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Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Da San Sosti al British, il giallo della Scure letterata.-di Battista Sangineto

Un vero e proprio giallo, un ‘cold case’ il libro che ha scritto Gino Famiglietti sull’ormai famosa ‘scure letterata’ del VI secolo a.C. di San Sosti (CS), per le edizioni Scienze e Lettere.
Un giallo che, come molti fra quelli contemporanei, alterna i capitoli delle vicende del ritrovamento e dello studio della scure bronzea nel XIX secolo ai capitoli con la storia dei tentativi di farsela restituire dal British Museum dove andò a finire, a partire dalla fine del XX secolo.

Un giallo costruito à la manière de Sciascia ne “Il Consiglio d’Egitto” e, più recentemente, di Camilleri ne “La concessione del telefono”, con tanto di documenti, carte bollate, decreti legislativi, ministri più o meno sempiterni e parlamentari, dirigenti e funzionari ministeriali prima borbonici, poi dell’Italia unita e, infine, della Repubblica, affascinanti mercanti d’arte, gentlemen inglesi e del Grand Tour e Musei d’oltremanica, archeologi non troppo fedeli alla tutela del Patrimonio e altri inflessibili difensori. E non mancano sindaci, dotti aristocratici, canonici, studiosi locali o ricchi possidenti che collezionano monete e oggetti antichi pur non sapendone un “frullo” a partire dalla metà dell’800 fino aujourd’hui.

Il caso si apre, come spesso accade nei gialli ben costruiti, con il ritrovamento fortuito, nel 1846, in una località piuttosto impervia e di considerevole altitudine, Casalini della Porta della Serra di San Sosti di una scure-martello in bronzo che reca incisa su una delle facce un’epigrafe redatta in dialetto dorico ed in alfabeto acheo, databile al VI secolo a.C. più esattamente fra la metà e la fine del VI a.C. Il sito del rinvenimento, secondo il canonico Leopoldo Pagano che nel 1857 ne scrive in un opuscoletto, è un’area disabitata e piena di ruderi, forse destinata ad usi civici, a 3 miglia dalla località S. Agata, nei Casalini della Porta della montagna della Serra di fronte al santuario del Pettoruto.

L’iscrizione dedicatoria viene tradotta, nel 1969, dalla grande epigrafista Margherita Guarducci in questo modo: “Sono sacro di Hera, quella in pianura. Kyniskòs mi dedicò, lo àrtamos (secondo Giovanni Pugliese Carratelli il vittimario), come decima (tributo) dei (suoi) lavori”. Un’iscrizione interessante sia per la forma letteraria dell’iscrizione che fa propendere per una provenienza sibarita dell’oggetto sia per quel che dice, perché indica chiaramente la presenza di un tempio dedicato ad Hera in una pianura, probabilmente un luogo pianeggiante, finora non individuato precisamente neanche dalle ricerche archeologiche più recenti, della Valle del Crati.

Le ultime ricerche archeologiche pubblicate da Domenico Marino e Carmelo Colelli indicano come tutta l’area fosse profondamente antropizzata a partire da epoca protostorica e lo è stata fino alla fine dell’antichità come dimostrano gli scavi stratigrafici condotti nel Centro storico di San Sosti (chiesa del Carmine e Castello della Rocca) e ai Casalini dai quali proviene l’ascia. La presenza di edifici databili fra l’VIII ed il V secolo a.C. e, soprattutto l’ascia, provano la grande espansione e la forte influenza di Sibari su questo territorio che è, in sostanza, il corridoio naturale verso il Tirreno, vitale per la colonia greca. Riguardo all’ubicazione del tempio di Hera in pianura citato nell’iscrizione si ipotizza un’ubicazione sulla riva sinistra del torrente Rosa lungo la quale si trovano tracce consistenti di piccoli luoghi di culto databili fra il VI, appunto, ed il III secolo a.C.

Il certosino lavoro d’archivio di Famiglietti ricostruisce -grazie alla esemplare contestualizzazione storica, politica, culturale e sociale dei documenti- la vicenda del ritrovamento, dello studio preliminare dell’ascia e del suo arrivo a Napoli e a Roma, prima, e della sua esportazione all’estero, poi.

S’inizia con una lettera, finora inedita, del 1852 che l’aristocratico studioso vibonese – anzi monteleonese- Vito Capialbi invia al suo amico Giulio Minervini, eminente antichista, soprattutto epigrafista, napoletano informandolo del ritrovamento dell’ascia. È il primo documento, forse con un disegno del reperto, in cui si nomina e si descrive minutamente la scure che pesa un rotolo (890 gr. ca.) così come viene riferito a Capialbi da un corrispondente del luogo che lui stesso dice non essere molto esperto.

Capialbi e Minervini sono legati da una serie di conoscenze comuni e dall’essere entrambi soci della ‘Reale Accademia Ercolanense’, una Istituzione fondata da Carlo di Borbone che avrà un ruolo decisivo nell’applicazione dei successivi reali decreti borbonici di Ferdinando che il 14 maggio del 1822 -subito dopo la Restaurazione imposta con il Congresso di Vienna- dotò il regno di un strumento giuridico per la tutela del Patrimonio artistico e archeologico, ispirato e migliorativo dell’editto Pacca emesso nel 1820 dal Vaticano.

Nella fitta corrispondenza fra i due, Capialbi sollecita l’amico e collega Minervini a pubblicare la scure perché ritiene che sia il più qualificato a farlo a causa delle sue riconosciute doti di epigrafista. Si deve ricordare che -a cavallo fra l’Italia preunitaria e quella della prima era postunitaria- c’era una serie di figure di importanti archeologi che si erano formati in Germania dove la disciplina era più avanzata, soprattutto la storia dell’arte antica, l’”altertumswissenschaft”, che era stata fondata da Johan Joachim Winckelmann nella seconda metà del XVIII secolo. Fra queste figure di rilievo – insieme a Fiorelli, Conestabile della Staffa, Salinas e Fabretti – c’era proprio Giulio Minervini.

Nel febbraio 1853 Capialbi riceve, finalmente, la risposta tanto attesa da Minervini che lo informa di aver pubblicato l’articolo “La scure di bronzo, con greca iscrizione” che sarebbe uscito sul ‘Bullettino archeologico neapolitano’ nel marzo del 1853 corredato da uno straordinario disegno, quello della copertina del libro, di Giuseppe Abbate, ‘Primo disegnatore dei Reali Scavi di Pompei’.

Bisogna sottolineare che la pubblicazione delle notizie sulla scure, oltre a favorire la circolazione presso la comunità scientifica, si poteva considerare la catalogazione scientifica ufficiale del reperto che in tal modo, ai sensi dell’art. 5 del Decreto reale del 14.05.1822, la rendeva inesportabile perché era “rilevante per l’istruzione e il decoro della nazione”.

Il problema vero di questo straordinario oggetto era, ed è, che Capialbi non sapeva chi lo possedesse e, nonostante i suoi numerosi tentativi, non riuscì mai a venirne a conoscenza e, neanche, ad acquistarlo per “salvarlo”. Secondo alcune fonti il prezioso reperto era nelle mani di uno dei maggiorenti di San Sosti che esercitavano un potere assoluto e sopraffattorio sull’intera comunità del comprensorio. In ogni caso, secondo il suddetto Decreto reale, il rinvenimento fortuito, pur rimanendo di proprietà dello scopritore, avrebbe comunque dovuto essere oggetto di segnalazione da parte del Sindaco all’intendente della Provincia che avrebbe dovuto, a sua volta, segnalarlo al direttore del Reale Museo borbonico.

Giulio Minervini lo pubblica, ma non fa, neanche lui, una formale segnalazione al direttore del Reale Museo con la conseguenza che del prezioso reperto non si saprà più nulla per quasi 3 decenni, fino a quando riappare nell’asta, a Parigi, della vendita della collezione appartenuta al famoso antiquario romano Alessandro Castellani. In questo trentennio cambiano radicalmente, è vero, gli assetti politici, economici, culturali e sociali con l’Unità, ma, nel territorio di ogni Stato preunitario, rimangono in vigore, fra le altre, le leggi riguardanti la tutela e la salvaguardia del Patrimonio culturale compreso il divieto di esportazione di oggetti ritenuti “rilevanti per l’istruzione e il decoro della nazione”.

L’antiquario Castellani, che dal 1862 si era stabilito a Napoli, intesse rapporti con il bel mondo aristocratico, alto borghese e intellettuale partenopeo allo scopo di procacciarsi venditori, compratori e anche validi ‘expertiseur’ d’arte e antichità. Felice Barnabei, importante archeologo e dirigente statale della fine dell’800, lo descrive in un suo libro (“Le memorie di un archeologo”) come il più grande mercante di antichità e compratore di anticaglie che lui avesse conosciuto, ma anche come un personaggio affascinante, un liberale che aveva partecipato, a Roma, ai moti del 1848 ed era stato arrestato. Un uomo di mondo, insomma, che si teneva buoni e acquiescenti, e forse conniventi, le autorità preposte alla tutela e i controllori del suo commercio illegale di beni archeologici.

L’affascinante antiquario stringe amicizia con Minervini che, dopo l’Unità, è nella fase declinante della sua carriera passata al servizio dei Borbone. Non accetta di andare ad insegnare all’Università perché è convinto che verrà nominato Direttore di quello che ora si chiama Museo Nazionale di antichità e belle arti, ma alla morte del vecchio direttore, il principe Spinelli, il ministro Amari, nomina, invece, Giuseppe Fiorelli, di provata fede liberale tanto da essere arrestato durante i moti del ’48. Minervini viene a trovarsi, dunque, in difficoltà economiche e deve guadagnarsi da vivere sfruttando le sue conoscenze scientifiche e le sue relazioni sociali come quella con il mercante Castellani. Sulla base di alcune lettere che invia al mercante, si può inferire che si fosse stabilita una sorta di ‘entente cordiale’ fra i due a proposito della compravendita di oggetti antichi fra i quali avrebbe potuto esserci, forse, anche la nostra ascia.

Si può ipotizzare che Castellani, venuto a conoscenza dell’esistenza della preziosa scure bronzea pubblicata sul “Bullettino” da Minervini, abbia voluto comprarla a causa non solo della ricchezza delle decorazioni e dell’antichità dell’iscrizione, ma soprattutto a causa del colore del materiale con il quale era realizzata: l’oricalco, ovvero bronzo sottoposto a doratura con una particolare tecnica che gliene ricordava una elaborata proprio nella sua famiglia. Famiglietti ci mette, acutamente, a conoscenza che il padre, Fortunato Pio Castellani, aveva messo a punto, negli anni ’20 dell’800, un processo chimico per ottenere una patinatura dell’oro e del bronzo che dava ai metalli un inalterabile colore giallo chiaro come quello dell’ascia di S. Sosti.

Nel 1870 Castellani torna a Roma, passando il 20 settembre da Porta Pia al seguito del generale Cadorna e, subito, ottiene un posto nella Commissione per la conservazione degli istituti culturali della città, mentre il fratello Augusto entra nella Giunta per la città di Roma.

Nel 1883 Castellani muore e il figlio Torquato si dà da fare per vendere le raccolte di oggetti d’arte antichi nelle case di Roma e Parigi. L’asta, con 4.000 oggetti, di Roma è programmata per il 17 marzo 1884, ma quella che più interessa a noi è quella di Parigi che si svolge dal 12 al 14 maggio 1884 con ben 682 oggetti che erano stati portati, come dice il catalogo parigino, da ‘longtemps’ nella capitale francese a dispetto delle leggi borboniche e vaticane che ne impedivano l’espatrio. Nel catalogo, con il numero 311, compare la nostra ‘hache grecque votive’.

Essendo che l’ascia è citata, in uno studio epigrafico, come presente a Roma nel 1882, mentre già nel 1884 è a Parigi, dobbiamo desumere che in questo breve lasso di tempo, Castellani o suo figlio Torquato, l’avessero portata nella capitale francese e siccome presso l’Archivio Centrale dello Stato non c’è traccia di autorizzazione all’espatrio della scure bronzea ne discende che quest’ultima sia stata esportata illegalmente.

Ad acquistarla nell’asta parigina del 1884, per conto del British Museum, è sir Charles Thomas Newton, già direttore delle antichità del museo e professore di archeologia alla London University, per 5.000 franchi. Dobbiamo aggiungere che sir Charles era intimo amico di Castellani anche perché aveva comprato, per rifornire il British, molte ‘anticaglie’ da lui.

La storia, impeccabilmente ricostruita dall’autore, dei tentativi di riprendersi la preziosa ascia votiva inizia nel 1996 quando il sindaco di San Sosti, Silvana Perrone, si accorge che l’ascia è nel catalogo della grande mostra “I Greci e l’Occidente’, tenutasi a Palazzo Grassi a Venezia, proveniente dal British Museum e scrive al Ministro Antonio Paolucci chiedendogli di intervenire in un qualche modo, ma a giugno 1996 cade il governo e la XII legislatura. Nel settembre 1996 l’on. Romano Carratelli interroga il nuovo ministro Veltroni, stigmatizzando la colpevole inerzia dello Stato italiano, a proposito della scure-martello in bronzo proveniente da San Sosti, ma questa interrogazione rimane senza risposta. Seguiranno ben altre tre interrogazioni: nel 2016 di Franco Bruno al ministro Franceschini; nell’ottobre 2019 interrogazione di nuovo a Franceschini di Wanda Ferro e altri; nel dicembre del 2019 nuova interrogazione a Franceschini da parte di Margherita Corrado e altri.

Solo nel 24 luglio 2020, Franceschini, per la prima volta, risponde per iscritto all’interrogazione della Ferro dicendo che la risonanza e il buon esito dell’asta parigina del 1884 significava che era tutto regolare e quindi “non esistono presupposti giuridici che possano sostanziare una rivendicazione del bene da parte dell’Italia”. Il ministro, insomma, non voleva saperne di avventurarsi in una lunga e defatigante trattativa con il British Museum.

