Tag: mezzogiorno

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Credo che dopo queste prime ondate di calore estremo che hanno attraversato la penisola e che hanno stazionato soprattutto nel Sud ed in Calabria, non dovrebbe esser rimasto davvero nessuno insensibile al cambiamento climatico e all’evidente intollerabilità delle temperature nelle città in particolare. La combinazione del riscaldamento globale dovuto ai cambiamenti climatici e l’espansione dell’ambiente costruito globale ha dato luogo all’intensificazione delle “isole di calore urbane” (UHI: Urban Heat Island), accompagnata da effetti negativi sulla salute della popolazione.

Uno studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura. Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI, sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute grazie all’aumento della copertura degli alberi per rinfrescare gli ambienti urbani, che si tradurrebbe anche in città più sostenibili e resistenti al clima perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi. Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sono dunque le città con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo che formano delle “isole di calore” (UHI) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).

Quattordici città metropolitane sono state coinvolte nella “misura” “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”, finanziato con 330 milioni del Pnrr, per piantare 8,25 milioni di alberi, 8.250 ettari di foreste urbane, individuando luoghi e quantità secondo il principio di utilizzare “l’albero giusto nel posto giusto”. La Corte dei Conti ha, nel marzo 2023 (sic!), richiamato le città coinvolte ad accelerare i tempi di realizzazione dei due obiettivi relativi alla piantumazione di 1.650.000 alberi entro il 31 dicembre 2022 e di altri 6.600.000 entro la fine del 2024.

Proprio in questi giorni il Governo in carica ha annunciato il taglio di 1.287.100.000 delle “misure” M2C412.1.A e M2C413.1 del Pnrr che riguardano proprio la tutela del rischio idrogeologico e del verde urbano perché, secondo il ministro Fitto, “presentavano elementi di debolezza tali da renderli irrealizzabili entro il 2026”. È, forse, pleonastico dire che, in ogni caso, l’unica città calabrese dell’elenco, Reggio Calabria, aveva emanato il bando relativo a questa “misura” solo il 15 giugno del 2023.

Ho già scritto su questo giornale della pressocché totale assenza del verde urbano nelle altre città calabresi. Ho scritto, per esempio, dei 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara, un ecosistema dunale di grande bellezza e fragilità da preservare, di Giovino nei pressi di Catanzaro che è stato destinato alla cementificazione, della desertificazione delle vie e delle piazze di Cosenza nelle quali, quasi sempre, non c’è un solo albero, ma solo una cocente e desolata distesa di bitume o di mattonelle di quart’ordine.

Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento e delle piastrelle, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto anche nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o mediterranei, quasi centenari che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto. La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato.

La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini marittimi o mediterranei e i Pini d’Aleppo. Tutti i suddetti Pini non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).

Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, ora, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti e, fra poco, quasi certamente anche in Piazza San Giovanni? Quel che colpisce ancor di più è che, dopo averne tagliato il fusto, i ceppi degli alberi, in quasi tutti i casi, sono stati lasciati ‘in situ’ lasciando intatti i presunti problemi di sollevamento dell’asfalto e dei marciapiedi e, per sovrapprezzo, gli elevati costi di estirpazione meccanica di radici e ceppi.

Al posto dei quasi centenari Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera di Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento- a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro. Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vigileranno sulla celere ripiantumazione di questi lecci, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi poche sere fa davanti alla Casa comunale.

La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 luglio 2023
Immagine: Battista Sangineto

Autonomia differenziata, dopo la piazza i no della Svimez.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata, dopo la piazza i no della Svimez.-di Filippo Veltri

Dopo la grande manifestazione di sabato scorso a Cosenza anche la SVIMEZ ritiene, perdipiu’ ora, necessario ribadire che per riprendere oggi le fila di un dibattito informato e razionale sul regionalismo differenziato sia necessario muovere da due considerazioni.

La prima. Le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste dall’articolo 116 comma 3 della Costituzione sono legittime, ma sono parte integrante del Titolo V della Costituzione riformato nel 2001. Le richieste di regionalismo differenziato vanno perciò valutate, nei loro eventuali meriti e limiti, nel contesto di un’attuazione organica, completa, equilibrata, del nuovo Titolo V. Dunque, per realizzare la “compiuta armonia” occorre che i principi introdotti dall’art. 119 siano resi pienamente operativi, il che non è, visto che proprio la legge attuativa (la 42 del 2009), che mira a regolare il federalismo fiscale, non è stata mai, da allora, attivata.

Considerato ciò, il DdL Calderoli propone una sorta di avvio “a saldo e stralcio” del percorso per l’Autonomia differenziata che investe l’intera gamma delle materie di “legislazione concorrente” elencate dall’art. 117 comma 3 della nostra Costituzione. In altri termini, l’asimmetria che si chiede di introdurre deve essere, ad avviso della Svimez, armonicamente calata in un quadro di realizzato federalismo fiscale.

La seconda considerazione dell’istituto e’ la seguente. Bisognerebbe chiudere definitivamente con la stagione delle contrapposizioni territoriali. In realtà, benché questo aspetto sia rimasto dietro le quinte, le proposte di attuazione dell’autonomia differenziata hanno ricevuto critiche sul piano tecnico ben più ampie e articolate da diversi organismi estranei alla difesa di particolari interessi territoriali.

In particolare, le relazioni del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio (DAGL) e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UPB) che hanno bene messo in evidenza, insieme a un lungo elenco di criticità, il conflitto tra le richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il rispetto dei principi di eguaglianza, perequazione e solidarietà nazionale sanciti dal nuovo Titolo V.

Con il DdL Calderoli si va, insomma, potenzialmente verso un’attuazione “integrale” delle proposte di autonomia: la possibilità di chiedere il decentramento di tutte le materie previste, compresa l’istruzione, senza l’individuazione puntuale di criteri di accesso; l’inemendabilità da parte del Parlamento delle intese Stato-Regione; il finanziamento delle nuove competenze regionali extra-Lep sulla base della spesa storica; la previsione di una definizione dei Livelli essenziali delle Prestazioni entro 12 mesi ma ad invarianza di spesa.

Si tornerebbe, in sintesi, alle proposte di cinque anni fa, rimuovendo quanto avvenuto sino ad oggi sia nel contesto economico e sociale del Paese (Pandemia, PNRR e ora gli effetti della guerra in Ucraina) sia negli approfondimenti tecnici sulle precedenti versioni dell’autonomia.

Senza neanche recepire le indicazioni della Commissione istituita dalla Ministra Gelmini presieduta dal compianto prof. Beniamino Caravita che aveva chiaramente stigmatizzato il rischio che la devoluzione di tutte le competenze richieste avrebbe determinato non autonomie differenziate, ma vere e proprie nuove Regioni “speciali”.

Alla luce di queste circostanziate critiche, cade dunque la tesi che l’opposizione alle richieste del “fronte del Sì” venga da un “fronte del No” radicato territorialmente a Sud, nemico dell’efficienza e del cambiamento. Il tutto con buona pace per il ministro Calderoli il quale per ultimo ieri a Vibo Valentia nel corso di una iniziativa della Lega ha provato a difendere il suo disegno di legge parlando addirittura di una grande opportunita’ per il Mezzogiorno. Lo dicesse ai tecnici dello SVIMEZ!

da “il Quotidiano del Sud” del 17 giugno 2023

I patrioti di Meloni nella rete di Calderoli.-di Massimo Villone

I patrioti di Meloni nella rete di Calderoli.-di Massimo Villone

Non era mai successo. Come leggiamo su queste pagine, nessuno ha conoscenza o memoria alcuna di «bozze provvisorie» uscite dagli uffici della Camera o del Senato. Ma la voglia di innovazione della destra di governo produce l’impensabile. Che poi l’erronea pubblicazione di un testo non verificato sia credibile è tutt’altra faccenda.

Opportunamente Andrea Fabozzi precisa che il dossier è rimasto online per ben quattro giorni prima che si aprisse il caso. L’Ufficio bilancio del Senato non deve scuse ad alcuno. Piuttosto, deve scusarsi chi ha prevaricato su strutture che sono al servizio non della maggioranza ma della istituzione.

Quanto è accaduto conferma che Meloni ha commesso un errore lasciando in mani leghiste i ministeri chiave: Calderoli alle autonomie, Giorgetti all’economia, Salvini alle infrastrutture. Poi ha sbagliato lasciando Calderoli libero di scegliere tempi e modi delle sue mosse. Probabilmente ha perso l’ultima occasione di rallentare caterpillar Calderoli quando ha consentito il disco verde in Consiglio dei ministri senza uno straccio di discussione nel merito.

Forse la misura è stata colma quando Calderoli ha presentato il suo disegno di legge (AS 615) con la sola sua firma, e, ancor più, quando è emerso che aveva probabilmente già avviato contatti e trattative per la elaborazione delle future intese. Si è appreso, ad esempio, che il ministero dell’istruzione aveva stigmatizzato come inaccettabile l’ipotesi di ruoli regionali per i docenti.

Il punto è che la risposta del ministero comporta che qualcuno abbia posto sul punto una domanda. E chi può aver chiesto, se non il ministro delle autonomie? Sollecitato da chi? E quante altre domande ha posto a chi, di cui non sappiamo? È la nuova Italia, a firma Calderoli.

Ora Meloni deve aver capito che il suo partito di “patrioti” non può essere strumento decisivo nella costruzione di una patria nuova in salsa leghista. Ma fermare il treno in corsa è certo più difficile. Il dossier incriminato in fondo nulla dice che non sia stato già detto da esperti, studiosi, prestigiosi istituti di ricerca come la Svimez, soggetti istituzionali non sospetti di partigianeria come l’Ufficio parlamentare per il bilancio, la Corte dei conti, e persino la Banca d’Italia.

D’altra parte, quando si parla di una spesa regionalizzabile di circa 280 miliardi di euro, destinati ad andare in misura prevalente alle regioni più forti, è chiaro che alle altre non rimane che stringere la cinghia, con buona pace dell’eguaglianza dei diritti, del riequilibrio territoriale e della coesione sociale. L’Italia si frantuma, mettendo in discussione non solo la Costituzione del 1948, ma 160 anni di unità.

Che fare? Anzitutto, chiedere a Calderoli una piena informazione sull’operato del suo ministero. Inoltre, emendare l’AS 615 riportando nelle aule parlamentari ogni decisione nel merito delle intese e dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep). In parallelo, far emergere nel dibattito parlamentare la necessità di rivedere in modo mirato il framework costituzionale dell’autonomia, oggi scritto in modo tale che il rischio per l’unità del paese e l’eguaglianza esiste anche senza autonomia differenziata.

Per questo può essere utile la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta alla modifica degli articoli 116.3 e 117, sostenuta dal Coordinamento per la democrazia costituzionale. Abbiamo raccolto oltre 100000 firme, di cui solo poche migliaia andranno perse per le difficoltà incontrate nella certificazione.

