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Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Quale autonomia differenziata? L’Italia della sanità è già fratturata.-di Filippo Veltri

Questi giochini tattici, i distinguo in punta di penna, le fandonie che si stanno leggendo a due settimane dal voto in Parlamento per cercare di giustificare lo scempio che si consumerà sull’autonomia differenziata hanno, in verità, stancato. Ora che Mattarella ha promulgato la legge sarebbe l’ora di pensare a che fare.

La maggioranza di governo (che intanto in Calabria è già andata sotto ai ballottaggi di domenica e lunedì a Vibo, dopo essere stata ridicolizzata al primo turno a Corigliano-Rossano, ed è già un segnale per chi vuol capire) è invece testarda ma i fatti lo sono ancora di più. Pochi giorni dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata emerge, infatti, in tutta evidenza la realtà di un’Italia già ammalata di regionalismo e che avrebbe bisogno, semmai, di maggiore coesione. Ci pensano però diversi istituti di ricerca a dimostrare dove porta la narrazione del Ddl Calderoli: l’Italia della salute si presenta, ad esempio, già fratturata in più punti con il federalismo che c’è e quello che verrà rischia di spaccarla definitivamente con la Calabria fanalino di coda.

Il rapporto del «Centro per la ricerca economica applicata in Sanità» dell’università di Tor Vergata, presentato a Roma, parla chiaro: la mappa che ne riassume il contenuto si mostra in verde al di sopra dell’Umbria, gialla dal Lazio in giù e tristemente rossa in Basilicata, Calabria e Sicilia. I colori rispecchiano le performance di salute, sintetizzate in un indice che tiene conto di equità, esiti, appropriatezza e innovazione del servizio sanitario.

«La valutazione 2024 delle Performance regionali in tema di opportunità di tutela socio-sanitaria offerta ai propri cittadini – si legge nel rapporto – oscilla da un massimo del 60% (fatto 100% il risultato massimo raggiungibile) a un minimo del 26%: il risultato migliore lo ottiene il Veneto e il peggiore la Calabria». Desolante la conclusione: «Il divario fra la prima e l’ultima Regione è decisamente rilevante: un terzo delle Regioni non arriva a un livello pari al 40% del massimo ottenibile».

Se «sembra essersi registrato una significativa riduzione delle distanze in termini di opportunità di tutela della salute fra Meridione e Settentrione», spiega il rapporto, è perché le Regioni con le performance migliori hanno smesso di migliorare «probabilmente a indicare l’esistenza di limiti strutturali nell’attuale assetto del sistema sanitario».

Un altro rapporto, quello dell’Istat, conferma in «Noi Italia 2024» pubblicato 5 giorni fa con un capitolo su «sanità e salute». Anche l’Istat mostra che l’Italia è fatta da più Paesi in uno. Gli abitanti di Calabria e Campania, ad esempio, dispongono di 2,2 e 2,5 posti letto in ospedale ogni mille abitanti e la Calabria è quella che ne ha tagliati di più tra il 2020 e il 2022 (-17%).

In Emilia-Romagna (3,6) e in Trentino (3,7) sono quasi il doppio e in entrambe le Regioni si è registrato un aumento di posti letto del 7% in un biennio. Il risultato in termini clinici è crudo quanto diretto: nel Nord-est il tasso di mortalità evitabile è di 16,9 decessi per diecimila abitanti e nel sud di 21,8, quasi 5 in più. Campania, Molise e Sicilia sono le regioni in cui si muore di più sia per patologie trattabili (cioè che potrebbero essere curate con un’assistenza migliore) che per quelle prevenibili con interventi su stili di vita e vaccinazioni. Persino la mortalità infantile del mezzogiorno (3,2 ogni mille nati vivi) è più alta rispetto alla media nazionale (2,6).

La mobilità sanitaria, cioè il numero di pazienti che si spostano da una regione all’altra per le cure, infine è in aumento. La regione più ricercata è l’Emilia-Romagna, dove l’immigrazione sanitaria è in costante aumento dal 2018 e il saldo tra chi arriva e chi parte supera anche quello della Lombardia.

Dopo la lettura dei dati assumono un significato sinistro le parole con cui il ministro della salute Schillaci commenta l’impatto della riforma sul diritto universale alla salute: «L’autonomia differenziata già esiste in sanità – ha provato a rassicurare il radiologo – Le Regioni hanno grande autonomia e in questo settore cambierà poco». In peggio ovviamente. Questi, dunque, sono i fatti, il resto chiacchiere.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 giugno 2024.

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

Lega Nord e Lega Sud: c’è una alternativa.-di Tonino Perna

L’avevo previsto e l’ho scritto: Forza Italia non può accettare supinamente la legge che vara l’Autonomia Differenziata. La sua base elettorale, le Regioni che governa, sono tutte nel Sud. D’altra parte non può, e non vuole, uscire dal governo, far cadere questa solida maggioranza di destra, rischiando di restare in mezzo al guado, non più alleata con la Destra-destra, ma neanche accolta dal Centro Sinistra.

In mezzo alla corrente si rischia di scomparire, di essere travolti se non si trova una via d’uscita. Probabilmente, Forza Italia potrà uscirne da questa imbarazzante situazione sperando di mettere bastoni burocratici alla implementazione di questa legge “spacca Italia”. Ma, si tratta di tattica, di prendere tempo mentre avanza la richiesta di austerità da parte della Ue, finisce la sbornia del Pnrr, la droga del 110 per cento, e bisognerà restituire la parte di prestito contratto che va ad aggiungersi ad un debito pubblico insostenibile.

Con una recessione alle porte, sperando che i sempre più preoccupanti venti di guerra non ci travolgano prima, l’Autonomia Differenziata rappresenta il colpo finale, la mannaia che taglierà la testa a chiunque pensi di governare le regioni meridionali.

Di fronte a questa sfida di portata storica le popolazioni del Mezzogiorno, in misura crescente, stanno prendendo coscienza che è necessaria una mobilitazione, scendere in piazza e partecipare in massa alla raccolta firme per il referendum. Ma, attenzione, a non creare, nei fatti, una Lega Sud contro il Nord che ci porterebbe a sbattere contro un muro. Intanto il Nord non è un blocco omogeneo, ma esistono forti differenze al suo interno.

Per esempio, la Liguria è una regione che riceve dallo Stato più di quanto versi attraverso le imposte, circa il 13% del suo budget scomparirebbe con l’Autonomia Differenziata (A.D.). ma anche regioni del Nord a Statuto speciale, come il Trentino-Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta, avrebbero solo da perdere dalla A.D. , visto che lo Stato contribuisce in maniera importante, soprattutto in Valle d’Aosta, a mantenere il livello attuale di reddito e consumi.

Naturalmente stessa sorte toccherebbe alle regioni autonome del Sud, Sicilia e Sardegna, malgrado rassicurazioni varie da parte del governo. E non a caso, al di là del colore politico, governatori delle due isole maggiori hanno apertamente espresso il proprio dissenso.

Pertanto, c’è un lavoro determinante da portare avanti. Fare conoscere, con numeri alla mano, l’impatto sulle singole regioni che l’A.D. comporterà se non viene fermata prima. Ci sono poi singole categorie che non accettano di essere frantumate, parcellizzate, come ad esempio i Vigili del Fuoco che hanno già espresso in Veneto la loro contrarietà alla A.D. Così come tra gli insegnanti che non accettano una regionalizzazione dei programmi scolastici per diverse ragioni, sia didattiche, sia di mobilità territoriale, sia di qualità dei programmi.

Credo che si arriverà, con i Consigli regionali o con la raccolta firme, ad un referendum per abrogare questa legge. La risposta del governo Meloni sarà quella di usare l’arma più semplice ed efficace per vincere: chiedere agli italiani di non andare a votare. Dato che per essere valido un referendum abrogativo deve far registrare oltre il 50 per cento di votanti tra gli aventi diritto, basterà che gli elettori della Destra si astengono per perdere anche se i Sì raggiungessero il 100 per cento. Quindi bisogna evitare che passi come una ennesima sfida meloniana: o con me o contro di me. Ovvero: après moi le déluge.

Innanzitutto, bisognerà convincere dell’utilità del voto quel 50 per cento di elettori che negli ultimi anni non hanno partecipato alle elezioni politiche e amministrative. Compito non facile ma non impossibile se le argomentazioni saranno convincenti, basate su dati e non su slogan o invettive, salvo il richiamo all’Unità del nostro paese che questa legge mette seriamente in crisi, facendo aumentare in maniera insostenibile le disparità territoriali. Anche dentro il mondo elettorale dei FdI ci sono e ci saranno coloro che non vogliono che questo partito ( condizionato dal baratto con la Lega “ io ti do l’A.D. e tu mi dai il premierato”), si trasformi in Brandelli d’Italia, secondo l’efficace espressione della Elly Schlein.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 giugno 2024

Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi.-di Gaetano Azzariti

Autonomia differenziata, è troppo presto per rassegnarsi.-di Gaetano Azzariti

Dopo l’approvazione dell’autonomia differenziata siamo in una terra di mezzo. La legge Calderoli ha stabilito una procedura per giungere alla devoluzione delle materie alle Regioni che le richiedono. La strada è spianata, restano le intese per completare l’opera.