Famiglietti riassume, per concludere, la situazione per i capi principali: il rinvenimento fortuito in una località della Calabria viene, anche se in maniera contorta, catalogato e reso di pubblico dominio da Capialbi e da Minervini come “bene che riguarda il decoro ed il prestigio della nazione”, e dunque non esportabile secondo il reale decreto del 14 maggio 1822. La proprietà del bene rimane dello scopritore, ma la proprietà privata non interferisce con il divieto di esportazione. Lo status giuridico della scure, acquisito secondo la normativa borbonica, rimane tale dopo la sua migrazione a Roma, avvenuta nel 1870, perché nell’ex stato della Chiesa perduravano le disposizioni dettate dall’editto Pacca del 1820 che vietavano, anch’esse, l’esportazione.

L’autore -da raffinato giurista e, soprattutto, da strenuo difensore del Patrimonio culturale nazionale- indica a noi cittadini italiani e, in particolare, a noi calabresi un’ipotetica, ma praticabile, via legale da percorrere: l’adozione, da parte della competente autorità giudiziaria (a mio giudizio la Procura della Repubblica presso il competente, per territorio, Tribunale di Cosenza), di un decreto che disponga la confisca della scure e la sua restituzione alla Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 4 aprile 2024

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

Un paesaggio sfigurato dal cemento armato.-di Battista Sangineto Uno sviluppo senza progresso

La Calabria è ammalata di un tumore inestirpabile e incurabile che ha metastatizzato tutto il suo già povero e martoriato corpo: il cemento armato.

Un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT, un’enorme quantità di case per solo un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono davvero residenti in Calabria. La nostra regione è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote: 580.819 a fronte di 794.685 case occupate in maniera più o meno permanente.

Senza (poter) contare (letteralmente) le case non accatastate che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate, in Calabria, quelle totalmente sconosciute al fisco e al catasto, erano 143.875. Una ricerca, commissionata alcuni anni fa dalla Regione all’Università di Reggio Calabria, ha verificato che c’è un abuso edilizio ogni 135 metri dei circa 800 km di costa calabrese, ora, ormai, uno ogni 100 metri.

In Calabria, dunque, c’è una casa, spesso abusiva, ogni 1,3 calabrese che, tradotto in termini di consumo del suolo, significa che il cemento ha irreversibilmente coperto e impermeabilizzato ogni lembo pur vagamente edificabile della regione.

Sono ancora i dati dell’ISTAT del 2023 che lo dimostrano in maniera inequivocabile ed inesorabile per mezzo della misurazione del consumo di Superficie Agricola Utilizzata (SAU). Nel 1982 la SAU ammontava a 721.775 ettari mentre nel 2023 era diminuita del 24,7% perché, solo in un quarantennio, sono stati consumati ben 178.522 ettari di suolo agricolo. In pochi decenni, dunque, è stato impermeabilizzato, cementificato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- valli impervie, alte colline e monti inedificabili.
Posso affermare, senza tema di smentita, che il paesaggio rurale e urbano calabrese è, ormai, irrimediabilmente sfigurato e la quantità e la natura degli scempi edilizi consumati negli ultimi anni nelle città, nelle campagne e in riva al mare non fanno altro che porre il suggello all’avvenuto disastro.

Si può parlare di estremo disordine territoriale guardando, ancora, agli impressionanti dati delle città calabresi. Esaminiamo, (come ha già fatto Davide Scaglione su questo giornale), la cosiddetta area urbana cosentina che ha il 17,5% di case disabitate: Cosenza ha il 20,7% di case vuote perché, a fronte di 36.591 abitazioni per 63.743 abitanti (una ogni 1,7 cosentini), ben 7.561 case sono vuote; Rende con 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ha il 17% di case vuote che sono 4.931; Montalto Uffugo ha il 14, 4% di case che non sono occupate permanentemente, 1.438, a fronte di un totale di 9.966 case e quasi 20.000 abitanti. In questa area urbana- se si contano anche le 332 case vuote di Castrolibero- ci sono, ‘incredibile dictu’, 14.262 abitazioni vuote.

Davvero si vuole costruire ancora, davvero si vuole, grazie ai PSC (Piani regolatori) in via di approvazione a Cosenza e a Rende, colare cemento armato nei pochi spazi rimasti liberi, utilizzando, anche, le famigerate perequazioni urbanistiche o le fasulle riqualificazioni?

Abbiamo necessità, davvero, che si costruisca ancora a Vibo Valentia che nl suo territorio comunale ha 18.697 case, per 33.742 abitanti, delle quali ben 5.844 sono vuote? È indispensabile continuare a costruire palazzi a Reggio Calabria che, per 182.551 residenti, ha 100.960 abitazioni di cui 26.758 (quasi il 27%!) sono vuote? Si vuole continuare a costruire a Catanzaro sul cui territorio insistono, per 90.240 residenti, 46.783 abitazioni delle quali ben 11.035 non sono occupate? O si vuole colare cemento a Crotone che ha, per 58.288 abitanti, già 28 490 case di cui 4.931 vuote?

Davvero abbiamo bisogno di nuove abitazioni, di nuovi palazzi più grandi e più alti nelle nostre città senza verde e sempre più senza alberi perché moltissimi vengono tagliati anche per farne biomasse?

E, infine, a cosa servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050?

Già mi par di sentirli i retori paesani che insorgeranno, indignati, gridando che in quella loro località, in quella loro valle o in quel loro tratto di costa il paesaggio e/o il mare sono incontaminati, ma questo, anche se fosse vero, non cambierebbe il quadro di forte ed irreversibile degrado complessivo della regione.

La cementificazione dei territori calabresi per ironia della sorte, o forse per una qualche nemesi metastorica, ha sgretolato uno dei capisaldi della “calabresità” quale s’era stratificata nell’anima dei calabresi: lo strettissimo rapporto natura/primitività accreditato con forza, per esempio, da Corrado Alvaro. La natura intesa come scaturigine di vitalità, di primitività positiva per lo spirito umano dei calabresi. Con la sostanziale scomparsa del paesaggio naturale, avvenuta nel breve volgere di tre o quattro decenni, è stato scardinato anche questo nesso psicologico d’identità.

Come si può spiegare in maniera diversa -per fare un esempio recente sollevato su questo giornale da Giuseppe Smorto- il disinteresse per quel gioiello di invenzione naturalistica del Villaggio ex Valtur a Nicotera progettato da uno dei più importanti paesaggisti italiani, Pietro Porcinai?

La Regione Calabria avrebbe dovuto approvare una legge paesaggistica, come disposto dal D.L. 2004/42, che avrebbe potuto mettere ordine e porre un freno alla cementificazione, ma la legge regionale presentata il 7 luglio 2022, n.5 presentava pesanti criticità sollevate dal MiC ed è stata ripresentata, dopo una sostanziale revisione concordata fra Ministero e Regione, come legge regionale 127/2022 depositata per l’esame in Consiglio regionale il 17.11.2022. ma, a tutt’oggi, non approvata. Cosa aspetta la Regione a promulgare questa legge che ha per titolo “Norme per la rigenerazione urbana e territoriale, la riqualificazione ed il riuso”?

Le classi dirigenti calabresi degli ultimi decenni sono state in grado di produrre, in modo disorganico, desultorio e inefficace solo una sembianza di sviluppo basato, quasi esclusivamente, sul cemento, sull’edificazione, sul consumo del suolo a fini di speculazione privata incontrollata. Sono stati capaci di produrre solo un malfermo e stentato sviluppo senza alcun vero progresso.

Sull’apparente sinonimia di sviluppo e progresso Pasolini, negli ‘Scritti Corsari’ scriveva: “Il progresso è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo sviluppo è, invece, un fatto pragmatico ed economico. Ora è questa dissociazione che richiede una sincronia tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo”.

Una sincronia che, in Calabria, non c’è mai stata e, fondatamente, dubito che mai potrà esserci.

dal “il Quotidiano del Sud” del 27 febbraio 2024
foto Ansa

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Una Costituzione della terra.-di Luigi Ferrajoli

Sono passati quattro anni da quando, con Raniero La Valle, fondammo, il 21 febbraio 2020, il movimento Costituente Terra. Da allora tutte le grandi sfide e catastrofi globali che denunciammo a sostegno della nostra proposta, come altrettante minacce alla sopravvivenza dell’umanità, si sono enormemente aggravate.

Innanzitutto la guerra, anzi due guerre insensate: l’aggressione criminale della Russia di Putin all’Ucraina e la guerra di Israele contro la popolazione palestinese di Gaza, in risposta alla terribile strage terroristica del 7 ottobre compiuta da Hamas. Due guerre accomunate dagli odi identitari, dal fatto che in entrambe sono difettati sia il diritto che la politica e dall’avallo penoso offerto, dal dibattito pubblico, al loro protrarsi come guerre senza fine, quali massacri disumani di persone innocenti.

IN SECONDO LUOGO l’aggravarsi del riscaldamento climatico, che sta procedendo indisturbato verso il punto di non ritorno: alluvioni, siccità, scioglimento dei ghiacciai, incendi e tornado, l’innalzamento dei mari e il prosciugarsi dei fiumi e dei laghi ci stanno dicendo che stiamo comportandoci come se fossimo l’ultima generazione che vive sulla terra, mentre quanti potrebbero accordarsi per impedire le catastrofi non fanno nulla, se non varare leggi punitive contro i giovani che con le loro denunce tentano di aprire i loro occhi.

In terzo luogo la crescita esponenziale della disuguaglianza globale, con il suo seguito di terrorismi, fondamentalismi e migrazioni di massa. Secondo il rapporto Oxfam del 2024, la ricchezza delle 5 persone più ricche del mondo è negli ultimi quattro anni più che raddoppiata, passando dai 405 miliardi del 2020 agli 869 miliardi di oggi, mentre il 60% della popolazione mondiale è impoverita, è aumentato il lavoro schiavo e in tutto il mondo le grandi rendite da capitale sono tassate assai meno dei poveri redditi da lavoro.

Di fronte a questa deriva e alla cecità e all’irresponsabilità delle classi di governo di tutto il mondo, torna perciò a riproporsi la necessità di un risveglio della ragione. Pace, uguaglianza e diritti universali sono già stabiliti nella carta dell’Onu e nelle tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale. Ma le enunciazioni di principio non bastano. Ciò che è necessario è un’innovazione radicale nella struttura stessa del paradigma costituzionale: la previsione e la costruzione di garanzie e di istituzioni globali di garanzia, in grado di attuare i principi proclamati.

Si tratta, in breve, di rifondare il patto di convivenza stipulato con la carta dell’Onu attraverso l’imposizione, nell’interesse di tutti, di rigidi limiti e vincoli costituzionali ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e dei mercati globali: la messa al bando di tutte le armi, non solo di quelle nucleari ma anche di quelle convenzionali, a garanzia della pace e della sicurezza; la creazione di un demanio planetario che sottragga alla mercificazione e alla dissipazione i beni comuni della natura, come l’acqua potabile, i fiumi e i laghi, le grandi foreste e i grandi ghiacciai dalla cui tutela dipende la sopravvivenza del genere umano; l’istituzione di servizi sanitari e scolastici globali, a garanzia dei diritti alla salute e all’istruzione, finora inutilmente declamati in tante carte e convenzioni; un fisco globale progressivo, che ponga un freno all’accumulazione illimitata delle ricchezze e serva a finanziare le istituzioni globali di garanzia.

È QUANTO abbiamo stabilito nel progetto di una Costituzione della Terra elaborato in questi anni. Sulla sua diffusione, sulla sua traduzione in più lingue, sulle modalità degli emendamenti e delle integrazioni che invitiamo tutti a proporre e, in generale, sulle forme organizzative della nostra impresa discuteremo nell’assemblea di Costituente Terra che si svolgerà a Roma mercoledì 21 febbraio alle 15 – esattamente 4 anni dopo l’assemblea di fondazione – nella biblioteca Vallicelliana, in piazza della Chiesa Nuova, 18.

Finora, a questo progetto, nei tanti dibattiti che su di esso si sono svolti, non mi sono state rivolte critiche di merito. La sola obiezione è stata il suo carattere utopistico: si tratterebbe di un sogno, che non potrà mai realizzarsi perché a ciò che di fatto accade non ci sono alternative. È il realismo volgare che naturalizza la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – che invece è il frutto del nostro agire o della nostra inerzia.

L’ALTERNATIVA, al contrario, esiste sempre, e dipende dalla politica costruirla. È questo il realismo razionale di tutte le costituzioni avanzate, che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco naturale dei rapporti di forza prefigurano e prescrivono i principi della pace, dell’uguaglianza, dei diritti e della dignità di tutti gli esseri umani in quanto persone.

È anche il realismo che, in un dibattito in un liceo di Piombino, fu espresso da un ragazzo di diciotto anni: non mi ha chiesto come sia possibile dar vita a una Costituzione della Terra, ma al contrario come sia stato finora possibile, di fronte a tante catastrofi globali e a tanti pericoli annunciati, che una simile Costituzione non sia stata ancora realizzata.

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Immagine: https://www.retisolidali.it/serve-una-costituzione-della-terra-per-ridarci-un-futuro/

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Vincolo paesaggistico e approvazione del PSC di Cosenza: etica ed estetica.- Comunicato del Coordinamento "Diritto alla città".

Lo scorso 18 novembre 2023, su iniziativa del Coordinamento “Diritto alla città” (un insieme di associazioni cosentine), si è tenuta una pubblica assemblea cittadina che aveva i seguenti obiettivi:

1. Riprendere la parola, come cittadini, discutere e insieme agire sui temi della qualità della vita a Cosenza, in particolare sulle scelte urbanistiche, l’indice di fabbricabilità, il verde, la mobilità ecc. Insomma, etica ed estetica.

2. Nello specifico l’assemblea aveva lo scopo di avanzare la richiesta, agli uffici periferici e centrali del Ministero della Cultura, e naturalmente anche al Comune, di estendere il vincolo paesaggistico e di zona di interesse culturale e storico all’area otto-novecentesca della città e a tutta l’area della riva destra e sinistra del Crati che era attraversata, dalla seconda metà del II secolo a.C., dall’antica via Annia-Popilia.

