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Il nuovo populismo responsabile delle stragi in mare.-di Luigi Ferrajoli

Il nuovo populismo responsabile delle stragi in mare.-di Luigi Ferrajoli

La tragedia delle 73 persone lasciate affogare in mare senza aiuti e le penose giustificazioni del governo ripropongono con forza la questione dei migranti. Al di là delle colpe specifiche delle nostre autorità per le omissioni di soccorso, sono le nostre leggi e il clima politico e culturale da esse generato le vere responsabili di queste catastrofi. Giorgia Meloni tenta di scaricare queste responsabilità sugli scafisti, predisponendo per loro pene fino a 30 anni e, soprattutto, sostenendo che occorre fermare i migranti, impedendo loro di partire.

Ignora, evidentemente, che migrare è un diritto fondamentale, stabilito dagli articoli 13 e 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani, dall’articolo 12 del Patto internazionale del 16 dicembre 1966 e perfino dall’articolo 35 della nostra Costituzione, e sarebbe perciò un illecito ostacolarne l’esercizio. Non solo. È anche il più antico dei diritti fondamentali, essendo stato proclamato fin dal 1539 da Francisco De Vitoria a sostegno della conquista del «nuovo mondo», quando erano solo gli europei a «emigrare» per colonizzare e depredare il resto del pianeta. Allora questo diritto fu accompagnato dal diritto di muovere guerra contro chiunque si fosse opposto al suo legittimo esercizio: cosa che fu fatta, con la distruzione delle civiltà precolombiane e il massacro di decine di milioni di indigeni.

Oggi che l’asimmetria si è capovolta e l’esercizio del diritto di emigrare è diventato la sola alternativa di vita per milioni di disperati che fuggono dai loro paesi, dapprima depredati dalle nostre conquiste e oggi sconvolti dalle guerre, dalla miseria e dallo sfruttamento determinati dalle nostre politiche, non solo se ne è dimenticato il fondamento nella nostra stessa tradizione, ma lo si reprime con la stessa ferocia con cui lo si brandì alle origini della ci viltà moderna a scopo di rapina e colonizzazione.

C’è d’altro canto un altro aspetto della politica migratoria di questo governo che ne segnala l’ostilità ai salvataggi in mare. Esso si è manifestato con il cosiddetto «decreto ong» dello scorso febbraio, che riprendendo la linea Salvini, condiziona l’abilitazione delle navi a salvare le persone in mare a una serie di insensati requisiti burocratici, introduce ostacoli ai salvataggi, come il divieto dei cosiddetti salvataggi multipli, e prevede, per i comandanti che violino queste assurde prescrizioni, sanzioni da 10 a 50.000 euro, il fermo per due mesi e, nei casi di reiterazione delle violazioni, la confisca della nave utilizzata per i salvataggi.

È un salto di qualità nelle forme stesse del populismo. Il vecchio populismo penale faceva leva sulla paura per la criminalità di strada e di sussistenza, cioè per fenomeni enfatizzati ma pur sempre illegali, onde produrre paura e ottenere consenso con misure inutili e demagogiche, ma pur sempre giuridicamente legittime, come gli inasprimenti delle pene decisi con i vari pacchetti sicurezza. Il nuovo populismo, al contrario, fa leva sull’istigazione all’odio e sulla penalizzazione di condotte non solo lecite ma eroiche, come i soccorsi in mare, al fine di ottenere consenso a misure esse stesse illegali, criminose e criminogene, come la chiusura dei porti più accessibili e la procurata omissione di soccorso.

Questo nuovo populismo sta producendo danni enormi al tessuto della nostra democrazia. Per la demagogia populista, che sempre ha bisogno di un nemico, il migrante impersona infatti il nemico ideale, a causa del latente razzismo che induce a percepirlo come persona inferiore e ontologicamente illegale. Si capisce così come il razzismo sia l’effetto, più che la causa, delle stragi in mare: è la «condizione», scrisse lucidamente Michel Foucault, che rende accettabile «la messa a morte» di una parte dell’umanità. Giacché solo il razzismo rende tollerabile che migliaia di persone affoghino ogni anno nel Mediterraneo.