Sarà così raggiunto un traguardo storico irreversibile. Non spetterà più allo Stato salvaguardare i diritti fondamentali su tutto il territorio nazionale, ma alle singole Regioni in base ai negoziati definiti separatamente con il governo. Sarà la fine della solidarietà nazionale e di ogni idea di Paese unitario.

Un esito posto al riparo anche da eventuali ripensamenti: le intese, che verranno definite dal governo in carica e dall’attuale ministro per le autonomie, verranno approvate da un parlamento silente a maggioranza assoluta e non potranno neppure essere sottoposte a referendum abrogativo. In vigore per l’eternità, nonostante l’ipocrita previsione di una durata decennale delle intese (e poi che succede se non c’è il consenso della regione a recedere?). Tutto è ormai pronto perché si cambi volto alla Repubblica.

Che fare per impedire quest’esito annunciato? Qualcosa si può ancor tentare, ma è necessario attivarsi subito e avere ben presente virtù e limiti entro cui si può operare. Sono misure che sono state discusse più volte da questo giornale, ma è bene ricordarle.

LA PRIMA PAROLA spetta alle Regioni. Esse possono portare la legge appena votata difronte alla Consulta. Basta che una regione eserciti quel diritto che l’articolo 127 della Costituzione gli attribuisce. In questo articolo si stabilisce che entro 60 giorni dalla pubblicazione di una legge le Regioni possono promuovere una questione di legittimità per lesioni della propria sfera di competenza. Sino ad ora abbiamo sentito molti presidenti, soprattutto di Regioni meridionali, alcuni anche di destra, denunciare i rischi che l’adozione delle intese produrrebbero sulla stabilità del Paese. Ora hanno la possibilità di far valere le loro ragioni difronte alla Consulta.

Una verifica sul punto mi sembrerebbe doverosa e persino rispettosa dei reciproci ruoli dello Stato e delle Regioni. Sarebbe invece pessimo il segnale se non ci fossero questi ricorsi. Perché si dimostrerebbe che i rappresentanti istituzionali non sono in grado di reagire facendo invece prevalere calcoli politici o (nel caso delle regioni attualmente governate dalla destra) fedeltà di maggioranza. Una dimostrazione di come l’autonomia regionale abbia operato nel profondo.

Quale sarà l’esito del ricorso, cosa deciderà la Consulta, non può essere detto. Per ora si tratta di far valere tutte le ragioni che determinerebbero violazioni di articoli e principi costituzionali a partire da quello d’eguaglianza e la ritenuta lesione dei diritti fondamentali nelle diverse parti del territorio nazionale. Poi la parola passerà alla Corte.

La seconda strada che è possibile percorrere è quella della richiesta di abrogare la legge appena approvata per via referendaria. Non è una via alternativa alla prima, semmai complementare. Non riguarda la illegittimità costituzionale della legge Calderoli, ma il merito politico. Può essere attivato da 500mila elettori o da cinque consigli regionali. Anche in questo caso sarebbe fisiologico che una legge tanto controversa e contrastata da vasti settori dell’opinione pubblica provocasse l’attivazione di quello strumento di partecipazione che la Costituzione mette a disposizione: il referendum, appunto.

Vedo che l’intera opposizione, finalmente unita, afferma di voler precorrere questa strada. Bene, una reazione decisa. Qual è lo scandalo se chi non ama una legge così importante vuole sottoporla al giudizio popolare? Anche in questo caso potrebbe dirsi: se non in questo caso, quando?

da “il Manifesto” del 25 giugno 2024

Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Basta ecomostri a Cosenza.-di ‘Diritto alla città’

Una nuova violenza alla qualità della vita della nostra città si sta consumando in questi giorni, in queste ore. È infatti in corso l’abbattimento di un edificio su Corso Umberto nel quartiere storico Riforma – Rivocati (il caso vuole iniziato nella distrazione generale di un fine settimana) probabilmente per fare posto ad un altro ecomostro, come i due già esistenti, in sfregio a qualsiasi idea urbanistica e a qualsiasi senso del decoro e della bellezza.

Per avere notizie sulle procedure che hanno portato all’abbattimento dell’edificio, abbiamo già inviato una richiesta di accesso agli atti alle autorità competenti e ci auguriamo che siano accertate regolarità, trasparenza e legittimità. Su quanto invece dovrà sorgere vogliamo esercitare tutto il nostro potere di cittadini e abitanti preoccupati: visti i precedenti, come sarà riempito quel vuoto?

Chiediamo alla politica, alle associazioni che hanno ottenuto importanti e legittimi finanziamenti per la rigenerazione del quartiere, in particolare al nostro Sindaco che recentemente ha dichiarato che “sta prendendo forma la città bella e armonica che ho promesso” di farci capire, di prendere posizione, di mettere in campo tutte le azioni a tutela dalla collettività, compresa la richiesta di parere alla Soprintendenza, affinché non venga realizzato un altro ecomostro come quelli già esistenti nell’area ma edifici che rispettino le leggi cogenti in materia di urbanistica, sicurezza e efficientamento energetico.

E chiediamo pure al presidente dell’ANCE (associazione costruttori) di Cosenza di responsabilizzare tutti gli attori della filiera edilizia per preservare il tessuto urbano ereditato e veicolare il concetto che fare profitto in edilizia si concilia soltanto con il massimo sforzo in termini di qualità del costruito, generando pure benessere per tutti, piuttosto che realizzando palazzoni deformi e totalmente decontestualizzati.

Allo stesso modo invitiamo i presidenti degli Ordini Provinciali degli Ingegneri e degli Architetti di Cosenza a far rispettare i principi cardine dei rispettivi Codici Deontologici che prevedono doveri e responsabilità (di ingegneri, architetti, paesaggisti) nei confronti della collettività, dell’ambiente e del benessere delle persone.

Vogliamo evidenziare l’importanza della qualità architettonica e dell’inserimento del nuovo nel contesto del paesaggio urbano, aspetto, questo, decisamente trascurato nei due casi di edifici abnormi di recente costruzione, e ciò malgrado siano sorti in un’area di valenza storica largamente riconosciuta, non a caso oggetto di recente approvazione del vincolo paesaggistico.

Il Coordinamento Diritto alla Città rivendica l’adozione di ogni provvedimento di legge finalizzato alla massima tutela della qualità del costruito da parte degli Enti preposti, ricordando che ogni nuovo ecomostro deturpa per sempre la città. Siamo ancora in tempo per arrestare l’ennesimo obbrobrio, è il momento di dire basta agli ecomostri a Cosenza.

Comunicato stampa del
COORDINAMENTO ‘DIRITTO ALLA CITTA’

AUSER TERRITORIALE COSENZA ETS
CIROMA
CIVICA AMICA APS
CONFEDERAZIONE ITALIANA GENERALE LAVORATORI (CGIL) di COSENZA
LA BASE
PRENDOCASA
RI-FORMAP APS
RIFORMA – RIVOCATI APS
UNIONE SINDACALE di BASE (USB) FEDERAZIONE di COSENZA

E adesso cambiamo rotta: serve anche una politica di ‘accoglianza’.-di Tonino Perna

E adesso cambiamo rotta: serve anche una politica di ‘accoglianza’.-di Tonino Perna

La categoria della ‘restanza’; è ormai entrata nel linguaggio comune, un evento raro per una parola coniata in ambito scientifico, nella fattispecie dal noto e valente antropologo Vito Teti. In generale, quello che è il dibattito nelle scienze sociali rimane all’interno dell’accademia, mentre in questo caso la categoria della ‘restanza’; è stata rilanciata da più parti e, in particolare, dalla traduzione “sul campo” condotta da Giuseppe Smorto su questo giornale.

Attraverso una serie di storie, ben documentate, sono stati resi visibili e comprensibili gli sforzi, la passione, la costanza, l’amore per questa terra che sono racchiuse in questa categoria. Una operazione di grande valore culturale e politico, quella di Smorto, che cuce tante singole realtà in un vestito invisibile alla maggior parte della popolazione a cui vengono raccontate normalmente storie di cronaca nera, di corruzione, di invivibilità. Non che questa realtà triste della Calabria e del Mezzogiorno non esista, ma è corretto, oltre che giusto, andare a scoprire quello che il grande Karl Polanyi chiamava il “Contromovimento”.

Da una parte abbiamo una fuga di giovani come mai si era vista, dall’altra c’è chi resiste, chi ritorna, chi scommette coraggiosamente, chi lotta in condizioni proibitive, e tutti accumunati da questo sentimento che viene chiamato <>. Storie esemplari, importanti, generatrici di altre storie, per imitazione, gemmazione, testimonianza.