3. Individuare forme e strumenti condivisi di partecipazione politica diretta e di denuncia dei rischi connessi all’ondata edilizia speculativa che si è abbattuta sulla città negli ultimi anni e mesi (demolizione di edifici storici, ricostruzioni con enormi aumenti di volumetria, nuovi palazzoni sulle rive del Crati) e contemporaneamente avviare azioni di interlocuzione con le Istituzioni e gli Enti interessati non solo sulla nostra richiesta di vincolo ma anche, prima che sia approvato, sul Piano Strutturale Comunale (PSC) per stimolare una vera, democratica e franca discussione con gli unici portatori di interessi e di diritti: i cosentini.

Cosa è successo da allora?

Il dialogo con l’Amministrazione comunale non solo è stato insoddisfacente perché ha fornito risposte generiche sul merito della richiesta di vincolo, ma soprattutto perché non ha nessuna vera e complessiva idea della città sulla quale costruire politiche urbanistiche indirizzate alla qualità dell’abitare ed ai servizi da inserire o potenziare. A noi sembra che ci sia la riproposizione di un atteggiamento politico e amministrativo di piccolo cabotaggio orientato allo ‘sviluppo’ economico.

Uno sviluppo che non è accompagnato dal progresso economico, sociale e culturale di tutta la comunità, ma, come sempre, è costituito dalla cementificazione a vantaggio di pochi e a discapito dei molti e della città intera. Lo stesso atteggiamento che registriamo nella ricerca di un turismo quantitativo e non qualitativo, se pensiamo all’uso del Castello per matrimoni e feste private.

L’Amministrazione non riesce a farci capire, nemmeno, come si stanno spendendo i famosi 90 milioni destinati al recupero del Centro storico, se si escludono i soliti annunci mediatici privi di riscontro sul terreno. A questo dobbiamo aggiungere l’evidente inerzia della Giunta rispetto alle condizioni di degrado in cui versa la città ed il consueto atteggiamento ‘annunciatorio’ a proposito di mirabolanti opere che certamente risolleveranno la città, di cui poi si perdono le tracce dopo qualche settimana nel fumo dell’approssimazione e del solito atteggiamento giaculatorio: è colpa della Regione, anzi di Roma, meglio se dell’Europa.

Al Ministero della Cultura c’è, invece, qualcuno che ancora ha il senso di responsabilità (derivante proprio dal rappresentare le Istituzioni repubblicane) e la civiltà di rispondere alle domande poste dai cittadini. Con lettera prot. n.340716 del 7 febbraio 2024, la Direzione generale del MiC ci informa che “il Segretariato MiC per la Calabria, con nota prot. n. 242 del 16/01/2024 ha provveduto a trasmettere la proposta di vincolo alla Regione Calabria, affinché l’organo regionale possa entro il termine di 30 giorni produrre le proprie osservazioni” e, con nostra grande soddisfazione, scrive inoltre che “la proposta menzionata e la perimetrazione interessa sostanzialmente le aree segnalate da parte del coordinamento ‘Diritto alla Città’”.

E poiché, sempre nella lettera da noi ricevuta (che alleghiamo), si afferma che le osservazioni formulate dal ‘Coordinamento Diritto alla Città’ “potranno essere riproposte e formalmente trasmesse alla Soprintendenza competente e alla Regione, in specifico riferimento alla proposta di vincolo avviata per l’area Cosenza Nuova, durante la successiva fase di consultazione pubblica, ai sensi dell’art. 139 del D.Lgs. n. 42/2004”, noi vogliamo, per l’appunto, formulare osservazioni e cioè: conoscere, discutere, criticare, modificare e suggerire perché teniamo alla nostra città ed è nostro diritto chiedere conto, agire, rivendicando il potere di dare forma e senso ai processi urbanizzazione e di vita in comune, al modo in cui Cosenza verrà costruita e ricostruita.

Nel ringraziare, pertanto, la Direzione Generale del Ministero della Cultura per la sollecita disponibilità mostrata al dialogo, non solo produrremo le nostre considerazioni che, dice ancora il Ministero, “ saranno controdedotte ed eventualmente accolte, in tutto o in parte dalla Soprintendenza Abap per la città di Cosenza”, ma noi del ‘Coordinamento Diritto alla città’ vogliamo anche discutere, da subito e pubblicamente, di questi argomenti -a partire dallo strumento urbanistico primario, il PSC- con tutti i cittadini interessati. A questo proposito, visto che dovrebbe essere approvato a breve, chiediamo alla Giunta di pubblicarne, come per legge, l’ultima versione sul sito web del Comune.

Il Coordinamento vorrebbe un PSC frutto di una discussione pubblica e democratica che contenga -al netto del sunnominato vincolo paesaggistico che, lo ripetiamo, non è uno strumento inibitorio ma tutorio e lo abbiamo chiesto per impedire in maniera tempestiva interventi urbanistici sconsiderati, come quelli già effettuati a Corso Umberto, via Rivocati e via Frugiuele- indicazioni e scelte che rispettino i valori e l’identità della nostra comunità, la qualità della vita della nostra città, il nostro diritto di cittadini alla città.

Invitiamo, dunque, tutti i cittadini a partecipare alla Assemblea Pubblica che si terrà sabato 24 febbraio dalle 17:30 alle 20:15 presso Aula Magna Polo Scolastico Piazza Cappello a Cosenza.

Cosenza, 14 febbraio 2024 Coordinamento Diritto alla città

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

Rende, una città sempre più spoglia di alberi.-di Battista Sangineto

I Commissari del Comune di Rende hanno proceduto, da sabato mattina 27 gennaio 2024, al taglio dei Pini quasi secolari lungo via Don Minzoni. Giova ricordare che contro l’ennesimo abbattimento di alberi in questa città si erano espressi molti cittadini, Associazioni, Movimenti e Partiti, ma coloro che amministrano, pro tempore, il Comune non hanno sentito ragioni, hanno voluto, comunque, eseguire la delibera della Giunta precedente che aveva previsto e progettato la deforestazione di questa via a partire da nord verso sud.

A nulla è servito il colloquio chiesto e ottenuto, martedì 23 gennaio, da alcune Associazioni e Partiti con la sub-commissaria, dottoressa Rosa Correale, che aveva assicurato ai convenuti che avrebbe valutato attentamente le ragioni tecniche e politiche esposte da questi ultimi prima di procedere al taglio indiscriminato dei pini. Sabato mattina la ditta incaricata ha, invece, iniziato a tagliare gli alberi come da disposizione commissariale.

Le nostre città, ormai, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, con la sola, lodevole e notevole, eccezione di Rende.

Una città che era stata concepita, dagli anni ’60 del ‘900, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di verde-che si è mantenuto e alzato nei decenni successivi con la creazione, per esempio, dei due Parchi fluviali dell’Emoli e del Surdo- di coesistenza del verde pubblico e privato, con il cemento e l’asfalto. Con questi tagli, insieme a quelli già operati in Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti, in Piazza San Giovanni, si vuole ridurre anche Rende ad una città spoglia e senza alberi, ad un’isola di calore al pari di tutte le altre città della Calabria e del Mezzogiorno.

Un recentissimo studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, “Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities”, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura.

Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI (Urban Heat Island), sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi.

Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sapremo presto, già dalla prossima estate, nella Rende spogliata degli alberi quali effetti producono le isole di calore perché sono proprio le città -con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo privo di alberi- che formano queste “isole di calore” (UHI) creando e amplificando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 gennaio 2024

Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”

Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”

La città di Cosenza ed il suo paesaggio sono sotto assalto da molto tempo, ma negli ultimi mesi ed anni l’attacco si è fatto più duro, forse è quello finale, quello all’ultimo metro cubo di cemento armato. Un assalto che è rivolto sia alla città antica, a monte, sia alla città otto-novecentesca, a valle. E se il Centro storico è, in teoria, ‘protetto’ da un vincolo diretto con il D.M. del 15.07.1969, poi ampliato a tutte le colline circonvicine nel 1992, la città fine ‘800-primi del ‘900 è priva, se si escludono limitate porzioni confinanti con il Centro storico, di questa dovuta tutela da parte del Ministero della Cultura.

La speculazione edilizia ha iniziato ad aggredire le aree più nobili dei quartieri vallivi con abbattimenti di edifici centenari e ricostruzioni di orribili, enormi e altissimi palazzi di cemento armato che occupano più di 2 o 3 volte la cubatura precedente, in particolare nei quartieri di Via Rivocati e di Piazza Santa Teresa.

L’attacco finale è stato, dunque, sferrato in primo luogo contro i titolari del diritto alla città: i cittadini. Noi cittadini delle Associazioni civiche cosentine-Associazione Riforma-Rivocati APS, Ri-ForMap APS, Ciroma, Civica Amica, ResponsabItaly APS, Comitato Piazza Piccola- costituitici in un Coordinamento denominato Diritto alla città abbiamo deciso di smetterla di subire. Reclamiamo il diritto alla città, rivendichiamo il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le nostre città vengono costruite e ricostruite, e iniziamo rivendicare il potere di farlo in maniera radicale.

Il Coordinamento delle Associazioni si oppone alle devastazioni del paesaggio urbano e periurbano e si oppone all’esproprio dei diritti costituzionali e civici dei cosentini. Il Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine Diritto alla città ha deciso di iniziare a rivendicare il ‘Diritto alla città’ dei cosentini ha chiesto, con urgenza, al Mic ed alla Soprintendenza Abap di Cosenza, organo periferico del suddetto Ministero, la rapida pubblicazione, prima, e la celere approvazione, poi, di una DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO ai sensi dell’ART. 136, C. 1 LETT. C, D. L. N. 42/2004 e S.M.I., per l’Ambito territoriale di seguito descritto (vedi cartina allegata).

L’area è stata – per motivazioni storiche, architettoniche, urbanistiche, ambientali e archeologiche- delimitata dai sottoscritti così come di seguito descritto.
Ad Ovest, partendo dal perimetro del vincolo paesaggistico esistente di cui al D.L. del 1969, raggiunge viale della Repubblica, comprende il settore di Via Misasi e scende lungo la Via Arabia fino a comprendere le vie Cattaneo, Mazzini e Marini. Da tale ambito sale a Nord lungo la direttrice di via XXIV Maggio- via Medaglie d’Oro, si raccorda al viale Mancini fino a raggiungere il confine con il Comune di Rende.

Da tale limite comunale scende lungo la riva sinistra del Crati fino a raccordarsi con l’area della vecchia Stazione Ferroviaria e giungere al ponte Alarico a Sud, collegandosi all’area già precedentemente vincolata dal suddetto D.L. del 1969, relativa al settore in sinistra del fiume Crati. Il citato D.M. del 15.07.1969, la cui estensione lungo il lato Est, settore in destra del fiume Crati, interessa le colline presilane, breve tratto della strada statale silana per Aprigliano, lo sviluppo della strada vicinale di Serra Caruso, il tratto del fiume Crati sino alla sua confluenza con il torrente Ispice, i limiti comunali dei Comuni di Rovito e Zumpano fino alla confluenza del canale Cannuzzo col Crati per raccordarsi al ponte di Alarico.

La nostra proposta di vincolo paesaggistico -le cui motivazioni dettagliamo di seguito- completa, pertanto, i contenuti del vincolo paesaggistico già in vigore, contribuendo significativamente alla salvaguardia delle aree oggetto di interventi così da esaltarne il significato e il valore.

DESCRIZIONE E MOTIVAZIONI STORICHE, ARCHITETTONICHE, URBANISTICHE,
ARCHEOLOGICHE E AMBIENTALI DELLA RICHIESTA DI VINCOLO

L’area sita nel comune di Cosenza, posta nell’area valliva compresa tra i due fiumi e in continuità espansiva con l’abitato storico, già sottoposto a tutela ambientale e paesaggistica ai sensi della legge 29.06.1939 n°1497 con decreto ministeriale 15.07.1969, costituisce l’insediamento lungo le rive dei fiume Crati e Busento, completando la composizione urbana, già dotata di impianti pubblici di notevole interesse monumentale, con palazzi privati che riflettono le visioni urbanistiche e architettoniche di sviluppo nella prima metà del Novecento. In tale contesto la città di Cosenza completa, nel periodo indicato, la definizione del processo insediativo urbano portato poi avanti a partire dagli anni ’60 del XX sec.

L’espansione era storicamente presente nel quartiere suburbano dei Rivocati, già in età romana. Insediamento consolidato in età medievale con funzione mercantile (Fiera della Maddalena – 15 al 30 luglio e la fiera dell’Annunciata dal 1551, con il 25 marzo di ogni anno, nella grande spianata del Carmine.
Presenti l’impianto della Riforma, ubicato in corrispondenza dell’altura dominante e derivante da impianti religiosi del XIII sec. e dei Domenicani, dal XV sec.

Tali strutture costituiscono la conferma dei nuovi indirizzi di sviluppo, legati al processo economico di trasformazione ed evoluzione dell’abitato lungo la valle del Crati.

L’asse principale risultava sempre quello costituito dalla via Consolare romana Annia-Popilia con il polo della Riforma, nel quale convergevano gli insediamenti del sistema collinare pedemontano dell’Appennino tirrenico. Era presente un sistema di fondaci nel rione Rivocati-Carmine, posti nel settore Nord appena oltre il Busento.

La presenza della popolazione nella seconda metà del XIII secolo si attestava intorno alle 3.000 unità fino alla metà del XV secolo, con incremento dal 1550 con 7.000 unità circa, sotto il dominio spagnolo, fino a registrare un incremento di circa 10.000 abitanti alla fine del secolo, mantenutosi stabile fino alla fine del ‘700. Gli incrementi demografici si osservano nel primo quarto dell’800, fino a raggiungere il numero di 13.700 nel 1853 e 16.000 con l’Unità d’Italia nel 1861 e oltre 19.000 presenze alla fine del secolo.

Le esigenze della popolazione portarono all’avvio delle opere per il rifacimento dei condotti delle acque nere e potabili, la necessità di dotarsi di strutture pubbliche per le abitazioni e gli uffici e la costruzione di servizi di uso pubblico derivanti anche dalla sistemazione degli alvei fluviali e arginature dei fiumi.

