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Se il presente aiuta a capire il passato.-di Battista Sangineto

Se il presente aiuta a capire il passato.-di Battista Sangineto

A seguito di un Convegno svoltosi a San Giovanni in Fiore nel gennaio del 2023 sono stati appena pubblicati gli Atti del simposio, a cura di Pia Tucci con un’introduzione di Vittorio Cappelli, dedicato alla figura di don Luigi Nicoletti, nato nel centro silano. Il Convegno, organizzato dalla Fondazione Heritage Calabria presieduta da Salvatore Belcastro, ha ospitato alcuni oratori che hanno analizzato da diverse prospettive la vita e l’opera di questo religioso che fu anche un giornalista acuto e agguerrito e un politico battagliero.

Luigi Nicoletti nasce in una famiglia borghese di S. Giovanni in Fiore nel 1883 e la sua vita, come ben scrive Lorenzo Coscarella nel saggio iniziale, attraversa tre fasi fondamentali. Una prima fase che va dalla formazione e ordinazione, avvenuta nel 1906, fino alla nascita del Partito Popolare; una seconda che è quella degli anni del contrasto con il fascismo e la direzione del periodico diocesano “Parole di Vita” e del suo allontanamento dalla Calabria; una terza ed ultima fase che parte dalla fondazione della Dc, nel 1943, fino alla sua morte avvenuta nel 1958.

Nel corso della sua formazione è di particolare importanza, sia per il sacerdozio sia per la politica, l’incontro, nel 1902, con don Carlo De Cardona che lo mise in contatto con i cattolici impegnati in politica vicini a Romolo Murri, un sacerdote formatosi culturalmente alla Sapienza anche con Antonio Labriola.

L’impegno dei cattolici nel sociale, come ricorda nel suo lucido e interessantissimo contributo Paolo Palma, origina da papa Leone XIII che nel 1891 pubblica l’enciclica “Rerum novarum. Sulla Questione Operaia”. Papa Pecci intuisce che la Chiesa deve stare con le masse dei lavoratori, con gli operai anche perché il socialismo, ateo, avanzava e la Chiesa non si occupava dei più poveri come avrebbe dovuto e, per questi motivi, scrive l’enciclica che fonda la dottrina sociale della chiesa.

L’interprete più appassionato della dottrina sociale della Chiesa è don Murri che fonda una prima Democrazia cristiana che però viene fermata prima da Pio IX, e poi dallo stesso papa Leone XIII per rispettare il “non expedit”, la disposizione della Santa Sede del 1868 con la quale si dichiarava inaccettabile che i cattolici partecipassero alle elezioni e alla vita politica del Regno.

Nicoletti si allontana abbastanza presto da questa visione sociale e di classe di Murri e di De Cardona maturando, invece, una sua propria impostazione socio-politica interclassista e liberal-democratica e, come don Sturzo, sostiene che le Leghe del lavoro cattoliche debbano aprirsi alla borghesia.

In quegli anni avvia la sua attività di pubblicista nei giornali cattolici locali che, come ricorda Saverio Basile, lo appassiona molto e viene chiamato ad insegnare materie letterarie nel Liceo Classico Telesio e, nello stesso periodo, intraprende la sua attività politica fondando, a S. Giovanni in Fiore, la Cassa Rurale, la Lega del lavoro e un ricreatorio per i ragazzi. Nel 1910 si candida e viene eletto nel Consiglio provinciale di Cosenza.

A Roma, intanto, nel 1919 don Sturzo fonda il Partito popolare che a Cosenza trova molte adesioni, soprattutto per merito di De Cardona, e già nel febbraio dello stesso anno viene fondata in città una sezione del Partito della quale Nicoletti diviene segretario.

L’energico sacerdote scrive sui giornali facendo polemiche politiche con i socialisti arrivando a scrivere su “L’Unione” che “la lotta finale sarà tra noi e il socialismo o l’anarchia”, anche se dopo l’assassinio di Matteotti si dichiara un irriducibile oppositore del regime fascista. Dal 1925 scrive sul periodico diocesano “Parole di Vita” e, dal 1936, ne diventa direttore facendolo diventare una voce relativamente libera nell’ambito locale.

Nel 1938, a seguito di suoi ripetuti attacchi contro le leggi razziali fasciste, Nicoletti è costretto a lasciare la direzione del periodico e anche l’insegnamento al Telesio per andare ad insegnare in un liceo pugliese, a Galatina, per un anno.

Già nell’ottobre del 1942 partecipa alle prime riunioni clandestine del CLN cosentino e nel 1943 torna a far politica alla luce del sole. Nicoletti, con il suo allievo Gennaro Cassiani, è il principale artefice della nascita della Democrazia cristiana a Cosenza, una delle prime sezioni in Italia a costituirsi formalmente. Don Luigi Nicoletti è stato il capo indiscusso della Dc dal 1943 fino al 1953, nonostante i contrasti interni che spesso risolveva dimettendosi e ritirando le dimissioni.

Dirige la Dc cosentina assumendo posizioni pubbliche molto battagliere e polemiche con gli avversari politici sin dal 1945 quando, per esempio, si vanta di esser riuscito “…a liberare la Prefettura dalla dittatura manciniana” e ottenere un sottosegretario, Cassiani, che “neutralizza in qualche modo lo strapotere dei socialcomunisti”.

Nel 1953 viene sconfitto in Congresso a causa dei dissapori nella Dc nella quale ha attecchito secondo le sue parole “la mala pianta che aduggia la vita del partito”. L’instancabile sacerdote, però, non si ferma tanto che nel 1954 viene eletto Consigliere provinciale e Assessore all’assistenza sociale e nel 1956 in un discorso all’Assemblea provinciale dice: “ho combattuto tutta la vita -pagando di persona- la dittatura fascista e quella comunista (sic!). È chiaro che non potrei a lungo sottostare a una dittatura casalinga!”.

Nicoletti muore nel 1958 nell’Ospedale civile di Cosenza.
Questo intenso e vivido racconto della storia umana, politica e culturale di don Luigi Nicoletti ci aiuta a comprendere meglio la complessità e la diversità delle anime di quel gran partito che fu la Dc e le sue successive trasformazioni nella cosiddetta Seconda Repubblica, a Roma e a Cosenza. Da una parte i cattolici liberaldemocratici e conservatori come Nicoletti e dall’altra i cattolici sociali e progressisti come De Cardona.

da “il Quotidiano del Sud” del 20 marzo 2024

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

La Calabria è ammalata di un tumore inestirpabile e incurabile che ha metastatizzato tutto il suo già povero e martoriato corpo: il cemento armato.

Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT, un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. La nostra regione è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.

Senza (poter) contare (letteralmente) le case non accatastate che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate, in Calabria, quelle totalmente sconosciute al fisco e al catasto, erano 143.875. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha verificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri.

In Calabria, dunque, c’è una casa, spesso abusiva, ogni 1,3 calabrese che, tradotto in termini di consumo del suolo, significa che il cemento ha irreversibilmente coperto e impermeabilizzato ogni lembo pur vagamente edificabile della regione.

Sono ancora i dati dell’ISTAT del 2023 che lo dimostrano in maniera inequivocabile ed inesorabile per mezzo della misurazione del consumo di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Nel 1982 la SAU ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.
Posso affermare, senza tema di smentita, che il paesaggio rurale e urbano calabrese è, ormai, irrimediabilmente sfigurato e la quantità e la natura degli scempi edilizi consumati negli ultimi anni nelle città, nelle campagne e in riva al mare non fanno altro che porre il suggello all’avvenuto disastro.

Si può parlare di estremo disordine territoriale guardando, ancora, agli impressionanti dati delle città calabresi. Esaminiamo, (come ha già fatto Davide Scaglione su questo giornale), la cosiddetta area urbana cosentina che ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza ha il 20,7% di case vuote perché, a fronte di 36.591 abitazioni per 63.743 abitanti (una ogni 1,7 cosentini), ben 7.561 case sono vuote; Rende con 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ha il 17% di case vuote che sono 4.931; Montalto Uffugo ha il 14, 4% di case che non sono occupate permanentemente, 1.438, a fronte di un totale di 9.966 case e quasi 20.000 abitanti. In questa area urbana- se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero- ci sono, ‘incredibile dictu’, 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole, grazie ai PSC (Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende, colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

Abbiamo necessità, davvero, che si costruisca ancora a Vibo Valentia che nl suo territorio comunale ha 18.697 case, per 33.742 abitanti, delle quali ben 5.844 sono vuote? È indispensabile continuare a costruire palazzi a Reggio Calabria che, per 182.551 residenti, ha 100.960 abitazioni di cui 26.758 (quasi il 27%!) sono vuote? Si vuole continuare a costruire a Catanzaro sul cui territorio insistono, per 90.240 residenti, 46.783 abitazioni delle quali ben 11.035 non sono occupate? O si vuole colare cemento a Crotone che ha, per 58.288 abitanti, già 28 490 case di cui 4.931 vuote?

Davvero abbiamo bisogno di nuove abitazioni, di nuovi palazzi più grandi e più alti nelle nostre città senza verde e sempre più senza alberi perché moltissimi vengono tagliati anche per farne biomasse?

E, infine, a cosa servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050?

Già mi par di sentirli i retori paesani che insorgeranno, indignati, gridando che in quella loro località, in quella loro valle o in quel loro tratto di costa il paesaggio e/o il mare sono incontaminati, ma questo, anche se fosse vero, non cambierebbe il quadro di forte ed irreversibile degrado complessivo della regione.

La cementificazione dei territori calabresi per ironia della sorte, o forse per una qualche nemesi metastorica, ha sgretolato uno dei capisaldi della “calabresità” quale s’era stratificata nell’anima dei calabresi: lo strettissimo rapporto natura/primitività accreditato con forza, per esempio, da Corrado Alvaro. La natura intesa come scaturigine di vitalità, di primitività positiva per lo spirito umano dei calabresi. Con la sostanziale scomparsa del paesaggio naturale, avvenuta nel breve volgere di tre o quattro decenni, è stato scardinato anche questo nesso psicologico d’identità.

Come si può spiegare in maniera diversa -per fare un esempio recente sollevato su questo giornale da Giuseppe Smorto- il disinteresse per quel gioiello di invenzione naturalistica del Villaggio ex Valtur a Nicotera progettato da uno dei più importanti paesaggisti italiani, Pietro Porcinai?

La Regione Calabria avrebbe dovuto approvare una legge paesaggistica, come disposto dal D.L. 2004/42, che avrebbe potuto mettere ordine e porre un freno alla cementificazione, ma la legge regionale presentata il 7 luglio 2022, n.5 presentava pesanti criticità sollevate dal MiC ed è stata ripresentata, dopo una sostanziale revisione concordata fra Ministero e Regione, come legge regionale 127/2022 depositata per l’esame in Consiglio regionale il 17.11.2022. ma, a tutt’oggi, non approvata. Cosa aspetta la Regione a promulgare questa legge che ha per titolo “Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione ed il riuso”?

Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una sembianza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento, sull’edificazione, sul consumo del suolo a fini di speculazione privata incontrollata. Sono stati capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.

Sull’apparente sinonimia di sviluppo e progresso Pasolini, negli ‘Scritti Corsari’ scriveva: “Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo sviluppo è, invece, un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una sincronia tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo”.

Una sincronia che, in Calabria, non c’è mai stata e, fondatamente, dubito che mai potrà esserci.

dal “il Quotidiano del Sud” del 27 febbraio 2024
foto Ansa

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Si fermino i Saturnali in Calabria.-di Battista Sangineto

Si fermino i Saturnali in Calabria.-di Battista Sangineto

I Saturnali erano una festa popolare -diffusa in tutto il mondo romanizzato a partire dal V secolo a.C. fino all’affermarsi del cristianesimo- che si celebrava tutti gli anni, dal 17 al 23 dicembre. Una festa sfrenata durante la quale gli schiavi godevano delle stesse libertà dei cittadini liberi perché, per esempio, erano autorizzati al gioco d’azzardo, ad ubriacarsi in pubblico e a sbarazzarsi del decoro che dovevano avere in qualsiasi altro momento dell’anno.

Dedicata a Saturno, la festa prevedeva una serie di banchetti ufficiali e, anche, di banchetti privati nelle abitazioni nelle quali s’invitavano parenti ed amici e che, spesso, degeneravano in orge e crapule: a tavola s’imbandiva quanto di meglio potevano produrre le cucine e le cantine, e dopo ci si abbandonava al giuoco dei dadi che le leggi proibivano negli altri giorni. I Saturnali costituivano, insomma, una valvola di sfogo ideata dall’élite romana per allentare le pressioni sociali ed economiche che si andavano creando nel corso dell’anno.

Dagli anni ’10 di questo secolo si è imboccata, a Cosenza come in molte altre città calabresi e italiane, la medesima strada dei Saturnali della Roma antica che si festeggiano con fiumi di alcol e musica a volume intollerabile dalla vigilia di Natale fino al primo dell’anno. Un delirio che tocca l’acmé il 24 e la notte di Capodanno lasciando dietro di sé ‘giovani’ di tutte le età ubriachi fino al coma etilico da Pronto soccorso, strade lastricate di immondizia e di bottiglie vuote, statue e monumenti imbrattati, arredi urbani sfasciati e divelti. Molti cosentini e calabresi avranno visto, e udito, di persona o le immagini dei Saturnali in corso di svolgimento e le conseguenze che ne sono derivate.

Sono convinto che le Amministrazioni, le Forze dell’ordine e le Prefetture debbano intervenire per prevenire ed impedire questo collettivo comportamento incivile e pericoloso.
Pericoloso per la salute pubblica perché il 118 è dovuto, a Cosenza per esempio, intervenire decine di volte a causa del grave stato di ubriachezza di cittadini, soprattutto giovani, che in alcuni casi sono stati trasferiti al Pronto Soccorso. Pericoloso per gli altri cittadini, sobri, che sono stati molestati e sbeffeggiati dai cittadini ubriachi mentre passeggiavano o mentre percorrevano alcune strade, ancora più pericoloso, in auto.

Incivile perché non si può permettere un disturbo della quiete pubblica, durato ore e ore, dovuto alla musica ad altissimo volume e alle schiere di cittadini ubriachi che schiamazzano, cantano e urlano senza che nessuno vi abbia posto rimedio.

In moltissime città italiane i Sindaci hanno emesso ordinanze che vietano la distribuzione di alcol e la diffusione di musica all’esterno per tutta la durata delle festività. Mi piacerebbe che i Sindaci e i Commissari delle città calabresi facessero altrettanto per far rispettare le elementari regole del decoro e del rispetto della quiete pubblica. In ogni caso si deve far osservare, con rigore, il divieto di vendere alcolici ai minorenni che sembrano essere i più fragili e i più attratti dal ‘cupio dissolvi’ etilico.

Sono convinto che l’avere imboccato, da più di 10 anni, la strada dei Saturnali non sia stato né bello né buono (mi si passi la parafrasi di uno slogan di qualche anno fa), ma che il continuare a seguirla favorisca solo l’ulteriore involgarimento e impoverimento culturale e civile delle città e dei cittadini.

Sono, altresì, convinto che agevolare e promuovere, durante tutto l’anno, una perenne movida per compiacere esercenti e ‘giovani’ di tutte le età, non solo non sia rispettoso della vita dei cittadini che non partecipano assiduamente a queste feste mobili, ma anche che la movida non porti ad alcun vantaggio economico e/o occupazionale a breve o medio termine e, meno che mai, ad un aumento del turismo, come è dimostrato dalle più recenti indagini socio-economiche (G. Bei-F. Celata 2023).

da “il Quotdiano del Sud” del 30 dicembre 2023

C’era una volta un bel Castello.-di Battista Sangineto

C’era una volta un bel Castello.-di Battista Sangineto

“L’intellettuale è colui il quale si occupa di ciò che non lo riguarda. Non è uno specialista, che difende affari di clan o di partito, e neanche un tuttologo che si improvvisa esperto in ogni campo, ma è un eterno apprendista…”(J.P. Sartre). Ciò premesso, ora voglio raccontarvi una storia.

C’era una volta un bel Castello che dominava, dall’alto, la città adagiata sul fianco della collina affacciata sulla vallata del fiume più grande della regione. Il Castello era, come si conviene ad ogni edificio del suo genere, maestoso e minaccioso: aveva le sue altissime e inaccessibili mura, le sue torri ai quattro lati (una era però crollata nei secoli), le sue sale lussuose e i suoi alloggiamenti militari, la sua Piazza d’Armi e tutto, tutto quello che ne faceva proprio un bel Castello.

Il Castello, come la città, era antico, talmente antico che, probabilmente, le sue fondamenta e molte delle pietre e dei conci di cui era composto risalivano a quattro secoli prima della nascita di Cristo. Il Castello aveva avuto, come la città ai suoi piedi, una vita lunga, complicata e segnata dalle vicende storiche; una vita durante la quale aveva subìto demolizioni e ricostruzioni, rifacimenti e riusi, superfetazioni e restauri che ne avevano, inevitabilmente, trasformato, ma non trasfigurato il volto: era, fino a pochi anni or sono, il Castello di Cosenza. Oh che bel castello marcondiro ‘ndiro ‘ndello,/oh che bel castello marcondiro ‘ndiro ‘ndà!

Un bel Castello che ora, però, non c’è più a causa dei “restauri” effettuati: è stato trasformato in una piattaforma dilancio per un improbabile Sputnik-ascensore a sezione quadrata che, tozzo e incongruo, svetta, quasi al centro del monumento, come il manufatto più alto dell’intera città. Uno Sputnik, dall’anima metallica rivestita da pannelli tinteggiati di beige, che sembra in procinto di essere lanciato nello spazio profondo. La tragedia consiste nella consapevolezza non solo che alla guida del missile non c’è Gagarin, ma soprattutto che, purtroppo, rimarrà ben piantato a terra, all’interno e al centro di quel che rimane della settecentesca residenza dell’Arcivescovo. Non si poteva costruirlo, per esempio, al posto della torre sud-ovest che è mancante o, perlomeno, in prossimità di quest’ultima, tanto più che sarebbe stato appoggiato a murature ben più tarde e corrive?

Se lo Sputnik-ascensore appare come il corpo estraneo più evidente rispetto al complesso monumentale, ancor più, se possibile, dissonante e invasiva è la copertura a piramidi, realizzate con costolature in vetro e acciaio, che copre, opprimendola, la Sala d’Armi che, da tempo immemorabile, era priva di tetto. Come nel caso di Piazzetta Toscano, la copertura, ancorata per mezzo di staffe e putrelle profondamente inserite nei muri e poi cementate, interviene in maniera irreversibile sulle murature antiche al fine, in questo caso, di creare un solo, inutile, ambiente coperto.

Si è voluto approntare una voliera per ricoverare eventuali, smarriti, discendenti dei falchi così cari a Federico II di Svevia o, come sembra più probabile, si è voluto allestire una sala per “sponsali”, avendo provveduto a pavimentarla con levigate lastre di pietra di San Lucido? E ancora, le obbligatorie, per legge, rampe di accesso dall’esterno bisognava necessariamente costruirle lasciando a vista la muratura rustica, in pietre di varie dimensioni, come se fosse il muro di cinta di una villetta al mare? E che dire degli improbabili infissi, in metallo brunito, di porte e finestre?

Da archeologo, e da stratigrafo degli elevati che insegna e lavora presso l’Unical, mi chiedo, inoltre, se sia mai stata condotta una propedeutica analisi storica, architettonica ed archeologica di un così importante, articolato e pluristratificato monumento. Mi chiedo anche se la società che si è aggiudicata l’appalto di restauro del Castello, abbia elaborato e fornito una relazione sui risultati di una eventuale indagine archeologica. Scavo archeologico che si rendeva indispensabile per confermare o smentire le ipotesi storico-archeologiche più accreditate che individuano in quel luogo il sito della prima fortificazione dei “Brettii”, nel IV secolo a.C. Sono state trovate tracce della roccaforte bruzia e di quella, successiva, romana della cui presenza ci testimoniano, indirettamente, le fonti letterarie greche e latine? È stata datata, sulla base delle stratigrafie archeologiche, la fondazione, nelle sue forme attuali, del Castello?

È stata eseguita un’analisi dell’intero sistema murario per mezzo di analisi condotte, si fanno regolarmente all’Unical, con strumenti diagnostici avanzati? È stata fatta una previsione e, di conseguenza, un’attuazione degli interventi consolidativi necessari, atteso che il monumento presenta numerosi problemi statici? In quale modo la società aggiudicataria del già discusso appalto di gestione del Castello riuscirà a valorizzarlo, senza questi indispensabili dati storici? Oppure si da già per scontato che la valorizzazione si ridurrà all’organizzazione di feste e di happy hour “nella splendida cornice del Castello svevo di Cosenza”? Tutte queste domande hanno come destinatari anche la competente Soprintendenza BAP e l’allora Direzione Regionale BB.CC.

Mentre si riapriva il Castello, dotato di bar e divanetti bianchi disseminati nell’antica Piazza d’Armi, il centro storico continuava ad implodere, a scomparire, tanto che la sera stessa dell’inaugurazione è venuto giù un altro importante brandello architettonico della nostra storia in Via Abate Salfi, vicino alla “Ficuzza”. Credo che non si possa più sopportare un simile degrado delle forme architettoniche e urbanistiche, ma anche delle forme sociali e culturali storicamente depositatesi nel centro storico di Cosenza.