Purtroppo, se andiamo a dare un’occhiata ai dati sul gap demografico della Calabria, sulla perdita secca ogni anno di decine di migliaia di persone, tra emigrazioni e morti che superano le nuove nascite, dobbiamo prendere atto che non bastano queste scelte coraggiose di chi decide di rimanere o tornare in questa terra, ma servirebbe un flusso rilevante di immigrati ogni anno. E il fenomeno non riguarda solo noi: secondo l’Istat tra quindici anni in Italia il numero di persone in età lavorative diminuirà di 5,4 milioni di persone, con un impatto sul Pil, secondo il governatore della Banca d’Italia, di un – 13%.

E su questa nuova visione e prospettiva insiste il rettore della Bocconi, Francesco Billari, che ha pubblicato recentemente un saggio ( Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia . Egea, Milano , 2024) in cui sostiene con determinazione che se ci vogliamo salvare “ dovremmo gestire le sfide e le opportunità dell’immigrazione e dell’integrazione delle prime e seconde generazioni”. Il che non significa che non dobbiamo sforzarci di fermare la fuga dei nostri giovani laureati all’estero.

Si tratta di agire su un corpo che ha subito una profonda ferita: allo stesso tempo dobbiamo fermare l’emorragia (di giovani) e irrobustire il fisico con una cura ricostituente (immigrazione).

Lo sappiamo: non basta dire accogliamo, ma dobbiamo farlo con intelligenza e umanità. In primis, con strutture di formazione per i giovani immigrati che risponda alla domanda di lavoratori da parte di tanti settori della nostra economia, dall’industria, all’agricoltura, ai servizi, partendo da un serio e adeguato insegnamento della lingua italiana.
Tutto quello che non si fa nei centri di accoglienza, o lo si fa senza professionalità, con le dovute eccezioni. Su questo obiettivo convergono oggi in tanti, compreso Salvini che dichiara al Sole 24 ore: “Ci vogliono più immigrati, ma regolari”. Ma, come si creano flussi regolari se non si fanno dei piani seri di immigrazione e non si dà alle popolazioni che ambiscono di venire in Europa una prospettiva credibile.

Da una esperienza che ho fatto negli ultimi sette anni attraverso i corridoi umanitari dal Libano promossi dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e gestiti dall’Associazione Interculturale International House, ho capito una cosa che ritengo importante. Tante di queste persone che arrivano con i corridoi umanitari hanno aspettato mesi ed anni prima di poter partire, ma non hanno mai pensato di salire su un barcone perché avevano una chance, sia pure indefinita nel tempo. È solo quando non hai nessuna speranza di salvarti dall’inferno che rischi la vita.

Se vogliamo che il Mediterraneo finisca di essere quel cimitero liquido che è diventato da troppi anni, dobbiamo cambiare rotta e progettare seriamente una politica di accoglienza che si sposi con una speranza di vita migliore: una politica di accoglianza.

da “il Quotidiano del Sud” del 4 giugno 2024
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Attacco al Sud, complice la destra “meridionalista”.-di Francesco Pallante

Attacco al Sud, complice la destra “meridionalista”.-di Francesco Pallante

Pur essendo l’autonomia differenziata un pericolo per l’intero Paese – che rischia di perdere la capacità di realizzare politiche economiche, sociali, ambientali, culturali di livello nazionale -, è fuor di dubbio che a pagare le maggiori conseguenze della sua realizzazione saranno le regioni meridionali. Tutti gli studi certificano l’enorme divario nelle prestazioni pubbliche rese al Sud rispetto a quelle rese al Nord; lo stesso dicasi per le dotazioni infrastrutturali. Che si tratti di curare una malattia o prendere un treno, trovare un’opportunità di lavoro o iscrivere un figlio all’asilo, decisivo è il luogo in cui si abita.

Addirittura, quanto a lungo e in quali condizioni di salute si vivrà dipende dal luogo di residenza, con differenze misurabili oramai in lustri per la vita in salute e senza limitazioni. Ripianare la situazione è l’urgenza che dovrebbe essere assunta a principale obiettivo da tutta la politica italiana. I calcoli misurano in circa cento miliardi l’impegno economico necessario: una somma enorme, da spendere interamente al Sud affinché a tutti gli italiani sia garantito lo stesso livello di attuazione dei diritti di cui attualmente godono i cittadini del Nord.

L’autonomia differenziata va nella direzione esattamente opposta. I presidenti delle regioni settentrionali (Fontana, Zaia, Cirio) rivendicano apertamente le tasse raccolte sul territorio delle loro regioni; Calderoli accusa i territori meridionali di egoismo perché si oppongono a tale disegno. Come se le tasse fossero di pertinenza delle regioni in cui i cittadini le pagano, e non dell’erario statale a cui effettivamente sono versate. Un modo nemmeno tanto nascosto per demolire l’idea stessa di cittadinanza nazionale, a favore di una pletora di cittadinanze regionali, in patente violazione dell’unità della Repubblica sancita, come principio fondamentale, dall’articolo 5 della Costituzione.

Sul punto, il disegno di legge Calderoli che sta per essere approvato dal Parlamento fa il gioco delle tre carte. Mentre si propone di aumentare le risorse per le regioni differenziate, tenendo conto del gettito tributario raccolto su loro territorio, nel contempo promette di non diminuire i finanziamenti alle altre regioni e persino di operare la perequazione inter-regionale: il tutto – e qui sta il trucco del prestigiatore – senza che ne derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. C’è davvero qualcuno disposto a crederlo? Per quanto sorprendente possa essere, qualcuno c’è: gli esponenti delle forze politiche di maggioranza eletti al Sud, in procinto di farsi volenterosi carnefici dei territori che rappresentano.

A giustificazione della sua posizione, la destra meridionale si fa scudo di un’altra promessa contenuta nel progetto Calderoli: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) inerenti ai diritti civili e sociali da garantirsi uniformemente su tutto il territorio nazionale. Secondo la legge in via di approvazione, senza i Lep l’autonomia differenziata non potrà partire. E quindi: prima i cento miliardi al Sud, poi i nuovi poteri al Nord. È quel che, tra gli altri, va ripetendo da mesi Occhiuto, il presidente della Regione Calabria. Ingenuità o malizia?

La verità è che la legge Calderoli non ha alcun potere di impedire che le leggi sulle nuove competenze al Veneto, alla Lombardia e all’Emilia-Romagna siano approvate senza che prima siano definiti e finanziati i Lep. Fonti del diritto pari ordinate non possono vincolarsi l’una con l’altra: solo una fonte di rango superiore potrebbe farlo verso quelle inferiori. Se il vincolo fosse contenuto in una legge costituzionale, allora sì che l’autonomia differenziata sarebbe subordinata alla previa definizione dei Lep. Essendo invece contenuto in una legge ordinaria, il vincolo potrà essere semplicemente ignorato dalle leggi che, recependo le intese con le regioni del Nord, assegneranno loro, assieme ai nuovi poteri, i relativi finanziamenti, ulteriormente impoverendo il Mezzogiorno.

Se i parlamentari di maggioranza eletti al Sud vorranno farsi complici di questo disegno, che almeno ne assumano apertamente la responsabilità politica, senza (far finta di?) farsi abbindolare da promesse prive di ogni credibilità.

da “il Manifesto” dell’11 maggio 2024

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

Regioni e scandali, il perché di un fallimento.- di Filippo Veltri

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti (Italo Calvino).

Tra scandali vari, veri o presunti, dal nord al sud del paese, le Regioni sono al centro dell’attenzione mediatica a ridosso delle elezioni di giugno.

Dopo oltre 50 anni dalla loro istituzione si può in effetti ben fare un bilancio sul regionalismo italiano. Poche luci e molte ombre, emerse con nettezza nella fase dell’emergenza Covid ma che erano gia’ venute allo scoperto nel corso degli ultimi anni. Con Franco Ambrogio scrivemmo un libro un paio d’anni fa sul fallimento (parola grossa ma non lontana dalla realtà) del regionalismo non solo in Calabria.

Siamo stati facili profeti: non solo non si è raggiunto l’obiettivo di avvicinare l’Istituzione ai cittadini ma le Regioni si sono via via trasformate in macchine elefantiache che hanno moltiplicato i problemi anzichè aiutare a risolverli. Invece di essere enti di programmazione sono diventati enti mastodontici di gestione, macchine elefentiache di gestione del potere.

Particolare attenzione c’è nella nascita della Regione in Calabria, segnata dalla rivolta di Reggio, un momento della storia regionale che ha finito per segnare comportamenti e valutazioni, con la duplicazione delle sedi, la contrapposizione municipalistica tra città e il moltiplicarsi di una burocrazia molte volte inefficace e causa dei problemi.