Un grande risultato, ottenuto su un oggetto per larga parte misterioso per un’opinione pubblica tenuta per anni all’oscuro dal silenzio dei mezzi di comunicazione di massa, e dall’assenza di un vero dibattito in parlamento e nei partiti. Ma proprio le firme raccolte ci dicono di un paese diviso. In tutto il Nord, dal Friuli-Venezia Giulia alla Liguria aggiungendo anche l’Emilia-Romagna, le firme raccolte sono pochissime. Tante, invece, dal Sud. Ed è mai possibile che con i tradizionali banchetti il Molise raccolga più firme dell’Emilia-Romagna?

Bisogna spiegare e dimostrare che l’autonomia differenziata non è la via giusta. E che l’unità e la coesione convengono a tutti, e sono il solo vero modo di rafforzare la competitività del sistema-paese sul piano europeo e globale. Calderoli minaccia dimissioni, ma se ne faccia una ragione. E Meloni dimostri di saper fare il necessario su fronti di guerra che non sono in paesi lontani, ma dalle parti di Palazzo Chigi.

da “il Manifesto” del 18 maggio 2023

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

“Attualmente esiste in media un divario di almeno mille euro pro capite per abitante tra Mezzogiorno e Centro-Nord nella spesa pubblica”. Così i dati dell’Agenzia per la Coesione fotografano il differenziale di spesa per il finanziamento dei servizi tra le due diverse aree del Paese.

Questa fonte smentisce la vulgata del Sud inondato di risorse ma conferma, invece, il contrario. E questi dati si riflettono in una minore spesa sia in conto capitale per investimenti che in spesa corrente. Si tratta di un divario di spesa in comparti essenziali: dall’istruzione alla sanità, ai trasporti pubblici e alla spesa sociale.

Quindi, il divario Nord-Sud in termini di servizi che tutti i cittadini vivono quotidianamente è dovuto, in parte, anche a sacche di inefficienza ma prevalentemente anche al fatto che al Sud dal momento che alcuni servizi non esistono, semplicemente non esistono neppure le risorse per erogarli. È il meccanismo della spesa storica: dove non ci sono servizi non c’è neanche la spesa ed è questo che ha comportato il grande divario.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato approvato in Consiglio dei ministri con ulteriori integrazioni rispetto alle prime bozze. Adesso si conferma la necessità di definire i Lep prima di procedere al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni. Ma questo sarà un sufficiente strumento di garanzia? Questo rappresenterebbe una reale garanzia se alla definizione dei Lep facesse seguito anche un adeguato finanziamento.

Si tratta di una differenza sostanziale dal momento che la norma Calderoli ci dice che è sufficiente definire i Lep ma proprio alla luce del differenziale di servizio non basta stabilirli ma bisogna anche garantire le risorse per il loro finanziamento. Ciò vuol dire risorse aggiuntive prevalentemente per il sud, ma non solo, per erogare il servizio dove attualmente non c’è. In realtà, il problema viene aggirato e difatti rischiamo di avere una applicazione dell’autonomia anche in materie oggetto dei lep senza che i lep vengano finanziati.

Cosa potrebbe infatti avvenire nel caso in cui competenze come la sanità o la scuola venissero regionalizzate? Sono molti i rischi. In primo luogo, si rischia una frammentazione del Paese, una frammentazione delle politiche pubbliche ma c’è poi un tema di unità nazionale. Quando si impatta su materie quali l’istruzione che sono parte del nostro sentimento di unità nazionale si rischia di avere anche programmi diversi a livello territoriale. Addirittura nella proposta del Veneto si prevedeva che il personale della scuola fosse trasferito nei ruoli della Regione.

Si capisce bene che questo impatterebbe sia sulla mobilità sia sugli stipendi. Uno stesso insegnante in Veneto può guadagnare di più che in Calabria o in Campania facendo lo stesso lavoro. Oltre a ciò si indebolisce il principio di solidarietà nazionale perché con il trasferimento si bloccano le risorse e così avremo tre regioni il cui principale obiettivo è ridurre il loro contributo di solidarietà.

Restiamo in ambito scuola con un esempio. Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in una scuola della loro città. Ma mentre la bambina toscana, secondo i dati SVIMEZ, ha avuto garantita dallo stato 1226 ore di formazione; il bambino cresciuto a Napoli non ha avuto a disposizione la stessa offerta educativa, perché nel Mezzogiorno mancano infrastrutture e tempo pieno. Secondo la SVIMEZ, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del sud.

Poi ci sono i freddi numeri: secondo i dati SVIMEZ, nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale.

Ancora: per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore.

Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%).
Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

Parole e ulteriori commenti a questo punto non servono.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 febbraio 2023

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il varo dell’autonomia differenziata, che speriamo incontri una serie di ostacoli negli step successivi, rischia di spaccare il nostro paese al di là di quello che oggi si possa immaginare. Infatti, se fosse applicata come chiedono le Regioni Lombardia, Veneto e, sia pure con qualche distinguo, l’Emila Romagna, provocherebbero in pochi anni una divaricazione salariale, prima nel settore pubblico e poi, per la caduta della domanda, nel settore privato peggiore delle gabbie salariali che c’erano negli anni ’50 del secolo scorso.

Cerchiamo di entrare nel merito, considerando i desiderata della Lega e ipotizzando che vengano attuati. Tra quello che le singole Regioni danno allo Stato con imposte, accise, ecc. e quello che ricevono si è creato nei decenni una divaricazione sempre più marcata. Tre Regioni, ovvero Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, hanno un budget negativo nei confronti dello Stato mentre le Regioni a Statuto Speciale- Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino A.A, Friuli V.G. fanno registrare un surplus, vale a dire che ricevono più di quello che danno. La Regioni del Centro Italia sono grosso modo in pareggio, il Piemonte ha un surplus marginale, mentre la Liguria presenta, unitamente a tutto il Mezzogiorno, un attivo considerevole.

Per la cronaca la regione che ha il surplus in percentuale maggiore è la Calabria, quanto per cambiare, che diventerebbe la regione più penalizzata dall’autonomia differenziata. Se i flussi di entrata ed uscita tra la popolazione calabrese e lo Stato andassero in pareggio il reddito pro-capite arriverebbe a perdere dopo tre anni circa il 30%. Questo comporterebbe in primo luogo una caduta dei salari reali dei dipendenti pubblici, salvo che il governo regionale, ipotesi non credibile, non riducesse drasticamente l’occupazione nella sanità, scuola, servizi sociali, ecc, per mantenere lo stesso livello dei salari reali con il Nord.

In media le regioni meridionali perderebbero tra il 15 e il 20 per cento del reddito pro-capite e di conseguenza dei livelli salariali. Come avverrebbe questo taglio ai salari? Semplicemente non adeguandoli all’inflazione nei prossimi anni, mentre nelle tre regioni del Nord più ricche si avrebbe più che un recupero dell’inflazione, rendendo nuovamente attraente l’impiego pubblico, come per altro avviene in Centro e Nord Europa.

E’ facile immaginare che, al di là delle proteste, una buona parte dei meridionali cercherebbe di trovare lavoro nelle aree più ricche del Nord, creando un problema di concorrenza nel mercato del lavoro. A questo problema la Lega Nord ci ha già pensato da tempo con varie proposte che finora erano state bocciate, ma che l’autonomia rende possibile. Per esempio, per entrare nella pubblica amministrazione di queste regioni del Nord, dalla scuola alla sanità agli enti locali, devi avere almeno cinque anni di residenza provata. Un deterrente che certamente susciterà non poche polemiche e proteste di piazza.

Dobbiamo prendere atto che l’autonomia differenziata se passasse nei termini proposti da Calderoli creerebbe una sorta di Linea Gotica che spacca il nostro paese in due. E il governatore Pd dell’Emilia Romagna ne è responsabile quanto i presidenti regionali della Lega.

Per fortuna i giochi non sono ancora fatti, ma il rischio è alto. Che fine faranno le cinque regioni a Statuto speciale che percepiscono un lauto surplus, tra entrate e uscite, da parte dello Stato? E la Liguria che rischia di perdere qualcosa come il 10 per cento del suo reddito continuerà a stare a guardare? E la Meloni, che dell’Unità d’Italia ne ha fatto sempre una bandiera, potrà tener fede al patto con la Lega, allo scambio del presidenzialismo con l’autonomia differenziata? Ma, soprattutto, i governatori del Sud, a qualunque partito appartengano, potranno permettersi di restare alla finestra guardando a questo scippo che metterebbe fine ad ogni sogno di riscatto del Mezzogiorno?

da “il Quotidiano del Sud” del 7 febbraio 2023

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?

È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?

In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?

L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è condotta dalla giunta regionale e dal governo, ma il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa, ma sarebbe assurdo che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non potesse esercitare poteri decisionali su una questione che investe l’interesse generale.

Tali dubbi procedurali potrebbero essere risolti da una legge di attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione?

È quello che vorrebbe fare il governo con la proposta di legge Calderoli, per la quale il Parlamento può esprimere solo un indirizzo. Tuttavia, poiché l’intesa Stato-regione va approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può stabilire come quella legge dovrà essere approvata: fonti del diritto dotate di pari forza non possono prevalere l’una sull’altra. Solo una legge costituzionale, dotata di forza superiore, potrebbe vincolare la legge di approvazione dell’intesa.

Ma allora la proposta Calderoli non è vincolante nemmeno nella parte in cui stabilisce che prima dell’attribuzione delle nuove competenze alle regioni occorre approvare i livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti civili e sociali?

Esatto: le nuove competenze potrebbero comunque essere attribuite alle regioni anche senza i lep.

A proposito di lep: come e quando saranno individuati?
La legge di bilancio 2023 prevede i seguenti passaggi, da realizzarsi in un anno: (1) la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa) formula una prima ipotesi di lep; (2) la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico; (3) la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) e il Parlamento forniscono il loro parere; (4) il Presidente del Consiglio approva i lep con dPcm.

È una procedura costituzionalmente corretta?

No, la Costituzione attribuisce il compito di definire i lep al Parlamento in tutte le materie, invece lo farà il governo e solo in alcune materie. Inoltre, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che sarà il bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario (come dice la sentenza 275/2016 della Corte costituzionale).

Dai lep dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze?

No, tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione del residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere parte delle risorse versate al fisco. È una rivendicazione illogica, perché a pagare le tasse sono le persone (non le regioni) sulla base del loro reddito (non del luogo di residenza). Ed è incostituzionale, perché gli articoli 2 e 53 della Costituzione sanciscono la solidarietà economica e tributaria a livello nazionale.

Ma, allora, definire i lep a cosa serve?