Cari concittadini bisogna cambiar radicalmente pagina, bisogna che ci si risvegli e che come cittadini, come popolo di questa città si abbia, tutti insieme, come principale obiettivo e alta ambizione il restauro ed il recupero pieno del nostro centro storico. Il popolo di questa città deve prendersi la responsabilità di immaginare e portare a termine un ambizioso e poderoso progetto di restauro strutturale che riporti alla vita la Cosenza storica che dovrebbe e che dovrà rappresentare il volto e la traduzione in pietra e mattoni proprio del popolo che la abita, la conserva e la trasforma.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 giugno 2015
foto di Battista Sangineto

Assemblea di “Diritto alla città” a Cosenza.

Assemblea di “Diritto alla città” a Cosenza.

Sabato 18 novembre si è tenuta, nell’Aula magna dell’Istituto Nitti di Piazza Cappello a Cosenza, l’Assemblea pubblica organizzata dal Coordinamento “Diritto alla città” avente per tema la richiesta di “Vincolo paesaggistico” per la città otto-novecentesca avanzata dal suddetto Coordinamento al Ministero della Cultura. Il Coordinamento ha chiesto, per mezzo del “Vincolo paesaggistico”, di porre un argine all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi e che si manifesta non solo nella demolizione di edifici storici e di ricostruzioni con abnormi aumenti di volumetria, ma anche con l’edificazione ex novo di palazzoni nelle aree non ancora edificate soprattutto sulle rive del Crati.

Gli organizzatori dell’incontro hanno sottolineato che queste nuove colate di cemento non solo deturpano gli armonici quartieri storici del Centro cittadino e consumano il suolo nelle aree libere, ma sono del tutto ingiustificate, anche economicamente, visto che è documentato, dati Istat e Ispra, un continuo e deciso calo demografico nella città (a fronte di 6.402 edifici esistenti, 500 sono vuoti) e della Regione (1.243.643 alloggi di cui 482.736 vuoti).

Nel corso dell’Assemblea -molto affollata, attenta e partecipativa- è stata data lettura della risposta che il Direttore generale del MiC, dott. Luigi La Rocca, ha inviato, per conoscenza al Coordinamento e al Sindaco Franz Caruso, ma indirizzata al Segretario regionale calabrese e alla Soprintendenza Abap di Cosenza alla quale “…si chiede di voler fornire, con ogni consentita urgenza, elementi utili a verificare la portata delle trasformazioni in atto nell’area segnalata …. valutando la possibilità di estendere ulteriormente il dispositivo di tutela all’area segnalata, per la cui precisa individuazione si rimanda alla documentazione allegata dall’istante (il Coordinamento), anche in considerazione della sua vicinanza al corso del fiume Crati”.

Al Segretario regionale, invece, scrive che “si ritiene opportuno richiamare – più in generale oltre al caso de quo – l’intensa attività di interlocuzione condotta da questo Ministero nei confronti della Regione Calabria che ha condotto ad una serie di confronti tecnici, tesi a risolvere le pesanti criticità puntualmente individuate nella legge regionale 7 luglio 2022, n. 25 (Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione e il riuso), attraverso una revisione sostanziale del disegno normativo, condivisa tra Regione e Ministero, infine convogliata nella proposta di legge regionale n. 127/2022, depositata in Consiglio Regionale per l’esame di merito, ormai un anno fa, in data 17/11/2022.

Per tutto quanto sopra, ribadendo la necessità e l’urgenza che la corrente attività edilizia sia ricondotta, nella città di Cosenza come in tutta la Regione Calabria, entro un sistema di regole idonee a garantire l’equilibrato sviluppo del territorio ed il sostanziale rispetto dei valori storici-paesaggistici, si rinnova a codesto Segretariato regionale del MiC l’invito a fornire eventuali aggiornamenti sull’iter di approvazione della suddetta proposta di legge, intraprendendo, se necessario, formali contatti con i preposti uffici dell’ente regionale”.

Sulla base della risposta del MiC e, soprattutto, sulla base della spinta calorosa data al Coordinamento dai cittadini nel corso dell’Assemblea, si è proposto di organizzare una seconda Assemblea da tenersi nelle prossime settimane in preparazione di un confronto pubblico che si chiederà di avere con il Sindaco di Cosenza per discutere non solo del Vincolo –che, si auspica, vorrà apporre a brevissimo la Soprintendenza Abap di Cosenza-, ma anche, prima che sia approvato in via definitiva dal Consiglio Comunale, del Piano Strutturale Comunale (PSC), per suscitare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Richiesta di vincolo paesaggistico per la città di Cosenza. Le adesioni all'iniziativa del 18 novembre 2023.

Richiesta di vincolo paesaggistico per la città di Cosenza. Le adesioni all'iniziativa del 18 novembre 2023.

I sottoscritti aderiscono all’iniziativa, di sabato 18 novembre 2023 a Cosenza, promossa dal Coordinamento delle Associazioni civiche “Diritto alla città” che chiede di apporre un vincolo paesaggistico alla porzione otto-novecentesca della città che ha, ormai, più di 100 anni e che riveste un notevole interesse pubblico di carattere urbanistico e architettonico -il quartiere fine ‘800-inizi ‘900 della Riforma, Corso Umberto, Viale Trieste e tutto l’armonioso quartiere degli anni ’30 del ‘900 che si sviluppa intorno a Piazza Cappello e Piazza XXV luglio- e anche alle rive destra e sinistra del Crati per ragioni ambientali e archeologiche perché nell’area del probabile tracciato dell’antica via consolare romana, ‘ab Regio ad Capuam’, detta Annia-Popilia.

I sottoscritti sostengono le azioni del Coordinamento che vuole ripensare la città e rinvigorire e rafforzare la consapevolezza che sono i cittadini gli unici titolari del diritto alla città. Cittadini che, insieme, devono avere il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le nostre città vengono costruite e ricostruite. Bisogna farlo perché, come scrive David Harvey (2016), il diritto alla città “… non può essere ridotto a un diritto individuale di accesso alle risorse concentrate nella città stessa … perché è un diritto collettivo più che soggettivo, in quanto, per cambiare la città, è necessario esercitare un potere collettivo sul processo di urbanizzazione”.

I sottoscritti, consapevoli della rapidità e della consistenza della speculazione edilizia che si è abbattuta sulla città di Cosenza negli ultimi anni, sostengono con forza la lotta intrapresa dal Coordinamento “Diritto alla città” che -come primo passo concreto per porre un argine alla cementificazione ed alla disarticolazione del tessuto urbano, sociale ed economico cosentino- chiede al Ministero della Cultura ed alla Soprintendenza Abap di Cosenza una “Dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136, Comma 1 Lett. C, D.L. n. 42/2004 e S.M.I.” per l’ambito territoriale descritto e delimitato dal suddetto Coordinamento e da noi sinteticamente sopra riportato.

Irene Berlingò, archeologa; Piero Bevilacqua, storico; Roberto Budini Gattai, urbanista; Pierluigi Caputo, archeologo; Ottavio Cavalcanti, antropologo; Domenico Cersosimo, economista; Mariafrancesca D’Agostino, sociologa; Amedeo di Maio, economista; Piero Guzzo, archeologo; Ferdinando Laghi, medico, ambientalista e consigliere regionale; Sergio Nucci, medico; Enzo Paolini, avvocato costituzionalista; Rita Paris, archeologa; Tonino Perna, economista; Battista Sangineto, archeologo; Salvatore Settis, archeologo; Enzo Scandurra, urbanista; Lucinia Speciale, storica dell’arte; Armando Taliano Grasso, archeologo; Vito Teti, antropologo; Alberto Ziparo, urbanista; Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, Roma; Osservatorio del Sud, Cosenza.

Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”

Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”

La città di Cosenza ed il suo paesaggio sono sotto assalto da molto tempo, ma negli ultimi mesi ed anni l’attacco si è fatto più duro, forse è quello finale, quello all’ultimo metro cubo di cemento armato. Un assalto che è rivolto sia alla città antica, a monte, sia alla città otto-novecentesca, a valle. E se il Centro storico è, in teoria, ‘protetto’ da un vincolo diretto con il D.M. del 15.07.1969, poi ampliato a tutte le colline circonvicine nel 1992, la città fine ‘800-primi del ‘900 è priva, se si escludono limitate porzioni confinanti con il Centro storico, di questa dovuta tutela da parte del Ministero della Cultura.

La speculazione edilizia ha iniziato ad aggredire le aree più nobili dei quartieri vallivi con abbattimenti di edifici centenari e ricostruzioni di orribili, enormi e altissimi palazzi di cemento armato che occupano più di 2 o 3 volte la cubatura precedente, in particolare nei quartieri di Via Rivocati e di Piazza Santa Teresa.

L’attacco finale è stato, dunque, sferrato in primo luogo contro i titolari del diritto alla città: i cittadini. Noi cittadini delle Associazioni civiche cosentine-Associazione Riforma-Rivocati APS, Ri-ForMap APS, Ciroma, Civica Amica, ResponsabItaly APS, Comitato Piazza Piccola- costituitici in un Coordinamento denominato Diritto alla città abbiamo deciso di smetterla di subire. Reclamiamo il diritto alla città, rivendichiamo il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le nostre città vengono costruite e ricostruite, e iniziamo rivendicare il potere di farlo in maniera radicale.

Il Coordinamento delle Associazioni si oppone alle devastazioni del paesaggio urbano e periurbano e si oppone all’esproprio dei diritti costituzionali e civici dei cosentini. Il Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine Diritto alla città ha deciso di iniziare a rivendicare il ‘Diritto alla città’ dei cosentini ha chiesto, con urgenza, al Mic ed alla Soprintendenza Abap di Cosenza, organo periferico del suddetto Ministero, la rapida pubblicazione, prima, e la celere approvazione, poi, di una DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO ai sensi dell’ART. 136, C. 1 LETT. C, D. L. N. 42/2004 e S.M.I., per l’Ambito territoriale di seguito descritto (vedi cartina allegata).

L’area è stata – per motivazioni storiche, architettoniche, urbanistiche, ambientali e archeologiche- delimitata dai sottoscritti così come di seguito descritto.
Ad Ovest, partendo dal perimetro del vincolo paesaggistico esistente di cui al D.L. del 1969, raggiunge viale della Repubblica, comprende il settore di Via Misasi e scende lungo la Via Arabia fino a comprendere le vie Cattaneo, Mazzini e Marini. Da tale ambito sale a Nord lungo la direttrice di via XXIV Maggio- via Medaglie d’Oro, si raccorda al viale Mancini fino a raggiungere il confine con il Comune di Rende.

Da tale limite comunale scende lungo la riva sinistra del Crati fino a raccordarsi con l’area della vecchia Stazione Ferroviaria e giungere al ponte Alarico a Sud, collegandosi all’area già precedentemente vincolata dal suddetto D.L. del 1969, relativa al settore in sinistra del fiume Crati. Il citato D.M. del 15.07.1969, la cui estensione lungo il lato Est, settore in destra del fiume Crati, interessa le colline presilane, breve tratto della strada statale silana per Aprigliano, lo sviluppo della strada vicinale di Serra Caruso, il tratto del fiume Crati sino alla sua confluenza con il torrente Ispice, i limiti comunali dei Comuni di Rovito e Zumpano fino alla confluenza del canale Cannuzzo col Crati per raccordarsi al ponte di Alarico.

