo del Ponte a campata unica sullo Stretto. Intanto, ci avevano raccontato per anni che c’era già il progetto e bisognava solo finanziare l’opera. Adesso ci vorranno circa due anni per arrivare all’approvazione del progetto esecutivo, e poi almeno un altro anno e mezzo per il progetto definitivo. Poi bisognerà trovare le risorse finanziare.

Ammettiamo anche che questi passaggi avvengano nei tempi previsti e che si trovino i capitali necessari nelle casse dello Stato (visto che nessun privato finora si è dimostrato disponibile), bisognerà passare agli espropri di terreni privati con inevitabili contenziosi giudiziari. Salvo emanare una legge ad hoc che affretti le procedure di esproprio in forma autoritaria, in questa fase si può fermare tutto per anni ed anni.

Seppure tutto dovesse procedere nel migliore dei modi, il Ponte sullo Stretto non potrà essere terminato prima di dieci anni. Per altro, per avviare i lavori bisognerà inventarsi una tecnologia che permetta al Ponte di sopravvivere in un’area ad alta intensità sismica (l’ultima scossa di 4,5 ° si è registrata la settimana scorsa in Aspromonte, la grande montagna che arriva ad abbracciare lo Stretto sul lato calabrese). E poi dato l’irreversibile distanziamento delle due sponde, registrato dai satelliti, pari ad 1cm ogni cinque anni, bisogna augurarsi che il Ponte una volta costruito possa arrivare almeno a mezzo secolo di vita.

Quando, superando mille ostacoli e allarmi degli scienziati, questo Ponte dovesse veramente essere costruito, resterebbe sullo Stretto come una protesi dentaria in una bocca sdentata. Il problema è che finora non è stato fatto nessuno studio serio, né una valutazione di impatto ambientale, né una stima dei costi per collegare il Ponte alla ferrovia e all’autostrada, da una parte e dall’altra dello Stretto. Che senso ha pensare di costruire un megaponte, a campata unica la più lunga del mondo, come sostengono orgogliosamente, senza porsi il problema del collegamento con la ferrovia e le autostrade lontane decine di chilometri dai tralicci del Ponte?

Finora l’opposizione a quest’opera di regime è stata portata avanti, oltre che dai movimenti ambientalisti, dal M5S, dai Verdi, da Unione Popolare e una minoranza Pd. I temi dell’opposizione sono concreti, ma deboli sul piano della comunicazione. Si dice e si scrive “bisogna completare prima la SS106, l’alta velocità ferroviaria, l’elettrificazione in Sicilia e sulla jonica calabrese dei collegamenti ferroviari, i depuratori, le strade di collegamento delle zone interne, il gravissimo dissesto idrogeologico, ecc. Sono tutte obiezioni giuste se si trattasse di una disputa accademica, ma si tratta di opporsi ad una scelta ideologica, che vogliono realizzare a tutti i costi anche lasciando per l’eternità i tralicci del Ponte che guardano le stelle.

La Destra risponde facilmente a queste critiche dicendo che proprio grazie alla costruzione del Ponte si faranno le altre opere accessorie. E, quel che è grave, stanno convincendo una parte rilevante dell’opinione pubblica nell’area dello Stretto.

Viceversa, se si spiegasse alla popolazione che non c’è nessun progetto per collegare il Ponte, che se venisse programmato un collegamento si dovrebbero fare colate di cemento sulle città che si affacciano su questo specchio d’acqua dove vive la Fata Morgana, dove chi arriva per la prima volta rimane incantato dallo spettacolo di Scilla e Cariddi, dalla vista contemporanea dell’Etna e delle isole Eolie, di Messina e Reggio, dei Peloritani e dell’Aspromonte. Chi può pensare di distruggere con decine di viadotti e gallerie questa meraviglia della Natura e parlare di transizione ecologica?

Se questo Ponte è green, come dice il ministro allora sarà costruito con cemento di cartapesta riciclata, perché diversamente, con cemento armato e collegato alle infrastrutture esistenti, richiederebbe tanto calcestruzzo e ferro, quanto ce ne vorrebbe per costruire ex novo una città di 700 mila abitanti, secondo una stima prudente. Senza considerare che ci troviamo di fronte ad aree ad altissimo valore naturalistico che verrebbero sfigurate dall’insana voglia di gloria di una brutta compagnia di ventura.

