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I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

Occorrerebbe parlare con cognizione di causa e conoscenza dei problemi. Soprattutto in materie delicate che riguardano ogni giorno la vita dei cittadini. Come la Sanità.- Non è per fare polemica pregiudiziale e “ideologica” ma davvero c’è da chiedersi perché da più parti viene detto che le prestazioni offerte dal settore privato accreditato (cioè senza oneri per il cittadino) o non accreditato (cioè a pagamento) sarebbero, così, tout court, viziate, inaccettabili, sporche, perché inquinate dal fatto che il proprietario/gestore della struttura privata ne trae un guadagno.-

Si badi, non si dice che la prestazione resa dal privato non risponde agli standard di qualità o che è il frutto di una truffa o di un accordo fraudolento. No. E’ solo che “se l’obiettivo è il rispetto del diritto le prestazioni saranno di un tipo, se invece lo scopo è il profitto, le stesse prestazioni saranno di altra specie” (Ivan Cavicchi Il Manifesto 2 febbraio 2023).-

Traduzione: se si vuol fare profitto non si può rispettare il diritto. Il che la dice lunga sul rispetto del lavoro e sul pregiudizio ottuso che semina una affermazione del genere.-

E ancora: “sulle strutture private accreditate: a loro più che offrire prestazioni con il servizio sanitario nazionale conviene offrire prestazioni a pagamento” (Milena Gabanelli, Corsera 6 febbraio 2023). Qui è chiaro che si ignora come e perché sono le Regioni che impongono tetti insuperabili (peraltro in violazione delle Leggi dello Stato) che inibiscono alle strutture private accreditate di rendere “prestazioni con il servizio sanitario nazionale”.-

Questa ostilità inspiegabile verso chi – lavorando onestamente – rende un servizio pubblico traendone un giusto e lecito profitto, non agevola affatto la discussione che dovrebbe – deve – agitarsi lucidamente intorno al tema della cosiddetta “autonomia differenziata”. Questione che in realtà ne nasconde una enormemente più importante e delicata, cioè la tutela della Costituzione e dei diritti basilari di ogni cittadino di questo Paese.-
I primi guasti enormi sono stati provocati dalla sgangherata riforma del titolo V della costituzione con la regionalizzazione – tra l’altro – del servizio sanitario.

L’esigenza, sbandierata come “politica” ,di avvicinare il modo di prestare cure ed assistenze alle concrete e peculiari necessità dei territori e dei cittadini che li abitano era uno sbaglio prima che una bugia che oggi però presenta il suo conto in termini di inadeguatezza ed insufficienza.

In realtà rispondeva alla volontà predatoria di creare nuovi e più penetranti centri di potere e di formazione/ imposizione di consenso elettorale e di formazione di enormi ed incontrollati flussi finanziari senza alcun riguardo agli interessi dei cittadini che avrebbero meritato (avendolo pagato con le tasse) un sistema sanitario – e connessi circuiti di ricerca e produzione- in grado di fronteggiare qualsiasi emergenza. Ma la politica era più attenta alla nomina di direttori generali ed agli appalti truffa più che alla implementazione di un vero servizio universale e solidaristico per tutto il paese e per cittadini uguali indipendentemente dalla regione in cui si trovano.

La riflessione ci porta ancora più indietro a considerare che la tragica inadeguatezza strutturale che oggi constatiamo è figlia della subcultura politica della classe dirigente degli ultimi venti anni . Quella dei “ nominati” ,non più legati alla selezione dei partiti ed ai cittadini elettori ma alle agenzie di rating ed alla globalizzazione . E siccome tutte le matasse hanno un bandolo è quello che occorre cercare per poter capire. Il bandolo è la sciagurata revisione dell’art 81 della costituzione che nella nuova stesura impone il pareggio di bilancio .

Spacciata nel 2012 per una norma virtuosa era, in realtà, il mezzo per dichiarare recessivi rispetto ai mercati, alla logica iperliberista e “aziendalista”, i diritti fondamentali , quelli che i costituenti avevano previsti in Costituzione e dichiarati dovuti e pretendibili dai cittadini senza “ corrispettivo” – scuola ,ambiente e sanità per intenderci – perché assicurati a tutti ,indistintamente , mediante il prelievo fiscale proporzionale e progressivo (chi ha di più paga questi servizi anche per chi ha di meno).

Diritti “costosi”, ed infatti previsti a carico dello Stato, perché i “ricavi” da essi prodotti non sono iscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto, essendo fatti di cultura, senso della comunità, conoscenze, benessere, in un ideale ma ben percepibile, bilancio istituzionale e politico.

Ma la storia e’ che il parlamento totalmente impregnato degli interessi della grande finanza mondiale ed incapace di opporre ad essa la visione di un equo stato sociale, voto’ la modifica con una maggioranza tale da rendere impraticabile anche l’eventuale referendum confermativo.

Da quella revisione costituzionale discendono i tagli al fondo sanitario, i blocchi delle assunzioni , la politica dei budget e degli “ acquisti “ di prestazioni (terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello stato, cioè di un loro diritto. La salute come azienda,appunto).

Da qui vengono i commissariamenti delle regioni in particolare al sud , oberate da debiti derivanti in parte dal fisiologico costo del servizio sanitario (ovvio, crescono le conoscenze e la tecnologia, aumenta la vita media, si scoprono e si praticano nuove cure, e dunque si incrementano i costi) ed in altra parte, la maggiore, dagli sprechi.
Ma i commissari non hanno fatto la lotta agli sprechi, neanche un centesimo è stato risparmiato in questo campo, sono stati invece imposti nuovi tagli ,nuove riduzioni di servizi e di diritti, è stata indotta l’emigrazione sanitaria a tutto beneficio delle Regioni del nord così da presentare (senza neanche riuscirci), bilanci migliori e indirizzati verso il pareggio.

Nessuno, a meno di voler essere smentito dalla esperienza diretta di ciascuno di noi ,può dire che si sia pensato ad un progetto di sistema sanitario complessivo. Si sono chiusi ospedali a casaccio ,si sono bloccate le assunzioni , non un centesimo per la prevenzione, per la medicina del territorio, per la rete emergenza/urgenza. Non ne parliamo della ricerca rimasta affidata a nicchie di volenterosi .

Noi lo scriviamo, lo diciamo, lo urliamo da anni, inascoltati, ma ora il re è nudo: il servizio sanitario non può essere regionalizzato perché la tutela della salute e’ un diritto fondamentale cui ha diritto ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri. Neppur può soggiacere ai vincoli di spesa, quella giusta, necessaria, e per fortuna, sempre maggiore se si vuole, come si deve, assicurare sempre maggiore benessere e dunque efficienza, efficacia ai cittadini che così possono produrre merci, cultura, idee formazione e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita, giusta ed equilibrata, del sistema paese.

La vera grande opera pubblica che ci serve è questa: sostenere la scuola, tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale, assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.

Gli sprechi, le truffe devono essere perseguiti con i dovuti mezzi specifici e non con i tagli lineari che falcidiano nella stessa misura spese improprie ( che vanno cancellate del tutto) ed eccellenze (che invece vanno sostenute con maggiori risorse). E men che meno con la spesa storica o con la storia dei Lep fissati dal Governo e non dal Parlamento e poi declinati in “intese” tra Regioni e Ministro. Non è così che si attua il ragionalismo costituzionale. Così si tradisce lo spirito e la lettera della Costituzione. Ripristinare semplicemente la Costituzione italiana garantendo i diritti fondamentali a tutti ed in maniera piena, è questo ciò di cui gli italiani hanno bisogno.

Roba per la Politica con la P maiuscola.

P.S.: Per fare in maniera seria questo tipo di riforme occorre una nuova assemblea costituente eletta con metodo proporzionale puro.

da “il Quotidiano del Sus” del 17 febbraio 2023

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il varo dell’autonomia differenziata, che speriamo incontri una serie di ostacoli negli step successivi, rischia di spaccare il nostro paese al di là di quello che oggi si possa immaginare. Infatti, se fosse applicata come chiedono le Regioni Lombardia, Veneto e, sia pure con qualche distinguo, l’Emila Romagna, provocherebbero in pochi anni una divaricazione salariale, prima nel settore pubblico e poi, per la caduta della domanda, nel settore privato peggiore delle gabbie salariali che c’erano negli anni ’50 del secolo scorso.

Cerchiamo di entrare nel merito, considerando i desiderata della Lega e ipotizzando che vengano attuati. Tra quello che le singole Regioni danno allo Stato con imposte, accise, ecc. e quello che ricevono si è creato nei decenni una divaricazione sempre più marcata. Tre Regioni, ovvero Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, hanno un budget negativo nei confronti dello Stato mentre le Regioni a Statuto Speciale- Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino A.A, Friuli V.G. fanno registrare un surplus, vale a dire che ricevono più di quello che danno. La Regioni del Centro Italia sono grosso modo in pareggio, il Piemonte ha un surplus marginale, mentre la Liguria presenta, unitamente a tutto il Mezzogiorno, un attivo considerevole.

Per la cronaca la regione che ha il surplus in percentuale maggiore è la Calabria, quanto per cambiare, che diventerebbe la regione più penalizzata dall’autonomia differenziata. Se i flussi di entrata ed uscita tra la popolazione calabrese e lo Stato andassero in pareggio il reddito pro-capite arriverebbe a perdere dopo tre anni circa il 30%. Questo comporterebbe in primo luogo una caduta dei salari reali dei dipendenti pubblici, salvo che il governo regionale, ipotesi non credibile, non riducesse drasticamente l’occupazione nella sanità, scuola, servizi sociali, ecc, per mantenere lo stesso livello dei salari reali con il Nord.