La nostra proposta di vincolo paesaggistico -le cui motivazioni dettagliamo di seguito- completa, pertanto, i contenuti del vincolo paesaggistico già in vigore, contribuendo significativamente alla salvaguardia delle aree oggetto di interventi così da esaltarne il significato e il valore.

DESCRIZIONE E MOTIVAZIONI STORICHE, ARCHITETTONICHE, URBANISTICHE,
ARCHEOLOGICHE E AMBIENTALI DELLA RICHIESTA DI VINCOLO

L’area sita nel comune di Cosenza, posta nell’area valliva compresa tra i due fiumi e in continuità espansiva con l’abitato storico, già sottoposto a tutela ambientale e paesaggistica ai sensi della legge 29.06.1939 n°1497 con decreto ministeriale 15.07.1969, costituisce l’insediamento lungo le rive dei fiume Crati e Busento, completando la composizione urbana, già dotata di impianti pubblici di notevole interesse monumentale, con palazzi privati che riflettono le visioni urbanistiche e architettoniche di sviluppo nella prima metà del Novecento. In tale contesto la città di Cosenza completa, nel periodo indicato, la definizione del processo insediativo urbano portato poi avanti a partire dagli anni ’60 del XX sec.

L’espansione era storicamente presente nel quartiere suburbano dei Rivocati, già in età romana. Insediamento consolidato in età medievale con funzione mercantile (Fiera della Maddalena – 15 al 30 luglio e la fiera dell’Annunciata dal 1551, con il 25 marzo di ogni anno, nella grande spianata del Carmine.
Presenti l’impianto della Riforma, ubicato in corrispondenza dell’altura dominante e derivante da impianti religiosi del XIII sec. e dei Domenicani, dal XV sec.

Tali strutture costituiscono la conferma dei nuovi indirizzi di sviluppo, legati al processo economico di trasformazione ed evoluzione dell’abitato lungo la valle del Crati.

L’asse principale risultava sempre quello costituito dalla via Consolare romana Annia-Popilia con il polo della Riforma, nel quale convergevano gli insediamenti del sistema collinare pedemontano dell’Appennino tirrenico. Era presente un sistema di fondaci nel rione Rivocati-Carmine, posti nel settore Nord appena oltre il Busento.

La presenza della popolazione nella seconda metà del XIII secolo si attestava intorno alle 3.000 unità fino alla metà del XV secolo, con incremento dal 1550 con 7.000 unità circa, sotto il dominio spagnolo, fino a registrare un incremento di circa 10.000 abitanti alla fine del secolo, mantenutosi stabile fino alla fine del ‘700. Gli incrementi demografici si osservano nel primo quarto dell’800, fino a raggiungere il numero di 13.700 nel 1853 e 16.000 con l’Unità d’Italia nel 1861 e oltre 19.000 presenze alla fine del secolo.

Le esigenze della popolazione portarono all’avvio delle opere per il rifacimento dei condotti delle acque nere e potabili, la necessità di dotarsi di strutture pubbliche per le abitazioni e gli uffici e la costruzione di servizi di uso pubblico derivanti anche dalla sistemazione degli alvei fluviali e arginature dei fiumi.

Nella seconda metà dell’800, pertanto, l’edificazione si avvia lungo la direttrice Rivocati- Riforma e in direzione Carmine (via Sertorio Quattromani), su cui si affacciava l’Ospedale Civile (XV sec.). Pertanto in tale contesto dalla fine del XIX sec. si é proceduto all’edificazione degli spazi tra l’ex convento del Carmine e i pochi edifici presenti lungo la via Provinciale (corso Mazzini), fino a giungere alla Riforma a Ovest e la via XXIV Maggio lungo la direttrice Nord della riva sinistra del fiume Crati.

Con il Piano di ampliamento comunale del 1887, predisposto dal Comune, si avvia anche la ristrutturazione dei predetti rioni Carmine e Rivocati, con l’ampliamento delle aree a Ovest e parzialmente a Nord, condotti a termine successivamente nel primo quarto del ‘900. Quartieri già attivi sin dall’età romana con funzioni mercantili, nundinae, e idonei a contribuire allo sviluppo urbano per il costante sviluppo economico, oltre che demografico.
La nuova area urbana, impostata su una viabilità a maglie regolari ortogonali, di probabile derivazione agrimensoria romana, si spinge a valle fino all’attuale Via Piave, con sviluppo lungo il lato Ovest a includere i settori della Riforma e l’attuale via Riccardo Misasi.

Iniziative continuate col Piano di Ampliamento del 1910-1912, tramite il quale si realizzano i progetti di sviluppo ed espansione dell’abitato, mediante la ristrutturazione urbanistica a fini insediativi del rione Rivocati, la costruzione di strutture pubbliche lungo il Busento e il riordino del quartiere Carmine – Annunziata.
Interventi completati nel primo quarto del ‘900 e integrati col piano del 1936, con estensione lungo il settore Nord, oltre alla formazione di piazze urbane di riferimento come direttrici di sviluppo: Piazza Francesco Crispi, Piazza Giovanni Amendola, Piazza Paolo Cappello a monte e Piazza Municipio, Piazza XI Settembre a valle, lungo la direttrice del Corso Mazzini.

L’edilizia privata riporta la composizione formale di estrazione classica rivisitata con gli apparati prospettici ancora visibili lungo il Corso Umberto, Via Trieste, Viale della Repubblica, Via Riccardo Misasi e il già citato Corso Giuseppe Mazzini. Altrettanto individuabili gli interventi privati, all’interno di tale vasto settore, con le direttrici parallele al Corso Mazzini, quali Via San Michele, Via Monte Grappa, Via Monte Santo e le traverse laterali Via Piave, Via Isonzo e Via Brenta; comprendente anche la scala interna di collegamento, proposta per ridurre la consistente differenza di quota (Scala dei due leoni), oltre alla realizzazione di edifici di interesse pubblico tra il Rione Michele Bianchi e la nuova direttrice di Viale degli Alimena.

Interventi, questi ultimi consolidatisi negli anni ’30 del XX sec., con la preliminare dotazione di servizi e completati poi nel secondo dopoguerra. In tali ambiti l’architettura varia tra visioni ottocentesche di cultura essenzialmente classica e rivisitazioni interpretative, intercalate da proiezioni moderniste di stile avanzato, che costituiscono un patrimonio urbanistico e compositivo dotati di interessante personalità, indicativa di un processo di sviluppo da salvaguardare per la complessa e notevole particolarità urbana unita alle espressioni architettoniche.

Pertanto, in tale contesto, l’area si configura come una necessaria palese estensione del centro storico di Cosenza, conservando nel tempo una sostanziale permanenza della evoluzione morfologica urbana, già presente nell’insediamento antico. A tal proposito si evidenzia che tutta l’area della riva sinistra del fiume Crati possa essere interessata da rinvenimenti archeologici perché, come dimostrato dal recentissimo ritrovamento di sepolture di epoca romana nei pressi del rondò sulla Via Popilia subito a nord del Centro commerciale. È molto probabile che in quella area, dal Centro storico verso nord, vi passasse la Via Annia-Popilia (Via ab Regio ad Capuam) costruita nella seconda metà del II secolo a.C.

Avendo le indagini archeologiche dimostrato che lungo le strade romane, soprattutto nei pressi dei centri abitati, sorgevano necropoli, colombari, steli, monumenti funebri e mausolei è del tutto necessario tutelare, rendendola inedificabile, tutta l’area che va dalla riva sinistra del Crati fino alla linea degli edifici già costruiti per arrivare fino al confine comunale a Nord.

RINVENIMENTI ARCHEOLOGICI NEL COMUNE DI COSENZA

Nel complesso il sistema edilizio appare ancora in parte conservato, seppur condizionato in termini episodici da interventi di trasformazione che ne hanno modificato la percezione compositiva.
In ragione di tale potenzialità, la tutela di tale contesto urbano discende dalla necessità di evitare attività di sostituzioni dell’edilizia privata esistente, con contenitori urbani di dimensioni consistenti, già in atto nell’area individuata e al di fuori della logica conservativa del modello di sviluppo avvenuto nel corso di un lungo processo storico insediativo, al fine di non modificare e trasformarne le qualità sostanziali.

Trattasi di ambiti e tessuti edilizi che hanno contribuito a caratterizzare lo sviluppo della città, per i quali necessita un percorso di riqualificazione edilizia in grado di esaltarne i valori, al di fuori di visioni sostitutive da considerare totalmente inidonee.

Pertanto, la perimetrazione di tali ambiti costituisce una palese continuità dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica. Tenuto conto che il vincolo comporta, in particolare, l’obbligo da parte del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile ricadente in tale settore, di presentare ai competenti organi istituzionali per la preventiva approvazione, qualunque progetto di opere che possano modificare l’aspetto esteriore della composizione urbana e architettonica del contesto.

Tale condizione discende dal riconoscimento che la zona predetta ha notevole interesse pubblico perché essa ha come fulcro i quartieri di edificazione realizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’40 del XX sec., a completamento del processo di evoluzione insediativa avviato dopo le arginature dei fiumi e in estensione delle direttrici storiche originarie sin dal XIII secolo.

AMBITO DELLA DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO,
ART. 136, C 1 LETT. C, DECRETO LEGISLATIVO N. 42/2004 E S.M.I.

Tale zona, che amplia e completa le località e gli ambiti già sottoposti a tutela ambientale e paesaggistica, ex lege 29.06.1939 n°1497, D.M. 15.07.1969 G.U. n°208 del 14.08.1969, è delimitata nel modo seguente:
Cominciando da Est ha come limite il fiume Crati in direttrice Nord. In corrispondenza della traversa di Via Cesare Marini risale su Corso Mazzini, fino all’innesto con Via Ambrogio Arabia, sulla quale ultima si inserisce fino a raggiungere la chiesa di Santa Teresa che viene lambita lungo il lato Sud, con risalita fino alla soprastante via Roma.
Da tale arteria, che percorre in direzione Nord, raggiunge Via Carlo Cattaneo e, circuendo il parco “Emilio Morrone”, risale lungo il settore Ovest fino a raccordarsi con il Viale della Repubblica.

Da tale arteria principale ritorna in direzione Sud fino a includere, con limitata area, le case popolari per Mutilati e Invalidi di guerra del 1931, per ritornare sulla medesima direttrice verso Sud fino all’incrocio con la Via Domenico Migliori. Indi, da tale confine continua lungo la SS.19 delle Calabrie – SP 241, fino all’incrocio con la Via Francesco Principe. Da tale ultima strada discende in direzione Est raccordandosi interamente al perimetro dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica con il citato Decreto ministeriale 15.07.1969.