Ma il punto politico di fondo è che con le Regioni, in particolare con riforma del 2001, è stata messa in discussione la coesione nazionale. Se non ci sarà una forte e rapida correzione, la conseguenza sarà una spinta ancora più decisa delle regioni del Nord per la cosiddetta «autonomia differenziata» e, di fatto, ci sarà il pericolo di una rottura dell’unità della Repubblica. Fino a qualche tempo fa, si parlava dell’esperienza regionalista in termini fallimentari, in riferimento al Mezzogiorno.

Oggi, è tutto il sistema che ha mostrato la sua pericolosità. Non mi pare infatti che tranne isolatissime eccezioni ad esempio nella gestione della pandemia ci sia stato qualcuno, dal nord al sud, che possa levare grida di gioia.

Eppure il tema del regionalismo, dell’esaltazione delle autonomie persino, non è fuori, tutt’altro, da alcune correnti di pensiero politiche e culturali del Mezzogiorno. Non di tutte, in verità, ma se confrontate alla situazione dei giorni nostri salta evidente la differenza. Quale è, ad esempio, il nesso meridionalismo-regionalismo?

Un dato di fatto è che, nell’ambito della Costituente, la motivazione più forte per l’introduzione dell’istituto regionale nella Carta costituzionale è stata quella che, con l’autonomia regionale, il Mezzogiorno si sarebbe potuto difendere meglio dalle prepotenze dello Stato centrale e ci sarebbero state condizioni migliori per un cambiamento della sua condizione. Uno stretto legame, dunque, fra meridionalismo e regionalismo. I fatti hanno poi dimostrato l’esatto contrario però.

Stiamo appunto ai fatti. L’istituto regionale viene attuato dopo più di vent’anni, in una situazione molto diversa da quella del 1947. L’Italia aveva cambiato volto. La questione del Mezzogiorno non poteva porsi negli stessi termini di 20 anni prima. Di ciò si resero conto i comunisti che mutarono la visione cui, secondo loro, dovevano ispirarsi le Regioni.

Esse non potevano avere più le finalità proprie dell’impostazione tradizionale dell’autonomismo, cioè la difesa dallo Stato accentratore ma, in un contesto radicalmente diverso dal passato, sarebbero dovute divenire una delle leve mediante le quali intervenire per mutare le scelte del tipo di sviluppo generale: incidere, cioè, sulle scelte nazionali dello Stato. Hanno, dunque, avuto torto alla resa dei conti anche i comunisti e gli eredi del Pci nelle loro varie forme? La battaglia istituzionale per le Regioni si è dimostrata fallimentare.

Si è verificato ciò che qualcuno aveva temuto: non essere di per sé l’istituzione ad agevolare la spinta per una diversa condizione del Mezzogiorno. Al contrario la pressione per una diversa politica economica si è indebolita, invece di diventare più incisiva. Il regionalismo ha permesso di disarticolare la pressione, invece di darle unitarietà. Al Nord si è tramutata nell’attenzione esclusiva agli interessi immediati di quei territori.

Al Sud, ha finito per ridursi alla richiesta – o all’offerta – di un’infrastruttura, di un investimento da parte di questa o quella Regione, e più spesso a una domanda indiscriminata di spesa pubblica. Perciò, si è inceppata tutta l’economia nazionale. È andato in crisi il sistema-Paese. Si è disarticolato il Paese e sono cresciute le politiche localistiche e i piccoli orizzonti di governo. Il Nord si è bloccato, il Sud è peggiorato e l’Italia è diventata più piccola. Poi sono arrivati i ladroni e i predoni e tutto sta finendo a carte quarantotto!

da “il Quotidiano del Sud”.

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno.-di Gianfranco Viesti

Dopo il Molise, l’Abruzzo; e poi la Basilicata. Certo, ogni regione ha la sua storia, e c’è stata la Sardegna; i risultati si inquadrano in dinamiche nazionali.Ma non si sfugge: le forze del centro-sinistra, e in particolare il Pd, non riescono ad offrire agli elettori del Sud, che pure sono più mobili nelle proprie scelte di quelli del resto d’Italia, forti motivazioni per il voto.

La tendenza era già visibile alle politiche: se nel 2018 solo 11 elettori meridionali su cento si erano recati alle urne per votare Pd e Avs/Leu (il dato tiene naturalmente conto anche degli astenuti) nel 2022 la percentuale era scesa al 9 (17% al Centro-Nord), nonostante il fortissimo declino dei 5 Stelle.

Quelle forze politiche avevano perso, nel 2018-22, il 19% dei voti (il 10% al Centro Nord). Il Pd non riesce a recuperare voti al Sud; ma, senza quei voti, non si potrà mai determinare una vittoria delle attuali forze di opposizione alle elezioni politiche generali.

Perché? A mio avviso per due ordini di motivi: perché il Pd, ormai da tempo, ha “divorziato” dal Sud; perché il Pd, in particolare al Sud, “non esiste”.

Gli elettori meridionali non riescono a vedere proposte politiche del Partito Democratico che possano influire sulle loro vite, sulle loro opportunità e speranze. Dagli esponenti di quel partito vengono declamazioni assai generiche; e proposte di interventi principalmente per destinare più incentivi alle imprese perché investano e assumano al Sud.

Poco, molto poco, quasi niente, che possa migliorare concretamente la loro vita: proposte per potenziare i servizi di istruzione per chi frequenta la scuole (mense/orario prolungato) o le ha abbandonate; per migliorare i livelli di assistenza in sanità, tanto nella fondamentale prevenzione, quanto nei servizi territoriali e ospedalieri; per accrescere e sviluppare qualitativamente il welfare locale, che al Sud ha dimensioni infinitesime, e che inchioda la condizione di molte donne negli obblighi di cura; per garantire ragionevoli servizi di mobilità a corto e medio raggio ai ragazzi e agli anziani prigionieri in piccoli comuni interni.

Un filo rosso lega questi temi: attengono tutti alla disuguaglianza nelle condizioni di vita fra i cittadini; disuguaglianza che non dipende solo dalle caratteristiche socioeconomiche degli individui (età, genere, ceto, lavoro) ma anche dalla situazione dei luoghi in cui essi vivono. E che non si combatte con piccole provvidenze speciali destinate “al Sud” ma con politiche nazionali di ampio respiro ispirate al perseguimento di una maggiore uguaglianza. Che partono dalla definizione e quantificazione di quell’insieme di diritti di cittadinanza di cui ogni italiano dovrebbe godere indipendentemente da dove vive (che pur previsti in Costituzione non sono mai divenuti realtà) e che da essi traggono principi e criteri per tutte le politiche pubbliche, correnti e di investimento.

Insomma, quello che si sta dicendo è che il Pd ha “divorziato” dal Mezzogiorno perché ha abbandonato il perseguimento della lotta alle disuguaglianze come grande riferimento della sua proposta politica. Ma vi è di più. È anche da esponenti di quel partito che è venuto un forte sostegno a scelte che hanno significativamente aumentato quelle disuguaglianze.

Dalle politiche di “contrazione cumulativa e selettiva” del sistema universitario italiano, che hanno esplicitamente favorito la migrazione di studenti da Sud a Nord (quanti sanno che dal 2013 la possibilità di reclutare docenti dipende anche dall’ammontare delle tasse universitarie e quindi è maggiore per gli atenei con gli studenti che provengono da famiglie più abbienti?) all’assenza della “deprivazione sociale” come criterio allocativo del fondo sanitario nazionale, pur previsto dalla legge.

Non è un caso che sia stato l’attuale presidente del Pd ad aprire in misura decisiva la strada alle richieste di autonomia regionale differenziata (la “secessione dei ricchi”); lo stesso esponente politico il 5 aprile scorso ha lamentato che il criterio di riparto del Fondo Sviluppo e Coesione sia “troppo sbilanciato sul Sud e poco sul Nord”.

Al Sud il Pd si presenta come una coalizione di singole personalità, ciascuna con il proprio seguito di consenso. Non è organizzato con una rete di comunità, presenti sul territorio, che mirano ad allargarsi, ad avvicinare altri cittadini; che discutono di politica, che perseguono obiettivi comuni su base locale o nazionale. Eppure, il tessuto associativo al Sud è molto più ricco di quanto si possa immaginare: ma molto raramente si tratta di gruppi che si caratterizzano con le insegne del Pd. Se si vuole fare politica non si va in un partito.

Si dirà che questo caratterizza più forze politiche, più luoghi del paese. È vero. Ma per il Pd al Sud si tratta di un tratto fondamentale, dirimente. I suoi due maggiori esponenti, i presidenti di Campania e Puglia, hanno una rete di consenso di carattere strettamente personale; le loro scelte di governo sono innanzitutto finalizzate al mantenimento e all’allargamento di questa rete. Come si è visto dalle recenti vicende giudiziarie pugliesi, questo porta a includere nel perimetro della propria coalizione altri esponenti politici, non per le loro idee, ma in quanto portatori di ulteriori “pacchetti” di sostenitori. Anche indipendentemente dai modi usati per metterli insieme.