In media le regioni meridionali perderebbero tra il 15 e il 20 per cento del reddito pro-capite e di conseguenza dei livelli salariali. Come avverrebbe questo taglio ai salari? Semplicemente non adeguandoli all’inflazione nei prossimi anni, mentre nelle tre regioni del Nord più ricche si avrebbe più che un recupero dell’inflazione, rendendo nuovamente attraente l’impiego pubblico, come per altro avviene in Centro e Nord Europa.

E’ facile immaginare che, al di là delle proteste, una buona parte dei meridionali cercherebbe di trovare lavoro nelle aree più ricche del Nord, creando un problema di concorrenza nel mercato del lavoro. A questo problema la Lega Nord ci ha già pensato da tempo con varie proposte che finora erano state bocciate, ma che l’autonomia rende possibile. Per esempio, per entrare nella pubblica amministrazione di queste regioni del Nord, dalla scuola alla sanità agli enti locali, devi avere almeno cinque anni di residenza provata. Un deterrente che certamente susciterà non poche polemiche e proteste di piazza.

Dobbiamo prendere atto che l’autonomia differenziata se passasse nei termini proposti da Calderoli creerebbe una sorta di Linea Gotica che spacca il nostro paese in due. E il governatore Pd dell’Emilia Romagna ne è responsabile quanto i presidenti regionali della Lega.

Per fortuna i giochi non sono ancora fatti, ma il rischio è alto. Che fine faranno le cinque regioni a Statuto speciale che percepiscono un lauto surplus, tra entrate e uscite, da parte dello Stato? E la Liguria che rischia di perdere qualcosa come il 10 per cento del suo reddito continuerà a stare a guardare? E la Meloni, che dell’Unità d’Italia ne ha fatto sempre una bandiera, potrà tener fede al patto con la Lega, allo scambio del presidenzialismo con l’autonomia differenziata? Ma, soprattutto, i governatori del Sud, a qualunque partito appartengano, potranno permettersi di restare alla finestra guardando a questo scippo che metterebbe fine ad ogni sogno di riscatto del Mezzogiorno?

da “il Quotidiano del Sud” del 7 febbraio 2023

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

L’onore di un ministro ci fa danno.-di Massimo Villone

Il ministro Calderoli ha tradotto il termine spacca-Italia – giudizio indiscutibilmente politico – in una offesa alla sua onorabilità. Minaccia addirittura le vie legali.

Per quanto ci riguarda, del suo onore non dubitiamo affatto. Ma nemmeno dubitiamo che il suo progetto di autonomia differenziata sia dannoso per il paese. Un danno che si produce su due versanti.

Il primo. Il ministro ha infilato nella legge di bilancio una decina di commi sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Sembrerebbe cosa buona e giusta, perché l’art. 117.2, lett. m), affida i Lep alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, alla pari con politica estera, difesa, sicurezza e altro ancora. Un presidio apparentemente fortissimo.

Ma nei commi in questione non troviamo quali sono le materie Lep, quali gli ambiti, quali le risorse, quali i tempi. C’è solo una via tecnico-burocratica per la definizione, per di più in una dichiarata assenza di risorse. Un percorso che vede l’adozione con decreti del presidente del consiglio dei ministri e la marginalità del parlamento, nonostante il presidio dell’art. 117.2. I Lep sono sottratti di conseguenza anche al controllo del capo dello Stato in sede di promulgazione della legge e della corte costituzionale nel giudizio di legittimità. Si aggiunga che mettendo i Lep nella legge di bilancio il ministro sottrae il relativo procedimento anche al referendum abrogativo ex art.75. Un “pacco”.

Il secondo è la legge di attuazione. Un altro “pacco”. È consegnata all’eternità della rete una dichiarazione di Calderoli di aver ritenuto inizialmente la legge (legge-quadro o di attuazione è lo stesso) non necessaria, potendosi stipulare le intese anche in mancanza. Poi ha cambiato idea. Peccato, perché era buona la prima.

La legge di attuazione è inutile, perché non è sovraordinata alla legge che concede maggiore autonomia. Ad esempio, se anche la legge di attuazione escludesse la regionalizzazione di scuola, infrastrutture strategiche, lavoro, energia, porti, aeroporti, autostrade, ferrovie o altro ancora, la legge sulla maggiore autonomia di una o più regioni potrebbe ugualmente concederla. Lo stesso vale per il caso di mancata determinazione dei livelli essenziali nelle materie Lep.

Un referendum abrogativo della legge di attuazione Calderoli sarebbe ammissibile, ma inutile, perché non precluderebbe la stipula di singole intese con singole regioni. Mentre la legge recante la maggiore autonomia per la singola regione ai sensi dell’art. 116.3 sarebbe – quella sì – sottratta a referendum abrogativo in quanto legge “rinforzata”, secondo una antica giurisprudenza della Corte costituzionale. Al tempo stesso, la maggiore autonomia acquisita attraverso l’art. 116.3 è potenzialmente irreversibile, perché la modifica successiva dovrà comunque essere fatta con lo stesso procedimento.

Quindi, in base a nuova intesa con la regione, che potrebbe ovviamente negarla. Né infine è credibile che una maggiore autonomia conseguita con trasferimento di risorse umane, organizzative, strumentali, finanziarie si cancelli o si riveda agevolmente, Un paese non si governa con apparati pubblici in fluttuazione costante.

La legge di attuazione è una cortina di fumo. Nel modello Calderoli la vera scommessa è sulla concertazione tra esecutivi, e cioè sulla trattativa con i ceti politici regionali e locali, potenzialmente interessati a frattaglie di potere. Là si cerca il consenso. Rimane invece necessario emarginare il parlamento, popolato di soggetti che nella gran parte nulla guadagnano personalmente dalla cannibalizzazione delle strutture statali.

Non se ne abbia a male Calderoli. Il paese non si mantiene ragionevolmente unito ed efficiente quando ogni componente territoriale definisce a trattativa privata il proprio regime economico e giuridico in modo potenzialmente irreversibile. Il danno c’è, e non si diffama nessuno evidenziandolo. Certo, non è tutto imputabile a lui. Ha ragione quando dubita del neurone che ha scritto l’art. 116.3. Non a caso, raccogliamo le firme su una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a una modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 (www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it).

Intanto, Meloni farà bene a frenare la voglia leghista di spacchettare l’Italia in tante repubblichette. Ricordiamo il Nenni della stanza dei bottoni. Al suo capo eletto direttamente Meloni una stanza potrebbe anche darla. Ma con l’autonomia differenziata scomparirebbero i bottoni.

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023

Autonomia differenziata: «La scuola a pezzi: taglio di 1,4 miliardi al Sud».-di Roberto Ciccarelli

Autonomia differenziata: «La scuola a pezzi: taglio di 1,4 miliardi al Sud».-di Roberto Ciccarelli

«Per spiegare l’assurdità di un progetto di autonomia differenziata come quello del ministro Calderoli basta dire che, su un tema fondamentale come quello dell’istruzione il Sud subirebbe un taglio di 1,4 miliardi di euro a vantaggio delle regioni del Nord – sostiene il segretario generale della Cgil Puglia Pino Gesmundo – Ed è solo un esempio di una riforma complessiva irricevibile, anche perché sottratta al confronto del paese, della comunità scientifica, dello stesso parlamento».

Lo studio citato da Gesmundo è un articolo di Marco Esposito ripreso da Il Mattino, uno di quelli che hanno provocato la « scomposta» minaccia di «querela» da parte del ministro agli affari regionali e alle «autonomie», il leghista Roberto Calderoli. Così hanno definito le sue parole i comitati di redazione de Il Mattino e de Il Messaggero. «Si utilizzano le querele temerarie – hanno aggiunto – come arma di pressione contro la libera stampa, per tentare di “imbavagliare” ogni legittima forma di critica» . Il testo è stato ripubblicato sul sito Roars.it, punto di riferimento online sia della critica alla scuola e all’università trasformate dalle riforme neoliberali degli ultimi trent’anni che della «secessione dei ricchi».

Nella simulazione riportata nell’articolo il taglio di cui parla Gesmundo sarebbe la conseguenza dell’adeguamento della spesa attuale per l’istruzione al «costo standard» inteso come media nazionale previsto dalla riforma di Calderoli. Attualmente la spesa per gli studenti al Sud risulta essere più alta rispetto a quelli del Nord. In Lombardia e in Veneto la spesa statale per studente è di circa 3.800 euro all’anno. In Campania aumenta a 4.500, in Sicilia circa 4.900, in Basilicata 5.600. La media italiana, cioè lo standard, è 4.346 euro. Se si applicasse questa media a tutte le regioni allora il Sud perderebbe 1,4 miliardi.

Allo stesso tempo la Lombardia riceverebbe 820 milioni euro in più, il Veneto 340 milioni euro, per realizzare il loro sistema scolastico «regionalizzato». Ma perché, oggi, c’è questa sproporzione tra scuole del Nord e del Sud? Davvero al Sud si «sprecano» risorse? Perché, in primo luogo, al Sud vivono e lavorano docenti con un’anzianità maggiore, mentre quelli più giovani sono costretti a «emigrare» a Nord e, in base al sistema della progressione di carriera, percepiscono uno stipendio inferiore. Uno stipendio, va ricordato, già modesto e inferiore alla media dei paesi Ocse paragonabili al nostro, a cominciare da Germania o Francia. Questo è l’effetto di un sistema disfunzionale, e malconcepito, che produce attualmente oltre 200 mila precari cheogni anno permettono alla scuola di funzionare. E che sarebbe fatto ulteriormente a pezzi da una «regionalizzazione» scolastica che potrebbe essere uno degli obiettivi dell’«autonomia differenziata».