Relativamente al settore in Sx Crati, il perimetro interessato dalla definizione del completamento di tutela paesaggistica, per i motivi esposti, perimetra il tratto stradale del Ponte Alarico fino all’ex Stazione Ferroviaria, ora dismessa, prolungandosi lungo il lato sinistro del “Centro i Due Fiumi” fino a raggiungere Via XXIV Maggio. Prosegue lungo tale arteria in continuazione su Via Medaglie d’Oro fino all’incrocio con via Adolfo Quintieri. Da tale traversa scende fino a raggiungere Viale Giacomo Mancini proseguendo in direzione Nord fino all’intersezione del tondo con allineamento alla Via Caduti di Razzà, al confine col Comune di Rende, per continuare lungo la direttrice di Viale Crati.

Il perimetro lascia Viale Crati in corrispondenza della Via Pietro Nenni, per continuare parallelamente, e in aderenza al tratto ferroviario della linea Cosenza-Giovanni in Fiore, fino a connettersi alla Via Catanzaro, quest’ultima posizionata in intersezione con il perimetro sopra riportato. Detto perimetro contiene edifici privati, altri a destinazione sociale (case popolari), infrastrutture collettive e gli impianti pubblici riportati, la cui edificazione spazia dalla fine dell’Ottocento a metà circa del Novecento.

In sintesi, con questa proposta, si ampliano i limiti del predetto decreto dell’anno 1969, completandone e estendendone l’area di tutela e salvaguardia. All’interno di tale area si trovano edifici monumentali di interesse pubblico, costruiti a partire del primo quarto del XX sec. e completati anche nel secondo dopoguerra, in alcuni dei quali hanno prestato opera di progettazione architetti di fama nazionale quali Giovanni Battista Milani, Giorgio Calza Bini, Mario de Renzi, Vittorio Ballio Morpurgo.

La perimetrazione dell’insediamento della “città nuova” a completamento dell’abitato di Cosenza, unita al suo intorno paesaggistico, è soggetto a conservazione integrale. In essa è vietata la realizzazione di interventi, anche puntuali, che comportino il rischio di alterarne i caratteri d’identità paesistica e di continuità percettiva.

BENI IMMOBILI SOGGETTI A TUTELA MONUMENTALE

Beni immobili da tutelare

Sulla base di quanto scritto finora occorre, dunque, la conservazione integrale del sistema urbano (all’interno del perimetro in rosso della cartina in calce si evidenziano le principali emergenze monumentali e architettoniche).
I nuovi interventi edilizi non devono costituire, per forma e per volume, barriere alle visuali verso i principali elementi del sistema urbano e architettonico esistente. Conseguentemente, gli interventi di trasformazione previsti all’interno degli strumenti urbanistici e relativi piani attuativi devono prevedere assetti e composizioni formali tali da rispettare e salvaguardare le visuali compositive e architettoniche finalizzate alla conservazione dei valori esistenti.

Nelle aree ad elevato valore percettivo, deve essere mantenuta la coerenza architettonica degli interventi con il contesto, con esclusione delle opere e degli interventi in grado di alterare gli aspetti qualitativi e formali dell’apparato urbano esistente.

Sul patrimonio edilizio esistente sono ammessi gli interventi di rifacimento e riuso tali da privilegiare dal punto di vista formale l’attuale assetto compositivo, con l’eventuale impiego di materiali naturali e a basso impatto ambientale.
Sono ammessi esclusivamente gli interventi edilizi tendenti alla conservazione, alla manutenzione ed al riutilizzo, anche diverso dalla funzione originaria, con esclusione comunque delle opere di snaturamento dell’apparato formale e compositivo esistente.

Eventuali sistemazioni complementari degli spazi liberi dovranno essere concepiti in modo da non ostacolare la visibilità e l’assetto esistente, al pari del verde esistente. Il tutto nel rispetto delle visuali di fruizione proprie dei luoghi.

Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine “Diritto alla città”

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

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E. Galli, Per la Sibaritide, studio topografico e storico con la pianta archeologica di Cosenza, Ristampa dell’opuscolo del 1907, Cosenza s.d.
Gregorio E. Rubino-Maria Adele Teti, Cosenza, Laterza, Bari 1997.
A. Battista Sangineto, Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, 69, III, serie XXXVII, 2014 (2016), pp. 157-182.
F. Terzi, La città ripensata. Urbanistica e architettura a Cosenza tra le due guerre, Progetto 2000, Cosenza 2010.
F. Terzi, Cosenza medioevo e rinascimento, Pellegrini, Cosenza 2014.

L’irrisolta questione del modello giusto di turismo.-di Battista Sangineto La città unica, gli incendi, il mare e il turismo in Calabria.

L’irrisolta questione del modello giusto di turismo.-di Battista Sangineto La città unica, gli incendi, il mare e il turismo in Calabria.

Una città è fatta di molte cose, alcune materiali ed altre immateriali; una città è fatta di un patrimonio culturale “esterno”, i monumenti, le piazze, le strade, i palazzi e i beni culturali e di uno “interno”, la memoria culturale. Ogni città è il risultato unico ed irripetibile di una enorme quantità di variabili storiche, sociali, religiose, politiche ed economiche.

In Calabria, alla fine dell’antichità, l’eclisse del paesaggio profondamente umanizzato, il ritorno a modi di produzione più arretrati, l’affievolimento e la regressione della civiltà urbana insieme alle invasioni ed alle dominazioni straniere, dovevano aver di nuovo inselvatichito le genti che hanno cercato e trovato riparo, dalle invasioni e dalle malattie, lontano dal mare e dalle vie, risalendo, come in tutto il Mediterraneo, verso l’alto, verso le montagne.

Una delle poche città calabresi che ha continuato, per quasi venticinque secoli, ad avere la forma e la funzione di città è, secondo le fonti archeologiche e letterarie, Cosenza. La città ha, infatti, un’antica storia, una storia di primazia perché, dal IV fino al II secolo a.C., è stata la capitale dei “Brettii” che occupavano tutta la Calabria centro-settentrionale e, poi, come municipio augusteo, è stata il centro del territorio della romana Consentia, esteso lungo tutta la media valle del Crati fino alla fine dell’antichità.

E’ menzionata, già nel VI secolo d.C., come sede arcivescovile mentre le ricerche archeologiche e le fonti letterarie e d’archivio ci testimoniano una sopravvivenza dell’abitato e degli abitanti che si trasforma, a partire almeno dall’XI secolo, in rinascita edilizia, sociale ed economica. Cosenza ha continuato, poi, ad essere non solo la capitale della Calabria Citeriore, la città di Telesio e dell’Accademia cosentina, ma è stata, soprattutto, una città non infeudata e, quindi, a differenza di molte altre città calabresi e meridionali, autonoma e indipendente (Sangineto 2016).

Ogni città, soprattutto se di antica origine, è non solo il risultato della propria storia, ma anche il volto e la traduzione in pietra e mattoni del popolo che la abita, la conserva e la trasforma (Settis 2014, Montanari 2013).
Come è possibile pensare o, addirittura, promulgare una legge regionale secondo la quale Cosenza debba formare un comune unico con Rende, Castrolibero e, nientepopodimeno, Montalto Uffugo che hanno avuto, con grande dignità, una storia di paesi infeudati o di dipendenza diretta dalla città?

Non si possono mescolare le carte, le storie, la Storia, le vite e le identità dei cittadini e delle comunità con un atto legislativo regionale di dubbia costituzionalità. Al Presidente Occhiuto parrebbe non bastare più il reboante e inesistente, nella Repubblica italiana, titolo di Governatore, ma sembrerebbe aspirare al ben più prestigioso appellativo di ‘Ecista’ della città unica della Media Valle del Crati. Il candidato fondatore della nuova grande città, però, non solo non ha consultato l’oracolo di Delfi per scrutare la sorte dell’impresa che si propone di compiere, ma non ha, nemmeno, interpellato i sindaci e i cittadini dei Comuni che vorrebbe coinvolgere. Sindaci e cittadini che, al 90%, non vogliono sentirne neanche parlare di una simile mostruosità amministrativa -soprattutto i rendesi, i montaltesi e i castroliberesi- a causa dell’enorme debito accumulato negli ultimi 10-12 anni dalle Amministrazioni comunali di Cosenza che ricadrebbe sulle loro spalle fiscali.

Per fortuna questa iniziativa, come quella del commissariamento dei 30 comuni per abusivismo edilizio, è destinata a non avere alcun riscontro concreto se non l’effimera risonanza mediatica propagatasi per qualche giorno. Il Presidente Occhiuto, che è persona accorta e ragionevole, se ne farà una ragione così come si farà una ragione del fallimento del suo apprezzabile proposito di risanamento del mare calabrese che non può avvenire senza togliere alla ‘ndrangheta la gestione dei depuratori, dello smaltimento delle acque reflue e della raccolta e smaltimento della spazzatura.

Un’altra sacrosanta battaglia condotta dal Presidente Occhiuto è quella contro gli incendi e i piromani che – “grazie al sistema di monitoraggio con i droni portato avanti in sinergia con le Forze dell’Ordine e grazie al monitoraggio a terra ad opera degli operai forestali e dei volontari”- a suo parere, sta dando ottimi risultati. L’Ispra, l’Ente statale preposto alla protezione ambientale, fornisce dati secondo i quali dal 1° gennaio al 7 agosto 2023 le aree bruciate in Italia hanno raggiunto i 59.000 ettari. Il 93% di queste aree ricade in sole due regioni: la Sicilia, con il 75% (41 mila ettari) e la Calabria, con il 18% (8,5 mila ettari). Non sembra che sia un gran risultato, se si tiene conto che siamo ancora a metà dell’estate.

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Questi due lodevoli, ma già frustrati, propositi hanno direttamente a che fare con un altro dei perenni ed irrisolti problemi estivi della Calabria: il turismo (ne ha scritto di recente Filippo Veltri su queste pagine). Dopo le meravigliose e costosissime performance della pista di pattinaggio della Regione Calabria a Milano, della scintillante “Calabria straordinaria” con i suoi irrinunciabili MID, i Marcatori Identitari Distintivi “talariciani”, degli indispensabili spot pubblicitari di Muccino e della Gregoraci, il risultato è sotto gli occhi di tutti: pochi turisti ovunque. Una sensazione che è, di fatto, confermata dai dati delle previsioni di Federalberghi che stima una crescita rispetto agli anni del Covid, ma un calo di più di 1 milione di turisti rispetto al 2019. Si registra, anche sulle pagine di questo giornale da Enrica Riera, un aumento esponenziale dei calabresi che preferiscono andare al mare altrove, soprattutto in Albania, non solo per risparmiare sui costi esorbitanti delle strutture di accoglienza calabresi (alberghi, ristoranti, lidi, bar, gelatai…), ma anche per trovare un mare pulito con spiagge meno affollate e rumorose.
Riguardo al turismo, all’invasivo modello del turismo contemporaneo, ho da qualche tempo molte perplessità e fondate paure perché ho visto, in Italia e nel mondo, cosa significa la ‘turistificazione’ e la ‘gentrificazione’ delle città, delle campagne, dei paesi, delle spiagge e di tutti i luoghi nei quali viene esercitato questo tipo di attività economica: la sostituzione delle attività commerciali e produttive locali con quelle dedite soprattutto alla ‘commercializzazione’ di cose prodotte altrove.