Non si aderisce al Pd: si entra nella cerchia di De Luca o di Emiliano. Nel recente caso lucano, le elezioni regionali sono state vinte dal centrodestra (con un Presidente che non risiede nemmeno in Basilicata) perché alcuni esponenti già del Pd sono trasmigrati da quel lato, portando con sé il proprio, cospicuo, “pacchetto” personale di sostenitori.

Una eccellente classe dirigente di origine popolare o diessina caratterizzava tutta la Basilicata: era tenuta insieme da valori comuni, le assicurava un governo locale e regionale di qualità, garantiva un consenso da regione “rossa”. Si è liquefatta nell’ultimo decennio a seguito di una lotta senza quartiere fra singole personalità del Pd. Fino all’incapacità di scegliere un candidato presidente a pochi giorni dalla presentazione delle liste. Si dirà, giustamente, che il quadro a destra non è certo molto differente. Ma, forse, se si vuole riportare alle urne gli Italiani che non votano più, è anche dal segnare questa diversità che si può ricominciare.

Sinora, l’azione della nuova Segretaria si è rivelata, purtroppo, impalpabile. Si guardi la recentissima proposta sulla sanità a firma Schlein: non affronta il tema delle disuguaglianze nel diritto alla vita esistenti in Italia; della circostanza che, specie in Calabria e in Campania, si muore di tumori curabili perché il diritto allo screening preventivo non è garantito e li si affronta quando è troppo tardi. Si leggano le cronache: sugli assetti del partito, sulle giunte, sulle candidature. Cambiare il Pd non è certo una passeggiata. Ma, continuando così, la Basilicata rischia di diventare la regola e la Sardegna l’eccezione.

da “il Fatto Quotidiano del 28 aprile 2024

Dalla parte della Riforma sanitaria.-di Enzo Paolini

Dalla parte della Riforma sanitaria.-di Enzo Paolini

Alcune riflessioni a margine di un dibattito sulla sanità.
C’è che non lo vuole difendere. Chi intenzionalmente pone in essere le condizioni per smantellarlo e rendere sterile il principio sancito nella legge 833/78 e poi nel D. Lvo 502/92, quello relativo alla assistenza solidaristica ed universale cioè senza oneri per i cittadini, garantiti dalla fiscalità generale ove chi ha di più paga proporzionalmente anche per chi ha di meno.

Premettiamo per la milionesima volta che il servizio pubblico è svolto concretamente da strutture pubbliche e private, tutte accreditate con il SSN sulla base di identici criteri di appropriatezza e di qualità. Ripetesi, senza alcun impegno economico per i cittadini.

C’è chi dolosamente rema contro ed ha nomi e cognomi. Ed è la classe dirigente tutta, un unicum che non ha alcuna distinzione, che ha consapevolmente omesso l’applicazione della legge, del buon senso e dell’equità.
Andiamo con ordine e ripercorriamo i luoghi comuni che emergono, alcuni con un insopportabile demagogia altri sotto forma di denunce, apparentemente coraggiose e nuove, nei dibattiti e nelle trasmissioni televisive ed individuiamo con chiarezza le responsabilità.

A) La rete ospedaliera: responsabilità molto risalente nel tempo ed ascrivibile a chi – inconscientemente e senza alcuna conoscenza di territori e fabbisogni – ha dissipato un patrimonio di conoscenza e professionalità disponendo d’imperio riconversioni, soppressioni di ospedali in zone disagiate, riduzione di assistenza senza aver prima messo mano e potenziato da un lato l’assistenza di base, cioè la prevenzione, la medicina di famiglia, la specialistica ambulatoriale, e dall’altro le funzioni di urgenza/emergenza.

E’ chiaro a tutti che non si deospedalizza per decreto ma con una intelligente, consapevole e condivisa programmazione.
Quindici anni di Commissari hanno condotto allo sfascio.

Sul presupposto (e sul pregiudizio nei confronti dei calabresi) che la sanità è terreno di malaffare non si è combattuto il malaffare con il lavoro dei generali ed i prefetti nei Tribunali e nelle Questure, ma si sono mandati i generali ed i prefetti a fare un altro lavoro nella Pubblica Amministrazione: organizzare il servizio santiario.
Con risultati devastanti e talvolta con episodi tragicomici.

Con tutti i limiti ed i problemi derivanti da questa situazione la proposta di riorganizzazione di oggi delinea un progetto ed una visione. Staremo a vedere e daremo il contributo di cittadini ed operatori interessati ed attenti, per integrare e migliorare.
Le posizioni manichee e di parte (verrebbe da dire ideologizzate, ma ahinoi l’ideologia non è più nel cassetto della politica) non servono a niente.

B) Le liste d’attesa e l’emigrazione sanitaria. Questo è un problema la cui origine è di immediata e diretta comprensione e di ancor più facile soluzione. Deriva da un principio ottusamente penalizzante solo per le Regioni del Sud ed in particolare per la Calabria: i tetti di spesa.

Si dice, con espressione disinformata e demagogica che gli ospedali pubblici sono messi in condizione di non poter rispondere alla domanda di cura e assistenza e che perciò i pazienti sono obbligati a rivolgersi alla struttura privata, che ingrassa sulla salute dei cittadini.

In realtà, cosa succede: come si è detto prima, presso la struttura privata non si paga ma quel che rileva per questa analisi, è che il paziente, non ricevendo assistenza dalla struttura pubblica, la chiede alla struttura privata ma ad un certo punto trova la porta chiusa perché oltre il tetto stabilito dall’ASP la struttura privata non può erogare prestazioni.

Il che sarebbe comprensibile se questo blocco fosse determinato dalla carenza o inesistenza di risorse e quindi dalla impossibilità di far fronte ai costi. Motivazione odiosa, contraria alla legge, ma comprensibile.
Tuttavia così non è.

Di fronte all’impossibilità di erogare la prestazione richiesta sia da parte dell’ospedale pubblico (per saturazione) che da parte dell’ospedale privato (per esaurimento del tetto di spesa) il cittadino non ha che tre strade: 1) mettersi in lista d’attesa; 2) chiedere assistenza in altra regione; 3) farsi curare a pagamento. Ognuna di queste opzioni è altamente penalizzante ed è indotta da una gestione stupida e dannosa.

Vediamo perché: l’incremento della lista d’attesa è il fenomeno che tutti dicono di voler impedire perché comporta disagio, insoddisfazione, ingravescenza della malattia e costo sociale.

L’assistenza e la cura a pagamento, che non tutti possono permettersi, creano il fenomeno contrario al principio informatore del nostro servizio sanitario, e cioè la salute per i ricchi e quella per i poveri.
Al cittadino bisognoso di assistenza non rimane che andare fuori regione. Il che vuol dire, per lui, sommare le criticità delle prime due opzioni e cioè il disagio per se e per la sua famiglia per viaggi e permanenze in un posto lontano da casa ed il relativo costo.

Questo dal punto di vista del paziente. Ma non finisce, qui perché la Regione Calabria, disinteressata alle sorti del proprio residente è poi costretta a pagare la prestazione alla Regione in cui viene resa a tariffa più che doppia. Con questo sistema noi calabresi spendiamo oltre 250 milioni all’anno. Circa due miliardi e mezzo in dieci anni.

Soldi letteralmente regalati alle Regioni del nord perché – al netto di prestazioni di altissima complessità possibili solo in centri iper specializzati – tutte o gran parte di queste prestazioni sono di natura ordinaria (cataratte, menischi, radioterapia, protesi, colecistesctomia, PET, RMN, ecc. ecc.) che potrebbero essere rese negli ospedali accreditati delle città calabresi a costo dimezzato.

Una semplicissima cosa che potrebbe cambiare la vita dei calabresi, ed invertire la tendenza, per di più applicando la legge, quella che dice (il d.lvo 502/92) che la Pubblica Amministrazione deve consentire le cure a tutti, anche oltre i tetti di spesa, e remunerare le prestazioni con tariffe ridotte proporzionalmente e progressivamente senza oneri per i cittadini. Dunque servizio per i pazienti e risparmio enorme per le casse regionali.

Eppure tutti invocano la riduzione della emigrazione sanitaria senza indicare come fare.
E perché non si fa? I motivi possono essere due. Nel migliore dei casi, la burocrazia dovrebbe impegnarsi nel lavoro di elaborazione dati programmazione e compensazione tra regioni (mentre è meglio dire una volta per tutte, questi sono i soldi e basta, e chi arriva quando i tetti sono esauriti aspetta, emigra o paga). Nel peggiore si vuole dolosamente arricchire regioni e strutture del Nord.

Bene. Chiarito il meccanismo, va però detto che anche su questo punto, sembra che la struttura commissariale abbia idee chiare ed intenda mettere in campo tutte le iniziative necessarie per invertire la tendenza. I primi dati ci sono e costituiscono un segnale confortante: riduzione dell’emigrazione senza spendere un solo centesimo in più anzi, recuperando risorse e conseguente riduzione delle liste d’attesa.