Dai lep dovrebbe dipendere il livello minimo di finanziamento assegnato ugualmente a tutte le regioni, in modo che tutte possano offrire le medesime prestazioni di base. Ma c’è poco da illudersi: in sanità i lep già esistono e, tuttavia, l’ammontare del finanziamento e la qualità delle prestazioni sono tutt’altro che uniformi.

Quali regioni hanno sinora manifestato l’intenzione di avvalersi dell’autonomia differenziata?

Tutte le regioni ordinarie, tranne Abruzzo e Molise. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le più avanti nelle trattative con il governo, al punto da aver sottoscritto una bozza d’intesa.

Quali sono, secondo tali bozze d’intesa, le competenze che verranno attribuite alle tre regioni?

Sono competenze amplissime: il governo della sanità e della scuola; fondi integrativi per università e ricerca; la regionalizzazione dei musei; l’organizzazione della giustizia di pace; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale; il controllo di porti e aeroporti; la protezione civile; il ciclo dei rifiuti; le semplificazioni amministrative in edilizia; l’energia; ecc. Il Veneto vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, il reclutamento dei Vigili del Fuoco… L’Emilia-Romagna è più prudente, ma ugualmente incisiva: per esempio, non chiede il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Come fermare l’autonomia differenziata?

La via maestra sarebbe eliminare dalla Costituzione l’ipotesi stessa. Più realisticamente, si potrebbe modificare l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, riducendo il numero di materie richiedibili dalle regioni, introducendo una clausola di supremazia statale e prevedendo la possibilità di referendum approvativo e abrogativo per la legge di recepimento dell’intesa (come propone il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale con una legge di iniziativa popolare che si può sottoscrivere qui). Al minimo, bisognerebbe valorizzare il principio che tutela l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e, dunque, ritenere incostituzionali le richieste regionali – come quelle di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – prive di una dimostrata esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.).

da “il Manifesto” del 4 febbraio 2023

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

1. Il disastro di Ischia non deve considerarsi evento eccezionale, legato alla presenza di iper cementificazione abusiva e alle caratteristiche ambientali dell’isola. Tantissimi contesti territoriali di quello che era considerato “il Belpaese” infatti sono destabilizzati da diffusione insediativa, consumo di suolo, urbanizzazione eccessiva spesso autorizzata, che ne hanno stravolto gli ecosistemi ; con degradi e dissesti già gravi, che diventano esiziali per le ricadute della crisi climatica. Gli eventi tragici che si susseguono sempre più ravvicinati inon sembrano però scalfire l’agenda politica : si urla per qualche giorno, poi la transizione ecologica torna ad essere per lo più una chiacchiera.

2. Pochi dati bastano a fornire i contorni del dissesto diffuso da impatti della cementificazione. L’italia dovrebbe avere , considerando abitanti residenti e presenti( compresi neonati e immigrati senza permesso), per fornire comodamente un tetto a tutti, circa 7 miliardi di metri cubi di volumi abitativi. Secondo i datascape ISTAT, se ne è costruito quasi il doppio; con un effetto di clamoroso sfascio economico e ambientale. Il suolo consumato seguita a crescere. Oggi è pari a circa il 10% del territorio nazionale. L’ISPRA ammonisce che tutto ciò significa il 94% dei comuni italiani a rischio frane o alluvioni, con ripartizione pressoché uniforme da nord a sud del Belpaese e 3,5 milioni di famiglie interessate del fenomeno.

L’Osservatorio “Città- Clima” di Legambiente sottolinea ancora gli effetti ormai quotidiani della crisi ecologica, testimoniati dagli “eventi estremi” degli ultimi dodici anni che superano quota 1500, con un incremento del 27% di quest’anno rispetto al precedente. E con crescenti sofferenze dei territori, i cui suoli sono “esasperati e stressati” del succedersi di fenomeni intensi quanto opposti: prolungate ondate di calore e connessa siccità, interrotte da precipitazioni copiose fino alle “bombe d’acqua”.

3. Già una decina di anni fa il MISE- non un centro studi di ecologisti radicali- stimo l’entità della spesa necessaria a mettere in sicurezza il paese dai rischi: sismico , idrogeologico , da incendi , inquinamenti : essa ammontava a ca 190 milardi di Euro. Si proponeva un programma pluriennale con voce permanente in Finanziaria. Renzi da presidente del consiglio sulla base di questo lanciò il programma “Casa Italia”. Che si bloccò e fu dimenticato dopo pochi mesi . Probabilmente quando ci si accorse che servivano soprattutto tanti piccoli progetti “a grana fine ”di ripristino e riterritorializzazione. Non le Grandi Opere dal sicuro effetto politico-mediatico.

L’agenda politica infatti ignora quasi completamente tali problemi, aldilà di dichiarazioni e annunci. Come dimostra il PNIAC , Piano Nazionale di Azione Climatica, pronto in bozza fin dal 2016, ma mai approvato. Lo stesso PNRR da questo punto di vista rappresenta un’enorme occasione sprecata; se si pensa che sono destinati al risanamento del territorio appena 4,5 miliardi di Euro, il 2% ca del totale spendibile. Un paradosso a fronte dei 31 miliardi di euro dedicati ad alta velocità e grandi opere ad alto impatto ambientale, che diventano 81 con il Collegato Infrastrutture.

4. Proprio Il PNIAC, insieme al Green Deal europeo e agli SDG (Obiettivi di sviluppo sostenibile) dell’UNEP forniscono i criteri per le azioni di risanamento e consolidamento dei territori rispetto alla crisi ambientale. In Italia poi c’è l’ulteriore vantaggio di annoverare nei nostri quadri programmatici ordinari uno strumento già orientato a tutela e riqualificazione, il Piano Paesaggistico. Come previsto dal piano per il clima, i ministeri interessati, specie Ambiente, Cultura e Infrastrutture , di concerto con le Regioni, promuovono “task-force” di risanamento e restauro . Esse possono assumere come Linee Guida per l’azione di medio-lungo periodo proprio i piani Paesaggistici.

L’emergenza climatica – come è evidente in queste ore- richiede però azioni rapide, incisive già subito o nel periodo medio-breve. Per questo bisogna introdurre le strategie recenti, promosse da Green Deal e UNEP , legate ai Programmi di Adattamento Climatico ed ai Progetti di Resilienza, già realizzati in molte grandi città e contesti territoriali internazionali(tra cui Oslo, Copenaghen, Amsterdam, Singapore), ma solo a Bologna , tra i capoluoghi italiani. Essi sono costituiti da progetti integrati di gestione dei fenomeni legati agli andamenti meteoclimatici di contesto e relative ricadute critiche, già registratesi e prevedibili. La particolarità di tali azioni è che muovono dal “ripristino di ciò che l’ipercementificazioneha distrutto, ovvero l’ecofunzionamento naturale degli habitat”. Il primo elemento di consolidamento di un ambito è l’azione di aggiustamento, restauro degli apparati paesistici. La prima azione urgente in pressoché tutti i 92000 comuni italiani è quella di ripristinare le vie di fuga dell’acqua, nonché la continuità dell’armatura dei collettori idrologici e paesistici. Azioni semplici da fare subito.

5. È necessaria una svolta reale quanto drastica nelle politiche ecologiche e territoriali. Siamo scettici che questo possa accadere per improvvise “illumininazioni” di un ceto Politico-istituzionale bloccato da incapacità e soprattutto interessi sostanzialmente estranei a questi temi. Appare necessaria l’azione diretta, ove possibile, altrimenti di pressione critica sui decisori , di quelle numerosissime soggettività che anche nel Belpaese lavorano ogni giorno per la tutela di ambiente e territorio, ma anche per produrre ricchezza da beni autosostenibili; e costituiscono ormai una realtà economica da decine di miliardi di euro all’anno. La transizione che urge parte da loro.

da “il Fatto Quotidiano” del 5 dicembre 2022

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Creare occupazione intellettuale, rinnovare lo Stato.-di Piero Bevilacqua Un milione di posti di lavoro

Creare occupazione intellettuale, rinnovare lo Stato.-di Piero Bevilacqua Un milione di posti di lavoro

Si può creare un milione di posti di lavoro con una iniziativa governativa e non è una barzelletta di Berlusconi. E senza generare nuovo debito. Lo documenta un progetto elaborato da un gruppo di studiosi dell’Università di Torino e del Piemonte Orientale: Guido Ortona, Filippo Barbera, Francesco Pallante e altri. Il meccanismo è semplice: si tratta di imporre un prelievo dell’1%, una tassa di solidarietà, sulla ricchezza finanziaria con quota esente di 300 mila € e per un periodo limitato di circa 4-5 anni.

Un prelievo, si badi, da attuarsi sui 5.000 miliardi di euro che è l’attuale ammontare della ricchezza finanziaria degli italiani. Su quest’ultimo aspetto la nostra stampa sorvola sempre e comprensibilmente, visto il ruolo che gioca in difesa dei ceti abbienti. Il nostro è un paese composto da famiglie ricche che vivono in una società sempre più povera. Una ricchezza immobile, che blocca l’Italia intera.

Da questo immenso patrimonio, col prelievo proposto, si ricaverebbero oltre 27 miliardi di euro che diventerebbero stipendi per un milione di persone assunte nella Pubblica Amministrazione. Stipendi equivalenti a quello di un professore di scuola media intorno a 1.400 € al mese. Questa trasformazione del risparmio finanziario in stipendi avrebbe uno straordinario effetto moltiplicatore sull’economia: aumentando i redditi accrescerebbe i consumi e migliorerebbe al tempo stesso il rapporto tra debito pubblico e PIL.

Ma l’aumento degli stipendiati accrescerebbe il gettito fiscale allo stato, con vantaggio per le sue capacità di investimento pubblico, innalzerebbe l’efficienza della macchina amministrativa, con beneficio per l’economia, la qualità dei servizi. Nel giro di 5 anni, è stato calcolato, i 27 miliardi prelevati ne genererebbero ben 40. E Il lieve prelievo sugli alti redditi potrebbe essere anche annullato dopo 5 anni. Questo, dunque, costituirebbe uno dei più vantaggiosi investimenti pubblici oggi realizzabili.

Ricordiamo che negli ultimi 20 anni in tanti settori, nella sanità, nella scuola, nei trasporti, nell’Università, un elevato numero di personale è andato in pensione e non è stato sostituito. E noi siamo infatti i più sguarniti nei ranghi della Pubblica Amministrazione. rispetto ai grandi paesi europei. Significativamente l’Italia crea in Europa meno laureati, ma tra questi ha il numero più elevato di disoccupati rispetto agli altri grandi partner continentali.

Il nostro Mezzogiorno conosce da anni questo fenomeno devastante: ragazzi con la laurea in tasca, spesso anche un dottorato o un master, scappano in qualche città del Nord e soprattutto all’estero in cerca di fortuna. Una parte grande del dramma dei giovani laureati meridionali e non solo meridionali ha qui la sua origine: la PA non li recluta, come accade in Francia, in Germania o nel Regno Unito e loro emigrano in Francia, in Germania e nel Regno Unito. Le nostre famiglie investono una parte rilevante del loro reddito per formare i propri figli e questi, alla fine del ciclo scolastico-universitario, mettono la propria cultura e competenza a servizio di altri Paesi.