Paure e perplessità che vengono confermate da studi accademici, si vedano gli scritti del geografo Filippo Celata, che mettono in evidenza come la ‘turistificazione’ non produca valore, ma solo ricchezza per pochi, attraverso meccanismi economici eminentemente estrattivi, tipici del neoliberismo. Il problema non consiste solo in chi si appropria di questa ricchezza, ma dove essa fluisce e quanta poca ne rimane in loco. Come è d’altronde il caso di ogni forma di rendita che: o non viene reinvestita, o viene reinvestita in attività altrettanto improduttive, o viene reinvestita altrove.
Un recentissimo articolo di Hidalgo et alii (in “Cambridge Journal of Regions, Economy and Society”, 2023) documenta come, in Italia e in Occidente, con la ‘turistificazione’ e la ‘gentrificazione’, causata soprattutto dagli affitti brevi e da Airbnb, aumentino il numero di ristoranti, di bar e in generale la ‘foodification’ e, in secondo luogo, la quantità di negozi di abbigliamento. Aumentano, anche, i luoghi dove si consuma cibo pronto o dove questo viene servito al bancone, rispetto a quelli con cucina e servizio al tavolo. Ne consegue la desertificazione di interi quartieri e di interi luoghi di villeggiatura nei quali si riducono le attività destinate agli abitanti: alimentari, giornalai, riparazioni di diverso tipo, servizi alla persona quali i parrucchieri e gli estetisti e perfino i servizi per l’infanzia.

Quel che colpisce di più, però, è che i centri delle città e i luoghi di villeggiatura calabresi, nonostante non siano presi d’assalto dai turisti, siano stati ‘gentrificati’ lo stesso, invasi, a perdita d’occhio, da distese di tavoli e tavolini di ristoranti, pizzerie, bar e pub che ne hanno preso possesso e che producono, a perdita d’orecchio, pessima musica assordante fino a notte fonda con l’accomodante complicità delle Amministrazioni comunali. Una maleodorante ‘foodification’ con relativa insopportabile ‘movida’ che -senza produrre lavoro vero, duraturo e qualificato- espelle quasi tutte le altre attività destinate ai residenti e che, di conseguenza, espellerà con il passare del tempo anche i residenti medesimi. Una ‘movida’ che viene gestita solo dal mercato mentre le istituzioni locali vanno a rimorchio cercando, senza riuscirci, di gestire gli inevitabili conflitti fra abitanti e gestori di spesso effimere attività commerciali. Un fenomeno che andrebbe invece rimesso in rapporto con la sfera pubblica, anche attraverso la costruzione di un’offerta culturale in modo da reintegrarla positivamente nel più complessivo sviluppo della città. Un altro problema è relativo al rapporto tra costi e benefici: in genere la ‘movida’ comporta una socializzazione dei costi sopportati dai residenti senza alcuna corrispondente socializzazione dei benefici.

So che non c’è un settore in Italia che corra come la ristorazione, l’intrattenimento ed il turismo: dai dati Istat nell’ultimo anno il comparto ha avuto una crescita del 10,3 per cento a fronte di una media del 2,3 per cento. Ma si tratta soprattutto di lavoro poco qualificato, sottopagato e a tempo determinato: solo il 17,1 per cento, calcola uno studio della ‘Fondazione dei Consulenti del Lavoro’, rientra tra le professionalità ad alta qualificazione.

Quello della ‘gentrificazione’ e della ‘movida’ permanente (cfr. l’interessante volume a cura di C. Cristofori, ‘Andar di notte. Viaggio nella movida delle città medie’, 2022) è un fenomeno pervasivo che ha attecchito, in Italia, un po’ ovunque tanto da far scrivere ad Antonio Tabucchi, citato da Montanari, che: “Firenze è una citta volgare… Credo che Firenze, piu che ogni altro luogo italiano, abbia saputo coagulare quasi magicamente in sé la volgarita che aleggia sull’Italia contemporanea (come forse su certi altri paesi europei) fino a farne una sorta di Weltanschauung, una specie di cappotto che l’avvolge, una spaventosa anima collettiva a cui nessuno sfugge e che significa spocchia, intolleranza, grossolanità … Insomma, la quintessenza dell’atteggiamento di un Paese che è stato povero come l’Italia e che all’improvviso è diventato ricco, senza che dell’appartenenza sociale, della borghesia che ha caratterizzato la civilta europea, abbia posseduto la cultura. Ciò che anni fa prevedeva Pasolini la spaventosa mutazione antropologica rivolta verso una omologazione del Brutto (inteso nel senso piu lato) ha trovato paradossalmente in questa citta rappresentante del Bello la sua piu visibile epifania”(‘Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Roma a Firenze’, 1999).

Non mi piacerebbe vivere, come vaticinava Pier Paolo Pasolini, in un Paese, in una regione e in una città popolati solo da camerieri, chef, animatori e bartender.

da “il Quotidiano del Sud” del 27 agosto 2023

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Credo che dopo queste prime ondate di calore estremo che hanno attraversato la penisola e che hanno stazionato soprattutto nel Sud ed in Calabria, non dovrebbe esser rimasto davvero nessuno insensibile al cambiamento climatico e all’evidente intollerabilità delle temperature nelle città in particolare. La combinazione del riscaldamento globale dovuto ai cambiamenti climatici e l’espansione dell’ambiente costruito globale ha dato luogo all’intensificazione delle “isole di calore urbane” (UHI: Urban Heat Island), accompagnata da effetti negativi sulla salute della popolazione.

Uno studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura. Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI, sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute grazie all’aumento della copertura degli alberi per rinfrescare gli ambienti urbani, che si tradurrebbe anche in città più sostenibili e resistenti al clima perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi. Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sono dunque le città con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo che formano delle “isole di calore” (UHI) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).

Quattordici città metropolitane sono state coinvolte nella “misura” “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”, finanziato con 330 milioni del Pnrr, per piantare 8,25 milioni di alberi, 8.250 ettari di foreste urbane, individuando luoghi e quantità secondo il principio di utilizzare “l’albero giusto nel posto giusto”. La Corte dei Conti ha, nel marzo 2023 (sic!), richiamato le città coinvolte ad accelerare i tempi di realizzazione dei due obiettivi relativi alla piantumazione di 1.650.000 alberi entro il 31 dicembre 2022 e di altri 6.600.000 entro la fine del 2024.

Proprio in questi giorni il Governo in carica ha annunciato il taglio di 1.287.100.000 delle “misure” M2C412.1.A e M2C413.1 del Pnrr che riguardano proprio la tutela del rischio idrogeologico e del verde urbano perché, secondo il ministro Fitto, “presentavano elementi di debolezza tali da renderli irrealizzabili entro il 2026”. È, forse, pleonastico dire che, in ogni caso, l’unica città calabrese dell’elenco, Reggio Calabria, aveva emanato il bando relativo a questa “misura” solo il 15 giugno del 2023.

Ho già scritto su questo giornale della pressocché totale assenza del verde urbano nelle altre città calabresi. Ho scritto, per esempio, dei 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara, un ecosistema dunale di grande bellezza e fragilità da preservare, di Giovino nei pressi di Catanzaro che è stato destinato alla cementificazione, della desertificazione delle vie e delle piazze di Cosenza nelle quali, quasi sempre, non c’è un solo albero, ma solo una cocente e desolata distesa di bitume o di mattonelle di quart’ordine.

Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento e delle piastrelle, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto anche nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o mediterranei, quasi centenari che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto. La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato.

La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini marittimi o mediterranei e i Pini d’Aleppo. Tutti i suddetti Pini non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).

Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, ora, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti e, fra poco, quasi certamente anche in Piazza San Giovanni? Quel che colpisce ancor di più è che, dopo averne tagliato il fusto, i ceppi degli alberi, in quasi tutti i casi, sono stati lasciati ‘in situ’ lasciando intatti i presunti problemi di sollevamento dell’asfalto e dei marciapiedi e, per sovrapprezzo, gli elevati costi di estirpazione meccanica di radici e ceppi.

Al posto dei quasi centenari Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera di Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento- a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro. Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vigileranno sulla celere ripiantumazione di questi lecci, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi poche sere fa davanti alla Casa comunale.

La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 luglio 2023
Immagine: Battista Sangineto

Sulle politiche, non solo, culturali.-di Massimo Veltri

Sulle politiche, non solo, culturali.-di Massimo Veltri

È calato il sipario sull’edizione 2023 del Premio Sila e, lungo la scia degli anni precedenti, ha visto sfilare davanti a platee affollate e partecipi prodotti editoriali e personalità della cultura nazionale che hanno presentato libri e trattato argomenti di attualità e contenuti di estremo interesse.

Letteratura, saggistica, anche opere pittoriche e il consueto premio alla carriera destinato a chi si è distinto in maniera particolare nel proprio settore di attività in un premio che fu una felice intuizione di Giacomo Mancini e dopo qualche anno di silenzio è ritornato, una decina di anni fa, grazie a Enzo Paolini.

Erano altri tempi, si era nel 1949, e l’obiettivo era allora quello di rilanciare l’attività culturale calabrese dopo il periodo fascista e il secondo dopoguerra.

Il nuovo Premio Sila ha ripreso le fila di un discorso interrotto per stimolare, in un periodo storico complesso e difficile, la ricostruzione di un tessuto sociale attraverso percorsi culturali che richiedono attenzione, sensibilità e partecipazione, ribadendo il primato della cultura, della conoscenza, dell’esercizio dello spirito critico.

Gli statuti, differenti nell’articolazione della loro ragion d’essere, sono significativamente convergenti nelle finalità e nei contenuti: e parimenti urgente è la necessità di far leva sul coinvolgimento dei saperi nell’opera di costruzione di un tessuto connettivo improntato alla prefigurazione di un futuro che facendo tesoro del passato sia quanto mai scevro di contaminazioni passatiste e nostalgiche.

Sono stati moltissimi i giovani presenti agli eventi e non soltanto tramite la loro partecipazione attiva nella giuria popolare che affianca i giurati per così dire istituzionali mentre non è una notizia soltanto di quest’anno la relativa affluenza dei ceti intellettuali calabresi, inclusa quella delle università.

La borghesia professionale facente capo ai tanti rami delle attività, da quelle umanistiche a quelle economiche a quelle giuridiche, periodicamente fornisce una rappresentazione di sé in buona misura avulsa da momenti in cui potrebbe fornire contributi originali e attivi oltre che fruire di eventi stimolanti.

Non è fenomeno ascrivibile soltanto al premio Sila, in una città ricca almeno sulla carta di un cartellone intrigante e variegato, e proprio quando nel dibattito nazionale tengono banco temi in buona misura connessi. Quello del meridionalismo, nell’epoca del regionalismo differenziato, e l’altro della mancanza di contributi analitici e propositivi dei circoli della conoscenza nel delineare un profilo di crescita del paese.