C) La questione generale, gli sprechi, gli imbrogli, le negligenze.
Qui è lo snodo nel quale il Paese, non solo la Calabria, deve interrogarsi. A che servono le denunce – soprattutto se provengono da chi ha avuto ruoli diretti ed in partiti di governo (quindi tutti i politici che parlano e sparlano) – se non sono accompagnate da esplicite richieste di interventi giudiziari o da indicazioni di rimedi? A niente, perché questi fenomeni – il malaffare, la negligenza, l’indifferenza verso i problemi della comunità e del prossimo – sono il frutto dell’inesistenza di un meccanismo di selezione della classe dirigente.

Chi oggi siede nelle istituzioni nazionali non rappresenta in alcun modo le popolazioni di provenienza. Per il semplicissimo ed evidente motivo che non è eletto, ma è nominato e non risponde del suo operato ai cittadini che vorrebbero una sanità migliore ma al capopartito che vuole, al suo comando, solo un’alzata di mano in Parlamento.
È tutto qui. Ed è semplice. Chi davvero vuole cambiare le cose, prima che tutto diventi regime, deve chiedere che si cambi la legge elettorale e si ristabilisca la connessione politica tra eletti ed elettori.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 aprile 2024
Foto di mspark0 da Pixabay

Ecolandia è un bene comune, vietato calpestare i sogni.-di Tonino Perna Sabato sarà una festa

Ecolandia è un bene comune, vietato calpestare i sogni.-di Tonino Perna Sabato sarà una festa

È incredibile la quantità di mail, messaggi, telefonate che stanno arrivando alla squadra che gestisce il Parco Ecolandia. Tutti a chiedere “cosa possiamo fare” , “come possiamo renderci utili” , “contate su di noi”, singole persone e rappresentanti di più di un centinaio di associazioni. Per sabato prossimo abbiamo indetto una manifestazione dentro Ecolandia, sotto i cipressi, a qualche decina di metri dagli uffici amministrativi che, come fosse stata sganciata una bomba, sono stati totalmente cancellati, non solo con i beni, ma soprattutto con le memorie che contenevano più di dieci anni di lavoro.

In un tempo in cui sembra prevalere scetticismo e rassegnazione questa reazione ci fa capire che Ecolandia è divenuta negli anni quello che si definisce nelle scienze sociali come un ”bene comune”. Vale a dire un bene non solo fruito dalla collettività, ma anche vissuto come una parte della propria identità.

Il fatto che la solidarietà non si sia fermata ai soli cittadini reggini, ma sia arrivata da tante parti d’Italia ci fa capire che questo Parco rappresenta un simbolo per tutti coloro che amano la natura, che credono in un altro modello di società, che in Ecolandia hanno potuto ammirare le meraviglie dello Stretto, vivere delle serate indimenticabili nell’anfiteatro, percorrere le tappe del Laudato sì.

All’ingresso del Parco Ecolandia, quando è stato inaugurato, un giovane scout ha voluto scrivere su una tavola arcobaleno “È vietato calpestare i sogni”. E la realizzazione di questo parco tematico è stato un sogno che è partito nel lontano 1998. Chi scrive, in qualità di presidente del C.R.I.C., una Ong molto attiva in quegli anni, ideò e coordinò il progetto che vinse una gara all’interno del programma Urban della Ue, promosso da Gianni Pensabene, allora assessore della giunta di Italo Falcomatà.

In poco più di due anni il progetto fu realizzato, ma l’improvvisa scomparsa del sindaco più amato dalla città impedì l’inaugurazione. Purtroppo, dal 2002 al 2012 Ecolandia rimase chiusa, per inspiegabili motivi, e venne vandalizzata come è prassi normale per tutti i beni pubblici che rimangono incustoditi. Dal 2014 si è insediato il Consorzio Ecolandia, composto da una decina di associazioni, cooperative e imprese eticamente orientate, che ha vinto il bando comunale. Il Consorzio ha dovuto indebitarsi pesantemente per ricostruire, risanare, rimettere in funzione tutto quello che era stato devastato.

Grazie alla presenza di validi progettisti, di un team capace di idee innovative, ha vinto una decina di bandi europei con i quali ha potuto fare importanti investimenti e sperimentazioni in diversi campi: dalle energie rinnovabili, all’agricoltura sostenibile (a proposito è stata progettata una serra resiliente agli eventi estremi), al riuso dei copertoni dei camion e della polvere esausta degli estintori realizzando una pavimentazione che è stata brevettata, ecc.).

Tutto ciò è stato possibile anche grazie alla collaborazione con l’Università Mediterranea, con l’Unical, con il Polo Net, di cui Ecolandia è entrata a far parte, con il C.I.R.P.S. (Consorzio Interuniversitario per lo Sviluppo Sostenibile).

Ecolandia è tante cose, ma una in particolare è quella che la rende vitale, diversa ogni anno, ogni mese, ogni giorno. Sono gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, che la visitano in gruppi guidati da operatori del Parco competenti e appassionati.

È una gioia immensa vedere i bambini delle scuole elementari attraversare il Parco e ascoltare gli educatori, rispondendo a quella missione di didattica ambientale per cui è nato questo luogo. E poi ci sono le famiglie che nei giorni di festa hanno trovato uno spazio vivibile, godibile e non mercificato.
E tutto questo non ci possiamo permettere di perderlo.

Eraclito diceva che il fuoco è l’arché , il principio da cui sono generate tutte le cose, grazie al fatto che attraverso rarefazione e condensazione si trasforma nei restanti tre elementi: aria, acqua e terra. Ora che il fuoco ha fatto la sua parte potremo assistere alla rigenerazione di tutte le cose da cui è composto il Parco Ecolandia. È un nuovo inizio nel ciclo inesauribile della vita.

L’incubo Autonomia sulla già disastrata sanità calabrese.-di Filippo Veltri

L’incubo Autonomia sulla già disastrata sanità calabrese.-di Filippo Veltri

Nei giorni scorsi ci siamo soffermati a lungo sui guasti che provocherebbe nel sistema sanitario italiano, e calabrese in particolare, il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata: una frattura strutturale Nord-Sud, che vedrà inesorabilmente aumentare le diseguaglianze già esistenti, con l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione. Il Ddl Calderoli, cioè, non farà altro che aumentare il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di servizi sanitari, distruggendo di fatto il nostro Servizio sanitario nazionale.

Tutto giusto e corretto e moltissimi hanno, infatti, apprezzato. Ma moltissimi sono stati anche i lettori che sollecitano a fare nel contempo, se non prima, una critica tutta calabrese sui guasti del nostro sistema sanitario a prescindere cioè da quelli che provocherebbe il Ddl Calderoli. Moltissimi hanno scritto in privato per denunciare altri clamorosi casi di disastri e di ruberie varie, di un malaffare che ha fatto penetrare la ‘ndrangheta, della sanità usata come bancomat dalla classe politica calabrese per arricchimenti clamorosi e/o clientele a raffica financo nella scelta dei primari, che hanno alla fine solo impoverito lo stesso sistema della tutela della salute dei calabresi.

Come a dire: guardiamo prima in casa nostra e proviamo a vedere il disastro in salsa calabrese, che già esisteva prima di Calderoli. Del resto 14 anni di commissariamento della sanità hanno pure una ragione, o no? E lo Stato, mandando in tutti questi anni gente che con la sanità non aveva alcun rapporto ha peggiorato la situazione, con la domanda che resta sullo sfondo ma che diventa centrale ai fini del ragionamento: perché Roma ha inviato al capezzale del servizio sanitario regionale persone sicuramente rispettabili ma che con la sanità non c’entravano praticamente nulla (e spesso persino in pensione pure dai loro lavori)? Risposta: per tutelare i grandi interessi nazionali, politici e non, che stanno dietro, davanti, sopra e sotto il settore. Un magma di società, corporazioni, aziende, ditte, potentati di vario genere.

Di fatto l’emergenza della sanità in Calabria è diventata quindi endemica e dai buchi disastrosi dovuti alla clientela politica nel settore si è passati alle voragini. Il commissariamento doveva in teoria servire a rimettere ordine nel disordine gestionale e contabile, a migliorare la qualità delle prestazioni negli ospedali pubblici della Calabria, a porre un freno al pagamento delle doppie e delle triple fatture e all’insinuarsi della ‘ndrangheta e della corruzione ma nulla di tutto questo è avvenuto, nemmeno dopo la coraggiosa denuncia di Santo Gioffrè da responsabile dell’ ASP reggina, al momento unico episodio di una pubblica e forte denuncia sul malaffare che aveva portato al commissariamento.

Su quella poltrona di commissario si sono via via seduti carabinieri, prefetti, finanzieri, manager, generali, ingegneri etc. Gente che, però, arrivò addirittura ad ammettere dinanzi alle telecamere della TV di Stato che si era persino scordato di varare il piano anticovid chiesto dal Governo, tanto per capirci! La verità è, dunque, quella di un fallimento totale, dietro cui sono continuate quelle ruberie, quel malaffare e quella malagestione, che hanno avuto come effetto solo quello di moltiplicare diseguaglianze e privazioni, in una regione che già scontava condizioni di sanità diseguale.