Dunque siamo di fronte a un progetto ragionevole, assolutamente sostenibile sotto tutti i profili, anche quello organizzativo: si potrebbe svolgere ogni anno un concorso pubblico per 200 mila candidati e nel giro di 5 anni 1 milione di giovani sarebbe in organico. Meno disoccupati, meno giovani frustrati e in fuga, maggiore coesione sociale, incremento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione, crescita complessiva della ricchezza nazionale. Una possibilità che dipende esclusivamente dalla volontà politica.

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

L’aspetto più incoraggiante di questi ultimi giorni, nei quali
riflettiamo con delusione e frustrazione sui risultati elettorali di
Unione Popolare, è la volontà, espressa da tutti coloro che
intervengono coi loro commenti, di continuare la nostra avventura. Si
legge la stessa determinazione con cui abbiamo affrontato, nelle
condizioni più avverse, la sfida quasi impossibile di raccogliere, nel
cuore di una delle estati più torride del millennio, le decine di
migliaia di firme richieste per la partecipazione alla campagna
elettorale. E bisogna aggiungere che pari ostinazione hanno mostrato
migliaia di cittadini, i quali hanno affrontato in paziente fila, il
sole ustorio di agosto per potere apporre la loro firma.

Dunque volontà di continuare il nostro progetto come del resto avevamo
promesso. Ma come? In che forma, con che modalità organizzativa?
Dobbiamo fare il salto da una lista elettorale imbastita
precipitosamente – ma, bisogna riconoscere, ammirevolmente ben fatta –
a una struttura più stabile, pensata accuratamente nei suoi organismi
rappresentativi, in grado di garantire democrazia ed efficienza
operativa. Non è un obiettivo che si raggiunge in un giorno, ma
bisogna, con il concorso di tutti, gettare da subito le prime
fondamenta su cui costruire l’edificio.

A mio avviso sarebbe molto utile organizzare intorno a metà ottobre
quella Assemblea costituente di due, tre giorni che De Magistris aveva
proposto prima che dovessimo affrontare le elezioni anticipate.
Sarebbe innanzitutto um modo di reincontrarci o di conoscerci per la
prima volta. I compagni e le compagne sentono anche un gran bisogno di
raccontarsi, di narrare le loro esperienze, esprimere le loro
critiche, suggerimenti, proposte. La volontà militante – che
purtroppo, di questi tempi, non è una virtù civile diffusa – si
rafforza se tutti si sentono protagonisti di un progetto, se hanno
diritto di parola, alla pari con gli altri.

Naturalmente occorre arrivare all’appuntamento con qualche idea
organizzativa. L’appuntamento deve essere in parte una festa ma deve
concludersi con indicazioni operative ben chiare, perchè tutte e tutti
tornino a casa sapendo come proseguire. Provo perciò a buttare giù
delle idee da prendere come contributo sperimentale alla discussione
che seguirà. E la prima cosa che mi sento di dire è che – con tutte le
variazioni, declinazioni originali che possiamo immaginare –io non
vedo organizzazione più efficiente, capace di tenere insieme
pluralismo delle idee e capacità di azione, del partito.

Il partito, non dimentichiamolo, è “l’organizzazione della volontà collettiva”
(Gramsci) è una grande conquista della modernità, ha sottratto gli
individui al loro isolamento molecolare e ne ha fatto una comunità di
lotta, un protagonista di prima grandezza dell’età contemporanea in
tutto il mondo. Anche se adesso i partiti non sono, almeno in Italia,
che agenzie di marketing elettorale, noi dobbiamo tentare questo
modello, sapendo che abbiamo intorno altre forze di sinistra con cui
dobbiamo dialogare e un arcipelago vastissimo di associazioni,
circoli, gruppi che non faranno mai parte di un partito, ma che
saranno i nostri compagni esterni nelle varie battaglie e mobilitazioni
che condurremo.

Un partito necessita di un portavoce e noi l’abbiamo.Chi ha seguito De
Magistris anche nelle poche apparizioni televisive ha potuto
constatare la sua capacità di rappresentarci e di dare calore
comunicativo ai punti del nostro programma. Questo al netto della sua
esperienza politico-amministrativa che nessuno di noi possiede.
Naturalmente, come ho sempre sostenuto, se il suo ruolo e la sua
figura nel nostro collettivo, sono naturaliter preminenti, dobbiamo
evitare di imboccare la strada del partito del leader.

Questa tendenza, ormai dominante dappertutto, va contrastata come effetto
dello svuotamento di democrazia che i partiti hanno subito negli
ultimi decenni, soprattutto in Italia. In concomitanza, del resto, con
la torsione autoritaria che ha investito l’intera società, a
cominciare dai sistemi elettorali. Il neoliberismo non ha liberato
nessuno, ha creato nuovi vincoli e nuove servitù. Mentre la società
dello spettacolo tende a rappresentare la politica come un gioco di
società tra leader facendo scomparire tutti gli altri.

Quindi il portavoce deve avere attorno un gruppo
dirigenterappresentativo delle varie anime di UP, che al momento sono
i dirigenti delle forze politiche che la compongono. Potremmo
chiamarla Segreteriao Direttivo, si vedrà. Naturalmente in seguito
bisognerà inventare procedure elettive che garantiscano un
funzionamento pienamente democratico. E va da sé che occorrerà
elaborare uno statuto. Potrebbe essere il caso di convolgere un gruppo
di saggi – personaggi di prestigio esterni a UP – che ci aiutino in
questo compito di selezione e fondazione delle regole di democrazia
interna.

Un altro organismo che al momento io vedo necessario, per un primo
assetto organizzativo, è un Comitato territoriale, vale a dire un
organo in cui siano presenti i rappresentanti di tutti i territori,
che si riunisce con una periodicità da stabilire. Si dovrà poi capire
se una rappresentanza di dimensione regionale sia la misura più giusta
e meglio gestibile.

Scendendo al livello organizzativo di base, cioé alla necessità di
creare delle unità organizzative che possiamo chiamare
circoli,sezioni, presidi , case del popolo o in altro modo, si pongono
dei problemi politici rilevanti, anzi, il problema politico principale
per la costruzione di un partito. Vale a dire il passaggio di
Rifondazione Comunista, Potere al Popolo, Dema e tutte le formazioni
minori alla nuova creatura chiamata Unione Popolare.

Voglio premettere che io sono uno storico e per giunta un vecchio militante e posso
capire forse più di altri l’attaccamento quasi carnale di tanti
compagni alle proprie bandiere. So che in quel legame c’è un pezzo di
storia della propria vita, battaglie, sacrifici personali, marce e
nottate. Per questo ho il massimo rispetto per tali sentimenti di
fedeltà, che davvero splendono di nobiltà di fronte alle giravolte dei
voltagabbana della nostra scena parlamentare e partitica.

Ma la politica, specie quella che ha l’ambizione di cambiare il mondo, è
consapevolezza del proprio tempo e coscienza della propria storia. E
la nostra, non dimentichiamolo, negli ultimi decenni è stata una
storia di divisioni e lacerazioni. Dobbiamo essere consapevoli che se
non vogliamo limitarci a fare opera di testimonianza, ma abbiamo
l’ambizione di ottenere largo consenso dagli italiani, diventare forti
per aiutare chi è stato emarginato, noi non possiamo presentarci come
i resti di un esercito sconfitto.Diciamo la verità: Rifondazione,
Potere al Popolo, Dema appaiono agli osservatori esterni come la
testimonianza della sempiterna divisione della sinistra. Aggiungo qui
un’altra considerazione: è il nostro vasto e disperso popolo di
militanti e semplici elettori, deluso e scoraggiato, che vive come un
dramma le nostre divisioni. Ne ho avuto ulteriori, molteplici prove
durante la campagna elettorale. E il fatto di non accorgercene è la
nostra maggiore colpa e una delle causa della nostra perdurante
marginalità.

Dunque l’Unione Popolare è un passo in avanti, una conquista a cui
occorre guardare con fiducia e generosità, puntando a rendere
tendenzialmente ancora più vasto il campo dell’ unità con le altre
forze anticapitalistiche che esistono in Italia. Ricordo che
Melanchon, Iglesias, Corbin, Ken Loach, non avrebbero espresso il loro
autorevole appoggio alle singole forze se esse non si fossero
presentate sotto il simbolo unitario dell’Unione.

Passando perciò ai più terrestri problemi organizzativi io credo
necessario,con tempi di maturazione che varieranno da situazione a
situazione, che occorre creare dovunque sia possibile circoli,
sezioni, case del popolo, ecc , con l’insegna di Unione Popolare,
magari unificando le poche forze che abbiamo anche in uno stesso
locale. Bisogna imparare a vivere insieme: anche questa è intelligenza
politica, lavoro di costruzione del partito. Quanto più realizziamo ed
esprimiamo spirito unitario tanto più diventiamo e appariamo forti e
credibili.

E qui vorrei concludere con tre osservazioni e proposte. Dobbiamo
trasmettere ai cittadini il senso della nostra utilità sociale. Oggi,
fondatamente, la maggioranza degli italiani – come testimonia anche il
crescente astensionismo – considera gli esponenti dei partiti come un
ceto sociale parassitario. Vendono propaganda elettorale e in cambio
ricevono i nostri voti: cioé soldi, potere, privilegi, visibilità
mediatica in cambio di nulla. Quando non compiono scelte
antipopolari…

Noi siamo diversi, abbiamo programmi alternativi, ma
non abbiamo ancora fatto niente, come Unione Popolare,per convincere i
cittadini che siamo diversi e che potremmo realizzarli.Molto
opportunamente, De Magistris ha cercato di smarcarsi da questa
immagine, di rendersi credibile nel grande frastuono pubblicitario
della campagna elettorale, ricordardo la propria esperienza di
sindaco.Ma noi siamo agli inizi e dunque dico che i nostri presidi nel
territorio devono assomigliare a sedi di volontariato.

I cittadini del quartiere devono vedere in esse non soltanto il luogo dove si discute
di politica, ma dove si insegna un po’ di italiano agli immigrati, si
organizzano i GAS per portare le cassette di cibo a casa degli
anziani, si aiutano le persone inesperte a risolvere al computer i
loro problemi amministrativi. Attenzione a quest’ultimo aspetto:
l’anafabetsimo informatico di tanti cittadini costituisce oggi una
limitazione dei loro diritti. E’ come l’analfabetismo totale degli anni
’50. Ma questi nostri centri dovrebbero essere in grado, con altre
forze, di organizzare campagne ambientaliste con i giovani, i quali
oggi sembrano interessati solo a questa forma di militanza. Quindi
giornate dedicate alla pulizia dei giardini pubblici, delle spiagge,
per la piantumazioni di alberi in città, ecc.