L’istruzione scolastica e universitaria copre il 13 per cento della spesa regionalizzata dello stato, ed è una delle voci più ricche della partita dell’«autonomia differenziata» che le destre al governo vogliono scambiare con il «presidenzialismo». «Se non venissero stabiliti i fabbisogni standard, l’aliquota della compartecipazione Irpef sarebbe del 61% per la Puglia. Un salasso a danno dei cittadini della regione che suo malgrado ha il più alto indice di povertà relativa, che colpisce il 27,5% dei residenti. Mentre ne beneficerebbero proprio le regioni che hanno firmato le intese per le autonomie – osserva Gesmundo – Un trasferimento di risorse da Sud verso Nord, tutto il contrario dell’impegno dell’Europa che ha assegnato all’Italia oltre 200 miliardi di euro per spingere alla coesione territoriale».

Quanto alle «querele» di cui ha parlato Calderoli a proposito dei giornalisti, il sindacalista ha aggiunto: «Correremo il rischio della querela ma continuiamo ad affermare che quel disegno di autonomia ha un portato egoistico e divisivo. Il progetto è vessatorio nei confronti di territori dove non è garantita uniformità nell’esigibilità di diritti costituzionali, dalla salute all’istruzione alla mobilità, cosa che dovrebbe prescindere da dove si nasce o si sceglie di vivere».
Dalla Sicilia ieri è arrivato sostegno alla «ribellione» dei 55 sindaci del Sud che hanno scritto a Mattarella. «In materie come scuola, sanità, infrastrutture e trasporti non occorrono livelli essenziali di prestazione ma livelli uniformi – sostiene il segretario della Flc Cgil Palermo Fabio Cirino – Chiediamo a tutti una risposta di attivismo civico».

da “il Manifesto” del 5 gennaio 2023
Foto di Cole Stivers da Pixabay

Presidenzialismo, per Meloni basta la parola.-di Massimo Villone

Presidenzialismo, per Meloni basta la parola.-di Massimo Villone

Nella conferenza di Giorgia Meloni la stampa italiana le ha cortesemente offerto una vetrina. Con poche lodevoli eccezioni, le domande erano tali da poter essere assimilate a quella emblematicamente inutile posta da un’antica saggezza napoletana: «Acquaiolo, l’acqua è fresca?».

Certo, non sono mancati passaggi di puro godimento intellettuale. Ad esempio quando ha argomentato la flat tax a 85000 euro in termini di equità sostanziale per riequilibrare un vantaggio fin qui concesso ai lavoratori dipendenti a danno degli autonomi. Ma nel complesso Meloni ci ha dato una ampia rassegna di quelli che sono e saranno i topoi della destra al governo. Che serviranno a poco, come a poco sono serviti in passato quelli della sinistra.

Tra i luoghi comuni troviamo le riforme istituzionali. Meloni ha confermato che il presidenzialismo è una sua priorità, perché «consente di avere stabilità e di avere governi che siano frutto di indicazioni popolari chiare». Anzitutto, quale presidenzialismo? Il modello francese è profondamente diverso da quello statunitense, e in ogni caso è l’intera architettura dei poteri pubblici che va disegnata, considerando anche l’impatto sul sistema politico e dei partiti. Per Meloni invece, va bene qualunque cosa, purché rechi l’etichetta del presidenzialismo. E va bene qualunque modo di arrivarci – bicamerale, disegno di legge governativo, percorso parlamentare. Nemmeno a parlare, poi, di una riflessione se i mantra di un tempo in tema di presidenzialismo siano ancora validi nel mondo e nelle società di oggi. Nessun dubbio stimolato dalle ultime esperienze dei paesi da sempre assunti a termine di paragone, come gli Stati Uniti o la Francia.

È poi davvero singolare che nelle tre ore di conferenza stampa non sia stata detta una sola parola sull’autonomia differenziata, pur essendo evidente che il presidenzialismo è ancora fermo ai blocchi di partenza, mentre l’autonomia è in piena corsa. Anzi, quando ha recitato il suo copione Meloni era certamente già informata della trionfalistica comunicazione di Calderoli sull’aver mantenuto l’impegno assunto di arrivare in consiglio dei ministri entro la fine dell’anno, avendo consegnato a Palazzo Chigi il disegno di legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma. Quindi dobbiamo vedere nel silenzio di Meloni il significato politico di una presa di distanza.

La mossa di Calderoli è stata da più parti definita come forzatura, blitz, fuga in avanti. Vero per una parte, ma per altro verso solo un pezzo di teatro, visto che la consegna a Palazzo Chigi, nella cui struttura il suo ministero senza portafogli è inserito, più o meno equivale a far scivolare un foglio sotto la porta dell’ufficio accanto. Altra cosa è arrivare a una deliberazione in consiglio di ministri, che richiede lo svolgimento di un percorso tecnico e politico. Ma è un fatto l’inserimento in legge di bilancio di norme sui livelli essenziali di prestazione (Lep) che lasciano intravedere diritti dipendenti dal codice di avviamento postale, in un paese spacchettato in repubblichette semi-indipendenti a trattativa privata tra esecutivi, sotto la regia del ministro delle autonomie. Con la ragionevole certezza che divari territoriali e diseguaglianze rimangano, perché mancano le risorse che diversamente sarebbero necessarie.

I commi 791 e seguenti della legge di bilancio servono solo a Calderoli per affermare di avere risolto il problema dei Lep, e aprire la porta alle intese con le regioni. Meloni fa finta di niente. Ma prima o poi dovrà ufficialmente prendere atto che c’è una sceneggiata sul tema dell’autonomia, soprattutto legata al voto regionale prossimo e alle turbolenze in casa Lega. L’ultima cosa seria che Meloni ha detto sull’autonomia la troviamo nel suo intervento al Festival delle regioni, in cui richiama le «storture» del titolo V, che «su molte materie ha aumentato la conflittualità, con tutto quello che comporta in termini di lungaggini ed efficienza» (Corriere del Veneto, 6 dicembre 2022).

Concordiamo. Per darle una mano, il Coordinamento per la democrazia costituzionale raccoglie le firme per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare volta a modificare gli articoli 116.3 e 117. Può firmare con lo Spid su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it. Se lo facesse, potremmo anche chiudere un occhio sul fatto che mai nella storia delle conferenze stampa di fine anno si parlò così tanto per dire così poco.

DA “IL nANIFESTO” DEL 2 GENNAIO 2023

La menzogna sull’Autonomia differenziata.-di Paolo Maddalena La menzogna che sta dietro all’autonomia differenziata, l’ultimo colpo al popolo italiano.

La menzogna sull’Autonomia differenziata.-di Paolo Maddalena La menzogna che sta dietro all’autonomia differenziata, l’ultimo colpo al popolo italiano.

L’ultimo intervento della Presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni sulle autonomie differenziate segue il metodo della contraddizione: cioè affermare azioni contrastanti, in modo da soddisfare richieste contrastanti. Meloni ha usato questo metodo con i suoi primi provvedimenti di governo. Infatti mentre è venuta incontro alle esigenze sentite da tutti per l’aumento delle bollette energetiche, d’altro lato ha tacitato le aspettative degli elettori di destra aumentando il tetto al contante, come peraltro hanno sempre desiderato gli evasori, ed eliminando il reddito di cittadinanza e il superbonus al 110%.

Altrettanto ha fatto per le autonomie differenziate affermando la necessità di una cooperazione tra Stato e Regioni accontentando così chi tiene all’unità d’Italia e sottolineando nello stesso tempo l’importanza di valutare le specificità dei vari territori accontentando così chi vuole le autonomie. Questo spirito contraddittorio diventa purtroppo mera menzogna quando politici della Lega affermano che le autonomie differenziate promuovono l’unità d’Italia, non lasciano indietro altre regioni e addirittura attuano l’articolo 5 della Costituzione, che pone il principio fondamentale dell’unità e indivisibilità della Repubblica.

E’ tutto falso poiché le autonomie differenziate, che si risolvono nell’attribuire alle Regioni una potestà legislativa assolutamente libera ed esclusiva e sottratta all’obbligo di rispettare gli interessi nazionali e quelli delle altre Regioni, come era previsto dall’art. 117 del testo originario della Carta costituzionale e soppresso dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 relativa alla riforma del titolo V della Parte seconda della Costituzione, rompono l’unità economica, giuridica e politica dell’Italia rendendola priva di un patrimonio pubblico demaniale capace di far fronte agli stati di necessità, come avvenuto per la pandemia e per la guerra in Ucraina e debole sul piano europeo e internazionale, finendo per diventare preda di altre Nazioni. Si tratta dell’ultimo colpo contro il Popolo italiano, voluto dal neoliberismo, che esalta l’individualismo e distrugge la solidarietà portando, prima o poi, tutti alla rovina.

Finora siamo sopravvissuti ai danni maggiori apportati dalla riforma del titolo V della Costituzione, ispirata al più estremo regionalismo, per l’opera benemerita della giurisprudenza costituzionale la quale, con le sue sentenze, è riuscita a mantenere vivo l’”interesse nazionale” sancito dai “principi fondamentali ”e a salvare così l’unità giuridica e politica del nostro Paese mentre, purtroppo, nulla ha potuto contro la eliminazione dell’unità economica, che è stata distrutta dalle micidiali “privatizzazioni” realizzate da tutti i governi dell’ultimo trentennio, rendendoci schiavi delle multinazionali e della finanza.