Ora c’è Roberto Occhiuto alla guida del commissariamento ma di strada da fare ancora ce n’è tantissima, come del resto lo stesso presidente di Regione riconosce. In questo quadro già terremotato per i motivi suddetti interverrebbe il DDL Calderoli: un motivo in più per allontanarlo e respingerlo ma un motivo in più per aprire una vera operazione verità sul pozzo senza fondo in cui le classi dirigenti calabresi hanno trascinato in tutti questi decenni il settore primario per la vita di tutti noi.

Un pozzo senza fondo – ultima ma non ultima notazione su cui anche qui andrebbe fatto un serio ragionamento per capirne le ragioni – su cui troppo poco si è indagato anche da parte di chi ha e aveva il dovere di farlo. Anzi, si è fatto l’esatto contrario se solo ricordiamo (e sempre occorre farlo) l’incredibile vicenda proprio di Gioffrè: appena nominato Commissario, il 13 marzo 2015, si è imbattuto nel sistema di furti che per decenni hanno saccheggiato l’Asp di Reggio, denunciando transazioni false, il sistema di furti in vari modi delle risorse e cercato di ricostruire i bilanci dell’Asp che da anni non esistevano.

Scoprì per primo il termine “contabilità” orale, che, in sostanza, tutt’ora tiene dentro il Piano di Rientro la Calabria. Ostacolato, isolato e strenuamente lottato, fu sollevato dall’Anac per un cavillo in quanto, anni prima, era stato candidato a Sindaco, sconfitto, di Seminara. Assolto alla fine per non aver commesso il fatto: nelle motivazioni venne scritto che Santo Gioffrè ha difeso l’Asp di Reggio Calabria con “diligenza’’. Sul resto del malaffare vero invece tutto tace.

da “il Quotidiano del Sud” del 6 aprile 2024

Autonomia differenzata e sanità. Allarmi inascoltati-di Filippo Veltri

Autonomia differenzata e sanità. Allarmi inascoltati-di Filippo Veltri

L’allarme era, è, di quelli che non lasciano dubbi: l’autonomia differenziata “non solo porterà al collasso la sanità del Mezzogiorno, ma darà anche il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale, causando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti”. Parola di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, per illustrare i risultati del report ‘L’autonomia differenziata in sanità‘ che esamina le criticità del Disegno di legge Calderoli approvato al Senato e ora in discussione alla Camera.

Non sembra che l’allarme abbia suscitato particolari scossoni nel mondo politico e istituzionale, tranne Rubens Curia con la sua Comunità Competente ed i Vescovi calabresi riuniti in conclave. In Consiglio Regionale un centrosinistra titubante dà invece ancora spazio ad un centrodestra diviso e lacerato, senza affondare i colpi.

Il report analizza il potenziale impatto sul Ssn delle maggiori autonomie richieste dalle regioni in materia di “tutela della salute”. Un de profundis largamente annunciato, che documenta dal 2010 enormi divari in ambito sanitario tra il Nord e il Sud del Paese e solleva preoccupazioni riguardo l’equità di accesso alle cure.

Se per le Regioni del Sud, già in fondo alle classifiche per cure essenziali e aspettativa di vita, si profila infatti il pericolo di collasso del reparto sanitario, al Nord si rischia il sovraccarico da mobilità sanitaria. Numerosi gli esempi che possono portarsi al riguardo: nessuna regione del Sud nella top 10 dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) nel decennio 2010-2019; una mobilità sanitaria dal Centrosud al Nord, con tutte le regioni del Sud ad eccezione del Molise, che hanno accumulato complessivamente un saldo negativo pari a 13,2 miliardi di euro nel periodo 2010-2021, mentre sul podio si trovano proprio le tre regioni che hanno già richiesto le maggiori autonomie; scarse performance delle regioni del Centro-Sud per il raggiungimento degli obiettivi della Missione Salute del Pnrr.

“Complessivamente questi dati – spiega Cartabellotta – confermano che in sanità, nonostante la definizione dei Lea nel 2001, il loro monitoraggio annuale e l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali”.

Siamo perciò oggi davanti ad una frattura strutturale Nord-Sud, che vedrà inesorabilmente aumentare le diseguaglianze già esistenti, con l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione.

I dati Gimbe dovrebbero essere, in una nazione normale, la pietra tombale sul progetto della Lega ed un Governo responsabile metterebbe da parte subito questo progetto perché il Ddl Calderoli non fa altro che aumentare il divario tra Nord e Sud del Paese in termini di servizi sanitari, distruggendo di fatto il nostro Servizio sanitario nazionale.

Se un istituto terzo come Gimbe (e non un fiero oppositore della Meloni o i pericolosi estremisti (sigh!) Schlein, Conte, Fratoianni o Santoro) certifica che l’autonomia differenziata di Calderoli spacca l’Italia e uccide la sanità pubblica del nostro Paese, di fatto regalando il servizio sanitario nazionale ai privati e a chi si potrà permettere di pagare, qualcosa dovrebbe pure succedere. E invece niente!

Il Sud si vedrà privato delle risorse necessarie per garantire qualità nei servizi, equità di accesso vedendo rinnegato il diritto stesso alla salute in favore di interessi particolari che avranno come effetto paradossale quello di accentuare il pendolarismo sanitario dal Sud al Nord. La disuguaglianza è sempre negativa, ma se c’è un campo in cui è nefasta e vergognosa è proprio quello della salute: se sei in una condizione di povertà sei discriminato, se ti viene tolto o ridotto l’accesso al servizio sanitario sei messo in pericolo di vita.

In Calabria tutto questo ragionamento deve essere moltiplicato per 2,3,4…Per mille, fate voi. La voce piu’ forte appare però ancora quella dei Vescovi.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 marzo 2024

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

Tre inganni si nascondono dietro la promessa che i Lep controbilanceranno il regionalismo differenziato: uno formale, uno sostanziale, uno finanziario. La sigla Lep sta per «livelli essenziali delle prestazioni». L’espressione indica quell’insieme di attività e servizi che, pur nell’ambito di un Paese regionalizzato, dovrebbe essere ovunque erogato uniformemente.

Lo schema retrostante è semplice – forse semplicistico – ma chiaro: una volta fornite a tutti i cittadini le medesime prestazioni di base, secondo quanto stabilito nel dettaglio dalla legge del Parlamento (articolo 117 della Costituzione), spetterà poi a ciascuna regione decidere se fornirne ai propri cittadini di ulteriori e quali.

Quanto alle risorse necessarie a sostenerne i costi, la legislazione sul federalismo fiscale prevede che per ciascun Lep sia definito il «costo standard», in modo che dalla loro somma si possa poi ricavare l’ammontare della somma da assegnare a ciascuna regione: il cosiddetto «fabbisogno standard». Spetterà quindi alle regioni che vorranno erogare prestazioni ulteriori procurarsi autonomamente le risorse necessarie, grazie ai risparmi generati dall’efficienza amministrativa o all’introduzione di imposte aggiuntive.

Un quadro, insomma volto a differenziare, ma a partire da un nucleo di uguaglianza: per questo – affermano i paladini delle regioni – nessun pericolo potrà venire dal regionalismo differenziato. Peccato che il disegno di legge Calderoli smentisca sotto tutti i punti di vista tale rassicurante visione.

Anzitutto, il parlamento – vale a dire, l’organo che rappresenta tutti – è escluso dalla definizione dei Lep. E ciò non tanto perché il progetto Calderoli affida tale compito al governo tramite decreti legislativi. Quanto, piuttosto, perché i Lep saranno successivamente soggetti ad aggiornamenti periodici tramite decreti del presidente del Consiglio dei ministri (gli ormai famosi Dpcm) e, soprattutto, perché nell’attesa dei decreti legislativi è previsto che i Lep siano anticipati tramite Dpcm – o, se il premier dovesse ritardare, tramite intervento di un Commissario: come se definire il contenuto di un diritto equivalesse a realizzare un’infrastruttura! – la cui normativa «è fatta salva… alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi».

In sintesi, i Lep saranno definiti con Dpcm, i decreti legislativi li recepiranno pro forma e potranno poi essere modificati con Dpcm: tutto nelle mani del governo.

Di seguito, il lavoro preparatorio compiuto dalla commissione Cassese incaricata di una prima ricognizione dei Lep risulta nel merito del tutto insoddisfacente. Come messo per iscritto dall’ex governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (lettera alla commissione del 10 ottobre scorso), «le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Non diversa la valutazione fornita a inizio mese dall’Ufficio parlamentare di bilancio, per il quale ai Lep sono stati ricondotti, oltre alle prestazioni, procedure di selezione dei beneficiari, modalità di accesso e presa in carico, profili organizzativi e programmatori e numerosi altri elementi eterogenei. Nessuna definizione sostanziale del nucleo di uguaglianza a partire dal quale differenziarsi, dunque: con il risultato che la differenziazione non potrà che tradursi in (ulteriore) disuguaglianza. Più in radice, la verità è che ridurre i diritti ai Lep è – oltre che in molti casi impossibile – profondamente sbagliato, perché l’obiettivo dovrebbe essere la piena, e non l’essenziale, tutela dei diritti.