Ma c’è un altro aspetto su cui voglio richiamare la vostra
attenzione:noi dobbiamo distinguerci nel linguaggio, parlare davvero
ai sentimenti delle persone, scambiare esperienze umane anche senza
volontà di coinvolgimento politico.L’ideologia neoliberistica ha
ridotto la società a una giungla competitiva e noi dobbiamo
combatterla a partire dal nostro comportamento, dalle nostre parole.

I cittadini non hanno solo bisogno di vedere abbassate le bollette e
aumentati i salari, vorrebbero sentire risuonare di nuovo le parole
dell’amicizia, della solidarietà, della fratellanza e della
sorellanza. Prendiamone atto: un Grande Inverno ha inaridito i
sentimenti che avevano tenuto insieme milioni di persone, unite dalle
stesse speranze e dagli stessi sogni.Le nostre città sono aggregati di
solitudini frettolose: perciò occorre creare momenti di pausa, di
fermo, di incontri senza fini utili, di festa, di bighellonaggio, di
sberleffi alla società agonistica, spietata e stupida della corsa al
danaro.

Organizziamo giornate di rivolta civile spese per strada e
nelle piazze a chiacchierare con gli amici, giocare con nostri figli e
nipoti, coi nostri animali.Rendiamo consapevoli le persone di essere
incalzate dal potere in ogni momento della loro vita, insegniamo loro
a liberarsi. Al tempo stesso dobbiamo esprimere un atteggiamento di
cura verso l’altro perché oggi lo dobbiamo avere anche per la natura,
ferita dal nostro saccheggio. Noi saremo davvero il nuovo mondo
possibile se riusciremo a legare insieme la fratellanza fra di noi con
quella per tutte le altre creture viventi oggi in pericolo.Il rapporto
con il mondo cattolico sensibile al messaggio di papa Francesco, ma
anche con le compagne e i compagni che si raccolgono nella Società
della cura, con tanti movimenti ambientalisti, i ragazzi di Fridays
for Future, ecc. diventa in questo modo possibile.

Infine una proposta che ho già avanzato e che ripeto.Io ho i rapporti
personali necessari per poter organizzare una Scuola di cultura
politica e ambientale online, capace di diventare, con una lezione da
remoto ogni settimana, un nostro marchio culturale e al tempo stesso
uno strumento di formazione, di allargamento della nostra influenza,
di arricchimento e unificazione della soggettività politica di tanti
italiani, di dialogo con le altre forze di sinistra.Ogni settimana uno
studioso terrà una lezione su un tema di sua competenza, che gli verrà
richiesto secondo un calendario da costruirsi, così che centinaia di
migliaia di persone possano ascoltarla in ogni angolo d’Italia.

Ma per fare questo occorre una grande piattaforma informatica.Lo strumento,
tra l’altro, che ci può consentire l’informazione alternativa alla
manipolazione sistematica della TV capitalistica. Questione non solo
tecnica, ma anche politica. Occorre che le mailing list di Dema,
Rifondazione, Potere al Popolo e delle altre formazioni si fondano.
Ancora una volta dunque occorre un altro salto verso l’unificazione di
Unione Popolare.

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

Il Mezzogiorno ’desaparesido’ nei programmi.-di Tonino Perna

In questa surreale campagna elettorale qualche sporadico commentatore si è accorto che il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica dei partiti. Non è una novità. Da almeno vent’anni il Mezzogiorno come priorità è scomparso nei programmi delle forze politiche. Già negli anni ’90 del secolo scorso il riferimento al Mezzogiorno era diventato rituale, secondo il noto refrain “sviluppo, occupazione, Mezzogiorno”, ripetuto stancamente dai sindacati Confederali quanto dalle forze della Sinistra.

Nel frattempo il divario Nord/Sud nel nostro paese è cresciuto sia in termini di reddito che di servizi sociali e sanitari, ma soprattutto l’emigrazione giovanile è aumentata vistosamente come non avveniva dagli anni ’50 del secolo scorso. In quest’ultimo decennio si stima che due giovani su tre sia emigrato dal Sud per ragioni di lavoro e di studio, anche dalle regioni meridionali che hanno avuto un importante sviluppo in alcuni settori, come la Puglia, e il tasso d’emigrazione si è ridotto parzialmente solo in Sardegna e negli Abbruzzi.

Le popolazioni meridionali hanno assistito a questo salasso in silenzio: non ci sono più lotte sociali, mobilitazioni di massa se non per vertenze locali specifiche. La “restanza”, come la definisce con un efficace neologismo l’antropologo Vito Teti, è una scelta coraggiosa di pochi eroi solitari, di qualche esperienza esemplare, mentre la normalità è la fuga e l’accettazione passiva del presente.

Si può dire, senza tema di smentita, che la rassegnazione sia in questo momento la cifra dell’Italia, che ci accingiamo a consegnare ad una destra neofascista il nostro paese come fossimo di fronte alla potenza del Fato. E così siamo diventati ciechi e non vediamo che proprio nel Mezzogiorno ci potrebbe essere la risposta più efficace alla crisi che stiamo attraversando.

La crisi energetica e quella alimentare ci hanno posto di fronte ad una realtà che i bassi prezzi degli idrocarburi e dei cereali ci avevano permesso di ignorare. Ci sono settori vitali per un paese che non possono essere lasciati ai giochi della finanza internazionale. L’energia e i beni alimentari di base devono essere considerati beni strategici e come tali bisogna puntare all’autosufficienza, almeno a livello europeo. In breve, questa crisi ci ha insegnato che non possiamo continuare a inseguire il nostro vecchio modello di sviluppo.

Cambiando ottica e prospettiva allora possiamo vedere come il Mezzogiorno possa giocare un ruolo fondamentale per uscire da questa crisi e intraprendere una nuova strada. Sulla produzione di energia rinnovabile – sole e vento in primis, ma non solo- il territorio meridionale potrebbe rendere autosufficiente il nostro paese se ci fosse la volontà politica di avviare celermente un serio programma in questa direzione. Non bastano incentivi ai privati e sburocratizzazione per le autorizzazioni, sicuramente necessarie, è decisivo unintervento diretto dello Stato, attraverso le aziende a partecipazione pubblica come l’ENEL in cui è ancora il maggiore azionista.

Purtroppo, la logica delle liberalizzazioni, l’aver trasformato servizi pubblici essenziali (come l’energia o l’acqua) in merci qualunque, la cui proprietà finisce spesso in mano a fondi speculativi internazionali, rende non facile questa operazione. Verrebbe da dire che rimpiangiamo, malgrado tutto, la prima fase della Cassa per il Mezzogiorno che fece investimenti strutturali di grande valore in poco tempo, prima di cadere nella morsa della corruzione.

Ugualmente nel campo dell’agricoltura si rende urgente un cambiamento di modello produttivo. La nostra forte dipendenza dall’importazione di grano e mais non può essere più accettata. Da una parte, bisogna ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi che oltre ad essere una fonte primaria di inquinamento, fanno male alla salute e ci rendono dipendenti dal mais importato. Dall’altra, ci sono terre incolte, centinaia di migliaia di ettari abbandonati in tutto l’Appennino e nelle zone collinari e montagnose delle due isole maggiori.

Anche in questo caso è nel Mezzogiorno che si concentrano le terre abbandonate e quindi la possibile loro utilizzazione ai fini di un’agricoltura per il benessere dei cittadini e dell’ambiente, di una pastorizia sostenibile sia sul piano sociale che ambientale, di una agricoltura contadina moderna come ci ha ricordato più volte Piero Bevilacqua. Anche in questo caso ci vorrebbe un intervento pubblico forte e deciso: una nuova Riforma agraria in chiave di transizione ecologica. Questo non è romanticismo ma una risposta che guarda al futuro, dove il Mezzogiorno non chiede di eguagliare il Nord, come modello di produzione e consumi, ma di dare all’Italia il suo contributo per renderla più libera e più vivibile.

da “il Manifesto” del 2 settembre 2022

I doni avvelenati della destra al Mezzogiono.-di Pino Ippolito Armino

I doni avvelenati della destra al Mezzogiono.-di Pino Ippolito Armino

I sondaggi dicono che il Mezzogiorno è l’area del Paese nel quale più ampio sarà il successo della coalizione delle destre il prossimo 25 settembre. Secondo l’Istituto Cattaneo, che ha stimato la possibile distribuzione, a questa coalizione andrebbero infatti 44 dei 50 seggi da assegnare con uninominale alla Camera e addirittura 24 su 25 al Senato. I restanti seggi, inoltre, ad eccezione di Napoli dove si profila una possibile vittoria del centrosinistra, sono considerati contendibili (Istituto Cattaneo, 9 agosto 2022). A cosa si deve questo eccezionale risultato? È l’ultimo dei paradossi cui ci ha abituati la storia del nostro Mezzogiorno perché i tre alfieri delle destre portano ciascuno il proprio dono agli elettori meridionali. Ma sono doni avvelenati.

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e aspirante presidente del Consiglio, promette l’abolizione del reddito e della pensione di cittadinanza con qualche guarentigia per i disabili, le persone con oltre 60 anni di età, le famiglie senza reddito e con minori a carico. Attualmente i nuclei beneficiari di queste prestazioni sono 1,15 milioni e coinvolgono in totale 2,46 milioni di persone. Di queste 1,69 milioni (69%) risiedono al Sud o nelle Isole. La regione che più ne beneficia è la Campania (22% del totale delle prestazioni erogate), a seguire la Sicilia (19%) (Report Inps, luglio 2022).

Silvio Berlusconi, padre padrone di Forza Italia e aspirante presidente della Repubblica, ha da sempre il suo cavallo di battaglia elettorale nella riduzione delle tasse da attuarsi, in spregio alla Costituzione e a ogni elementare criterio di equità sociale, con flat tax estesa a tutti i contribuenti. Ad avvantaggiarsene, come già sappiamo, sarebbero i redditi più alti. Il 78% dei redditi al di sopra dei 26.000 euro annui si trova al Centro-Nord e solo il 22% è a Mezzogiorno dove risiede il 34% della popolazione italiana.

Ma il dono che dovrebbe risultare più indigesto ai meridionali viene dalla Lega. Matteo Salvini, che è capolista al Senato in Basilicata, Puglia e Calabria, vuole portare a compimento il progetto di autonomia differenziata avanzato da Lombardia, Veneto ed Emila Romagna che il 28 febbraio del 2018 hanno siglato una pre-intesa con l’allora governo Gentiloni.