Ed è da notare che le autonomie differenziate sono previste dall’art. 116 dello sconcertante Titolo V della Costituzione e che, per salvare l’Italia, è proprio questo articolo che dovrebbe essere abrogato, magari con una legge costituzionale di iniziativa popolare, oppure annullato dalla Corte costituzionale. Siamo arrivati al punto nevralgico dell’attuazione del pensiero neoliberista poiché, se sono attuate con legge (è in giro una scorrettissima bozza Roberto Calderoli sull’argomento) le autonomie differenziate, il tentativo di ricostruire l’unità d’Italia, conquistata eroicamente dal Risorgimento e dalla Resistenza diverrà difficilissimo, se non impossibile. Siamo, per così dire, alla linea del Piave e abbiamo il dovere inderogabile di compiere ogni sforzo affinché questa insulsa attuazione delle autonomie differenziate non abbia luogo.

da “il Fatto Quotidiano” del 9 dicembre 2022

Riecco il Ponte sullo Stretto, arma di distrazione di massa.-di Tonino Perna

Riecco il Ponte sullo Stretto, arma di distrazione di massa.-di Tonino Perna

Una sorta di accanimento terapeutico, puntuale a ogni cambio di governo di centro-destra. Il Ponte sullo Stretto come panacea, che risolverà tutti i mali del Sud. La questione meridionale è fuori dall’agenda politica e dalle vere priorità dei governi della Repubblica dagli anni ’90 del secolo, quando divenne il centro del dibattito politico la “questione settentrionale” con l’emergere della Lega Nord di Bossi.

Ancora il Ponte anche se si sa che lo Stretto di Messina è un territorio fragile, che Sicilia e Calabria si staccano di un centimetro ogni 5 anni (per questo c’è chi ha pensato persino ad un ponte elasticizzato),che siamo in una delle zone sismiche più pericolose del mondo, dove nel 1908 morirono centomila persone, il numero di vittime più alto nel secolo scorso.

Non c’è ancora un progetto definitivo, non si sa quanto costa e chi ci mette i soldi, ma in compenso escono i numeri al lotto su alcuni organi di stampa: 7 miliardi dieci anni fa e quattro miliardi adesso, alla faccia dell’inflazione. Nessun privato è disposto a rischiare un soldo su un opera con questi gradi di incertezza e Bruxelles ha fatto già sapere che non si può attingere alle risorse del Pnrr perché l’opera dovrebbe essere completata entro il 2026. Ovviamente non è possibile: per l’ammodernamento della Salerno- Reggio Calabria ci son voluti trent’anni.

Soprattutto, nessun progetto finora si è visto che consenta solo di immaginare come si colleghi il Ponte alle autostrade e stazioni ferroviarie sulla sponda calabrese e siciliana. Tutti i mass media presentano da anni una foto- rendering (sempre la stessa) che poggia il Ponte sulle due sponde. Bellissimo. Ma come ci si arriva? Dalla parte siciliana la ferrovia arriva a sud della città e Ganzirri, dove dovrebbe sorgere il pilone portante, è situato nella parte opposta a circa 20 km. Per portare i binari a 90 metri in quota bisognerebbe rifare un bel pezzo di tracciato ferroviario e passare sopra la testa delle case sulla collina o scavare gallerie in un terreno di sabbia pura che procura da diverso tempo danni alle abitazioni esistenti, con frequenti smottamenti.

Ugualmente dalla sponda calabrese, la ferrovia dovrebbe ripartire da Gioia Tauro e passare dentro le montagne di Palmi, Bagnara, Scilla per sbucare sulla testa degli abitanti di Cannitello. Per non parlare dell’autostrada. Un costo enorme, un impatto ambientale spaventoso, una pura follia.

Il Ponte sullo Stretto è diventato una possente “arma di distrazione di massa” come la definì Alessandro Bianchi, ex ministro dei Trasporti e Rettore della Università Mediterranea agli inizi di questo secolo. Purtroppo, non sono solo le forze politiche del centro-destra ad essere dei fan del Ponte, ma anche una parte del Pd è favorevole, e non da adesso. Ricordo quando durante la campagna elettorale del 2001 l’allora candidato del centro-sinistra Giorgio Rutelli intervenendo nella Facoltà di Scienze Politiche a Messina dichiarò: Il Ponte lo farò io e verrò qui ad inaugurarlo nel giugno del 2011.

Quello che mi stupisce è il silenzio dei presidenti delle altre Regioni meridionali. Nel momento in cui stanno tentando di espellere dal welfare italiano il Sud, dandogli il colpo di grazia con l’autonomia fiscale differenziata, stanno scippando in silenzio le risorse del Pnrr che l’Ue ci ha dato proprio per il basso reddito pro-capite e alta disoccupazione del Mezzogiorno, la classe politica meridionale sembra si sia svegliata solo ora con la proposta di legge Calderoli, quando erano chiarissime le priorità di questo governo.

Il Ponte sullo Stretto come suprema opera di regime, come simbolo del primo governo di destra-destra della Repubblica italiana, come specchietto per le allodole meridionali: non potete lamentarvi, vi stiamo per regalare un’opera che farà decollare il Mezzogiorno, che porterà milioni di posti lavoro e miliardi di turisti. E i sindacati? O meglio Cgil e Uil perché la Cisl è diventata la ruota di scorta del governo. Non si rendono conto delle condizioni del Mezzogiorno, di come siano peggiorate negli ultimi anni! Basterebbe guardare i dati dell’inchiesta di Italia oggi sulla “qualità della vita” nelle province italiane: nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, le prime migliori 64 province sono del centro-Nord, non ce n’è una sola del Mezzogiorno. Ugualmente rispetto ai tassi di disoccupazione: si passa dal 2-3% di Pordenone, Bergamo, Livorno ai 22% di Messina, Napoli, Crotone (ben ultima), con le prime migliori 60 province tutte del Centro-Nord.

L’autonomia differenziata sarà irreversibile. Cari partiti, abbiate coraggio e ammettete l’errore.

da “il Manifesto” del 22 novembre 2022
Immagine da:https://www.breakinglatest.news/business/messina-strait-bridge-giovannini-we-need-a-connection/

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Il PD: il grande inganno nella storia della Repubblica.-di Piero Bevilacqua

Il PD: il grande inganno nella storia della Repubblica.-di Piero Bevilacqua

Solo mettendo insieme i fatti, le scelte compiute in una prospettiva storica, è possibile comprendere la natura di un partito.La vicenda delle forze di centro-sinistra e poi del PD è paradossale: considerati da milioni di italiani una formazione progressita e popolare hanno operato invece come una forza di destra contro la classe operaia e i ceti poveri, contro gli interessi del Paese.

Essi hanno impresso una torsione autoritaria alle nostre istituzioni e svuotato in punti fondamentali la Costituzione.
A partire dalla legge 1999,n,1 (governo D’Alema) il Presidente della Giunta Regionale viene eletto a suffragio
universale, creando cosi un presidenzialismo territoriale, che non ha contrappesi, perché l’opposizione è privata di poteri. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001, votata dalla maggioranza di centro-sinistra viene avviato il federalismo fiscale il cui principio di fondo è che ogni regione ha diritto a usare per sé la ricchezza che
produce.

E’ il principio che apre la strada al regionalismo differenziato, voluto dalla Lega, che distrugge la solidarietà tra i
territori, mettendoli in competizione e dissolvendo di fatto lo Stato unitario. Nel 2011 il PD vota l’introduzione in Costituzione del pareggio di bilancio limitando costituzionalmente la possibilità dello Stato di aiutare i cittadini più deboli.

A partire dal Pacchetto Treu, assando per il Job’s Act del governo Renzi, sono stati smantellati i diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotta e fatto dilagare i lavori precari. Con la Buona scuola si completa l’aziendalizzazione
della scuola, trasformando la formazione in apprendistato, mai agendo per recuperare i miliardi sottratti dai governi precedenti.

Senza contare i governi dell’Ulivo, il PD è stato al governo per 10 anni e oggi siamo l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%.’ Secondo la relazione dell l’INPS del luglio 2022, il 28% dei lavoratori non arriva a guadagnare 9 euro l’ora lordi. Oggi i poveri assoluti sono oltre 5 milioni e quelli relativi oltre i 7. Un paese lacerato dalle disuguaglianze con una moltitudine di poveri e un pugno
di ricchi che diventano sempre più ricchi. Nonostante questo il PD ha votato a favore della decisione di portare al 2% del PIL la spesa in armamenti e continua ad appoggiare la guerra in Ucraina.

Ma i governi nazionali e locali del PD infliggono danni anche all’ambiente. L’ultimo Rapporto nazionale ISPRA denuncia che negli ultimi 10 anni abbiamo perso 19 ettari di suolo al giorno, per effetto di cementificazione.

Nonostante questo disastroso bilancio, in cui abbiamo segnalato solo alcune voci, il PD continua a fare le Feste
dell’Unità come se fosse il vecchio PCI. E’ un inganno, il trucco che ha permesso ai governi,con o senza il PD, di varare leggi impopolari neutralizzando ogni opposizione sociale.Il fatto che esso abbia sostenuto battaglie a favore dei diritti civili non ne cambia la natura: in Europa le destre liberali lo fanno da tempo.

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Breve storia del Pd: le sue responsabilità per la crisi sociale del Paese.-di Piero Bevilacqua

Da quando è nato, nel 2007, il Partito democratico si è sempre più allontanato dal mondo del lavoro e dai ceti popolari abbracciando un pensiero neoliberale che ha mostrato tutti i suoi limiti nella difesa dei diritti e nella lotta per la giustizia sociale

Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni. In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità.

Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro Paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati.

Democratici americani, socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuse più largamente nel Vecchio Continente. Un compito svolto senza incontrare resistenza, perché gli agenti politici si presentavano ai ceti popolari col volto amico e le insegne delle organizzazioni di sinistra. Hanno cosi impedito ogni reazione e conflitto. Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione. Serge Halimi ha ricostruito con copiosa ricchezza di particolari questa vicenda (Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi 2006).

Sarebbe un errore moralistico tuttavia bollare come tradimento tale ribaltamento strategico. Quei gruppi dirigenti, nutriti di cultura sviluppista e privi di ogni sguardo agli equilibri del pianeta, non hanno fatto fatica a convincersi che rendere sempre più libero e protagonista il mercato, togliere lacci e lacciuoli, come ancora si dice, avrebbe accresciuto la ricchezza generale e dunque allargata la quota da distribuire anche ai ceti subalterni. E a questo compito residuale hanno limitato il loro rapporto col mondo del lavoro, ritagliandosi spazio e consenso tra i gruppi dirigenti. Senza dire che nel vocabolario della cultura neoliberista (libero mercato, flessibilità del lavoro, competizione, meritocrazia, ecc) essi hanno trovato il repertorio linguistico per innovare il loro discorso politico, quello più confacente alla loro nuova collocazione. Quella di forze politiche che non dovevano più promuovere e orientare il conflitto sociale, ma ottenere consenso elettorale per politiche di mediazione e di lenimento risarcitorio degli effetti più aspri dello sviluppo derogolamentato.

Dunque le forze che danno vita al Pd non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.

Qualcuno ricorda quando il Financial Times si scandalizzava per i programmi elettorali dei Tories e dei Laburisti nel Regno Unito, che erano pressoché identici? La stessa cosa accadeva negli Usa, fino a quando Trump non ha incarnato l’estremismo del primatismo bianco. Luigi Ferrajoli ha scritto pagine lucidissime su quei sistemi elettorali nel secondo volume dei suoi Principia iuris (Laterza 2007). Ma il tentativo di trasferire nel nostro Paese il sistema politico anglo-americano è poi velleitario non solo perché non tiene conto delle nostre varie culture politiche. Come se bastasse creare un unico contenitore per due contendenti, lasciando fuori tutti gli altri, per assicurare stabilità al sistema politico e conseguire la tanto agognata governabilità.

La storia non si lascia comprimere dal volontarismo istituzionale. Quella scelta ha contributo col tempo a mettere all’angolo le varie forze di sinistra, Rifondazione Comunista, Sel, Sinistra italiana, ecc (che portano la loro quota specifica di responsabilità), senza tuttavia risolvere i problemi di coesione e stabilità al proprio interno e nel sistema politico. Ma il tentativo nasconde un altro deficit analitico, comune a tutti coloro che ricercano la “governabilità”, accrescendo la torsione autoritaria degli ordinamenti. La fragilità dei governi riflette in realtà quella dei partiti, vuoti di ogni progettualità, privi ormai di forti ancoraggi sociali (tranne in parte la Lega) e trasformatisi in agenzie di marketing elettorale. Essi inseguono gli umori dei gruppi sociali, in parte creati, e non solo veicolati, dai media, protagonisti in prima persona della lotta politica, e perciò sono volatili, scomponibili come giocattoli di Lego.

Ma ciò che quasi tutti ignorano è che nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico. E oggi il ceto politico, si ritrova con strumenti limitati di regolazione e controllo, sempre più costretto a subire la spinta del capitalismo finanziario a trasformare lo Stato in azienda. Le procedure di scelta e decisione dei Parlamenti e dei governi appaiono troppo lente rispetto alla velocità dell’economia e della finanza senza regole. Se un operatore può spostare immense somme di danaro con un gesto che dura pochi secondi, all’interno di società capitalistiche in competizione su scala mondiale, è evidente che la struttura degli Stati democratici appare ormai come un organismo arcaico. E senza un vasto ancoraggio con i ceti popolari, senza essere supportati dalla loro forza conflittuale, i partiti sono fragili e i governi instabili.

Dunque il Pd è nato come “forza di governo”, emarginando le culture politiche alla sua sinistra, imponendo o caldeggiando il sistema elettorale maggioritario. Ciò ha prodotto una torsione antidemocratica all’interno dei partiti in cui le segreterie hanno accresciuto il proprio potere sulla scelta della rappresentanza parlamentare, sempre più sottratta ai cittadini elettori. Un colpo alla democrazia dei partiti e a quella del Paese, governato da Parlamenti nominati, frutto di leggi elettorali spesso incostituzionali.

Se poi entriamo nella narrazione storica delle scelte partitiche e di governo compiute in 15 anni di storia nazionale non possiamo non stupirci della capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti di questo partito, e della grande stampa, nel celare la sua natura conservatrice, spacciandolo per una forza di centro-sinistra. Si può ricordare il Jobs Act? Alcuni compassionevoli difensori scaricano la responsabilità su Matteo Renzi, quasi non fosse rampollo della stessa casata. Ma dopo di lui il lavoro precario in Italia è dilagato, il Pd non si mai mosso per arginarlo e, meraviglie delle meraviglie, si è insediato anche in ambito pubblico.

Nel ministero dei Beni culturali, presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al “caporalato di Stato”, con una miriade di giovani che tengono in piedi musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame. Non va meglio ai ricercatori della Sanità pubblica, 1290 operatori con una media di 10 anni di precariato alle spalle. Sono i nostri giovani più brillanti, quelli che la Tv ci mostra dopo che sono scappati, quando hanno avuto successo nelle Università straniere. Nel 2021 con la ripresa dell’occupazione del 23%, il 68% è di contratti stagionali, il 35% in somministrazione, e solo 2% a tempo indeterminato.

Ma tutto il mondo del lavoro italiano ha conosciuto forse il più grave arretramento della sua storia recente. «Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%» (D. Affinito e M.Gabanelli, Corriere della Sera, 11 luglio 2022). E siamo ora al dilagare dei lavoratori poveri. Il rapporto dell’11 luglio del presidente dell’Inps Tridico ricorda che «il 28% non arriva a 9 euro l’ora lordi». Tutto questo quando non muoiono per infortuni: nel 2020 1.270 lavoratori non sono tornati alle loro case. Poveri in un mare di miseria, perché oggi contiamo oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 di milioni di poveri relativi. Ma c’è chi sta peggio. Nelle campagne è rinato il lavoro semischiavile comandato dai caporali. La figura dei caporali era attiva in alcune campagne del Sud negli anni 50, poi travolta dall’onda di conflitti del decennio successivo. Negli ultimi 20 anni è risorta, ma si è diffusa anche nelle campagne del Nord.

Dobbiamo ricordare le condizioni della scuola? Renzi ha portato alle estreme conseguenze, secondo il dettato neoliberista europeo, avviato in Europa col Processo di Bologna (1999) e introdotto in Italia da Luigi Berlinguer, la trasformazione in senso aziendalistico degli istituiti formativi. Con l’alternaza scuola/lavoro ha portato la scuola in fabbrica e la fabbrica nella scuola. Ma il processo è proseguito con gli altri governi per iniziativa o col consenso/assenso del Pd e prosegue ancora oggi, grazie all’assoggettamento dei bambini e dei ragazzi a logiche strumentali di apprendistato, perché acquistino competenze, non per formarsi come persone.

Gli insegnanti vengono obbligati a compiti estenuanti di verifica dei risultati, sulla base di test e misurazioni standardizzate, quasi fossero dei capireparti che sorvegliano gli operai al cottimo. Essi non sono più liberi nelle loro scelte educative e culturali, trasformati come sono in esecutori di compiti dettati dalle circolari ministeriali. Sotto il profilo culturale, la torsione della scuola a strumento di formazione di individui atti al lavoro, al comando, alla competizione, – di cui il Pd è il più convinto sostenitore – costituisce il più sordido e devastante attacco alle basi del nostro umanesimo, della nostra civiltà.

Ma il giudizio da dare a questo partito non può riguardare solo le scelte di governo. Certo, alcune sono particolarmente gravi. L’iniziativa del ministro Marco Minniti, nel 2017, di armare la Guardia libica per dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo, allo scopo di rinchiuderli e torturarli nelle loro eleganti prigioni, rappresenta forse il più feroce atto di governo nella storia della Repubblica. Dal 2017 sono affogati in quel mare oltre circa 2mila esseri umani ogni anno.

Ma ci sono iniziative meno cruente, non per questo però meno devastanti. La scelta del governo Gentiloni di stabilire “accordi preliminari” con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per avviare i loro progetti di autonomia differenziata è un passo esemplare. Mostra quale visione del futuro del nostro Paese orienta il gruppo dirigente del Pd. Un’Italia abbandonata agli egoismi territoriali delle regioni più forti, la competizione neoliberista portata dentro le istituzioni dello Stato, per disgregare definitivamente un Paese già in frantumi.