È difficile dire quali possano essere le cause che presiedono a tale stato di cose che è si particolare ma anche con forti venature nazionali: per certo contribuiscono sfiducia e autoreferenzialità, non indifferente la non immediata individuazione di punti di riferimento cui rivolgersi: forse una discussione franca aiuterebbe.

dal “Quotidiano del Sud” del 28 giugno 2023

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto

Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto

I. I giardini in città.

Le città calabresi sono quasi del tutto prive di verde pubblico perché a partire dalla metà del secolo scorso sono state impetuosamente e disordinatamente edificate senza alcun piano regolatore che ne organizzasse lo spazio. Per iperbole si potrebbe dire che, dagli anni ’50 in poi, si siano costruiti prima i palazzi e poi, nello spazio che rimaneva, le strade, tanto sono urbanisticamente inadeguate.

Fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’esempio delle città europee e del nord Italia aveva indotto le Amministrazioni cittadine a progettare secondo gli antichi dettami ‘ippodamei’: vie parallele e perpendicolari orlate, su entrambi i lati, da alberi, e interrotte da piazze circolari o quadrangolari che costituivano pause alberate o, comunque, destinate all’uso ricreativo pubblico. Di tali modelli urbanistici se ne possono trovare ancora tracce, in misura diversa, a Cosenza, a Vibo Valentia, a Lamezia, a Crotone, a Reggio Calabria e a Catanzaro.

Le nostre città, invece, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, se si esclude la Rende di Cecchino Principe. La sola arteria alberata costruita negli ultimi 70 anni, Viale Giacomo Mancini, è stata inopinatamente e inspiegabilmente smantellata e sostituita con una distesa di mattonelle, la piantumazione di qualche stento alberello e la creazione di piste ciclabili di bitume dipinto.

Negli ultimi decenni, è prevalso -a Cosenza, ma non solo- un modello, un po’ piccolo borghese, di elegante città “dechirichiana” che nella concezione del grande artista suscitava, nella sua metafisica astrazione, la sensazione di un luogo disincarnato, privo della presenza umana e, naturalmente, delle piante. Il problema è che -mentre le città dipinte da de Chirico sono il frutto di una raffinatissima operazione di sottrazione che riduce tutto a volumi semplici votati all’essenza e all’eleganza- le piazze, le piazzette e gli slarghi cosentini pavimentati, negli ultimi dieci anni, con cemento oppure con piastrelle grigiastre senza un solo albero, pianta o arbusto -che pure ambiscono a costituire un apparato formale- riescono solo a trasmettere inautenticità, angoscia e spaesamento.

I Centri storici delle città calabresi sono stati abbandonati o ignobilmente deturpati da innumerevoli superfetazioni e inserzioni cementizie, ma quello di Cosenza conserva una sua straordinaria unitarietà armonica dovuta al suo tumultuoso svuotamento avvenuto in un breve arco temporale che non ha permesso inadeguati rifacimenti, inserzioni moderne e superfetazioni. Ma quella che, secondo lo storico greco Strabone, era l’antica capitale dei ‘Brettii’ che giace dal IV secolo a.C. sulla pendice settentrionale del colle Pancrazio, sta sbriciolandosi e franando verso valle. E non solo nessuno ha posto rimedio a questo disastro, ma la precedente Amministrazione ha, addirittura, demolito case e palazzi nel cuore del Centro storico, a Santa Lucia, e lungo la sua via principale, il medioevale Corso Telesio, radendo al suolo, senza alcuna autorizzazione della Soprintendenza ABAP, alcuni edifici impiantati nel XVIII secolo con l’irricevibile motivazione che erano pericolanti.

Demolizione palazzi fra Corso Telesio e Via Gaeta

In questi ultimi anni, invece di investire energie, tempo e denari nel Centro storico della città, sono state spese decine e decine di milioni di euro per ponti spropositati e fuori contesto, per desolati e angoscianti parcheggi/piazze che attirano traffico nell’attuale centro cittadino, per il rifacimento del corso principale, di piazze, piazzette e slarghi nella città moderna senza piantare un albero, una pianta, un solo ciuffo d’erba come se fossero destinate ad abitarla solo le figure e le statue di de Chirico.

Per trasformare in spazi vivibili e non spaesanti tutte queste sterili e orribili superfici, si potrebbero sostituire queste ultime con ‘giardini pensili orizzontali’, come nel caso della vera e propria “isola di calore urbana” di Piazza Fera, e mettere a dimora ogni tipo di pianta adatta ovunque (per esempio a Piazza Riforma, a Piazza Loreto, davanti alla Chiesa di San Domenico etc.) si possa raggiungere, rompendo il cemento e le piastrelle cinesi, il suolo originario.

Sarebbe un’operazione salvifica per la salute dei cittadini e per il clima della città ad un costo contenuto, peraltro, perché il ‘verde pensile orizzontale’ può essere realizzato su tutti i tipi di coperture di edifici esistenti o di nuova costruzione perché è un impianto vegetale su uno strato di supporto strutturale impermeabile leggero, come ad esempio solette di calcestruzzo, solai di cemento e di ferro etc.

Un altro enorme spreco di danaro pubblico è rappresentato dal tentativo di erigere un Museo intitolato ad Alarico, un Museo che potrebbe esser chiamato, a ragion veduta, il Museo del Nulla perché non conterrebbe materialmente nulla, visto che non abbiamo neanche un solo frammento di ceramica che sia riconducibile ad Alarico o ai suoi Visigoti. Per costruirlo il Comune di Cosenza ha acquisito dalla Regione, per ben 2 mln. e 253.000 euro, l’ex Hotel Jolly che sorgeva alla confluenza dei due fiumi, ai piedi del Centro storico. L’edificio è stato acquistato nel 2017 per abbatterne gli ultimi piani e trasformarlo nel rutilante, a giudicare dai rendering pubblicati, Museo del Nulla-Alarico che, a lavori finiti, sarebbe venuto a costare la strabiliante cifra di 7 milioni di euro, esclusi gli arredi interni. Nonostante che la Direzione generale del Mibact avesse negato l’autorizzazione a ricostruirlo, si è proceduto alla demolizione -anche questa non autorizzata dalla Soprintendenza, ma solo dalla Provincia- dell’ex Hotel Jolly abbattendolo quasi tutto, ma, forse complice la pandemia, i lavori si sono fermati e, per fortuna, non più ripresi.

L’ex Jolly in demolizione

L’attuale Sindaco, l’avvocato Caruso, ha ripetutamente affermato che non ha intenzione di insistere sulla leggenda di Alarico e, dunque, si pone concretamente il problema di cosa fare di quello spazio, una volta sgombrate le macerie. Credo che, tenendo conto della stretta relazione che esso intrattiene con il Centro storico, la cosa migliore sia che tutto quello spazio, di circa 2.500 mq., diventi un luogo come quelli che in Francia sono chiamati ‘jardins familiaux’: un profumato giardino piantumato con alberi, piante ed essenze tipiche del cosentino e delle rive fluviali oppure un rigoglioso orto urbano la cui cura potrebbe essere affidata, in entrambi i casi, ai cittadini del Centro storico ed alle loro Associazioni. Si inizierebbe, con poca spesa, a riportare un po’ di verde in città.

Area libera per un impiantare un giardino

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“Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro
pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra
idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma
parte integrante della natura”.
(Stefano Mancuso)

II. Gli orti in città.

Uno degli aspetti urbanistici e paesaggistici più caratteristici di Siena è la presenza, all’interno delle mura medievali, di ampi spazi verdi non urbanizzati che ammontano a ben 32 ettari, rispetto ai 165 complessivi della città murata. Una vera e propria “campagna”, spesso destinata a colture ortive, che si incunea dentro la città formando una sorta di cuscinetto tra il costruito e la cinta muraria medesima. Le città calabresi non hanno la fortuna di aver avuto in dono questa eredità storica, ma potrebbero dotarsene senza troppe difficoltà e spese come nel caso, per esempio, di Catanzaro e di Cosenza.

Un paio di anni fa Piero Bevilacqua, insigne storico contemporaneista, aveva avanzato la proposta di far nascere a Giovino, poco a nord di Catanzaro Lido, un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”. L’area propriamente naturalistica di Giovino, che più esattamente si trova fra i torrenti Castace e Alli, misura circa 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara. La spiaggia di questo luogo ha la peculiarità di modellarsi in ondulazioni sabbiose alte anche 3-4 metri che formano l’ecosistema dunale, un ambiente naturale di grande bellezza e fragilità da preservare. Ma tutta questa porzione di territorio che è caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupati da case, strade, ma anche da orti, aziende agricole, campagne e aree incolte.

Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto la solita cementificazione mentre Bevilacqua crede che sia possibile avviare un modo diverso e ambientalmente sostenibile di dare valore al territorio facendo nascere un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. La Calabria è, infatti, una delle regioni più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia: decine o, forse, centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, etc. Un “Parco”, dunque, al posto di nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare.

La proposta che avanzo per Cosenza è la nascita di centinaia di “orti urbani” sui terreni cosiddetti marginali della città situati lungo i fiumi Busento e Crati, prima e dopo la confluenza. Sulla base di un calcolo approssimativo fatto sulle immagini satellitari questi terreni, che Gilles Clément (Clément 2005) chiama “terzo paesaggio” perché non sono propriamente né città né campagna, avrebbero una superficie di circa 30-35 ettari di proprietà del Demanio o del Comune medesimo. I primi “orti urbani” nascono, in Europa, nel corso del XIX secolo tanto che, per essere più precisi, verso la metà dell’’800 nascono i primi “Kleingarten” tedeschi, spazi riservati esclusivamente ai bambini. Ma è verso la fine dello stesso secolo che l’idea degli “orti urbani” inizia a diffondersi attraverso i “Jardin Ovrieurs”, nati dall’attività del politico e professore francese Jules Lemire (F. Panzini, Coltivare la città, DeriveApprodi 2021).

Uno dei tanti “jardins ouvriers” a Parigi.

Questi giardini operai avevano un duplice obiettivo: coltivare l’orto come possibile fonte di risorse economiche e alimentari, ma considerarlo anche come forma di sviluppo e di arricchimento del rapporto famigliare racchiuso nello slogan: “Il giardino è il mezzo, la famiglia è lo scopo”. Anche in Italia, dopo alcuni esperimenti dei primi del ‘900, hanno iniziato a diffondersi gli “orti urbani”, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana, ma anche nel Veneto, nelle Marche e in Campania.

La Regione Toscana, nell’ambito del progetto “Giovanisì”, ha promosso e finanziato con 3 milioni e 300mila euro il progetto “Centomila orti in Toscana”, con la finalità di sperimentare e diffondere, con il coinvolgimento dei Comuni toscani, un modello di orto urbano toscano, finalizzato non solo alla produzione, ma anche al recupero di aree degradate e alla definizione di aree di aggregazione sociale e di scambio culturale, nel quale i giovani ricoprono un ruolo fondamentale.