Nella seconda metà dell’800, pertanto, l’edificazione si avvia lungo la direttrice Rivocati- Riforma e in direzione Carmine (via Sertorio Quattromani), su cui si affacciava l’Ospedale Civile (XV sec.). Pertanto in tale contesto dalla fine del XIX sec. si é proceduto all’edificazione degli spazi tra l’ex convento del Carmine e i pochi edifici presenti lungo la via Provinciale (corso Mazzini), fino a giungere alla Riforma a Ovest e la via XXIV Maggio lungo la direttrice Nord della riva sinistra del fiume Crati.

Con il Piano di ampliamento comunale del 1887, predisposto dal Comune, si avvia anche la ristrutturazione dei predetti rioni Carmine e Rivocati, con l’ampliamento delle aree a Ovest e parzialmente a Nord, condotti a termine successivamente nel primo quarto del ‘900. Quartieri già attivi sin dall’età romana con funzioni mercantili, nundinae, e idonei a contribuire allo sviluppo urbano per il costante sviluppo economico, oltre che demografico.
La nuova area urbana, impostata su una viabilità a maglie regolari ortogonali, di probabile derivazione agrimensoria romana, si spinge a valle fino all’attuale Via Piave, con sviluppo lungo il lato Ovest a includere i settori della Riforma e l’attuale via Riccardo Misasi.

Iniziative continuate col Piano di Ampliamento del 1910-1912, tramite il quale si realizzano i progetti di sviluppo ed espansione dell’abitato, mediante la ristrutturazione urbanistica a fini insediativi del rione Rivocati, la costruzione di strutture pubbliche lungo il Busento e il riordino del quartiere Carmine – Annunziata.
Interventi completati nel primo quarto del ‘900 e integrati col piano del 1936, con estensione lungo il settore Nord, oltre alla formazione di piazze urbane di riferimento come direttrici di sviluppo: Piazza Francesco Crispi, Piazza Giovanni Amendola, Piazza Paolo Cappello a monte e Piazza Municipio, Piazza XI Settembre a valle, lungo la direttrice del Corso Mazzini.

L’edilizia privata riporta la composizione formale di estrazione classica rivisitata con gli apparati prospettici ancora visibili lungo il Corso Umberto, Via Trieste, Viale della Repubblica, Via Riccardo Misasi e il già citato Corso Giuseppe Mazzini. Altrettanto individuabili gli interventi privati, all’interno di tale vasto settore, con le direttrici parallele al Corso Mazzini, quali Via San Michele, Via Monte Grappa, Via Monte Santo e le traverse laterali Via Piave, Via Isonzo e Via Brenta; comprendente anche la scala interna di collegamento, proposta per ridurre la consistente differenza di quota (Scala dei due leoni), oltre alla realizzazione di edifici di interesse pubblico tra il Rione Michele Bianchi e la nuova direttrice di Viale degli Alimena.

Interventi, questi ultimi consolidatisi negli anni ’30 del XX sec., con la preliminare dotazione di servizi e completati poi nel secondo dopoguerra. In tali ambiti l’architettura varia tra visioni ottocentesche di cultura essenzialmente classica e rivisitazioni interpretative, intercalate da proiezioni moderniste di stile avanzato, che costituiscono un patrimonio urbanistico e compositivo dotati di interessante personalità, indicativa di un processo di sviluppo da salvaguardare per la complessa e notevole particolarità urbana unita alle espressioni architettoniche.

Pertanto, in tale contesto, l’area si configura come una necessaria palese estensione del centro storico di Cosenza, conservando nel tempo una sostanziale permanenza della evoluzione morfologica urbana, già presente nell’insediamento antico. A tal proposito si evidenzia che tutta l’area della riva sinistra del fiume Crati possa essere interessata da rinvenimenti archeologici perché, come dimostrato dal recentissimo ritrovamento di sepolture di epoca romana nei pressi del rondò sulla Via Popilia subito a nord del Centro commerciale. È molto probabile che in quella area, dal Centro storico verso nord, vi passasse la Via Annia-Popilia (Via ab Regio ad Capuam) costruita nella seconda metà del II secolo a.C.

Avendo le indagini archeologiche dimostrato che lungo le strade romane, soprattutto nei pressi dei centri abitati, sorgevano necropoli, colombari, steli, monumenti funebri e mausolei è del tutto necessario tutelare, rendendola inedificabile, tutta l’area che va dalla riva sinistra del Crati fino alla linea degli edifici già costruiti per arrivare fino al confine comunale a Nord.

RINVENIMENTI ARCHEOLOGICI NEL COMUNE DI COSENZA

Nel complesso il sistema edilizio appare ancora in parte conservato, seppur condizionato in termini episodici da interventi di trasformazione che ne hanno modificato la percezione compositiva.
In ragione di tale potenzialità, la tutela di tale contesto urbano discende dalla necessità di evitare attività di sostituzioni dell’edilizia privata esistente, con contenitori urbani di dimensioni consistenti, già in atto nell’area individuata e al di fuori della logica conservativa del modello di sviluppo avvenuto nel corso di un lungo processo storico insediativo, al fine di non modificare e trasformarne le qualità sostanziali.

Trattasi di ambiti e tessuti edilizi che hanno contribuito a caratterizzare lo sviluppo della città, per i quali necessita un percorso di riqualificazione edilizia in grado di esaltarne i valori, al di fuori di visioni sostitutive da considerare totalmente inidonee.

Pertanto, la perimetrazione di tali ambiti costituisce una palese continuità dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica. Tenuto conto che il vincolo comporta, in particolare, l’obbligo da parte del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile ricadente in tale settore, di presentare ai competenti organi istituzionali per la preventiva approvazione, qualunque progetto di opere che possano modificare l’aspetto esteriore della composizione urbana e architettonica del contesto.

Tale condizione discende dal riconoscimento che la zona predetta ha notevole interesse pubblico perché essa ha come fulcro i quartieri di edificazione realizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’40 del XX sec., a completamento del processo di evoluzione insediativa avviato dopo le arginature dei fiumi e in estensione delle direttrici storiche originarie sin dal XIII secolo.

AMBITO DELLA DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO,
ART. 136, C 1 LETT. C, DECRETO LEGISLATIVO N. 42/2004 E S.M.I.

Tale zona, che amplia e completa le località e gli ambiti già sottoposti a tutela ambientale e paesaggistica, ex lege 29.06.1939 n°1497, D.M. 15.07.1969 G.U. n°208 del 14.08.1969, è delimitata nel modo seguente:
Cominciando da Est ha come limite il fiume Crati in direttrice Nord. In corrispondenza della traversa di Via Cesare Marini risale su Corso Mazzini, fino all’innesto con Via Ambrogio Arabia, sulla quale ultima si inserisce fino a raggiungere la chiesa di Santa Teresa che viene lambita lungo il lato Sud, con risalita fino alla soprastante via Roma.
Da tale arteria, che percorre in direzione Nord, raggiunge Via Carlo Cattaneo e, circuendo il parco “Emilio Morrone”, risale lungo il settore Ovest fino a raccordarsi con il Viale della Repubblica.

Da tale arteria principale ritorna in direzione Sud fino a includere, con limitata area, le case popolari per Mutilati e Invalidi di guerra del 1931, per ritornare sulla medesima direttrice verso Sud fino all’incrocio con la Via Domenico Migliori. Indi, da tale confine continua lungo la SS.19 delle Calabrie – SP 241, fino all’incrocio con la Via Francesco Principe. Da tale ultima strada discende in direzione Est raccordandosi interamente al perimetro dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica con il citato Decreto ministeriale 15.07.1969.

Relativamente al settore in Sx Crati, il perimetro interessato dalla definizione del completamento di tutela paesaggistica, per i motivi esposti, perimetra il tratto stradale del Ponte Alarico fino all’ex Stazione Ferroviaria, ora dismessa, prolungandosi lungo il lato sinistro del “Centro i Due Fiumi” fino a raggiungere Via XXIV Maggio. Prosegue lungo tale arteria in continuazione su Via Medaglie d’Oro fino all’incrocio con via Adolfo Quintieri. Da tale traversa scende fino a raggiungere Viale Giacomo Mancini proseguendo in direzione Nord fino all’intersezione del tondo con allineamento alla Via Caduti di Razzà, al confine col Comune di Rende, per continuare lungo la direttrice di Viale Crati.

Il perimetro lascia Viale Crati in corrispondenza della Via Pietro Nenni, per continuare parallelamente, e in aderenza al tratto ferroviario della linea Cosenza-Giovanni in Fiore, fino a connettersi alla Via Catanzaro, quest’ultima posizionata in intersezione con il perimetro sopra riportato. Detto perimetro contiene edifici privati, altri a destinazione sociale (case popolari), infrastrutture collettive e gli impianti pubblici riportati, la cui edificazione spazia dalla fine dell’Ottocento a metà circa del Novecento.

In sintesi, con questa proposta, si ampliano i limiti del predetto decreto dell’anno 1969, completandone e estendendone l’area di tutela e salvaguardia. All’interno di tale area si trovano edifici monumentali di interesse pubblico, costruiti a partire del primo quarto del XX sec. e completati anche nel secondo dopoguerra, in alcuni dei quali hanno prestato opera di progettazione architetti di fama nazionale quali Giovanni Battista Milani, Giorgio Calza Bini, Mario de Renzi, Vittorio Ballio Morpurgo.

La perimetrazione dell’insediamento della “città nuova” a completamento dell’abitato di Cosenza, unita al suo intorno paesaggistico, è soggetto a conservazione integrale. In essa è vietata la realizzazione di interventi, anche puntuali, che comportino il rischio di alterarne i caratteri d’identità paesistica e di continuità percettiva.

BENI IMMOBILI SOGGETTI A TUTELA MONUMENTALE

Beni immobili da tutelare

Sulla base di quanto scritto finora occorre, dunque, la conservazione integrale del sistema urbano (all’interno del perimetro in rosso della cartina in calce si evidenziano le principali emergenze monumentali e architettoniche).
I nuovi interventi edilizi non devono costituire, per forma e per volume, barriere alle visuali verso i principali elementi del sistema urbano e architettonico esistente. Conseguentemente, gli interventi di trasformazione previsti all’interno degli strumenti urbanistici e relativi piani attuativi devono prevedere assetti e composizioni formali tali da rispettare e salvaguardare le visuali compositive e architettoniche finalizzate alla conservazione dei valori esistenti.

Nelle aree ad elevato valore percettivo, deve essere mantenuta la coerenza architettonica degli interventi con il contesto, con esclusione delle opere e degli interventi in grado di alterare gli aspetti qualitativi e formali dell’apparato urbano esistente.

Sul patrimonio edilizio esistente sono ammessi gli interventi di rifacimento e riuso tali da privilegiare dal punto di vista formale l’attuale assetto compositivo, con l’eventuale impiego di materiali naturali e a basso impatto ambientale.
Sono ammessi esclusivamente gli interventi edilizi tendenti alla conservazione, alla manutenzione ed al riutilizzo, anche diverso dalla funzione originaria, con esclusione comunque delle opere di snaturamento dell’apparato formale e compositivo esistente.

Eventuali sistemazioni complementari degli spazi liberi dovranno essere concepiti in modo da non ostacolare la visibilità e l’assetto esistente, al pari del verde esistente. Il tutto nel rispetto delle visuali di fruizione proprie dei luoghi.

Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine “Diritto alla città”

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

M. Cerzoso-A. Vanzetti, Museo dei Brettii e degli Enotri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014.
F. Burgarella, Dalle origini al Medioevo, in (a cura di F. Mazza), Cosenza. Storia, cultura, economia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1991, pp. 15-70.
E. Galli, Per la Sibaritide, studio topografico e storico con la pianta archeologica di Cosenza, Ristampa dell’opuscolo del 1907, Cosenza s.d.
Gregorio E. Rubino-Maria Adele Teti, Cosenza, Laterza, Bari 1997.
A. Battista Sangineto, Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, 69, III, serie XXXVII, 2014 (2016), pp. 157-182.
F. Terzi, La città ripensata. Urbanistica e architettura a Cosenza tra le due guerre, Progetto 2000, Cosenza 2010.
F. Terzi, Cosenza medioevo e rinascimento, Pellegrini, Cosenza 2014.

Un amore infinito per il territorio.-di Enzo Scandurra

Un amore infinito per il territorio.-di Enzo Scandurra

Alberto Magnaghi, da tempo malato di un male incurabile, è morto a Bra (in Piemonte) all’età di 82 anni. Ha continuato fino alla fine dei suoi giorni a ricercare soluzioni inedite (molto discusse nella comunità accademica degli urbanisti) per una pianificazione del territorio in senso ecologico.

Con la sua autorevolezza e con il suo infinito amore per il territorio ha avuto moltissimi allievi “territorialisti” che condividevano il suo approccio e la sua ricerca. Il suo ultimo libro, Ecoterritorialismo (scritto insieme a Ottavio Marzocca), sarebbe stato presentato il prossimo 6 ottobre a Spin Time, a Roma, da dove avrebbe illustrato il concetto, a lui carissimo, di Bioregione, quello che lui considerava lo strumento multidisciplinare per affrontare il progetto eco-territorialista.

Era stato designato professore Emerito di pianificazione territoriale presso la Facoltà di Architettura di Firenze, dove aveva fondato la Scuola Territorialista. Insieme ad Asor Rosa anni fa presentammo l’unico libro che parlava della sua esperienza carceraria, Un’idea di libertà (Derive Approdi, 2014). La libertà, per Alberto, non poteva che venire dalla cura del territorio, dal rapporto virtuoso tra le comunità insediata e i luoghi.

Da qui il concetto di autogoverno del territorio, un territorio abitato da tante comunità, l’opposto di quello metropolitano strombazzato in molte ricerche accademiche.
Questo giornale prese le sue difese quando, nel 1979, venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta 7 aprile come dirigente di Potere Operaio; fu condannato, poi definitivamente assolto 8 anni dopo. Rossana Rossanda parlò di lui su il manifesto, come un uomo giusto e di grande impegno nella sua opera di urbanista militante.

Aveva iniziato le sue ricerche con la pubblicazione de: La città fabbrica, contributi per un’analisi di classe del territorio, tracciando un percorso che si sarebbe sviluppato per 50 anni, da: Il territorio dell’abitare (con R. Paloscia) nel 1990, fino a Il progetto locale (Bollati Boringhieri, 2000), Verso la coscienza di luogo del 2014 e poi con Beccattini di nuovo: la Coscienza dei luoghi, il territorio come soggetto corale del 2015.