Ma occorre mettere nel conto dei 15 anni di presenza politica anche il “non fatto direttamente”, le leggi e le scelte accettate, dal governo Monti nel 2011 a quello Draghi appena concluso. E non abbiamo spazio per elencare le scelte avallate, dalla riforma Fornero all’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. E tuttavia non possiamo dimenticare che il Pd ha sabotato in ogni modo il referendum vittorioso per la publicizzazione dell’acqua, ha taciuto di fronte al continuo sottofinanziamento della scuola e dell’Università, non si contrappone ancora oggi al sostegno pubblico alla medicina privata. Il Pd non ha preso alcuna iniziativa per sanare un territorio devastato dagli incendi d’estate e travolto dalle alluvioni in inverno, ha anzi taciuto e sostenuto, tramite i suoi presidenti di regione e sindaci, la cementificazione selvaggia del Paese, la più totalitaria d’Europa. Il Rapporto nazionale Ispra 2022 denuncia che nel 2021 abbiamo raggiunto il valore più alto negli ultimi dieci anni di consumo di suolo con la media di 19 ettari al giorno, per effetto di cementificazione, soprattutto per la costruzione di edifici. È una cifra spaventosa, una sottrazione di verde che espone il territorio alle tempeste invernali, accresce la temperatura locale, sottrae ossigeno alle città appestate dallo smog.

Potremmo continuare ricordando che il Pd non ha mai mosso un dito contro le disuguaglianze selvagge che lacerano il Paese, ha votato la riforma fiscale Draghi che premia i ceti con redditi superiori ai 40 mila euro, mentre il suo segretario, con l’elmetto guerriero in testa, ha prontamente accettato la richiesta Nato di portare al 2% del Pil le nostre spese annue in armi, poco meno di 40 miliardi di euro. Un vero sollievo per le nostre brillanti finanze.

Ma non abusiamo della pazienza del lettore. Quanto già scritto mostra ad abundantiam come questo partito ha immobilizzato un Paese che sta su un piano inclinato e quindi se sta fermo scende, quando, con le proprie scelte, non lo ha spinto indietro. Ma la difesa dello status quo oggi, mentre tutto precipita e il pianeta mostra segni di collasso, è una strada rovinosa.

Dunque, al netto degli effetti prodotti dalle scelte dei governi precedenti, è evidente che il Partito democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.

Ne va dunque dell’onore dei giornalisti italiani continuare a pronunciare il nobile lemma sinistra e alludere al Pd. Così come ne va dell’onore, della coerenza e della ragione di Sinistra italiana continuare a ricercare una alleanza elettorale con questo partito, che ha dimostrato, con ampiezza di prove, di essere un avversario di classe.

da “Left” del 10 agosto 2022

Cari Sala e Fontana, il Pnrr ci offre un’alternativa.-di Tonino Perna

Cari Sala e Fontana, il Pnrr ci offre un’alternativa.-di Tonino Perna

La recente polemica, nata dalle esternazioni del sindaco Sala e del presidente della Lombardia Attilio Fontana nei riguardi del Sud, non va presa sottogamba, come un incidente di percorso. Invece va considerata come un segnale, preoccupante, per il futuro del nostro paese. Quello che Sala e Fontana sostengono lo pensano in tanti amministratori: visto che il Sud non è in grado di utilizzare il 40% delle risorse del Pnrr, tanto vale farle gestire alle regioni del Centro-Nord piuttosto che restituire queste risorse a Bruxelles. C’è una parte di verità in queste affermazioni e tanta parte di mistificazione e strumentalizzazione. Innanzitutto, dovremmo chiarire una questione di fondo. L’Italia ha ricevuto, in percentuale della popolazione e del reddito pro-capite, una quantità di risorse comunitarie come nessun altro paese della Ue proprio perché esiste un enorme divario interno tra Nord e Sud.

Per questa ragione, tra gli obiettivi prioritari del Pnrr c’è la riduzione del divario territoriale, e nessun altro paese Ue ne ha uno così marcato che coinvolge un terzo della sua popolazione, ovvero 20 milioni di abitanti con un reddito pro-capite del 40% inferiore a quello dei 40 milioni di abitanti del Centro-Nord. E se prendiamo gli estremi ci rendiamo meglio conto di che cosa parliamo: Il reddito pro-capite della Calabria è di 12.700 euro a fronte degli oltre 36.000 euro pro-capite della Lombardia, regione che ha un tenore medio di vita superiore alla media della Francia e del Regno Unito. E non è solo una questione di reddito o di consumi, ma della quantità e qualità dei servizi, dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), della qualità dell’istruzione, dei trasporti, ecc.

Senza la presenza di un divario così grande l’Italia non avrebbe ottenuto i 191,5 miliardi di euro, di cui 68,9 a fondo perduto, pari a circa il 27% di tutto il plafond messo a disposizione da Bruxelles per tutti i 27 paesi della Ue. Allo stesso tempo, non si può negare che esista un serio problema di progettazione e gestione di queste risorse da parte degli enti locali meridionali. Non che nel resto del paese la situazione sia brillante, ma è indubbio che negli ultimi dieci anni le regioni meridionali abbiano speso mediamente solo tra il 25 e il 30 % delle risorse comunitarie disponibili. Questo non significa che si debbano trasferire questi flussi finanziari nel Centro –Nord creando una ulteriore divisione, potenzialmente irreversibile e insostenibile. Fra l’altro, il contributo comunitario va a compensare la riduzione degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno che, tra il 2008 e il 2018, sono passati da 21 miliardi a poco più di 10.

Se non ci arrendiamo allo status quo possiamo immaginare una alternativa.

Gli enti locali meridionali, a partire dall’Anci, stanno chiedendo insistentemente al governo di dotare le amministrazioni locali di tecnici ed esperti in grado di utilizzare queste risorse del Pnrr. Richiesta sacrosanta che dovrebbe compensare il danno che hanno subito le amministrazioni locali, in tutta Italia, con il blocco del turn over e il taglio di oltre 12 miliardi di contributi statali. Ma non basta. Bisognerebbe mettere insieme i Comuni del Nord, Centro e Sud per una cooperazione fattiva sul piano della transizione ecologica, della digitalizzazione, dell’Istruzione e Ricerca, della Salute.

I Comuni delle aree più ricche avrebbero il vantaggio di trovare ulteriori occasioni di lavoro per le imprese del loro territorio, mentre i Comuni delle aree più povere avrebbero il vantaggio di vedere implementati le idee progettuali a cui hanno pensato, ma difficilmente riuscirebbero a realizzare. Sarebbero auspicabili dei gemellaggi tra territori con caratteristiche e problematiche simili. Per esempio, i Comuni collinari e montani dell’Etna con quelli del Trentino, oppure i Comuni della costa jonica calabrese con quelli liguri.

Ancora meglio, come ha suggerito Pino Ippolito in un recente convegno on line, servirebbe una piattaforma a livello nazionale dove ogni Comune immette i propri bisogni, necessità, e anche disponibilità di white list di tecnici e di imprese nel proprio territorio con esperienze virtuose. Il Pnrr potrebbe diventare la grande occasione, storica, per un incontro tra Nord e Sud, nel nome della trasparenza e della cooperazione, che rilancerebbe, al di là della retorica, l’Unità reale del nostro paese.

da “il Manifesto” del 16 febbraio 2022

La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto

La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto

I giudici della Corte costituzionale hanno dato seguito, con una sentenza del 23 novembre scorso, alle parole di Piero Calamandrei che agli studenti milanesi, nel gennaio del 1955, diceva: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.

La Corte costituzionale non ha lasciato la Carta in terra, ma ha mantenuto quelle promesse e quella responsabilità muovendosi per bocciare la legge del 2 luglio del 2020, n. 10, recante “Modifiche e integrazioni al Piano Casa (l. r. 11 agosto 2010, n. 21)”, varata dalla giunta regionale della Calabria. Secondo la sentenza di pochi giorni fa la Regione Calabria avrebbe voluto, con questa legge, sostituirsi “alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente venendo meno al principio di leale collaborazione e dando vita ad un intervento regionale autonomo al posto della pianificazione concertata e condivisa (con la Soprintendenza, n.d.r.), prescindendo da questa e superandola, peraltro smentendo l’impegno assunto nei confronti dello Stato di proseguire un percorso di collaborazione”.

Così facendo si sarebbe vanificato il potere dello Stato nella tutela dell’ambiente, rispetto al quale il paesaggio assume valore primario e assoluto, in linea con l’art. 9 della Costituzione. Secondo la relatrice della sentenza, Silvana Sciarra, le previsioni della quantità di cemento versato avrebbero finito per danneggiare il territorio in tutte le sue componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale, in violazione dell’art. 9.

Secondo la Corte tale lesione era resa più grave dalla circostanza che, in questo lungo lasso di tempo (il protocollo d’intesa fra Mibact e Regione Calabria è del 23 dicembre 2009, n.d.r.), non si è ancora proceduto all’approvazione del piano paesaggistico regionale, ma solo al temporaneo Quadro territoriale regionale a valenza paesaggistica (Q.T.R.P.) che la giunta Oliverio non è stata capace di trasformare, come prescriveva il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nel definitivo “Piano paesistico”.

Tutto ha inizio con la legge regionale della giunta Scopelliti dell’11 agosto 2010 che, in virtù del “Piano Casa” voluto nel 2009 dal governo Berlusconi, permetteva il condono degli abusi edilizi e dava la possibilità di ricostruire edifici esistenti aumentandone la volumetria del 15%. Il 16 luglio 2020 il secondo governo Conte ha emanato il “Decreto Semplificazioni” che ha, di fatto, annullato questo premio volumetrico berlusconiano, ma la giunta regionale calabrese, presidente il leghista Spirlì, senza alcuna opposizione in Consiglio regionale ha cercato di eludere, prevenendolo, questo problema.

Pochi giorni prima del “Decreto”, il 2 luglio 2020, ha varato una legge regionale che non solo elargiva questo premio, ma lo aumentava di altri 5 punti in percentuale, arrivando fino ad uno spropositato regalo di volumetria pari al 20% in più per ogni edificio da ricostruire.