Infine, il meccanismo di finanziamento delle regioni che si differenzieranno previsto dal disegno di legge Calderoli è definito in modo tale da svincolare i Lep dai costi standard e affidare la determinazione delle risorse a un’apposita commissione paritetica tra lo Stato e la regione interessata. Dunque, in concreto: una commissione nominata per metà da Calderoli e per metà da Zaia, nel caso del Veneto; per metà da Calderoli e per metà da Bonaccini nel caso dell’Emilia Romagna; e via dicendo. Malizioso immaginare che a muovere gli orientamenti di tali organi sarà un’attitudine più attenta all’egoistica rivendicazione del residuo fiscale che alla solidaristica perequazione inter-regionale?

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Un’altra idea di autonomia.-di Roberto Ciccarelli

Un’altra idea di autonomia.-di Roberto Ciccarelli

Autonomia come autogoverno e autodeterminazione delle persone, della classe, dei popoli. Autonomia operaia e dei consigli di fabbrica. Autonomia come democrazia diretta, sociale e politica. Queste, e altre declinazioni, del concetto – quello di «autonomia», appunto – sono state fatte nella lunga e travagliata storia della sinistra sindacale, comunista, socialista e liberale.

QUESTA STORIA si è sviluppata sempre nel fuoco delle lotte in Italia. Ha dato esiti stupefacenti molti fallimenti, riprese insperate. Fu rielaborata dall’Ordine Nuovo con Antonio Gramsci nel primo «biennio rosso» (1919-1920). Il grande politico e filosofo, fondatore del Pci, allora parlava di una delle istituzioni dell’autonomia: i «consigli operai». Erano «cellule prime» della democrazia rivoluzionaria. L’idea dell’«autonomia» tornò trasformata nel secondo «biennio rosso»: tra il 1968 e l’«autunno caldo» del 1969. Nacquero le organizzazioni autonome: il Consiglio Unitario di base (Cub) alla Pirelli di Milano. Altri consigli di fabbrica si erano strutturati prima.

UNA STORIA POTENTE. Ha attraversato prospettive leniniste, luxemburghiane, proudhoniane, gramsciane, socialiste e comuniste, liberalismi originali opposti a quelli classisti ed economicisti. C’è stata l’epica, la tragedia e il martirio. Quello di Piero Gobetti ucciso dai fascisti. Ci sono le traiettorie di socialisti come Vittorio Foa, oppure quelle di fondatori dell’operaismo: un gigante come Raniero Panzieri, per esempio. La riflessione sull’autonomia si ritrova, in altre posizioni, quelle di un segretario della Fiom e della Cgil, oltre che pensatore di prim’ordine: Bruno Trentin.

CI SONO STORIE di formidabili dibattiti pratici e teorici che hanno coinvolto le riviste più belle, i convegni più combattuti, gli intellettuali, gli operai, i militanti culturali e di base. Ci fu il dibattito sulle «sette tesi sul controllo operaio» del 1958 di Raniero Panzieri e Lucio Libertini sulla rivista del Psi «Mondo operaio». Molti ricordano e praticano l’operaismo dei «Quaderni Rossi». Su un altro versante possiamo trovare, per esempio, la storia della «nuova sinistra», quella de Il Manifesto. E ancora i movimenti rivoluzionari degli anni Settanta. In tutta evidenza, non stiamo parlando di una prospettiva unica, ma irriducibilmente plurale, spesso conflittuale, comunque problematica. Com’è la storia delle sinistre. Mille fili che però oggi potrebbero essere intrecciati in una genealogia eretica. Per creare nuove idee e cortocircuiti nel presente.

QUESTA È STATA l’intuizione che ha ispirato un bel convegno organizzato ieri all’università Roma Tre dalla Fondazione Di Vittorio (Cgil). I densissimi interventi, senza una pausa, possono essere ora rivisti sul sito Collettiva.it. In tale contesto è stata avanzata un’ipotesi di lotta culturale, dunque politica.

OGGI, È STATO DETTO, il concetto di «autonomia» è stato sequestrato dalle destre leghiste e postfasciste che compongono il governo Meloni. Quest’ultimo si regge su uno scambio osceno che rompe l’unità nazionale e rafforza l’autoritarismo dilagante. I leghisti Salvini e Calderoli vogliono imporre l’«autonomia differenziata», una «secessione» delle regioni «ricche» (Veneto e Lombardia, per cominciare) che aspirano a costituirsi in micro-staterelli. Meloni e i suoi «Fratelli d’Italia» vogliono il «premierato» che metterà in discussione sia il parlamento che le funzioni dello stesso presidente della Repubblica.

«LA STORIA DELL’AUTONOMIA come autogoverno e come pratica democratica non ha nulla a che vedere con l’autonomia differenziata di Calderoli ed è l’antidoto allo scambio osceno con il presidenzialismo di Meloni -ha detto Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio – Si tratta di un doppio autoritarismo. Per contrastare questa deriva possiamo ispirarci a queste tradizioni. Bisogna tornare a lavorare dal basso, cambiare profondamente il sistema sociale. La sinistra di governo ha gravissime responsabilità. Senza la riattivazione della partecipazione democratica nella società e nel lavoro non sarà possibile rispondere alla crisi della partecipazione sulla quale cresce anche la regressione in atto».

«IL DIBATTITO SUI CONSIGLI di fabbrica oggi è prezioso – ha detto Luciana Castellina, co-fondatrice de Il Manifesto – Anche oggi è possibile immaginare forme di democrazie diretta non solo nei luoghi di lavoro ma nella società. Da qui possiamo ripartire nel momento in cui prevale la frammentazione e l’astensionismo. Possiamo reimpadronirci della gestione di pezzi della società costruendo poteri sul territorio. la gestione diretta dei beni comuni serve anche a cambiare la cultura diffusa attraverso le pratiche della democrazia diretta. Oggi non c’è solo la fabbrica, che è decentrata al suo interno da appalti e subappalti. Il nostro problema è creare poteri collettivi, decentrati e diffusi, anche fuori da essa, cioè nuove istituzioni nella società».

«CON LA PROPOSTA del “sindacato dei diritti” Bruno Trentin ha indicato come il sindacato deve aprirsi alla partecipazione dei cittadini e unirla a quella sui luoghi di lavoro. Questa idea pone la necessità di una maggiore radicalità della nostra azione – ha detto il segretario della Cgil Maurizio Landini – Il governo ha un progetto organico, corporativo, autoritario. Meloni ha chiesto il referendum sulla riforma costituzionale per affermare la propria leadership. Noi dobbiamo usare il referendum per obiettivi opposti e affermare la democrazia in nome della Costituzione. Dobbiamo portarci all’altezza dello scontro o rischiamo che il conflitto prenda un’altra strada».

da “il Manifesto” del 30 gennaio 2024

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

I Commissari del Comune di Rende hanno proceduto, da sabato mattina 27 gennaio 2024, al taglio dei Pini quasi secolari lungo via Don Minzoni. Giova ricordare che contro l’ennesimo abbattimento di alberi in questa città si erano espressi molti cittadini, Associazioni, Movimenti e Partiti, ma coloro che amministrano, pro tempore, il Comune non hanno sentito ragioni, hanno voluto, comunque, eseguire la delibera della Giunta precedente che aveva previsto e progettato la deforestazione di questa via a partire da nord verso sud.

A nulla è servito il colloquio chiesto e ottenuto, martedì 23 gennaio, da alcune Associazioni e Partiti con la sub-commissaria, dottoressa Rosa Correale, che aveva assicurato ai convenuti che avrebbe valutato attentamente le ragioni tecniche e politiche esposte da questi ultimi prima di procedere al taglio indiscriminato dei pini. Sabato mattina la ditta incaricata ha, invece, iniziato a tagliare gli alberi come da disposizione commissariale.

Le nostre città, ormai, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, con la sola, lodevole e notevole, eccezione di Rende.

Una città che era stata concepita, dagli anni ’60 del ‘900, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di verde-che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico e privato, con il cemento e l’asfalto. Con questi tagli, insieme a quelli già operati in Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni, si vuole ridurre anche Rende ad una città spoglia e senza alberi, ad un’isola di calore al pari di tutte le altre città della Calabria e del Mezzogiorno.

Un recentissimo studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, “Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities”, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura.

Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI (Urban Heat Island), sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi.

Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sapremo presto, già dalla prossima estate, nella Rende spogliata degli alberi quali effetti producono le isole di calore perché sono proprio le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo privo di alberi- che formano queste “isole di calore” (UHI) creando e amplificando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 gennaio 2024