Questi ultimi libri pubblicati in diverse lingue. In Francia godeva della stima e dell’ammirazione di personaggi come Francois Choay, autorevole storica dell’architettura e dell’urbanistica francese.
Le facoltà di Architettura di tutta Italia ci tenevano ad averlo presso di loro per sentire i suoi seminari, la sua concezione di territorio che tanto si discostava dalla retorica accademica. Era circondato da tanti amici, compagni, allievi affascinati dalle sue teorie, che lo hanno seguito fino agli ultimi momenti della sua vita.

Difficile riassumere il suo lungo percorso di ricerca e di impegno civile, considerata la sua vastissima produzione tutta volta al rapporto territorio-comunità.
In tal senso si era anche occupato delle vicende di Adriano Olivetti, pubblicando: Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora , insieme a Marco Revelli e Aldo Bonomi (Dervive approdi, 2015).

Sapevamo da tempo che era malato, ma non per questo ci eravamo abituati a perderlo, prima o poi. Ci rimane di lui l’immagine sorridente e luminosa capace di trascinare alle sue idee anche coloro che la pensavano diversamente. Una mente originale e un grande amico. Riposa in pace, Alberto: hai lasciato un segno indelebile in tutti noi, ti ricorderemo sempre.

da “il Manifesto” del 22 settembre 2023

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Senza alberi si muore (letteralmente) di caldo.-di Battista Sangineto

Credo che dopo queste prime ondate di calore estremo che hanno attraversato la penisola e che hanno stazionato soprattutto nel Sud ed in Calabria, non dovrebbe esser rimasto davvero nessuno insensibile al cambiamento climatico e all’evidente intollerabilità delle temperature nelle città in particolare. La combinazione del riscaldamento globale dovuto ai cambiamenti climatici e l’espansione dell’ambiente costruito globale ha dato luogo all’intensificazione delle “isole di calore urbane” (UHI: Urban Heat Island), accompagnata da effetti negativi sulla salute della popolazione.

Uno studio pubblicato su “The Lancet” (T. Iungman et alii, Cooling cities through urban green infrastructure: a health impact assessment of European cities, 31.01.2023), basato sulla ricerca effettuata in 93 città europee, ha dimostrato che le alte temperature ambientali sono associate a molti effetti negativi sulla salute, incluso un tasso piuttosto elevato di mortalità prematura. Lo studio ha cercato di stimare sia la quantità di mortalità che potrebbe essere attribuita agli UHI, sia l’incidenza della mortalità che potrebbe essere prevenuta aumentando la superficie di verde urbano nelle 93 città prese in esame.

La ricerca ha stabilito che l’aumento della temperatura media della città ponderato per la popolazione, dovuto agli effetti dell’UHI, è stato di più di 1,5°C e che, complessivamente, 6700 morti premature potrebbero essere attribuibili agli effetti degli UHI. È stato stimato che l’aumento della attuale copertura arborea del 30% raffredderebbe le città in media di 0,4°C e che, grazie a questo, ben 2644 (su 6700) morti premature potrebbero essere prevenute.

I risultati di questo studio hanno mostrato gli effetti deleteri degli UHI sulla mortalità e hanno evidenziato i benefici per la salute grazie all’aumento della copertura degli alberi per rinfrescare gli ambienti urbani, che si tradurrebbe anche in città più sostenibili e resistenti al clima perché gli alberi, le piante e le zone verdi aiutano ad abbassare la temperatura dell’aria dai 2 agli 8 gradi. Un albero può assorbire mediamente fino a 20 kg di CO2 all’anno e i grandi alberi, all’interno delle aree urbane, sono i migliori filtri di agenti inquinanti, mentre un solo ettaro di bosco, urbano o periurbano, può assorbire fino a 5 tonnellate di CO2 all’anno.

Sono dunque le città con il loro concentrato di cemento, bitume e di consumo e di impermeabilizzazione del suolo che formano delle “isole di calore” (UHI) amplificando e creando una temperatura insostenibile e nociva per gli esseri umani. È dalle città che dovrebbe passare il cambiamento, come dice il botanico Stefano Mancuso “Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma parte integrante della natura”. (‘La nazione delle piante’, 2019).

Quattordici città metropolitane sono state coinvolte nella “misura” “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano”, finanziato con 330 milioni del Pnrr, per piantare 8,25 milioni di alberi, 8.250 ettari di foreste urbane, individuando luoghi e quantità secondo il principio di utilizzare “l’albero giusto nel posto giusto”. La Corte dei Conti ha, nel marzo 2023 (sic!), richiamato le città coinvolte ad accelerare i tempi di realizzazione dei due obiettivi relativi alla piantumazione di 1.650.000 alberi entro il 31 dicembre 2022 e di altri 6.600.000 entro la fine del 2024.

Proprio in questi giorni il Governo in carica ha annunciato il taglio di 1.287.100.000 delle “misure” M2C412.1.A e M2C413.1 del Pnrr che riguardano proprio la tutela del rischio idrogeologico e del verde urbano perché, secondo il ministro Fitto, “presentavano elementi di debolezza tali da renderli irrealizzabili entro il 2026”. È, forse, pleonastico dire che, in ogni caso, l’unica città calabrese dell’elenco, Reggio Calabria, aveva emanato il bando relativo a questa “misura” solo il 15 giugno del 2023.

Ho già scritto su questo giornale della pressocché totale assenza del verde urbano nelle altre città calabresi. Ho scritto, per esempio, dei 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara, un ecosistema dunale di grande bellezza e fragilità da preservare, di Giovino nei pressi di Catanzaro che è stato destinato alla cementificazione, della desertificazione delle vie e delle piazze di Cosenza nelle quali, quasi sempre, non c’è un solo albero, ma solo una cocente e desolata distesa di bitume o di mattonelle di quart’ordine.

Negli ultimi anni la scure, precorritrice del cemento e delle piastrelle, si è abbattuta su un grande quantità, alcune centinaia, di alberi ultradecennali ad alto fusto anche nella città di Rende. Alberi ad alto fusto, nella maggior parte dei casi Pini marittimi o mediterranei, quasi centenari che possedevano enormi e rinfrescanti chiome sono stati tagliati senza pietà per motivi diversi, ma con lo stesso esito: la deforestazione di una città che era stata concepita, dagli anni ’60, dagli Amministratori e dagli Urbanisti con uno standard elevatissimo di coesistenza del verde pubblico, e privato, con il cemento e l’asfalto. La convivenza era stata statuita, uno dei pochi casi in Italia, nel primo strumento urbanistico comunale, il PRG, che prescriveva la piantumazione, a carico del costruttore, di un albero ad alto fusto per ogni 100 mc di edificato.

La presenza del verde era ulteriormente rafforzata sia dalla salvaguardia degli ultracentenari alberi preesistenti (querce, ulivi etc.) sia dalla piantumazione ex novo, a partire dalla seconda metà del ‘900, di alberi ad alto fusto e a rapido accrescimento come, soprattutto, i Pini marittimi o mediterranei e i Pini d’Aleppo. Tutti i suddetti Pini non costituiscono alcun problema, né per la sicurezza statica né per il voluminoso apparato radicale, se correttamente manutenuti e potati come dice uno tra i massimi esperti di gestione di pini in Europa, il dott. Giovanni Morelli, arboricoltore e agronomo naturalista (‘Alberi!’, Marsilio 2022).

Perché, dunque, non è stata fatta, prima, un’adeguata manutenzione e un’accorta potatura, ma si è proceduto, ad un costo esorbitante, all’abbattimento, ora, degli alberi ultradecennali lungo Via Leonardo da Vinci, Via Giovanni XXIII, in Piazza De Vincenti e, fra poco, quasi certamente anche in Piazza San Giovanni? Quel che colpisce ancor di più è che, dopo averne tagliato il fusto, i ceppi degli alberi, in quasi tutti i casi, sono stati lasciati ‘in situ’ lasciando intatti i presunti problemi di sollevamento dell’asfalto e dei marciapiedi e, per sovrapprezzo, gli elevati costi di estirpazione meccanica di radici e ceppi.

Al posto dei quasi centenari Pini dovrebbero esser piantati lecci – dei quali non è specificato, nella delibera di Giunta, l’altezza che sarebbe importante perché sono alberi a lento accrescimento- a distanza di 6 o 7 metri l’uno dall’altro. Sono certo che i signori Commissari del Comune di Rende vigileranno sulla celere ripiantumazione di questi lecci, soprattutto dopo la civile e nutrita manifestazione di protesta svoltasi poche sere fa davanti alla Casa comunale.

La Calabria è una delle regioni più ricche di varietà di flora d’Italia possedendo sia decine, forse centinaia, di varietà di alberi da frutta, sia moltissime specie di piante spontanee, sia tantissime varietà di alberi ad alto fusto (P. Bevilacqua, ‘Un’agricoltura per il futuro della terra’ 2022). Perché, dunque, non espandere le superfici verdi urbane e periurbane calabresi invece di colare nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde dei giardini, degli orti e delle campagne dentro o vicino alle città? Consumo ed impermeabilizzazione di suolo che aumenterebbero la temperatura locale e accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense o di eventi metereologici estremi.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 luglio 2023
Immagine: Battista Sangineto

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Dopo un lungo periodo di siccità che ha colpito questo inverno il Nord Italia ecco arrivare bombe d’acqua, piogge intense che hanno provocato l’alluvione di una parte importante del territorio romagnolo con vittime e danni materiali ingenti. Ancora una volta, come da copione, la Regione Emilia Romagna chiederà lo stato di emergenza e inizierà la trattativa col governo per ottenere più risorse finanziarie possibili. Dopo aver seppellito le vittime di questa alluvione, aver sentito i soliti discorsi dai ministri di turno, tutto riprenderà come prima.

Ci domandiamo: si poteva prevedere questo ciclone che ha colpito così durante il territorio emiliano-romagnolo? No, con un sufficiente anticipo. Gli eventi estremi, come cicloni, tifoni, trombe d’aria, bombe d’acqua, tormente di neve o di vento, sono prevedibili, rispetto all’impatto di un determinato territorio, solo 24-48 ore prima che il fenomeno si verifichi. E mai con esattezza assoluta. Ecco perché alcune volte, come tutti abbiamo riscontrato, viene dichiarato, in una determinata città, l’allarme meteo arancione o rosso, chiuse le scuole, e poi l’evento si verifica magari a venti-trenta chilometri di distanza, o all’ultimo momento non si verifica proprio per un improvviso cambiamento della direzione dei venti.

Ma se non è prevedibile esattamente il giorno e l’ora in cui un determinato territorio verrà colpito da questi fenomeni è ormai noto che gli «eventi estremi» sono sempre più intensi e sempre più frequenti. E non abbiamo visto ancora niente. Saremo sempre più esposti di fronte a questi fenomeni traumatici che abbiamo provocato immettendo, in poco tempo, una quantità enorme di anidride carbonica che ha fatto saltare l’equilibrio atmosferico, secondo quanto sostenne il Nobel Prigogine per i gas in un sistema chiuso, quando solo un elemento cresce in maniera esponenziale, generando le cosiddette «fluttuazioni giganti». In altri termini siamo entrati in una fase caotica del meteo di cui dovremmo prendere coscienza e pensare ai rimedi possibili.

Ci sono per altro dei dati che parlano chiaro. Come per i territori a rischio sismico, così per le alluvioni abbiamo dei territori più esposti ed altri meno. I dati dell’Ispra sono eloquenti: l’Emilia Romagna è la regione con la percentuale più alta di territorio a rischio alluvioni, con la più alta percentuale di abitanti e di immobili ad alto rischio di essere travolti dalle alluvioni. Non si può dire che la Regione Emilia-Romagna non abbia fatto niente per curare questo territorio e prevenire le esondazioni, ma la normale amministrazione non basta più nell’era degli eventi estremi.

Occorre ripensare le città, i trasporti, la messa in sicurezza dei fiumi, la canalizzazione delle acque, approfittare dei periodi di siccità per allargare gli alvei e rafforzare gli argini, così come occorre munirsi di riserve d’acqua per i lunghi periodi di siccità. Insomma, si tratta di uscire dalla gestione ordinaria per sottoporre i territori ai cosiddetti “stress test”, ovvero a simulare l’impatto di eventi estremi per verificare la resilienza di una determinata zona, città o campagna. E questo vale per tutti, nessuno si può chiamare fuori.

Se invece continuiamo ad invocare, di volta in volta, l’emergenza, a non prendere atto che dobbiamo fare i conti con un cambiamento strutturale, ne usciremo con un territorio devastato. Tutto è diventato Emergenza. Un incremento dei flussi migratori è un’emergenza, la siccità prolungata è un’emergenza, la pioggia intensa è sempre un’emergenza, come la mancanza di case per gli studenti o la disoccupazione giovanile. Tra poco arriverà la stagione degli incendi e riempiranno le prime pagine dei giornali e saremo ancora una volta impreparati. Basta con queste emergenze inventate di fronte a fenomeni strutturali. La vera emergenza è questo governo che dovrebbe preoccuparci ed allarmarci seriamente.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
Foto di Rafael Urdaneta Rojas da Pixabay

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

L’eclissi dei valori della Costituzione. Il patrimonio culturale frammentato-di Battista Sangineto

Nelle prossime settimane andrà in discussione in Parlamento la Bozza di D.L. di Calderoli con le “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui art, 116, terzo comma, della Costituzione” che permetterebbe la nascita di 20 staterelli semi-indipendenti che avrebbero la gestione, oltre che della Sanità (concordo con quanto detto a tal proposito da Enzo Paolini sul Quotidiano del Sud) , di molte materie che riguardano settori fondamentali della vita sociale, culturale ed economica del nostro Paese: l’Istruzione (sono d’accordo con le argomentazioni di Filippo Veltri sulla scuola espresse sul Quotidiano del Sud), la ricerca scientifica, i trasporti, il commercio con l’estero e, persino, il Patrimonio della cultura ed il paesaggio

Il sentirsi italiani ed il senso di cittadinanza e di appartenenza al nostro Paese sono strettamente collegati al Patrimonio della cultura che si è depositato, per millenni, sul territorio italiano. Perché, come scriveva Ranuccio Bianchi Bandinelli: “L’Italia è considerata giustamente il paese più ricco di monumenti artistici, segni visibili di una altissima civiltà, che un tempo fu di insegnamento e di modello all’Europa; il paese dove più fitte e più dense sono le stratificazioni storiche […] e queste stratificazioni storiche hanno lasciato ovunque una traccia così ricca, che non ha eguali in nessun altro paese. È questa stratificazione che conferisce all’Italia e agli italiani un particolare modo di essere, l’essenza stessa delle nostre personalità”.