Ci si può chiedere il perché di tanto accanimento su quest’opera folle e devastante oltre che in gran parte irrealizzabile. La risposta è nel distretto degli acciai speciali di Brescia, nel business delle grandi imprese italiane delle costruzioni, a partire dalla Webuild S.p. A., già Salini-Impregilio, nelle macchine di movimento terra, ecc. Una domanda aggiuntiva per alcuni settori industriali del Nord Italia dove la Lega ha una buona parte del suo elettorato. Investire al Sud per creare domanda aggiuntiva al Nord, e se questo significa distruggere un ecosistema l’importante è usare la parola magica “un Ponte sostenibile!”

da “il Manifesto” del 18 marzo 2023

Il nuovo populismo responsabile delle stragi in mare.-di Luigi Ferrajoli

Il nuovo populismo responsabile delle stragi in mare.-di Luigi Ferrajoli

La tragedia delle 73 persone lasciate affogare in mare senza aiuti e le penose giustificazioni del governo ripropongono con forza la questione dei migranti. Al di là delle colpe specifiche delle nostre autorità per le omissioni di soccorso, sono le nostre leggi e il clima politico e culturale da esse generato le vere responsabili di queste catastrofi. Giorgia Meloni tenta di scaricare queste responsabilità sugli scafisti, predisponendo per loro pene fino a 30 anni e, soprattutto, sostenendo che occorre fermare i migranti, impedendo loro di partire.

Ignora, evidentemente, che migrare è un diritto fondamentale, stabilito dagli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani, dall’articolo 12 del Patto internazionale del 16 dicembre 1966 e perfino dall’articolo 35 della nostra Costituzione, e sarebbe perciò un illecito ostacolarne l’esercizio. Non solo. È anche il più antico dei diritti fondamentali, essendo stato proclamato fin dal 1539 da Francisco De Vitoria a sostegno della conquista del «nuovo mondo», quando erano solo gli europei a «emigrare» per colonizzare e depredare il resto del pianeta. Allora questo diritto fu accompagnato dal diritto di muovere guerra contro chiunque si fosse opposto al suo legittimo esercizio: cosa che fu fatta, con la distruzione delle civiltà precolombiane e il massacro di decine di milioni di indigeni.

Oggi che l’asimmetria si è capovolta e l’esercizio del diritto di emigrare è diventato la sola alternativa di vita per milioni di disperati che fuggono dai loro paesi, dapprima depredati dalle nostre conquiste e oggi sconvolti dalle guerre, dalla miseria e dallo sfruttamento determinati dalle nostre politiche, non solo se ne è dimenticato il fondamento nella nostra stessa tradizione, ma lo si reprime con la stessa ferocia con cui lo si brandì alle origini della ci viltà moderna a scopo di rapina e colonizzazione.

C’è d’altro canto un altro aspetto della politica migratoria di questo governo che ne segnala l’ostilità ai salvataggi in mare. Esso si è manifestato con il cosiddetto «decreto ong» dello scorso febbraio, che riprendendo la linea Salvini, condiziona l’abilitazione delle navi a salvare le persone in mare a una serie di insensati requisiti burocratici, introduce ostacoli ai salvataggi, come il divieto dei cosiddetti salvataggi multipli, e prevede, per i comandanti che violino queste assurde prescrizioni, sanzioni da 10 a 50.000 euro, il fermo per due mesi e, nei casi di reiterazione delle violazioni, la confisca della nave utilizzata per i salvataggi.

È un salto di qualità nelle forme stesse del populismo. Il vecchio populismo penale faceva leva sulla paura per la criminalità di strada e di sussistenza, cioè per fenomeni enfatizzati ma pur sempre illegali, onde produrre paura e ottenere consenso con misure inutili e demagogiche, ma pur sempre giuridicamente legittime, come gli inasprimenti delle pene decisi con i vari pacchetti sicurezza. Il nuovo populismo, al contrario, fa leva sull’istigazione all’odio e sulla penalizzazione di condotte non solo lecite ma eroiche, come i soccorsi in mare, al fine di ottenere consenso a misure esse stesse illegali, criminose e criminogene, come la chiusura dei porti più accessibili e la procurata omissione di soccorso.

Questo nuovo populismo sta producendo danni enormi al tessuto della nostra democrazia. Per la demagogia populista, che sempre ha bisogno di un nemico, il migrante impersona infatti il nemico ideale, a causa del latente razzismo che induce a percepirlo come persona inferiore e ontologicamente illegale. Si capisce così come il razzismo sia l’effetto, più che la causa, delle stragi in mare: è la «condizione», scrisse lucidamente Michel Foucault, che rende accettabile «la messa a morte» di una parte dell’umanità. Giacché solo il razzismo rende tollerabile che migliaia di persone affoghino ogni anno nel Mediterraneo.

Il risultato di queste pratiche spietate è l’abbassamento dello spirito pubblico. Il consenso da esse ottenuto è in realtà il segno del crollo del senso morale a livello di massa. Quando la disumanità, l’immoralità e l’indifferenza per le sofferenze sono ostentate dalle pubbliche istituzioni, esse non solo sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano. Non capiremmo, altrimenti, il consenso di massa di cui godettero il nazismo e il fascismo. Queste politiche inique, seminando la paura e l’odio per i diversi, svalutando i sentimenti elementari di uguaglianza e solidarietà, screditando la pratica del soccorso di chi è in pericolo di vita, stanno avvelenando le nostre società e deformando pesantemente l’identità democratica dell’Italia e dell’Europa.

da “il Manifesto” del 12 marzo 2023