Il risultato di queste pratiche spietate è l’abbassamento dello spirito pubblico. Il consenso da esse ottenuto è in realtà il segno del crollo del senso morale a livello di massa. Quando la disumanità, l’immoralità e l’indifferenza per le sofferenze sono ostentate dalle pubbliche istituzioni, esse non solo sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano. Non capiremmo, altrimenti, il consenso di massa di cui godettero il nazismo e il fascismo. Queste politiche inique, seminando la paura e l’odio per i diversi, svalutando i sentimenti elementari di uguaglianza e solidarietà, screditando la pratica del soccorso di chi è in pericolo di vita, stanno avvelenando le nostre società e deformando pesantemente l’identità democratica dell’Italia e dell’Europa.

da “il Manifesto” del 12 marzo 2023

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?

È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?

In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?

L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è condotta dalla giunta regionale e dal governo, ma il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa, ma sarebbe assurdo che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non potesse esercitare poteri decisionali su una questione che investe l’interesse generale.

Tali dubbi procedurali potrebbero essere risolti da una legge di attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione?

È quello che vorrebbe fare il governo con la proposta di legge Calderoli, per la quale il Parlamento può esprimere solo un indirizzo. Tuttavia, poiché l’intesa Stato-regione va approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può stabilire come quella legge dovrà essere approvata: fonti del diritto dotate di pari forza non possono prevalere l’una sull’altra. Solo una legge costituzionale, dotata di forza superiore, potrebbe vincolare la legge di approvazione dell’intesa.

Ma allora la proposta Calderoli non è vincolante nemmeno nella parte in cui stabilisce che prima dell’attribuzione delle nuove competenze alle regioni occorre approvare i livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti civili e sociali?

Esatto: le nuove competenze potrebbero comunque essere attribuite alle regioni anche senza i lep.

A proposito di lep: come e quando saranno individuati?
La legge di bilancio 2023 prevede i seguenti passaggi, da realizzarsi in un anno: (1) la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa) formula una prima ipotesi di lep; (2) la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico; (3) la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) e il Parlamento forniscono il loro parere; (4) il Presidente del Consiglio approva i lep con dPcm.

È una procedura costituzionalmente corretta?

No, la Costituzione attribuisce il compito di definire i lep al Parlamento in tutte le materie, invece lo farà il governo e solo in alcune materie. Inoltre, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che sarà il bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario (come dice la sentenza 275/2016 della Corte costituzionale).

Dai lep dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze?

No, tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione del residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere parte delle risorse versate al fisco. È una rivendicazione illogica, perché a pagare le tasse sono le persone (non le regioni) sulla base del loro reddito (non del luogo di residenza). Ed è incostituzionale, perché gli articoli 2 e 53 della Costituzione sanciscono la solidarietà economica e tributaria a livello nazionale.

Ma, allora, definire i lep a cosa serve?

Dai lep dovrebbe dipendere il livello minimo di finanziamento assegnato ugualmente a tutte le regioni, in modo che tutte possano offrire le medesime prestazioni di base. Ma c’è poco da illudersi: in sanità i lep già esistono e, tuttavia, l’ammontare del finanziamento e la qualità delle prestazioni sono tutt’altro che uniformi.

Quali regioni hanno sinora manifestato l’intenzione di avvalersi dell’autonomia differenziata?

Tutte le regioni ordinarie, tranne Abruzzo e Molise. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le più avanti nelle trattative con il governo, al punto da aver sottoscritto una bozza d’intesa.

Quali sono, secondo tali bozze d’intesa, le competenze che verranno attribuite alle tre regioni?

Sono competenze amplissime: il governo della sanità e della scuola; fondi integrativi per università e ricerca; la regionalizzazione dei musei; l’organizzazione della giustizia di pace; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale; il controllo di porti e aeroporti; la protezione civile; il ciclo dei rifiuti; le semplificazioni amministrative in edilizia; l’energia; ecc. Il Veneto vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, il reclutamento dei Vigili del Fuoco… L’Emilia-Romagna è più prudente, ma ugualmente incisiva: per esempio, non chiede il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Come fermare l’autonomia differenziata?

La via maestra sarebbe eliminare dalla Costituzione l’ipotesi stessa. Più realisticamente, si potrebbe modificare l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, riducendo il numero di materie richiedibili dalle regioni, introducendo una clausola di supremazia statale e prevedendo la possibilità di referendum approvativo e abrogativo per la legge di recepimento dell’intesa (come propone il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale con una legge di iniziativa popolare che si può sottoscrivere qui). Al minimo, bisognerebbe valorizzare il principio che tutela l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e, dunque, ritenere incostituzionali le richieste regionali – come quelle di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – prive di una dimostrata esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.).

da “il Manifesto” del 4 febbraio 2023