Quanto fosse sciagurata una simile legge lo dimostrano i numeri: in Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% (più di 3 milioni e mezzo di ettari) della Superficie agricola utilizzata, la Sau, è stata cementificata o degradata e la Calabria è in cima a questa classifica negativa con ben il 27% del suolo consumato, subito dopo la Liguria (ISTAT 2005). Un’altra statistica (Rapporto Ispra Snpa, 2015) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti e che le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat 2005).

Il consumo del nostro suolo ha galoppato, nel 2020, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo, 57 chilometri quadrati in un anno, tanto che ognuno degli italiani avrebbe oggi a “disposizione” 355 metri quadrati di superfici costruite (Rapporto Ispra Snpa, 2021). La Calabria vanta anche il record negativo di avere il 65% dei suoi paesaggi costieri stravolti per sempre dal cemento: su un totale di 798 chilometri di costa (il 19% dell’intera penisola), meno di un quarto sono rimasti intatti, mentre ben 523 chilometri sono stati deturpati da interventi edilizi, spesso illegali.

In Italia ed in Calabria si continua, nonostante il declino demografico e socioeconomico, a cementificare così tanto perché è il modo più facile per creare rendite fondiarie e immobiliari che diventano comode rendite finanziarie, anche per la ‘ndrangheta. Le scellerate politiche urbanistiche degli ultimi decenni hanno favorito l’accelerazione della cementificazione senza alcuna tutela del paesaggio come dimostrano non solo le deroghe per le Grandi Opere, ma anche i provvedimenti come lo “Sblocca Italia” e come quest’ultimo tentativo di rimessa in vigore del berlusconiano “Piano casa” da parte della giunta Spirlì.

da “il Manifesto” del 18 dicembre 2021
foto di Marco Benincasa da Pramana

Autonomia differenziata, ambiguità e silenzi di governo.-di Massimo Villone

Autonomia differenziata, ambiguità e silenzi di governo.-di Massimo Villone

L’autonomia differenziata sta ripartendo sotto copertura. Si colgono i segnali di trattative occulte tra il ministero delle autonomie e alcune regioni. Si leggono sulla stampa esternazioni della ministra Gelmini che annuncia a breve novità, per una legge-quadro erede di quella che fu già di Boccia, e per le intese con le regioni capofila (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna).

Ma tutto rimane segreto, come già ai tempi del Conte I e della ministra leghista Stefani. Mentre viene inserito tra i collegati alla legge di bilancio il disegno di legge attuativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. Meglio, si inserisce l’annuncio, visto che il testo ancora non esiste.

In questo quadro si è tenuta il 30 ottobre in una sede messa a disposizione dalla Cgil l’assemblea nazionale di Noad Comitati contro qualunque autonomia differenziata. La blindatura della città per il G20 non ha impedito un’ampia partecipazione di realtà associative attente alla tutela di eguaglianza e diritti. Decine di interventi hanno richiamato i valori costituzionali in vista del comune obiettivo dell’unità della Repubblica. È stato tra l’altro chiesto lo stralcio del ddl dall’elenco dei collegati.

L’inserimento tra i collegati di un ddl non è di per sé conclusivo. Inoltre, si potrebbe arrivare a implementare il dettato dell’art. 116, comma 3, anche senza un ddl attuativo. E si può giungere ad autonomie diversificate persino senza formale ricorso all’art. 116, comma 3. Il servizio sanitario nazionale è stato già distrutto – come la pandemia ha dimostrato – dal regionalismo oggi vigente. Lo afferma l’Anaao-Assomed in un recente documento. E allora di che parliamo?

Il punto è che il collegamento al bilancio dimostra che l’autonomia differenziata è prioritaria nell’indirizzo di governo. Anzi, sopravvive con ben quattro governi (Gentiloni, Conte I, Conte II e ora Draghi). Quattro governi, e ancor più quattro stagioni molto diverse: centrosinistra, gialloverde, giallorossa, e ora dei tecnici. È prova che forze potenti spingono per realizzarla, e che una corrente profonda passa nella politica, nelle istituzioni, nell’economia, nella società civile.

Non ogni diversità territoriale va rigettata a prescindere. Ad esempio, si è avviato il 28 ottobre nell’Aula del Senato l’iter di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (AS 865) volto ad inserire nell’art. 119 della Costituzione il concetto di “insularità”. In sostanza, recupera in parte e attualizza il testo originario della Costituzione del 1948 – poi cancellato dalla riforma del 2001 – che richiamava il Mezzogiorno e le Isole. Quale che sia la sorte futura del ddl, persegue un obiettivo in principio apprezzabile di maggiore tutela di eguaglianza e diritti.

Vanno invece respinte le differenziazioni che assumono le diseguaglianze come elemento propulsivo e di competitività per questo o quel territorio, in quanto capace di mettere più e meglio a frutto le risorse: Nord vs Sud, aree urbane e metropolitane vs aree interne. È la filosofia sulla quale si fonda la strategia della “locomotiva del Nord”. Una strategia che le classifiche territoriali europee dimostrano fallimentare. E rispetto alla quale l’autonomia differenziata è servente.

Molti interventi nell’assemblea hanno descritto un paese insopportabilmente diviso, in specie per sanità e scuola, ma non solo. Sono stati segnalati dubbi sulla idoneità del Pnrr a perseguire un disegno di coesione sociale e territoriale. Sono state richiamate le ambiguità nelle organizzazioni della sinistra. Spiccano – e sono da apprezzare – le iniziative in Lombardia ed Emilia-Romagna di petizioni popolari per il ritiro dei progetti di autonomia differenziata. Ma vediamo anche da ultimo il neo-sindaco dem di Torino che chiama i sindaci del Nord a una santa alleanza contro le burocrazie romane. Un nuovo iscritto al club Bonaccini?

Per chi vuole un paese più unito, più eguale, più giusto il percorso è lungo e impervio. Va anzitutto chiesta visibilità e trasparenza sui processo decisionali in atto. Va sostenuta ogni iniziativa volta a una alfabetizzazione di massa su temi non facili, come è anche il programma delineato nella mozione conclusiva dell’assemblea. Tutti dobbiamo scendere in campo. Personalmente, lavoro a una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per una riforma mirata del titolo V. Dopo venti anni, è venuto il tempo di correggere gli errori fatti, rinsaldare la casa comune, ritrovare eguaglianza e pienezza di diritti.

da “il Manifesto” del 2 novembre 2021

Lo scambio politico resuscita il morto che cammina.-di Massimo Villone Autonomia differenziata

Lo scambio politico resuscita il morto che cammina.-di Massimo Villone Autonomia differenziata

«Fear of the walking dead» recita il titolo di una nota serie televisiva. Bene si adatta all’autonomia differenziata, che dovrebbe a buona ragione essere defunta, e invece cammina ancora tra noi. Lo testimonia l’inserimento tra i collegati al bilancio del disegno di legge attuativo dell’art. 116.3 della Costituzione, fatto con la Nota di aggiornamento del DEF (NADEF).

Con il danno collaterale di una probabile sottrazione al referendum abrogativo, per il limite delle leggi di bilancio di cui all’art. 75 della Costituzione. Intendiamoci. L’inserimento di per sé non dà certezze quanto ai tempi o all’approvazione. Molti collegati non hanno poi visto la luce. Ma qui abbiamo due dati significativi.

Il primo, è che in una originaria stesura dell’elenco dei collegati il ddl sull’autonomia differenziata non era presente, ed è poi comparso nella versione definitiva, al primo posto. Questo ci dice di una pressione politica per l’inserimento che non ha trovato opposizioni significative.

Il secondo, che il ddl si inserisce nella dialettica interna alla maggioranza, e specificamente nel tormentone del dualismo Lega di lotta e di governo. Per cui il ddl può essere visto o come offa per la Lega di governo vicina a Draghi (i Fedriga, Zaia, Giorgetti) o come ciambella di salvataggio per Salvini mentre affonda – come indica il voto amministrativo – il suo disegno nazional-sovranista. O entrambe le cose. Ci stupirebbe se l’autonomia non entrasse nell’agenda degli annunciati appuntamenti settimanali di Salvini con il premier Draghi.

Ma era giusto ritenere l’autonomia differenziata defunta, o almeno caduta in catalessi? Ragionevolmente, sì. Le polemiche a partire dai pre-accordi tra Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna e il governo Gentiloni, e poi la pandemia, hanno messo in luce un paese assai più frammentato e diviso di quanto molti fossero consapevoli. Per il diritto alla salute, il regionalismo ha nei fatti distrutto il sistema sanitario nazionale, come bene afferma da ultimo l’Anaao-Assomed.

Per l’istruzione, la pressione della pandemia ha aggravato il ritardo già pesante che lede i diritti degli studenti di tutte le età in un terzo del paese. In molteplici settori si è evidenziata la necessità di forti politiche pubbliche nazionali e di regole volte a ridurre il divario Nord-Sud secondo le indicazioni dell’Europa. Mentre i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non sono nemmeno giunti alla pista di lancio.

Invece, vengono segnali negativi sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Le polemiche sulle risorse “territorializzabili”, l’aggiunta ai fondi europei di quelli per la coesione già destinati al Sud, il “repackaging” di vecchi progetti, i bandi che aprono alle zone forti del paese come quello sugli asili nido, la comparativa debolezza delle amministrazioni meridionali, la mancanza di una chiara strategia su punti nodali come i porti, la logistica e la manifattura, prefigurano una mera riparazione dei danni da Covid e un ripristino delle preesistenze.