L’intesa prevede, in estrema sintesi, la distribuzione della spesa pubblica con il criterio della spesa storica che già oggi premia largamente il Centro Nord e contemporaneamente sottrae di fatto al parlamento la possibilità di legiferare, con uniformità per tutto il territorio nazionale, su temi di particolare rilevanza come la sanità, l’istruzione, l’ambiente, le infrastrutture. Il solo vincolo sarebbe quello della definizione dei livelli essenziali di prestazione ma anche qualora venissero infine stabiliti e soprattutto rispettati, cosa tutt’altro che scontata considerata la gravissima disparità territoriale già in essere fra le regioni meridionali e il resto d’Italia, si riferirebbero a un nucleo ridottissimo di garanzie sociali. Sarebbe la fine dello stato unitario. Un risultato pervicacemente perseguito dalla Lega sin dalla sua nascita e che avrebbe esiti catastrofici per tutta l’Italia, questo stentano a capire i dirigenti leghisti, e non per il solo Mezzogiorno.

In conclusione le tre proposte flag della destra (abolizione del reddito di cittadinanza, flat tax e autonomia differenziata), se attuate, comporterebbero un trasferimento netto di risorse dalle aree più povere a quelle più ricche del Paese, dal Sud al Nord dell’Italia. Negli ultimi trent’anni il reddito pro-capite dei meridionali si è ridotto a poco più del 50% di quello del Centro Nord, restituendosi ai livelli dell’immediato dopoguerra. Un nuovo record potrebbe presto essere raggiunto ma i meridionali, se bene informati, possono ancora impedirlo.

da “il Manifesto” del 26 agosto 2022

Il bellicismo suicida degli italiani.- di Piero Bevilacqua

Il bellicismo suicida degli italiani.- di Piero Bevilacqua

Ho dovuto leggere un paio di volte l’articolo di Andrea Carugati (Il manifesto, 17/2) che informava dell’ordine del giorno votato con maggioranza piena alla Camera al fine di “avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2% del Pil”. Si tratta di passare dagli attuali 25 miliardi di spese militari all’anno (68 milioni di € al giorno) a 38 miliardi (104 milioni al giorno). Ho dovuto rileggere il testo anche per persuadermi che era stato votato non solo dal PD, ma anche da LEU, con l’opposizione di Fratoianni, i gruppi di ManifestA, di Alternativa e i Verdi.

E’ davvero difficile non rimanere sbalorditi di fronte all’infantilismo bellicista del ceto politico italiano, gonfiato da una campagna mediatica attiva 24 ore su 24, che non si era mai vista nella storia della Repubblica. Una fanfara propagandistica così totalitaria e faziosa da guastare perfino il dolore per la martoriata popolazione ucraina che sopporta la sciagura per niente mediatica della guerra.

Il servilismo filo-atlantico non aveva mai toccato queste vette e si fa fatica a capire perché. Certo l’Italia ha subito per quasi quattro secoli il dominio dello straniero e si comprende che è nei cromosomi delle sue classi dirigenti l’attitudine alla subordinazione. Ma ora continuare a piegare la testa agli ordini della Nato a guida USA equivale a una cecità suicida di portata strategica così evidente da sbalordire.

Siamo con ogni evidenza di fronte a una incapacità dell’Italia e dell’Europa di far valere i propri interessi, che sono interessi di pace, ma che ora arriva all’autopunizione. I governi europei hanno avuto una grande occasione all’indomani del crollo dell’URSS, potevano essere i protagonisti di un nuovo ordine mondiale multipolare, attirando nella propria orbita la Russia, costringendo gli USA ad accettare la fine della guerra fredda e ridimensionare la Nato, prendendo atto dei nuovi grandi attori che entravano in scena: Cina,India Brasile.

E’ singolare come si dimentica che gli USA per tutti gli anni ’90 e oltre hanno fatto affari con la Cina, che comprava a getto continuo titoli dell’ingente debito pubblico americano e spediva merci a buon mercato alimentando l’perconsumo interno e tenendo a bada l’inflazione. Quindi la Cina non poteva essere un nemico. Il fantasma della guerra fredda bisogna rimetterlo in piedi altrove. L’espansione a Est della Nato che insidiava gli interessi dell’Europa non è stata minimamente contrastata dai governi del Vecchio Continente, anzi hanno sempre accettato la versione americana in ogni conflitto locale, imponendo sanzioni che ci danneggiavano, ignorando per pochezza politica le necessità di sicurezza della Russia, uscita umiliata dalla disfatta del ’91.

E’ evidente che l’Unione Europea, diretta da ragionieri ingobbiti sui calcoli finanziari per realizzare l’austerità economica, non ha mai alzato gli occhi sullo scenario internazionale degi ultimi 30 anni, se non per ubbidire alla Nato e infilarsi in tutte le sue guerre per trarre qualche piccolo vantaggio.Priva di ogni visione strategica, ora che si ritrova la guerra in casa manda strepiti infantili e rispolvera toni bellicistici d’antan. Ascoltare gli impegni di riarmo del cancelliere Scholtz evoca le pagine più buie segnate dalla Germania nel ‘900.

Quanto a noi italiani, che avremmo un potere contrattuale enorme nei confronti degli USA, con la Penisola diventata una partaerei americana nel cuore del Mediterraneo, trascuriamo che la nostra appartenenza all’Allenza ci costringere da decenni a stare su vari fronti di guerra, in violazione della Costituzione, a dilapidare somme ingenti in armamenti: nel 2021 il nostro governo ha programmato 12 miliardi di nuove spese. Risorse che potremmo spendere per vaccinare i poveri lasciati senza cure nei vari angoli del mondo anziché bombardarli.

Ci chiediamo: di fronte a queste scelte che senso ha aver varato il PNRR-Next Generation UE? Siamo mobilitati per cambiare il nostro modello di sviluppo, approntare risposte al ricaldamento climatico, affrontare quella che si presenta come la più imprevedibilie delle sfide che l’umanità abbia mai avuto di fronte, e noi dobbiamo inseguire le ambizioni geopolitiche degli USA?

Sappiamo, tuttavia, che appena si troverà una soluzione alla guerra e la polvere propagandistica si depositerà al suolo, anche noi che scriviamo e discutiamo vedremo quel che già vedono milioni di Italiani: un paese sempre più povero, devastato dalla pandemia, dai fallimenti a catena di piccole imprese ed esercizi commerciali, e ora dall’inflazione crescente e da tutti gli effetti di ritorno delle sanzioni alla Russia, con un Mezzogiorno flagellato dalla disoccupazione, un debito pubblico ingigantito che i ragionieri dell’UE ben presto ci rammenteranno. E tutti i partiti della Repubblica sono concordi nel portare al 2% del Pil le spese militari?

Un nuovo fisco. Relazione introduttiva di Piero Bevilacqua. Per un'alternativa politica e sociale.

Un nuovo fisco. Relazione introduttiva di Piero Bevilacqua. Per un'alternativa politica e sociale.

Provo a chiarire nel più breve tempo possibile il senso di questa iniziativa. Intanto due parole sul metodo.Ci mettiamo insieme, studiosi, dirigenti politici e sindacali, soggetti provenienti da mondi diversi, non per creare una lista elettorale, ma per esaminare un rilevante problemi della vita nazionale, per tentare di eleborare proposte e soluzioni. Al tempo stesso proviamo a ricostruire esperienze di unità, intesa, empatia umana tra tutti noi. La politica si fa anche coi sentimenti. E la sinistra è stata storicamente portatrice di sentimento generosi, alla base della sua ragion d’essere: la solidarietà, li spirito di fratellanza. D’altra parte la nostra iniziativa ha senso se l’urgenza che pur ci muove non guarda semplicemente alle prossime elezioni, ma si iscrive in un processo di lunga lena.

Perché il fisco? Ricordo brevemente che la rivoluzione conservatrice, quella che è poi universalmente conosciuta come politica neoliberista, parte nel Regno Unito e in USA con due iniziative convergenti: la lotta aperta contro i sindacati e la demolizione del sistema fiscale progressivo fondato dopo la Seconda guerra mondiale. La sociolga americana Monica Prasard ha definito l’ Economic Recovery Tax Act varato da Reagan nel 1981<> (The politics of free markets.The rise of neoliberal economic policies in Britaim, France, Germany & the United States, Chicago University Press, Chicago 2006, p. 45) Negli ultimi 40 anni l’emarginazione della classe operaia e la riduzione del carico trubutario ai ceti ricchi e alle imprese sono andati di pari passo. Hanno costituito la leva (insieme alla ristrutturazione delle imprese e altri processi che qui non possono essere neppure accennati) per lo smantellamento dello stato sociale, per realizzare vasti processi di privatizzazione, ridurre il potere e il valore lavoro, in fabbrica e nella società. La storia economica e sociale degli ultimi 40 anni in gran parte dei paesi del mondo si svolge lungo quest’asse.

La vicenda del fisco italiano non si discosta da tale traiettoria. Non entrerò nel merito della questione. Lo faranno con più competenza di me i tanti studiosi che parleranno fra poco. Mi limito a rammentare che dal 1974, da quando entrò in funzione l’Irpef, gli scaglioni che allora erano ben 32, con un impronta progressiva, oggi sono diventati 5. È progressivamente aumentato il carico sugli scaglioni più bassi e diminuito quello sui redditi più alti. La flat tax è già operante. Ma tutto il sistema è squilibrato e costruito in danno dei ceti popolari. Ricordo che le imposte indirette che colpiscono indiscriminatamente tutti i cittadini sono passati dall’8,4% del 1982 al 14,4% del 2016.E come diceva Don Milani <>
Oggi quasi l’intero gettito dell’Irpef grava sui ceti proletari: il 54% proviene dal lavoro dipendente, il 5% da lavoro autonomo, il 30,5 % dalle pensioni.

Il contributo dei patrimoni – la grande ricchezza nascosta degli italiani – nel 2016 contribuiva col 7,2%. (Per questi dati ho utilizzato il ricco dossier, Fisco & debito. Gli effetti delle controriforme fiscali sul nostro debito pubblico, consultabile in rete, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi)

E a questo proposito, di fronte alla razionalizzazione recente operata della “riforma Draghi”, che non ha cambiato nulla dell’assetto classista e antipoplare del sistema fiscale italiano,vi ricordo i dati aggiornati della concentrazione abnorme della ricchezza privata nel nostro Paese. La Relazione della Banca d’Italia per il 2020 mostra un forte incremento della ricchezza finanziaria delle famiglie, che passa da 4.445 miliardi di fine 2019 a 4.777 del 2020. Con un incremento della quota destinata ai risparmi di oltre il 15%, il doppio del 2019. Sono dati di una ingiustizia drammatica. Mentre nel paese infuriava la pandemia da Covid 19, una delle pagine più buie della nostra storia, mentre migliaia di persone cadevano in povertà, pativano la morte e lunghe malattie dei loro cari, tante famiglie già ricche continuavano a gonfiare il loro conti correnti in banca. E ricordo che sfuggono a questo quadro i soldi volati nei paradisi fiscali.