Le Amministrazioni comunali interessate, come quella di Siena, partecipano ad un bando per assicurarsi il finanziamento così concepito: ogni singolo orto deve avere una dimensione tra i 50 e un massimo di 100 metri quadrati; i complessi di orti ne conterranno tra i 20 e i 100, mentre ai Comuni va un finanziamento compreso tra i 50mila e i 100mila euro necessari per dotare questi complessi di infrastrutture permanenti come il reticolo viario, il sistema di irrigazione, la recinzione esterna e interna degli orti et cetera.

Gli orti urbani aiutano l’ambiente e fanno bene allo sviluppo economico e sociale del territorio. Promuovono la biodiversità e sono salutari perché portano sulla tavola frutta biologica senza pesticidi. Per dare l’idea dell’efficienza di un “orto urbano”, si ricorda che bastano circa 20 metri quadrati di terreno per produrre sufficiente verdura per una persona per un anno intero. Gli “orti urbani” non solo fornirebbero un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, contribuirebbero all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima, ma favorirebbero anche la tutela della biodiversità agricola, la riduzione della produzione di rifiuti (l’umido sarebbe utilizzato come fertilizzante) e potrebbero generare, con un’adeguata progettazione, una filiera agroalimentare corta. Le esperienze, ormai secolari, ci dicono che gli “orti urbani” sono uno strumento potentissimo per l’inclusione sociale perché danno nuova vita a zone e quartieri potenzialmente isolati o problematici, favoriscono l’amalgamazione sociale e la crescita di nuovi gruppi di persone socialmente attive, accomunate dallo stesso obiettivo lavorativo e dall’appartenenza ad uno stesso luogo.

Pur volendo prendere in considerazione l’uso solo della metà del territorio marginale cosentino disponibile, avremmo a disposizione una quindicina di ettari, cioè 150.000 mq., che sarebbero sufficienti per ben 1.500 unità ortive da 100 mq. Se teniamo conto che ognuno di questi “orti urbani”, senza quasi nessun costo per il Comune se fossero finanziati dalla Regione con i fondi del Pnrr, potrebbe soddisfare il fabbisogno di frutta e verdura di una famiglia di 5 persone per un anno, bisogna riconoscere che essi potrebbero fornire un aiuto economico consistente per le famiglie in difficoltà e, nello stesso tempo, rappresenterebbero una svolta ecologica ed estetica di grande rilievo.

Aree demaniali o comunali libere per la piantimazione di orti urbani.

Insieme alla ripiantumazione ed alla rivitalizzazione degli spazi verdi all’interno del tessuto urbano, gli “orti urbani” formerebbero una magnifica ghirlanda di piante e di alberi intorno a tutta la città rendendola, nel complesso, un esempio di vera e felice riconversione ambientale in tutto il Mezzogiorno e in tutta Italia.

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III. Il verde nel Centro storico.

La lagnanza sull’andamento della cosa pubblica che capita di leggere o ascoltare forse più di frequente in Calabria e al Sud, è quella che riguarda l’abbandono dei Centri storici delle città e dei paesi. Un problema grave e di difficile soluzione, ma che, grazie al finanziamento del Pnrr, potrebbe, o avrebbe potuto, avere un esito positivo. Una delle linee di finanziamento del Pnrr e del Fondo complementare è destinata all’edilizia residenziale pubblica per l’ammontare complessivo di quasi 2 miliardi di euro che dovrebbero esser spesi in quota maggiore nel Mezzogiorno per colmare il divario infrastrutturale presente tra Nord e Sud.

Una parte consistente dei suddetti finanziamenti potrebbe e dovrebbe esser usata, dunque, per far rivivere i Centri storici della Calabria iniziando da quello di Cosenza perché è il più grande, è quello più omogeneo, è quasi del tutto disabitato e, soprattutto, è in via di disfacimento. Un Centro storico così grande, urbanisticamente articolato e disabitato può essere restaurato e recuperato solo se si acquista e/o si espropria il maggior numero possibile di case e di palazzi per creare un “bene comune” unitario e, naturalmente, pubblico.

Un’operazione simile fu fatta nei primi anni ’70 per il Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965. La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare.

Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini (Agostini 2013). Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.

Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).

Schema interventi nel Centro storico di Bologna nel 1972

La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).

Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).

I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).

Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a circa 14 milioni di euro, vale a dire 6 milioni meno del costo del Ponte di Calatrava.

Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, elaborato un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, si sarebbe potuto chiederne, da subito, il finanziamento per mezzo del Pnrr non solo per l’edilizia pubblica residenziale, ma anche per la cosiddetta ‘transizione ecologica’. Fra i 7 progetti presentati e finanziati per la ‘rigenerazione urbana’ con il Pnrr, Cosenza, purtroppo, non figura, ma voglio sperare che ancora si possa riuscire ad accedere a questi fondi e che si possa ristrutturare il Centro storico di Cosenza.

Credo che si possa farlo ponendo particolare attenzione al verde pubblico iniziando, come ho già scritto, con la trasformazione in giardino dello spazio dell’ex Jolly, ma anche piantando alberi e piante a Piazza dei Valdesi, in Piazza Spirito Santo, lungo entrambe le rive del Crati e del Busento, nello spazio un tempo occupato dalla caserma dei Pompieri ora solo parcheggio, lungo le strade e nella piazza della frazione di Casali, risistemando e rinfoltendo sia il Vallone di Rovito dei fratelli Bandiera sia la centenaria Villa Vecchia sia Piazza dei Follari, piantumando tutta l’area dell’ex Umberto I, creando giardini e ‘jardins familiaux’ negli squarci creati dalle demolizioni di Santa Lucia, di Corso Telesio e Via Gaeta. Persino Piazzetta Toscano potrebbe esser resa di nuovo bella e vivibile rimuovendo le superfetazioni architettoniche che nascondono i resti della “domus” romana e rimodulando tutto lo spazio includendovi alberi, piante e fiori.

Aree da “rinverdire” e/o da piantumare ex novo.

Grazie all’esperienza bolognese si arrivò ad una legge nazionale -la n. 457 del 1978, soprattutto il Titolo IV- che fissava anche disposizioni per le aree ad orti o a giardini all’interno del centro storico, che dovevano rimanere libere, introducendo all’interno delle città storiche il principio di pubblica utilità per la casa: ovvero, la casa pubblica come bene pubblico, come bene sociale di pubblica utilità.

Il restauro e il “rinverdimento” del Centro storico non produrrebbero solo un risultato esteticamente incantevole, ma genererebbero, perché le pietre e le piante non si conservano senza i cittadini, un accrescimento quantitativo e qualitativo delle attività economiche, una redistribuzione della ricchezza conseguente all’assegnazione degli alloggi pubblici, una maggiore coesione sociale e una migliore qualità della vita derivanti dalla salubrità dell’ambiente urbano, dall’attività fisica e dalla necessaria cooperazione per la gestione dei giardini e degli orti comuni.

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Lo scritto qui riportato è formato da tre articoli usciti, con titoli diversi, il 10, il 13 ed il 22 gennaio 2022 su “il Quotidiano del Sud” e costituiscono una proposta complessiva avanzata da Battista Sangineto per rendere Cosenza, ma anche le altre città calabresi, meno tossica, con più piante e verde che contribuirebbero ad un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima. Città, dunque, più inclini all’indispensabile cooperazione fra uomini e piante e più socialmente coese.

Elaborazioni grafiche della cartografia: Pierluigi Caputo.

Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto

Cosenza. Lampioni a led per illuminare rovine deserte.-di Battista Sangineto

Qualcuno si stupirà, forse, nell’apprendere che, nel caso dei 90 milioni di euro per il Centro storico di Cosenza, sono d’accordo con il Sindaco Mario Occhiuto. Sono d’accordo, sia ben chiaro, con quel che afferma l’architetto solo da un paio d’anni a questa parte, perché negli otto anni precedenti -nonostante i miei, i nostri, pressanti suggerimenti- era convinto, come testimoniano le sue innumerevoli dichiarazioni per ‘verba’ e per ‘scripta’, che le abitazioni private del Centro storico di Cosenza non solo non potessero essere comprate e/o espropriate dall’Amministrazione comunale per farne un “bene comune”, ma era convinto che l’unica possibilità che avesse l’Amministrazione comunale per evitare il peggio, fosse quella di abbattere i palazzi pericolanti, come fece con quelli compresi fra Corso Telesio, via Bombini e via Gaeta.

Per convincersi della liceità dell’acquisto e dell’esproprio sarebbe bastato ricordare, invece, un caso celeberrimo: quello del Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965.

La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare. Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini. Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.

Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).

La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).

Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).

I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).

Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.

Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a meno di 14 milioni di euro, 6 milioni meno del solo Ponte di Calatrava.

Pur sapendo che ogni finanziamento statale è prezioso, non possiamo non essere sconcertati nell’apprendere che i 90 milioni di euro (più di 6 volte il costo dell’intera operazione di ristrutturazione di Bologna!) destinati al Centro storico di Cosenza da parte dell’allora, ma ora di nuovo, ministro Franceschini nel 2017, saranno utilizzati, tutti e soltanto, per il recupero di 20 (venti!) immobili pubblici a valenza culturale (alcuni di essi sono stati più e più volte già finanziati), per il miglioramento dell’accessibilità, per la costruzione di nuove reti idriche e fognarie, per l’adeguamento di linee elettriche e della pubblica illuminazione e per la riqualificazione di spazi pubblici degradati.

Niente, neanche un centesimo, per tutto il resto, per il grosso del tessuto edilizio privato della città perlopiù degradato o, addirittura, in rovina. Niente per il Centro storico che, nella sua articolata complessità, Antonio Cederna, già nel 1982, riteneva dovesse essere “…considerato come un monumento unitario da salvaguardare e risanare a fini residenziali e culturali, e che, invece, ridiventa terra di conquista, affinché i nostri bravi architetti possano lasciare in esso lo loro “impronta” ovvero affermare lo loro “creatività progettuale”.

Niente per i cittadini che vogliono o vorrebbero continuare ad abitare le case in quelle strade ed in quelle piazze e piazzette, niente per i magazzini degli ultimi commercianti, ristoratori e artigiani, niente per il popolo che ha abitato ed abita la città, che ha conservato e trasformato nel corso dei millenni quei muri di pietre e mattoni che, inesorabilmente, si ridurranno in rovine e macerie.

Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, proceduto all’elaborazione di un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, può darsi che questi 90 milioni sarebbero stati spesi come a Bologna, ma un finanziamento di questa portata destinato esclusivamente ai fini sopradetti è del tutto pleonastico e spropositato.

Si potrebbe chiosare la natura dell’intero provvedimento finanziatore considerato come salvifico: lampioni a led per illuminare rovine deserte.

da “il Quotidiano del Sud” del 18 settembte 2020
foto di Ercole Scorza