Il sunnominato D.L. leghista è dotato di un “Elenco delle materie che, ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione possono essere oggetto di attribuzione a Regioni a statuto ordinario”. L’elenco contiene modifiche anticostituzionali che frantumerebbero le azioni di tutela del Patrimonio culturale e paesaggistico affidandole alle 20 Regioni-staterelli. La potestà legislativa sul paesaggio e sul patrimonio -messa in discussione dal nuovo D.L. art. 117, secondo comma, lettera s – è, ad oggi, prerogativa della Repubblica, del Ministero dei Beni Culturali, non delle Regioni. Il trasferimento a loro favore delle funzioni e delle competenze delle Soprintendenze -organi periferici del Ministero per i Beni culturali- è in netto contrasto con l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, che è nella prima parte, quella teoricamente intangibile della Carta.

A partire dalla modifica del Titolo V della Costituzione -voluta e approvata dal centrosinistra con un solo voto di scarto, nel 2001- la valorizzazione e, persino, la tutela del Patrimonio culturale e del paesaggio sono diventate, a partire dal governo Gentiloni, oggetto di negoziazione fra Stato e Regioni, in particolar modo la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna di Bonaccini.

Già Concetto Marchesi, il grande latinista e deputato costituente, nello scrivere l’articolo 9 della Costituzione, nel 1947 si oppose con successo a chi voleva, cavalcando un’onda autonomista, la frammentazione del Patrimonio perché aveva ben presente che “…l’eccezionale patrimonio artistico italiano costituisce un tesoro nazionale, e come tale va affidato alla tutela ed al controllo di un organo centrale”. E anche, su suggerimento dell’Accademia dei Lincei, che “… il passaggio delle Belle Arti (all’epoca la rete delle Sovraintendenze, n.d.r.) all’Ente Regione renderebbe inefficiente tutta l’organizzazione delle Belle Arti che risale agli inizi del ‘900, organizzazione che ha elevato la qualità della conservazione dei monumenti e ha giovato a diffondere nel popolo italiano la coscienza dell’arte…”.

In preda ad un delirio secessionista, la Lega e il governo di destra vogliono mettere sotto il controllo politico regionale organi dello Stato che dovrebbero essere terzi. Un delirio assecondato dalla precedente riforma Franceschini (Renzi, del resto, aveva scritto che: “Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia”) che era arrivata ad un passo dal permettere che i musei, ormai autonomi, si costituissero in fondazioni di diritto privato insieme agli Enti locali dando la stura alla privatizzazione ed alla regionalizzazione del Patrimonio.

Se dovessero passare queste modifiche anticostituzionali ed antiunitarie, la tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale e paesaggistico, su cui è fondato il nostro comune sentire, non sarebbero più prerogative dello Stato, ma verrebbero sminuzzate regione per regione e non potrebbero più costituire un argine unitario alla cementificazione e all’oblio definitivo del passato. Ne risulterebbe distrutto, per sempre, quello storico tessuto connettivo che tiene insieme il Paese, quel “particolare modo di essere che è l’essenza stessa della nostra personalità”, del nostro essere italiani.

L’eclisse dei valori della Costituzione.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 marzo 2023
La foto ritrae un gioco ideato dalle Scuole Montessori

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

Ischia non è un’eccezione: tutto il territorio del Belpaese è da risanare.-di Alberto Ziparo

1. Il disastro di Ischia non deve considerarsi evento eccezionale, legato alla presenza di iper cementificazione abusiva e alle caratteristiche ambientali dell’isola. Tantissimi contesti territoriali di quello che era considerato “il Belpaese” infatti sono destabilizzati da diffusione insediativa, consumo di suolo, urbanizzazione eccessiva spesso autorizzata, che ne hanno stravolto gli ecosistemi ; con degradi e dissesti già gravi, che diventano esiziali per le ricadute della crisi climatica. Gli eventi tragici che si susseguono sempre più ravvicinati inon sembrano però scalfire l’agenda politica : si urla per qualche giorno, poi la transizione ecologica torna ad essere per lo più una chiacchiera.

2. Pochi dati bastano a fornire i contorni del dissesto diffuso da impatti della cementificazione. L’italia dovrebbe avere , considerando abitanti residenti e presenti( compresi neonati e immigrati senza permesso), per fornire comodamente un tetto a tutti, circa 7 miliardi di metri cubi di volumi abitativi. Secondo i datascape ISTAT, se ne è costruito quasi il doppio; con un effetto di clamoroso sfascio economico e ambientale. Il suolo consumato seguita a crescere. Oggi è pari a circa il 10% del territorio nazionale. L’ISPRA ammonisce che tutto ciò significa il 94% dei comuni italiani a rischio frane o alluvioni, con ripartizione pressoché uniforme da nord a sud del Belpaese e 3,5 milioni di famiglie interessate del fenomeno.

L’Osservatorio “Città- Clima” di Legambiente sottolinea ancora gli effetti ormai quotidiani della crisi ecologica, testimoniati dagli “eventi estremi” degli ultimi dodici anni che superano quota 1500, con un incremento del 27% di quest’anno rispetto al precedente. E con crescenti sofferenze dei territori, i cui suoli sono “esasperati e stressati” del succedersi di fenomeni intensi quanto opposti: prolungate ondate di calore e connessa siccità, interrotte da precipitazioni copiose fino alle “bombe d’acqua”.

3. Già una decina di anni fa il MISE- non un centro studi di ecologisti radicali- stimo l’entità della spesa necessaria a mettere in sicurezza il paese dai rischi: sismico , idrogeologico , da incendi , inquinamenti : essa ammontava a ca 190 milardi di Euro. Si proponeva un programma pluriennale con voce permanente in Finanziaria. Renzi da presidente del consiglio sulla base di questo lanciò il programma “Casa Italia”. Che si bloccò e fu dimenticato dopo pochi mesi . Probabilmente quando ci si accorse che servivano soprattutto tanti piccoli progetti “a grana fine ”di ripristino e riterritorializzazione. Non le Grandi Opere dal sicuro effetto politico-mediatico.

L’agenda politica infatti ignora quasi completamente tali problemi, aldilà di dichiarazioni e annunci. Come dimostra il PNIAC , Piano Nazionale di Azione Climatica, pronto in bozza fin dal 2016, ma mai approvato. Lo stesso PNRR da questo punto di vista rappresenta un’enorme occasione sprecata; se si pensa che sono destinati al risanamento del territorio appena 4,5 miliardi di Euro, il 2% ca del totale spendibile. Un paradosso a fronte dei 31 miliardi di euro dedicati ad alta velocità e grandi opere ad alto impatto ambientale, che diventano 81 con il Collegato Infrastrutture.

4. Proprio Il PNIAC, insieme al Green Deal europeo e agli SDG (Obiettivi di sviluppo sostenibile) dell’UNEP forniscono i criteri per le azioni di risanamento e consolidamento dei territori rispetto alla crisi ambientale. In Italia poi c’è l’ulteriore vantaggio di annoverare nei nostri quadri programmatici ordinari uno strumento già orientato a tutela e riqualificazione, il Piano Paesaggistico. Come previsto dal piano per il clima, i ministeri interessati, specie Ambiente, Cultura e Infrastrutture , di concerto con le Regioni, promuovono “task-force” di risanamento e restauro . Esse possono assumere come Linee Guida per l’azione di medio-lungo periodo proprio i piani Paesaggistici.

L’emergenza climatica – come è evidente in queste ore- richiede però azioni rapide, incisive già subito o nel periodo medio-breve. Per questo bisogna introdurre le strategie recenti, promosse da Green Deal e UNEP , legate ai Programmi di Adattamento Climatico ed ai Progetti di Resilienza, già realizzati in molte grandi città e contesti territoriali internazionali(tra cui Oslo, Copenaghen, Amsterdam, Singapore), ma solo a Bologna , tra i capoluoghi italiani. Essi sono costituiti da progetti integrati di gestione dei fenomeni legati agli andamenti meteoclimatici di contesto e relative ricadute critiche, già registratesi e prevedibili. La particolarità di tali azioni è che muovono dal “ripristino di ciò che l’ipercementificazioneha distrutto, ovvero l’ecofunzionamento naturale degli habitat”. Il primo elemento di consolidamento di un ambito è l’azione di aggiustamento, restauro degli apparati paesistici. La prima azione urgente in pressoché tutti i 92000 comuni italiani è quella di ripristinare le vie di fuga dell’acqua, nonché la continuità dell’armatura dei collettori idrologici e paesistici. Azioni semplici da fare subito.

5. È necessaria una svolta reale quanto drastica nelle politiche ecologiche e territoriali. Siamo scettici che questo possa accadere per improvvise “illumininazioni” di un ceto Politico-istituzionale bloccato da incapacità e soprattutto interessi sostanzialmente estranei a questi temi. Appare necessaria l’azione diretta, ove possibile, altrimenti di pressione critica sui decisori , di quelle numerosissime soggettività che anche nel Belpaese lavorano ogni giorno per la tutela di ambiente e territorio, ma anche per produrre ricchezza da beni autosostenibili; e costituiscono ormai una realtà economica da decine di miliardi di euro all’anno. La transizione che urge parte da loro.

da “il Fatto Quotidiano” del 5 dicembre 2022

Energie rinnovabili.-di Tonino Perna Il tesoro calabrese a patto che si superi l'inerzia

Energie rinnovabili.-di Tonino Perna Il tesoro calabrese a patto che si superi l'inerzia

Malgrado la delusione (per altro prevedibile) per i risultati del G20 sulla questione del contrasto al mutamento climatico, l’Ue prosegue la sua strada e chiede ai paesi membri di dare un maggior impulso agli investimenti green e, più in generale, ad un approccio complessivo al nostro modello di sviluppo.
Uno dei pochi settori dove già si vede la svolta è quello dei trasporti: auto elettriche, treni e navi ad idrogeno, sostituzione progressiva del trasporto merci su gomma con altri vettori con minore impatto ambientale.

Questa accelerazione nel campo dei trasporti è indubbiamente dovuta al fatto che rappresenta per l’industria automobilistica in primis, e per altri settori, una straordinaria domanda in una fase in cui il mercato dei mezzi di trasporto (in particolare delle auto e camion) è entrato in crisi, soprattutto in Occidente. Pertanto, ci piaccia o no, dovremo a breve sostituire le nostre auto che usano combustibili fossili con le auto elettriche, passando per una fase di utilizzo delle auto ibride.

Si ridurrà certamente l’inquinamento nelle città, ma non è detto che si riduca complessivamente se le colonnine elettriche, che sostituiranno gli attuali distributori di benzina e gasolio, saranno alimentate con sistemi convenzionali.

Vale a dire: se la mia auto si ricarica con una corrente elettrica prodotta da una centrale termoelettrica che brucia combustibili fossili, non si è risolto un bel nulla in tema di riduzione della CO2. Anzi si potrebbe aggravare perché c’è da contabilizzare l’inquinamento prodotto nella produzione delle batterie, con la relativa estrazione di minerali preziosi, e in aggiunta si pone un problema di smaltimento di milioni di batterie. Insomma, è chiaro che bisogna fare il massimo sforzo perché le macchine elettriche siano alimentate con le energie rinnovabili.

In Calabria potremmo avere condizioni ideali per far camminare le nostre auto e i mezzi pubblici grazie all’uso di energia solare, eolica, biogas. Anche la presenza di tanti borghi e piccoli centri, di tanti spazi attigui alle abitazioni dove collocare pannelli solari o il mini eolico, facilita l’uso di queste energie e consente alle famiglie un grande risparmio.

Ci sono gli incentivi per ammortizzare parte dell’investimento iniziale, ma finora non si è trovato un antidoto ad un virus che abita le nostre contrade: l’inerzia. Non si capisce perché una città come Reggio Calabria baciata dal sole per una gran parte dell’anno abbia meno della metà dei pannelli solari, termici e fotovoltaici, installati a Bolzano, con centomila abitanti contro i 170mila del capoluogo calabrese! E questo vale per tutta la Calabria con pochissime eccezioni.

Quarant’anni fa quando venivano installati i primi pannelli solari termici a Crotone, pensavamo che questa Regione sarebbe diventata come la California o la Florida, in termini di uso dell’energia solare ed eolica. Non siamo certo all’anno zero ma molta strada deve essere percorsa, e non si può perdere questa ultima occasione che ci offre il Pnrr (Programma nazionale recovery e resilienza).

Bisognerebbe già da questo autunno partire con una campagna di sensibilizzazione e promozione, cominciando dalle scuole medie superiori e dalle Università perché sono i giovani i più aperti alle novità, i più adatti a spingere le proprie famiglie ad investire sul futuro, dotarsi di accumulatori da energie rinnovabili, a cogliere quale grande opportunità economica e ambientale può offrire questo cambiamento.

C’è poi da segnalare una grande novità in questo campo: la nascita delle comunità energetiche nella Ue. Una strada maestra per ricreare vincoli di comunità, risparmio energetico e finanziario. Ma, di questo ne parleremo meglio la prossima volta.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 novembre 2021
Foto di Maria Godfrida da Pixabay

Incendi e crisi ambientale.- di Alberto Ziparo Salvare il paesaggio e il futuro della Calabria

Incendi e crisi ambientale.- di Alberto Ziparo Salvare il paesaggio e il futuro della Calabria

Il mese di luglio 2021 è stato il più caldo di sempre. La crisi ambientale infatti sta aggravandosi sensibilmente. Le ondate di calore che imperversano vengono improvvisamente interrotte da burrasche e “bombe d’acqua”. Un’atmosfera sempre più “arrabbiata”(gonfiata da entropia crescente)si abbatte su territori sempre piu’ stressati e indeboliti dai conflitti dei cicli “ Calore/siccità / inaridimento vs. macroprecipitazioni”.