Permettetemi un’ultima considerazione sul tema fisco. Com’è universalmente noto tra elusione ed evasione fiscale vengono sottratti al bilancio statale tra i 120 e i 150 miliardi all’anno. Ora non indulgerò nella solita retorica recriminatoria. Svolgo una considerazione di natura storica e politica. Il sistema fiscale è un accordo tra governanti e governati, e costituisce, per eccellenza il patto fondativo degli stati moderni. Le rivoluzioni borghesi del XVIII secolo partono da qui. Che cosa si deve allora pensare di un paese nel quale da decenni si pratica e si tollera una gigantesca evasione fiscale, tanto da essere diventata un elemento sistemico dell’assetto finanziario dello stato ?

È evidente che il patto solidale fra cittadini è gravemente incrinato. L’evasione ormai si configura come un accordo omertoso tra i ceti dominanti e le istituzioni, tra gruppi delinquenziali e potere pubblico. Il rapporto di fiducia tra la maggioranza degli italiani che paga le tasse e le istituzioni si porta dietro da anni questa profonda ferita. E’ come se l’intera Repubblica si reggesse su questa violazione, la violazione dell’art. 53 della Costituzione, su una illegalità fondativa che getta un’ombra di sospetto e sfiducia su tutto il ceto politico. Nel momento in cui le condizioni di vita di milioni di famiglie peggiorano per la mancanza di lavoro, la pandemia, e oggi l’inflazione dilagante, che getterà nella disperazione chi è già povero, questo segreto patto scellerato deve essere messo al primo posto delle nostre denunce.

Ma la critica che noi muoviamo ai partiti, quasi tutti i partiti, ha motivazioni più ampie e di carattere storico. Sono critiche che servono a illuminare e spiegare i problemi presenti della vita italiana. Tutti siamo consapevoli della grave decadenza che ha investito la politica, questa antica arte del governo degli uomini.

In Italia, come al solito, i fenomeni sono più esasperati che altrove, con qualche elemento di folklore in più, ma la degradazione della politica investe tutti i paesi avanzati. E una delle ragioni di questo declino, che costituisce la perdita rilevante di una conquista della modernità, quando la politica è nata e si è presentata per la prima volta nella storia come progetto di mutamento e miglioramento della condizione umana – sottratta alla sua immodificabile naturalità – proviene da una scelta suicida dei partiti occidentali. I partiti di Mitterand, di Schroeder, di Clinton, di Blair, di D’Alema.

Sono stati i gruppi dirigenti di questi partiti che hanno completato l’opera, già avviata dalle destre neoliberiste, con un lavoro di riduzione sistematica del potere pubblico e hanno permesso, con la retorica di liberare l’economia da lacci e lacciuoli, lo scatenamento su scala mondiale degli interessi economici e finanziari privati. (Esiste ormai una ricca letteratura sul tema, mi limito a ricordare i testi di S.Halimi, Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi Editore, Roma 2006; e D.Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore Milano 2005)
Negli ultimi decenni la rivoluzione informatica, i processi di concentrazione oligopolistica della ricchezza, i fenomeni della cosiddetta globalizzazione, hanno portato alla nascita di colossi transnazionali, nuove Compagnie delle Indie, di età medievale, che hanno la forza di veri e propri stati.

Il potere politico, detentore per tutti i secoli della storia umana del monopolio della violenza, è oggi subordinato al mercato e ai suoi imperativi. E oggi la logica unilaterale e preminente dello scambio di merci ha plasmato l’intelaiatura sociale, dissolto l’etica della politica, è penetrata in ogni ambito del vivente, si è imposta come l’unica razionalità del mondo. Al punto che siamo giunti al supremo paradosso. Le politiche neoliberistiche che in tutti questi anni hanno assegnato al potere pubblico il limitato compito di regolare la competizione tra i soggetti privati ci hanno condotto a questo stadio: ora è il mercato che mette in competizione gli stati fra loro. L’Europa fornisce uno spettacolo edificante in proposito.I governi gareggiano a chi offre maggiori condizioni fiscali, lavoro più flessibile e a buon mercato alle grandi imprese che investono nel loro territorio. Sgomitano per favorire gli interessi privati in danno dei lavoratori e dei cittadini.

Per decenni la Germania, il paese leader del Continente, ha fatto concorrenza a tutti gli altri stati accrescendo i suoi mercati d’esportazione grazie la riduzione salariale, la flessibilità del lavoro e altre forme di dumping.

Ma non basta questo. La piena libertà di cui gode il capitale, non solo quello finanziario, anche quello d’impresa, di delocalizzare i propri impianti, ha creato una asimmetria rovinosa nel rapporto tra capitale e lavoro, e nel meccanismo dinamico della vita sociale. Se il capitale si muove su uno spazio planetario e la classe operaia rimane inchiodata al suo territorio, il conflitto operaio viene depotenziato sul nascere. E il conflitto, ricordo, è stato il meccanismo dinamico che ha trasformato la società industriale, l’ha portata dagli esordi schiavili della prima industrializzazione settecentesca all’assetto avanzato dello stato sociale contemporaneo. Ma se il sindacato viene indebolito in questo punto nodale, anche i partiti, tutti i partiti non possono rappresentare e difendere più di tanto la grande massa della popolazione. Possono solo operare piccole mediazioni al ribasso. Se il potere pubblico non riacquista una nuova centralità sulla vita economica e i domini privato, a livello nazionale e soprattutto sovranazionale, la politica non uscirà dalla propria condizione ancillare.

Da quanto abbiamo detto non stupisce se in tutti questi anni i partiti, di qualunque schieramento, non hanno fatto altro che accrescere la flessibilità, quindi la precarietà del lavoro. E’ anche in ragione di tale debolezza fondativa in cui sono precipitati, che anche le forze di sinistra si sono progressivamente allontanate dai ceti subalterni, per cercare sempre più consenso nei ceti medio alti.E’ esattamente per tale subalternità strutturale al mercato – ormai poggiante su un meccanismo che si autoalimenta – che tutti i partiti, qualunque sia il loro linguaggio pubblicitario, corrono verso il centro, si orientano cioé verso una politica moderata, che non modifica in nulla l’assetto mostruosamente disuguale della società italiana, tentando di conservare il consenso su quella porzione sempre più minoritaria di cittadini che ancora si reca alle urne.

Tutti corrono al centro, perché in quel luogo sociale c’è l’impresa, c’è il ceto medio abbiente, ci sono i grandi media, c’è il potere. Ma non ci sono gli operai poveri – miracolo del capitalismo del nostro tempo – non ci sono le donne perennemente disoccupate del Sud, e quelle del Nord pagate meno degli uomini per la stessa fatica, non ci sono i rider, i braccianti semischiavi delle campagne, non ci sono i nostri giovani.

E’ questo il meccanismo che presiede e alimenta il declino italiano. I partititi ormai da decenni condannano il paese all’immobilità, alla permanenza degli squilibri economici e delle disuguaglianze che lo lacerano, facendo scarseggiare le risorse alla scuola, alla sanità, alla ricerca, ai comuni, alla gestione delle città, alla soluzione dei nostri problemi ambientali.

Non voglio indulgere nelle denuncia, non c’è n’è bisogno. Ricordo semplicemente che l’Italia vede diminuire di anno in anno la propria popolazione. Da quando esiste la scienza economica non c’è stato indice più significativo per valutare la decadenza di un paese del suo declino demografico. Alla fine della pandemia, che ci auguriamo definitiva, noi avremo di fronte un paese con un debito pubblico accresciuto, 2 milioni di famiglie povere censiti nel 2020 che non avranno cambiato stato, la disoccupazione dei giovani intatta, quelle delle donne ulteriormente aumentata, la condizione del nostro Sud peggiorata, interi settori della nostra economia, piccole imprese e piccolo commercio messi fuori gioco. Chi rappresenterà realmente questa vastissima area di sofferenza sociale? L’affideremo al plebeismo criptofascista della Meloni, agli slogan a buon mercato di Salvini, ai moderati italiani i quali gridano “al ladro al ladro” appena si pronuncia la parola patrimoniale?

Ma questo quadro necessariamente rozzo e schematico non tiene conto di ciò che è del tutto assente dalla cultura del ceto politico italiano. La questione ambientale. Non è un problema del futuro, ma di oggi. Lasciatemi fare due considerazioni. Guardiamo a un problema drammatico fuori d’Italia. In alcune regioni dell’Africa non piove da anni. Quel continente è oltre il Mediterraneo, certo e appare come un mondo lontano. Ma la prolungata siccità di quelle terre è un evento che ci riguarda da vicino e immediatamente, perché il pianeta è diventato piccolo e tutti ci accumuna e ci riavvicina coi suoi problemi. Che faremo dei milioni di africani che stanno scappando da terre rese inabitabili dal calore e dalla siccità?
Ma guardiamo in casa nostra. Lo spettacolo televisivo dei ghiacciai che collassano ci impressiona. Ma il fenomeno è destinato a colpirci in maniera devastante. Se scompaiono i ghiacciai delle Alpi, già gravemente compromessi, verrà sconvolto il più complesso sistema idrografico d’Europa, quello mirabilmente tratteggiato da Carlo Cattaneo nell’800. Il Po e i suoi affluenti e tutte le acque alpine non saranno più alimentate, e nella Pianura padana verrà a mancare l’acqua, la risorsa fondamentale su cui si è fondata la sua ricchezza. L’intera economia, non solo quella agricola, della parte più ricca del Paese sarà colpita con esiti che non possiamo prevedere.

Quale partito si sofferma in Italia su questi problemi, accenna a progetti di adattamento al mutamento climatico? Noi siamo impegnati nel PNRR-Next generation, che richiede risorse ingenti per la transazione ambientale. Eppure nel 2021 il nostro governo ha autorizzato una spesa in armamenti, richiesti dalla Nato, per 12 miliardi di euro. Sono anni che sottraiamo risorse fondamentali ai nostri bisogni per produrre e comprare armi, cioé per uccidere essere animali, distruggere territori, habitat selvaggi, città, opere dell’uomo. Noi che siamo riuniti qui abbiamo una logica infantile. Riteniamo tutto questo incompatibile con i bisogni della vita, con le sfide del futuro. Gli armamenti non si combinano con la transizione ambientale.

La Nato è una macchina da guerra, come ha dimostrato coi fatti negli ultimi 30 anni, e noi abbiamo bisogno della pace, di un assetto multilaterale del mondo, di una Costituzione della Terra, come ci indica Luigi Ferrajoli (Per una Costituzione della Terra, Feltrinelli Milano ,2022) se vogliamo davvero assicurare la sopravvivenza degli uomini sul pianeta. Condanniamo senza se e senza ma l’aggressione della Russia all’Ucraina, ed esprimiamo totale solidarietà alla sua popolazione gravemente colpita. Ma senza lo smantellamento della Nato, di questa centrale del disordine internazionale, sorgente di spese militari sempre più insostenibili, il pianeta – quanto meno l’umanità su questo pianeta – non avrà futuro.