In Calabria, lo “Sfasciume pendulo”, ulteriormente piagato (abbiamo cementificato anche le fiumare), esaspera così gli effetti delle criminali azioni incendiarie di speculatori e ndranghetisti.
L’attuale disastro pero’ chiama in causa in primis le responsabilità delle istituzioni politiche ,nazionali e locali.

La “transizione ecologica” italiana infatti si sta rivelando sempre più una barzelletta: infatti stiamo facendo ridere tutta Europa pretendendo di attuare il Green Deal con misure di facciata: ancora cemento e consumo di suolo; e la perdurante dominanza dell’energia da fossili. Addirittura integrando il Recovery Plan, che già prevede di suo ca 30 miliardi di Euro per TAV e Grandi Opere (spacciati per mobilita’ sostenibile) con il Collegato,ovvero l’ennesimo “Sblocca cantieri”. In cui “recuperiamo” 57 megaprogetti- e 81 miliardi di euro- della “criminogena “ (definizione ANAC) legge Obiettivo di Berlusconi.

Così la “svolta ecologica “ italiana si dovrebbe realizzare con opere ad alto impatto ambientale per una quota pari a dieci volte quanto si investe per tutela e risanamento del territorio. Che invece sarebbe l’unica grande opera davvero utile e necessaria. E che in Calabria rappresenta un’urgenza assoluta.

Draghi dice in queste ore che finanzierà programmi di rimboschimento e risanamento ambientale delle aree piu’colpite da incendi. E’ bene che i relativi fondi siano gestiti senza improvvisazioni emotive o mediatiche , ma usando quegli strumenti di pianificazione già finalizzati a questo ; che non abbiamo mai attuato. Certo , affrontando subito l’emergenza , cui devono seguire progetti di adattamento ai mutamenti climatici. E quindi la riqualificazione ecopaesistica del territorio. L’unica risorsa ancora in grado di prospettare un futuro.

I guasti che ovunque, in Europa e in Italia, sono stati causati da modelli di sviluppo falliti e ipercementificazione, in Calabria e in altre aree a grande intensità criminale risultano ingigantite, amplificando autentiche catastrofi ambientali , come oggi gli incendi.

Eppure la Calabria si era dotata di un ottimo Piano Territoriale Paesaggistico: ma all’atto della sua approvazione l’allora giunta regionale di Centro destra- subentrata a quella di segno opposto che l’aveva formulato- pensò bene di smantellarne la normativa ; trasformando un fondamentale atto di governo e risanamento di territorio e paesaggio in una esercitazione accademica: E cancellando così anche le regola di difesa da dissesti e disastri , incendi compresi.

Con un piano realmente cogente, infatti, ciascun ambito paesaggistico avrebbe regole e misure per affrontare l’emergenza e quindi risanare il territorio. Chiunque saprebbe che la prima difesa è rappresentata dalla ricostituzione degli ecosistemi , dell’ecofunzionamento “dell’organismo territorio”. Più che da generici rinverdimenti o rimboschimenti.

Nell’emergenza odierna, bisogna tener conto del drastico peggioramento della crisi ambientale negli ultimi anni. E’ utile certamente l’idea degli ex Presidenti del Parco Dell’Aspromonte, Perna e Bombino, di rilanciare i “Contratti di Solidarietà” , investendo associazioni e cooperative locali di produttori, con funzioni di vigilanza continua e primo intervento.

Ma questo va integrato con la “Task Force “ proposta (speriamo seriamente) per il Governo dal Ministro delle Politiche agricole Patuanelli; che prevede il coordinamento e l’ampliamento degli organismi già preposti agli interventi di emergenza, Vigili del fuoco, Protezione Civile, Carabinieri Forestali e Operai Forestali residui, cui si potrebbero aggiungere i “Nuovi responsabili”, oltre ai comuni e agli enti interessati ,come i Parchi che dovrebbe continuamente monitorare il territorio con mappe digitali aggiornate in continuo .

E quindi intervenire subito: sapendo già come e dove intervenire , una volta localizzati i primi focolai. E conoscendo anche le postazioni dei siti di approvvigionamento d’acqua, in funzione delle aree di operazione.

L’emergenza incendi va affrontata usando anche la risorsa idrica dei grandi invasi interni –spesso totalmente inutilizzata – a cominciare dalla diga del Menta . Oggi è assurdo che , come è capitato in questi giorni , i pompieri possano restare senz’acqua proprio al culmine del loro intervento . Inoltre si consideri che un CanadAir impiega nel tragitto andata /ritorno tra il cuore dell’Aspromonte o della Sila e il mare circa 25 minuti, un elicottero oltre mezzora: nell’eccezionalità l’uso dell’acqua degli invasi abbatterebbe i tempi a pochi secondi.

Le emergenze di questi giorni però diventeranno sempre più una costante , sia pure in forme diverse: pensiamo alle piogge che arriveranno tra qualche settimana e troveranno un territorio già dissestato anche da migliaia di frane. Che almeno vengano liberate le vie di fuga dell’acqua, in primis le fiumare. Bisogna fronteggiare situazioni anche molto difficili.

Ma senza smarrire la capacità di guardare anche oltre. Le stesse misure previste dal piano paesaggistico, se riprese, ci indicano le operazioni utili e necessarie alla tutela e al risanamento ambientale ; compresi i progetti di resilienza ed adattamento climatico di periodo medio-breve. Fino ad un territorio riqualificato , da cui possano emergere scenari futuri di auto sostenibilità sociale legati al paesaggio.

Mentre si cercano misure per affrontare l’emergenza drammatica , risulta davvero grottesca e incomprensibile la decisione di riaprire la caccia. Vabbè che i cacciatori sono elettori, ma metter la loro incolumità e la vita stessa a rischio in contesti dissestati e accidentati da roghi appena sopiti, per renderli i giustizieri degli ultimi uccelli e della fauna sopravvissuta, sembra irresponsabile quanto- ribadiamo- incomprensibile.

da “il Quotidiano del Sud” del 18 agosto 2021.
Foto di ojkumena da Pixabay

Calabria anni ’80. Un tuffo nel passato, una riflessione sul presente.- di Tonino Perna Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Calabria anni ’80. Un tuffo nel passato, una riflessione sul presente.- di Tonino Perna Rai3 ripropone "Calabria 80", una storica inchiesta sull'economia girata da Annarosa Macrì e Tonino Perna.

Nel febbraio del 1980 iniziai a girare, in lungo e largo, nella nostra regione con un team di Rai 3 per realizzare un programma che si intitolava “Calabria ‘80” ed aveva l’obiettivo di indagare sulle attività economiche, sociali e culturali della nostra Regione. Soprattutto di guardare al presente puntando alle prospettive future di questa terra, già allora considerata come irrecuperabile da una buona parte della stampa nazionale.

Da nord a sud, da est ad ovest, incontrammo piccoli e medi imprenditori, aziende localizzate in borghi antichi e sconosciuti, monumenti storici e siti archeologici abbandonati (uno per tutti il castello di Roccella dove pascolavano le pecore), scoprimmo attività impensabili (come la coltivazione del riso a Sibari, o la nascita di una azienda “Internet” a Piano Lago), e i primi timidi tentativi di attrarre i turisti in Calabria.

Girammo per cinque mesi da febbraio a maggio, con l’occhio attento di Tonino Arena, indimenticabile fotografo e prezioso cineoperatore, producendo decine di chilometri di pellicola che poi, con la regia di Annarosa Macrì, montammo nel mese di agosto in una piccola stanza della Rai di Cosenza. Ricordo ancora la quantità di granite che prendevo ogni giorno per vincere un caldo infernale, e lo stress nel decidere i tagli con la forbice della pellicola, il punto giusto, con la paura di sbagliare e perdere un fotogramma definitivamente. Grazie alla competenza, intelligenza e granitica costanza di Annarosa portammo a termine l’operazione in quattro giorni. Alla fine ne ricavammo sette puntate che andarono in onda tra ottobre e novembre del 1980: due dedicate all’industria, due all’agricoltura, una al turismo, una alle cooperative e al Terzo Settore, last but not least alla cultura.

Oggi, dopo quarant’anni, rivedere queste immagini può risultare un utile esercizio per capire cosa è cambiato e cosa è rimasto, dove ci sono stati miglioramenti e dove invece abbiamo solo rimpianti. Una cosa è certa: prenderemo coscienza che la storia non viaggia in linea retta, che il cambiamento c’è stato, in chiaro scuro, con netti miglioramenti in diversi campi, industria-agricoltura-turismo, e peggioramenti nel paesaggio che scriteriate colate di cemento hanno deturpato e nelle relazioni umane, dove si è persa quella gratuità che ci caratterizzava in passato.
Forse, da questa comparazione ne ricaveremo una iniezione di fiducia in noi stessi, in un momento come questo in cui ne abbiamo tanto bisogno. Questo è l’augurio che faccio ai calabresi e a me stesso.
RAI 3 sabato 26 Gennaio e sabato 2 Gennaio ore 7,30.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 dicembre 2020

I delicati metabolismi che definiscono lo spazio in cui viviamo.-di Piero Bevilacqua

I delicati metabolismi che definiscono lo spazio in cui viviamo.-di Piero Bevilacqua

Prendendo a prestito due sintagmi del pensiero filosofico (Il principio speranza di Ernest Bloch e Il principio responsabilità di Hans Jonas) Alberto Magnaghi ha appena pubblicato un ponderoso volume, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, pp. 336, euro 30) che si presenta come il suo opus magnum, la summa delle ricerche e riflessioni di una vita.

Magnaghi dedica da decenni la sua acribia di studioso a questi temi, accompagnando la ricerca con l’impegno di organizzatore culturale, fondando e promuovendo un originale consesso di saperi multidisciplinari, La società dei territorialisti, con un proprio organo, Scienze del territorio, alimentato da annuali convegni tematici. Al tempo stesso ha affiancato a tali impegni la redazione di progetti pubblici importanti, come il Piano paesaggistico e territoriale della Toscana e quello della Puglia, insieme ad Angela Barbanente.

MAGNAGHI ha le idee teoricamente ineccepibili su ciò che significa territorio. Esso non è la natura sia pure violata dalla civiltà industriale, da riportare alle sue condizioni primigenie, ma «un neo ecosistema vivente», il frutto di una lunga storia delle popolazioni che hanno plasmato il loro habitat secondo bisogni e culture locali. «Città, colline terrazzate, campagne lavorate, infrastrutture, boschi coltivati hanno metabolismi che si trasformano nelle successive civilizzazioni, ma pur sempre metabolismi che connotano le strutture viventi». Solo afferrando tale realtà, evitando illusioni ingegneristiche di riparazione dei guasti, o sogni di palingenesi ecologiche, si imbocca la strada giusta per un opera di cura del territorio devastato dallo sviluppo.

LA STRADA, secondo Magnaghi «è quella di attivare prioritariamente, soprattutto a livello locale processi di crescita della coscienza di luogo, ripartendo dalla necessità di riappropriarsi dei saperi e delle capacità riproduttive dei propri ambienti di vita e di lavoro». Facendo leva sulla coscienza identitaria delle popolazioni, occorre avviare «una nuova civilizzazione antropica che riattivi i processi coevolutivi interrotti dalla civiltà delle macchine industriale e digitale». Nel progetto di Magnaghi non solo si ambisce a contrastare dal basso «i processi di eterodirezione della globalizzazione economica», ma si vuole perfino evitare il concorso dello stato nello sforzo di ricostruzione di un rapporto autoriproduttivo tra comunità e habitat.

Egli rifiuta il modello inaugurato nel 1933 dal governo Roosevelt con la Tennessee Valley Authority, che risanò una vasta area degradata, ma propone «un autoinvestimento sociale da parte di sistemi socioeconomici locali e delle loro grandi e inesplorate energie latenti». Per attuare una tale strategia l’autore propone una movimento di contro esodo da attuarsi attraverso il «ritorno alla terra», il «ritorno all’urbanità», cioè a una vita urbana vivibile, il «riabitare la montagna» e infine «il ritorno a sistemi socio-economici locali».

IL TESTO SI COMPONE di vari altri temi, contiene un capitolo di voci per «un dizionario territorialista», il disegno teorico di una «bioregione urbana», il progetto di un governo del territorio bioregionale attraverso una rete di città solidali, e altri motivi affini. Ma il cuore del suo argomentare e direi della sua cultura territorialista, nei fondamenti concettuali e nelle proiezioni operative, è in sintesi quello che abbiamo appena riassunto.

In tutta onestà si deve confessare che si resta abbagliati dalla coerenza e dall’equilibrio di tutti gli elementi architettonici di questo castello di cristallo. È un edificio elegante messo su con materiali creati dallo stesso autore, una sorta di neolingua in cui incasella la realtà teorizzata dentro i cassetti di una grande piramide classificatoria.

MA L’EDIFICO è ancora completamente vuoto. Magnaghi l’ha costruito con generosa creatività in attesa che esso venga riempito di vita reale e che questa si svolga secondo le prescrizioni da lui elaborate. Si fa infatti fatica a trovare in questo libro, dietro le parole, ad esempio dietro il termine territorio, una realtà geografica determinata, luoghi storicamente riconoscibili, realtà sociali, comunità viventi nelle loro reali condizioni.

Allorché, ad esempio, Magnagni tratta di ritorno alla terra, di questa c’è solo la parola. Non si intravedono ambiti materiali, superfici agricole, colture, forme dei campi, organizzazione del lavoro, tipi di abitati, popolazioni. In effetti Magnaghi preferisce, coerentemente, il regno dell’astrazione. Ma questo lo porta a omissioni gravi.

MANCA NEL LIBRO un minimo cenno alla Pac europea (la Politica agricola comune), una possibile grande leva per cambiare la sorte dei contadini e dunque delle economie locali e che oggi sta riconfermando la sua vecchia ratio industrialista. Ma non è omissione, è coerenza. L’autore rifiuta ogni intervento dello stato, figuriamoci quello delle istituzioni europee. Occorre agire dal basso, far leva solo sui luoghi, sulle loro «grandi e inesplorate energie latenti».

da “il Manifesto” del 2 dicembre 2020

Lettera ai catanzaresi. -di Piero Bevilacqua.

Lettera ai catanzaresi. -di Piero Bevilacqua.

Cari amici di Catanzaro,
poiché nei prossimi anni si giocherà una partita importante per il destino della città, io che ci sono nato e, pur non vivendoci più da quasi 50 anni, ho con essa profondi legami, mi sono permesso di elaborare questo progetto che sottopongo alla vostra attenzione.

Una premessa.

Benché sempre più coperto di cemento e di asfalto, che hanno cancellato, negli ultimi anni, tante campagne e terre incolte, il territtorio del comune di Catanzaro, esteso per poco più di 11 mila ettari, conserva ancora la metà della sua superficie occupata dall’agricoltura. Ospita al suo interno circa 900 aziende che producono prodotti agricoli. A questa informazione occorre aggiungere un altro dato poco noto, che riguarda l’intera regione.

La Calabria è una delle regioni, se non in assoluto la regione più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia. Il che significa decine, talora centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, ecc. Da questo sintetico quadro ci si aspetterebbe che nella città di Catanzaro tutte le mense scolastiche, gli ospedali, i dispensatori automatici degli uffici, fossero costantemente riforniti (anche attingendo alle campagne della provincia) da frutta fresca o trasformata, da succhi di frutta e spremute di vario genere, provenienti da agricoltura biologica o biodinamica.

Così come, almeno d’estate, quando la frutta abbonda di solito nei nostri mercati e mercatini, dovrebbe essere normale avere a disposizione decine di varietà di pesche, di susine, di uva, di fichi.

Invece è noto che niente o quasi niente accade di tutto questo. Poche scuole riescono a rifornirsi di frutta biologica durante l’anno. E d’estate è sempre più raro mangiare frutta prodotta nel nostro territorio o per lo meno in Calabria. Quel che abbonda è merce industriale, pochissime varietà, generalmente scadenti e di scarsa sapidità. Un paio di varietà di fichi del nostro territorio, (quando ne esistono centinaia) e la solita uva da tavola, buona certamente, ma limitata a un paio di varietà,Italia e Regina.

Qualcuno mangia più la nostra superba uva Zibibbo? Riuscite ancora ad assaggiare una delle nostre pesche, succose e gustose di un tempo? O le antiche, sode e saporite Percoche? Solo pesche belle a vedersi, ma senza sapore. In genere vengono dall’Emilia e dirò più avanti come sono prodotte.

A me è accaduto d’inverno, alcuni anni fa (mi auguro che nel frattempo la situazione sia cambiata) di chiedere in più occasoni, in vari bar della città, una spremuta di arancia e di sentirmi rispondere dal cameriere con una domanda: “Fanta?”.
Spero che voi cogliate la gravità un po’ ridicola di tale risposta. Noi lasciamo marcire sul campo le nostre arance e vendiamo nei bar il prodotto industriale di una multinazionale. E’ un esempio, piccolo certamente, ma significativo di un quadro generale drammatico della nostra economia, della sua dipendenza “coloniale” anche per i beni derivati dall’agricoltura.

Noi non riusciamo a produrre ricchezza dalle nostre terre, con il nostro vantaggiosissimo clima, con i nostri saperi agronomici, le nostre tradizioni artigianali e culinarie, e veniamo colonizzati dai prodotti fabbricati in altre parti del mondo.

Nel gesto di consumare un’aranciata Fanta, così come le pesche da agricoltura industriale dell’Emilia, sono condensate varie conseguenze di ordine economico, culturale, salutistico. E’ ovvio che se compriamo frutta o sue trasformazioni provenienti da fuori, noi diamo il nostro denaro ad altre economie e impoveriamo il nostro territorio. Ma in questo modo noi rinunciamo a un prodotto sano, coltivato in loco, fresco, preferendo un bene non solo scadente, ma potenzialmente dannoso per la salute. Sapete perché le pesche che giungono nel nostro mercato hanno un bel colore e risultano tutte uguali, ma sanno di niente? Perché sono pesche “agli ormoni”.

In natura non accade che i frutti maturino sulla pianta tutti insieme e poiché nelle aziende agricole industriali, dove la raccolta delle pesche è meccanizzata, occorre che la macchina raccoglitrice trovi i frutti nello stesso grado di maturazione.Per ottenere tale risultato gli imprenditori, poco tempo prima della raccolta, spruzzano sulle piante dei preparati con ormoni vegetali (auxine), così che i frutti maturino tutti insieme.

Credete che la perdita dei nostri frutti, verdure, legumi, cereali tradizionali e dei piatti collegati con questo nostro patrimonio di beni e di cultura, sia senza conseguenze per la nostra salute? Una sola, autorevolissima testimonianza, relativa a tutto il nostro Sud, che negli ultimi anni ha perso tanta agricoltura e cucina tradizionale.Nel 2006 un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità relativo alla diffusione dei tumori in Italia scriveva “…A mano a mano che abbiamo abbandonato le nostre agricolture tradizionali, la nostra antica alimentazione, acquisendo gli standard dei consumi industriali, ci siamo sempre più esposti alle malattie degenerative…”

Un polo agricolo e scientifico

E’ possibile invertire questa tendenza, che ovviamente riguarda più generalmente le nostre campagne? Un declino che spopola paesi, impoverisce famiglie, distrugge la biodiversità, desertifica territori? Oltre che necessario, credo che sia possibile e che anzi il rovesciamento di tale tendenza possa costituire un progetto in grado di appassionare i catanzaresi ed entusiasmare i nostri giovani più intraprendenti. La condizione preliminare di questa inversione è un mutamento culturale.

Occorre guardare al territorio non più come una realtà inerte, in attesa di essere “valorizzato” con la costruzione di case e centri commerciali (veri centri di raccolta dei nostri soldi che vengono portati altrove), ma come luoghi fertili, potenziali produttori di beni e di ricchezza.

Qui vi risparmio tutti i problemi di cui soffre l’agricoltura calabrese, meridionale e italiana per responsabilità della Politica Agraria Comune. Cercherò di mostrare quel che è possibile fare anche nelle presenti condizioni. E il punto di partenza del progetto è un luogo dove si scontrano le due contrapposte visioni del territorio: quella che lo vuole utilizzare per costruire edifici e quella che vuole farne leva di economie, di attività agricole e artigianali. E dunque quale punto di partenza più importante per sfidare una vecchia cultura e imporre una nuova visione di economia, dell’area di Giovino?

L’area di questo quartiere nei pressi di Catanzaro Lido, caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupata da case, strade, ma anche orti, aziende agricole, campagne, aree incolte. Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto una lottizzazione per costruire prevalentemente edifici e io invece credo che sia possibile avviare un nuovo corso di intrapresa economica, un modo avanzato e moderno, ambientalmente sostenibile, di dare valore al territorio.

A Giovino potrebbe nascere un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà. Per costituire il Parco occorre dunque un’opera preliminare di raccolta a cui possono concorrere tanti nostri bravi agronomi. Non si creda che sia un’operazione del tutto nuova.

Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo hanno costituito, anni fa, il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori per la loro fioritura spettacolare. Certo, Giovino non è la Valle dei Templi, ma insieme alla Pineta e alle sue dune fiorite il Parco aggiungerebbe un elemento di attrazione non trascurabile.

Ricordo che anche in Calabria esiste un “parco” costituito dalle varietà di una sola pianta: un ciliegeto nel quale alcuni agronomi, tra cui Antonio Scalise e Franco Santopolo, hanno raccolto decine di varietà antiche di nostri ciliegi che ora crescono nelle campagne di Zagarise. In questo stesso comune è stata realizzata una piantagione di varietà di peri, meli e susine tradizionali. Ma l’esempio più importante che io conosca sono i cosiddetti Giardini di Pomona, realizzati nelle campagne di Cisternino, in Puglia, da Paolo Belloni. Qui, questo solitario amatore è riuscito a piantare circa mille piante da frutto, di cui oltre 400 varietà di fichi.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro, dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel resto del Sud.Giovino dovrebbe diventare il modello e il centro d’irradiazione di una nuova arboricoltura di qualità, fondata sulla ricchezza della varietà. E’ ovvio che la riscoperta delle varietà antiche e la messa in produzione dovrebbe riguardare anche le nostre piante orticole, i legumi, le erbe officinali, aromatiche, ecc.

Ma ciò che bisogna sottolineare è una novità storica importante.La nuova agricoltura non è un settore economico arretrato e residuale, ma un ambito avanzato e di avanguardia dell’economia del nostro tempo. Essa non si limita più a produrre carote o patate, ma crea beni molteplici e svolge, come già accade in Italia e in tante regioni d’Europa, nomerose funzioni. Nei frutteti, ad esempio, è possibile allevare a terra i volatili (polli, oche, anatre, tacchini) col risultato di contenere le erbe spontanee, fertilizzare costantemente il terreno senza dover ricorrere a concimi, aggiungere al reddito della frutta anche quello della vendita delle uova, dei pulcini, della carne.

Ma in ogni azienda agricola non industriale, accanto alla produzione normale oggi si fa trasformazione dei prodotti (vino, conserve, marmellate, miele, frutti essiccati,ecc), ristorazione, talora accoglienza turistica, didattica per le scuole, agricoltura sociale per i portatori di handicap, ecc. L’azienda agricola è inoltre un presidio territoriale, fa vivere gli abitati e i villaggi vicini, protegge il suolo dall’abbandono e dall’erosione, conserva e rinnova il paesaggio, tutela la bellezza dei nostri territori e un ambiente sano. Ai piccoli contadini oggi l’UE dovrebbe fornire un reddito di base per il prezioso lavoro che svolgono di custodi e manutentori del territorio.E questa è una battaglia in corso.

A tutte queste novità occorre aggiungere alcune importanti informazioni, decisive per far comprendere che le nostre campagne costituiscono un potenziale economico straordinario.Negli ultimi anni, grazie a un decisivo mutamento culturale, è esplosa una nuova domanda di prodotti salutistici, che riguardano sia la cosmesi sia, soprattutto, l’alimentazione.

Sempre di più vengono richiesti prodotti cosmetici non industriali, che non danneggiano la pelle, composti da materiali naturali e non chimici. Il successo straordinario che sta avendo in questi anni l’aloe rappresenta l’esempio più evidente. Ma in espansione è tutto il vasto campo degli integratori alimentari e dell’alimentazione macrobiotica, soprattutto i semi, ma anche gli oli essenziali, i succhi, le tisane,ecc. che incrementano la domanda di lino, canapa, sesamo, malva, melagrane, ecc.

Per le nostre terre, grazie alla mitezza del nostro clima, alla ricchezza della nostra biodiversità naturale, si aprono prospettive di grande interesse, che indicano nell’agricoltura, soprattutto ai nostri giovani, non un ingrato esilio di fatica e miseria, ma un campo di continue scoperte e innovazioni e di possibilità di occupazione e di reddito.
Naturalmente, fondamentale è associare alla produzione agricola la trasformazione artigianale dei prodotti.

Questo significa non soltanto accrescere il valore dei beni cavati dalla terra, ma ambire anche a un mercato più vasto, di scala internazionale.Trasformare la cipolla di Tropea in una pasta racchiusa in un vaso, o perfino in un tubetto, utilizzabile nei ristoranti, com’è stato fatto, significa farne un prodotto mondiale, con un valore simbolico che esalta un intero territorio.

Perciò a Giovino occorre progettare e incoraggiare la nascita di piccole imprese di trasformazione, in modo da formare un vero e proprio distretto agro-industriale, come ne esistono anche di dinamici e fiorenti nella nostra Calabria. Occorre uscire da una subalternità culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. Vi ricordo che la Sicilia, il giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice d’agrumi nel mondo, non ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. Basta la Fanta.

Va da sé che dove possibile, soprattutto nelle aree poco suscettibili ad uso agricolo, occorrerebbe impiantare pannelli fotovoltaici, per rendere il distretto potenzialmente autosufficiente per i suoi bisogni energetici. Così come è giusto immaginare spazi per il tempo libero, sport all’area aperta, giochi per bambini. Il diletto dei cittadini deve avere i suoi diritti a pari titolo dell’economia.

Infine. Se l’agricoltura non significa più coltivare patate e cipolle, se è un ambito complesso di attività in continua evoluzione, è evidente che occorre un contributo della ricerca scientifica per sorreggerla. A tal fine un completamento dell’intero progetto sarebbe la creazione di un Istituto per la studio della biodiversità agricola e delle piante della regione mediterranea.

Un centro di ricerca, che potrebbe connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche il miglioramento varietale, le patologie, ecc. Un progetto ambizioso, in grado di attirare tante giovani intelligenze, che potrebbe essere finanziato dall’UE e che intensificherebbe anche i rapporti di collaborazione scientifca con i Paesi che si affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo.

Cari catanzaresi,
come sapete, nel territorio di Giovino il Comune di Catanzaro intende avviare un progetto di lottizzazione: nuove case, nuovi edifici, strade, nuovi centri commerciali. Dunque nuovo cemento e asfalto, che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilita del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare. Inoltre, poiché la popolazione di Catanzaro, come quella di tutta Italia, non cresce, anzi diminuisce, i nuovi abitanti di Giovino sarebbero sottratti a quelli della città. A quel punto il centro storico si svuoterebbe definitivamente e Catanzaro diventerebbe un luogo fantasma.

E’ evidente, dunque, che quello del Comune è un progetto vecchio, che dilapida in modo irreversibilie il patrimonio delle nostre terre fertili superstiti, e, anziché creare nuove economie, nuovi posti di lavoro, pietrifica i pochi capitali esistenti. Vi ricordo che oggi voi godete degli spazi e del verde del Parco della Biodiversità, perché quell’area non è stata destinata a edifici, altrimenti oggi questo patrimonio collettivo sarebbe cancellato. Lasciare ai figli e ai nipoti pietre, al posto di terre fertili, a me francamente pare un progetto insensato, ingiusto e sbagliato, contro cui ribellarsi.

foto tratta dal sito fb “Dune di Giovino-Ultima spiaggia”.