Allora che possiamo fare noi piccola e volenterosa aggregazione di fronte a problemi così giganteschi? Intanto possiamo cominciare a mostrare, con una analisi seria e tecnicamente fondata, che una una riforma generale del fisco potrebbe rimettere in moto in Italia la macchina economica, accrescendo i redditi bassi e incrementando la domanda, fornire risorse per il welfare, per i comuni, che possono rafforzare i propri servizi, migliorare complessivamente la qualità della vita, ricostituire un rapporto di fiducia tra cittadini e stato. Dobbiamo dire con forza che la sinsitra non è il partito delle tasse, ma dell’equità fiscale, che le tasse vengono prelevate dove c’è ricchezza, ma diminuite ai ceti medio-bassi, l’ambito il cui una forza di sinistra degna di questo nome deve radicare il proprio consenso. Abbiamo bisogno di una posizione classista, apertamente schierata dalla parte degli ultimi, se vogliamo fondare una nuova forza politica, senza strizzare l’occhio di qua e dlà.
Ma noi non solo vogliamo alimentare posizioni politiche radicali – radicali, non estremiste, come pensano le menti semplici -necessarie in un paese in cui i partiti non rappresentano più quasi metà della popolazione.

Vogliamo cambiare la cultura della politica. Questa iniziativa sul fisco sarà proseguita da forum consimili in cui si affrontano i temi dell’autonomia differenziata, della sanità, della scuola, dell’agricoltura. Lo vogliamo fare coinvolgendo i saperi esperti che in Italia, a sinistra, si mobilitano ancora senza fini di lucro, per affrontare in maniera non ideologica i problemi. E voglio sottolineare un aspetto che fa onore ai nostri amici che sono qui ospiti, ma anche al nostro paese, alla sinistra. Chi legge la locandina del convegno può osservare quanti studiosi vi prendono parte. Eppure, tutti, non solo lo fanno senza compenso, ma alcuni sono venuti anche da lontano a proprie spese. Dobbiamo dunque cambiare la cultura politica dell’Italia perché quella attuale è chiusa dentro i paradigmi del secolo scorso, o si è ridotta a mera tecnica comunicativa che sguazza nel pantano mediatico. I dirigenti politici in genere non leggono più libri, non hanno bisogno di Bauman, o di Piketty, o di Edgar Morin. Non avvertono alcuna necessità di intercettare le correnti profonde che attraversano il nostro tempo. Vivono alla giornata. Gli basta Sandro Pagnoncelli e le sue rilevazioni aggiornate sul gradimento elettorale degli italiani.
Ebbene, malgrado un panorama così degradato, ci è lecito nutrire più che una vaga speranza. Noi possiamo cambiare la cultura del nostro paese, perché possediamo in Italia una grande ricchezza quasi invisibile o non calcolata.

È il general intellect di Marx, quell’insieme dei saperi generati dallo stesso sviluppo capitalistico, che alimenta la cultura diffusa, ma non riesce a trovare la via per far valere la sua potenza politica. Noi possiamo ricorrere all’immenso e disperso patrimonio dei gruppi intellettuali, delle associazioni, circoli, fondazioni, riviste, siti che operano su vari temi e in disparati ambiti territoriali. È caduto infatti qualcosa di imprevisto. È decaduta la cultura dei partiti politici, diventati agenzie di marketing elettorale, ma è fiorità al di fuori di essi un’altra cultura politica. E qui concedetemi questa citazione di André Gorz, (che aveva già anticipato il mio pensiero) e che illumina come meglio non si potrebbe la situazione presente:

<>. (Introduzione all’edizione italiana di Ecologia e politica, Cappelli Bologna, a cura di Rocco Artifoni, Antonio De Lellis, Francesco Gesualdi 1978, pp 8-9)

Ora noi non possiamo far rientrare questa politica nei partiti. Non solo perché non ne avremmo la forza. Siamo consapevoli che gran parte di queste aggregazioni non entreranno mai in una
formazione politica strutturata. Nessuno o quasi vuole rinunciare alle proprie identità e autonomie.

E va bene anche così. Si trasforma il mondo molecolarmente in molti modi. Ma la scommessa che noi vorremmo giocare nel proseguo di questo processo che stiamo avviando è di creare un canale comunicativo permanente, sistematico, con quante più realtà organizzate possibili, per sostenre battaglie comuni, campagne di difesa o di attacco, per conseguire finalità condivise. Anche una piccola formazione come la nostra, se bene organizzata, se è capace di creare una vasta rete, un canale informativo parallelo e alternativo a quello dei grandi media , potrebbe mantenere contatti costanti di collaborazione con questo vasto arcipelago che contribuisce a fare dell’Italia un paese ancora abitabile. Ho detto piccola formazione per rispetto della realtà e per ovvia modestia, non per svalutazione della dimensione partito.

Il partito politico è stato una delle grandi creazioni della storia contemporanea, insieme al sindacato la leva per l’emancipazione di diverse generazioni di subalterni. Ma io concludo ricordando con Gramsci che il partito moderno non si limita alla rappresentanza, esso ambisce ad organizzare la volontà collettiva, a fare degli individui dispersi una forza ispirata da un progetto generale di cambiamento. Perciò anche un piccolo partito, sia pure con una ridotta rappresentanza in Parlamento, se riesce a dialogare con questa moltitudine di associazioni, a fornire ad esse, di volta in volta, l’orizzonte generale e l’intelaiatura per le singole battaglie comuni, non solo è destinato a crescere, a diventare il nuovo soggetto politico cui aspiriamo da anni, ma sarà anche a capace di incidere fin da subito nella vita italiana.

Di cattivi esempi sono lastricate le vie dell’eolico.- di Ferdinando Laghi

Di cattivi esempi sono lastricate le vie dell’eolico.- di Ferdinando Laghi

A Monterosso Calabro, in provincia di Vibo Valentia, lungo il crinale del Monte Coppari, quattromila faggi d’alto fusto saranno abbattuti, ove non si intervenga, per far posto a sei pale eoliche di 150 metri d’altezza, mentre lo splendido paesaggio del golfo di Squillace rischia di essere irreparabilmente stravolto e deturpato dall’insediamento di una selva di aerogeneratori offshore. Terribili aggressioni – ambientali e non solo- di una inaccettabile speculazione affaristica.

Né vale invocare, a giustificazione di interventi ai quali fortemente si oppongono Associazioni ambientaliste, nazionali e locali, e Comitati sorti per difendere il territorio calabrese da assalti ormai continui, la tesi delle energie rinnovabili, “pulite”, necessarie per bilanciare e sostituire quella da combustibili fossili. La faccenda non è né così lineare, né così semplice.
Basti pensare al fatto che non vi è alcun piano energetico che preveda una progressiva sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili, ma le une si vanno a sommare alle altre in una brutta “addizione”, che nuoce alla Calabria e a chi vi abita.

Nel 2020 la Calabria ha avuto un surplus di produzione energetica del 179,5%. Nello specifico, l’eolico con i suoi 400 impianti, ha contribuito con 2.132 GWh – pari a circa il 13% del totale- alla produzione complessiva calabrese di 16.597 GWh (dati TERNA). Una quantità di molto superiore ai consumi che, invece, negli scorsi anni hanno avuto una tendenza al decremento. Per altro, ad onta della sua “spendibilità” di immagine, anche quella eolica presenta delle criticità che dovrebbero essere conosciute e ben valutate prima della concessione di autorizzazioni, richieste, in realtà, soprattutto per mettere le mani sui ricchi incentivi economici previsti per tali fonti energetiche.

Gli impatti collegati alla presenza di una centrale eolica sono numerosi, non soltanto dal punto di vista ambientale e paesaggistico, ma anche per i rischi per la salute. Senza tacere dei danni che queste iniziative possono determinare alle economie locali. Ad esempio, nei casi di cui si parla, alle attività turistico-escursionistiche del vibonese o dei pescatori del crotonese.
Le dimensioni delle pale eoliche sono andate progressivamente aumentando nel tempo – la torre può essere alta 150 metri e oltre, mentre il diametro disegnato dalle pale rotanti arriva a superare i cento metri.

I luoghi scelti per la collocazione delle turbine sono in genere zone boscose, come i crinali montuosi, o comunque le aree rilevate, più esposti ai venti. Ma per raggiungerle è necessario costruire strade, abbattere alberi, distruggere la vegetazione presente, contribuendo significativamente al consumo di suolo. L’area individuata per il posizionamento di ogni singola pala viene ricoperta da una colata di cemento per ancorare la torre al terreno. C’è poi un altro impatto certamente non trascurabile, rappresentato dalle opere di adduzione dell’energia prodotta agli elettrodotti che devono veicolarla, con l’ulteriore impatto ambientale su flora e fauna, magari in aree protette, come le Zone di Protezione Speciale (ZPS) che andrebbero ben diversamente salvaguardate. Si è anche molto parlato dei danni all’avifauna per gli uccelli colpiti dalle pale rotanti, problema forse enfatizzato in passato, ma comunque presente e da considerare in una valutazione complessiva costi-benefici.

Ci sono poi ulteriori ricadute, questa volta sulla salute umana. Ove la distanza dalle abitazioni non sia sufficiente, il rumore può rivelarsi disturbante e dannoso per la salute, come la “Sindrome da turbina eolica”, caratterizzata da una serie di sintomi (tra cui vertigini, mal di testa, nausea, offuscamento della vista, tachicardia, insonnia, disturbi della libido).
Nel caso le pale rotanti si interpongano tra l’edificio e i raggi del sole, si verifica il cosiddetto “shadow flickering” –letteralmente, ombreggiamento intermittente- a causa della rapida sequenza sole-ombra-sole, determinata dal ruotare delle pale. Inoltre la presenza di una produzione di energia elettrica e il suo conferimento agli elettrodotti di trasporto, genera inevitabilmente campi elettromagnetici (CEM), ben noti determinanti ambientali di salute.

Né si può non citare un aspetto che, in Calabria, ha toccato livelli inquietanti, quello del malaffare e della infiltrazione criminale e ‘ndranghetista. La storia della produzione energetica dell’eolico calabrese è punteggiata da una lunga teoria di scandali e inchieste della magistratura – da “Eolo” nel 2006, a “Via col vento” del 2019- con indagini che hanno riguardato politici del governo regionale, multinazionali dell’energia e faccendieri vari, che dal grande business dell’eolico (ogni megawatt installato rende almeno 300mila euro l’anno per trenta o anche quarant’anni) hanno tratto enormi vantaggi economici, arrivando a far modificare, per il proprio tornaconto, il Piano Eolico Regionale. Il tutto spesso all’ombra di “famiglie” ‘ndranghetiste che hanno tratto da questo business, che continua senza conoscere crisi, i proventi maggiori.

da il Manifesto del 10 febbraio 2022