L’intento di costruire un paese nuovo e diverso rischia di dissolversi. Capiamo che il momento favorisce ciò che fa ripartire subito il PIL. Ma se solo questa è la logica, l’esito è concentrare le risorse sulle aree forti del paese, dove il rendimento a breve termine degli investimenti può essere presentato come maggiore, più agevole e certo. E dove, non a caso, il lobbying su chi decide è più efficace.

È bene che i governatori del Sud protestino perché mancano 7 miliardi, ed è scontata la difesa di ufficio di Giovannini sul 40% per il Sud. La questione del quantum, però, è più complessa, e si aggiunge ad altre. In specie, l’autonomia differenziata si scontra con gli obiettivi di rilancio del paese tutto assegnati a parole al PNRR. I governatori dovrebbero pretendere di vedere le carte tuttora nascoste, farle valutare da studiosi ed esperti indipendenti, e cercare sinergie da far valere nelle sedi di concertazione. Proprio in quelle il Sud negli anni è stato colpito e affondato, per colpa dei suoi ignavi governanti e per dolo degli altri.

Lasciamo perdere la favola menzognera che l’autonomia differenziata conviene al Sud come al Nord. Mettiamo la questione almeno in standby per il tempo del PNRR, e vediamo quale paese viene dall’attuazione del Piano. Diversamente, il rischio è una collisione che spinge il Sud tra i walking dead. Per essere poi seguito dal paese tutto, che rimane nella stagnazione.

da “il Manifesto” del 9 ottobre 2021

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Ecco perché sostengo de Magistris.- di Piero Bevilacqua

Col garbo e la finezza argomentativa che lo contraddistinguono, Agazio Loiero polemizza con me su questo giornale( 26/9 ) perché io, in quanto intellettuale, e dunque dotato di ampie capacità di valutazione e di giudizio, sostengo la candidatura di Luigi de Magistris a presidente della Regione Calabria.

Cercherò perciò di esporre le ragioni per cui, proprio in virtù delle doti che lui mi attribuisce, io sostengo convintamente questa candidatura.Non senza aver espresso tuttavia, preliminarmente, il disagio di una discussione così impostata, che mi pone in una posizione di “avvocatura” nei confronti di una singola persona, quando noi, a pochi giorni dal voto, dovremmo parlare dei drammatici nodi che strangolano la regione, di programmi di riforma, di prospettive possibili per le nuove generazioni.

Ma questo è lo stato degenerato della democrazia e della vita politica in Italia. Si discute solo di uomini, di alleanze, di posizionamenti, di gruppi, cioé solo di potere, di ceto politico: i cittadini, le masse lavoratrici, le loro condizioni, sfuggono al radar di ogni considerazione.

Loiero muove critica a due apetti e momenti dell’eperienza pubblica di de Magistris: in quanto magistrato, che ha operato in Calabria per alcuni anni e in quanto sindaco di Napoli, dove non avrebbe combinato granché. Da magistrato avrebbe condotto “molte inchieste quasi tutte senza successo”; e soprattutto ha inviato avvisi di garanzia a personaggi pubblici – Prodi, Mastella, lo stello Loiero – che non avrebbero poi condotto ad alcuna condanna giudiziaria. Ma, osserva Loiero, mettere sotto accusa i potenti offre a un magistrato una visibilità mediatica enorme.

Una possibilità che de Magistris ha sfruttato a piene mani. Questo dimostrerebbe che l’attuale sindaco di Napoli sarebbe “l’archetipo di una Italia guappa e furba in cui la demagogia si coniuga con il diffuso populismo”.

Non è possibile, in un breve articolo, entrare nel merito di complicate vicende giudiziarie (ammesso di possedere le conoscenze necessarie per farlo) e io posso anche concedere ad Agazio, nel merito, qualche imprudenza, errore ed avventatezza del magistrato de Magistris, allora trentenne. Ma sotto il profilo politico io traggo conseguenze opposte. Un magistrato che punta a indagare sui potenti è un uomo coraggioso, che in un paese come l’Italia rischia di rompersi l’osso del collo, di compromettere per sempre la propria carriera.

Qui non si tratta di guapperia, caso mai di temerarietà e in una regione come la Calabria, segnata da tanta corruzione e malavita, un presidente intransigente sul piano della legalità è quanto mai necessario. A de Magistris non chiediamo di tornare a fare il magistrato, ma di governare la regione.

Su un punto devo dare ragione ad Agazio, là dove affermo che il sindaco di Napoli è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro l’autonomia differenziata. Intendevo una figura con carica istituzionale nel momento delle trattative del 2019. Loiero è stato in effetti uno dei pochissimi dirigenti italiani a schierarsi contro la Lega, in difesa del Sud, anche con pubblicazioni, già in anni precedenti. E veniamo al sindaco de Magistris.

Davvero non si comprende la taccia di populismo che gli viene inflitta. Perché non partecipa ai giochi dei gruppi e gruppetti annidati nei partiti politici? Napoli è stata l’unica grande città d’Italia che ha reso pubblica l’acqua, abbasandone anche il prezzo, rispettando il risultato del refenendum istituzionale del 2011, dunque ottemperando a un dettato della Costituzione. Gli altri partiti politici, a cominciare dal PD, hanno sistematicamente sabotato la volontà popolare.

A Napoli de Magistris ha risolto l’umiliante problema dei rifiuti, che in certe zone della città si innalzavano sino ai primi piani dei palazzi, e lo ha fatto con pochissimi mezzi finanziari e con un rafforzamento della macchina amministrativa pubblica, contro un andazzo neoliberista che faceva prosperare la criminalità. Ha tolto il servizio di raccolta e smaltimento alle società private che si spartivano la torta, e lo affidato all’azienda comunale Asìa.

Tramite la creazione di 10 isole ecologiche, una per ogni municipalità, e cinque itineranti (per raccogliere mobili ed elettrodomestici che prima finivano per la strada) l’acquisto di nuovi macchinari, la creazione di una polizia ecologica, che ha sanzionato migliaia di trasgressori, l’esportazione in Olanda, Napoli ha raggiunto il 40% della raccolta differenziata.Oggi in quasi tutti i quartieri è diffusa la raccolta porta a porta e le tariffe TARI sono fra le più basse d’Italia.
C’è stata una importante iniziativa del sindaco, che ha avuto esiti importanti per la città, ma anche effetti negativi sulla sua immagine di uomo politico. Si è trattato di una scelta politica di legalità e profondamente antineoliberista: de Magistris ha ricondotto all’interno della macchina comunale, cioé del potere pubblico, la gestione del patrimomio immobiliare di Napoli, prima affidato all’imperenditore Romeo, finito in alcune inchieste giudiziarie.

E’ stato un gesto che solo un politico di grande coraggio come de Magistris poteva compiere, gli altri sindaci non avevano osato.Perché Romeo, membro di un potentissimo gruppo finanziario, è da lunga data amico della famiglia Caltagirone, patron del Mattino di Napoli, il più diffuso e infuente quotidiano della città. Da allora quel giornale ha iniziato una vera e propria guerra diffamatoria contro De Magistris, a cui si è associata anche La Repubblica locale, che sostiene il PD, nemico giurato del sindaco, il quale fa politiche “populiste”, cioé non viene realisticamente a patti con i potenti. Gran parte dell’immagine pubblica che abbiamo del politico De Magistris viene costruita da questi giornali e dalla TV regionale, che ubbidisce agli stessi orientamenti.

E’ dunque naturale che si sappia poco di quel che egli ha realizzato a Napoli. Ad es. non si sa dei miglioramenti i apportati al sistema del traffico cittadino, con la trasformazione di quasi tutti gli incroci in rotonde, il rifacimento di centinaia di km di strade, la pedonalizzazione di gran parte del lungomare di via Caracciolo, l’incremento del trasporto pubblico con l’acquisto di 150 nuovi autobus (rinnovando una flotta risalente al più agli anni ’90), l’apertura di 5 nuove stazioni della Metro. Tutto accompagnato dal risanamento dell’azienda pubblica di trasporto, l’ANM, il cui bilancio è ritornato in attivo. Niente male per una amministrazione penalizzata da un debito accumulato dal terremoto dell’80.

Io potrei qui dilungarmi con un lungo elenco di realizzazioni che farebbero impallidire il bilancio di molti sindaci italiani. Potrei rammentare la rigenerazione del quartiere Sanità, la “riconquista” dei Quartieri Spagnoli, un tempo luoghi pericolosi, oggi pullulanti di osterie e bar, affrescati da murales giganteschi noti in tutto il mondo. Potrei ricordare gli investimenti in verde grazie all’apertura di tanti parchi, in centro come in periferia.

Potrei rammentare i tratti di spiaggia un tempo privatizzati e riconsegnati ai cittadini, i monumenti ristrutturati, i centri culturali aperti, in centro e nelle aree degradate.Ma vorrei ricordare, che il sindaco ha inaugurato una politica di ascolto dei cittadini e dei loro diritti. Napoli è stata la prima città d’Italia a dotarsi di un registro delle unioni civili, che ha permesso il riconoscimento legale a coppie dello stesso sesso e ai loro figli, anche adottivi, esempio poi seguito anche da altre città.

Almeno questo dovrebbe bastare per fare di de Magistris un candidato degno di governare la Calabria.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 settembre 2021

Nella brutta esperienza ho toccato con mano il “buco nero” della Sanità calabrese.- di Battista Sangineto

Nella brutta esperienza ho toccato con mano il “buco nero” della Sanità calabrese.- di Battista Sangineto

Quando, domenica 19 settembre 2021, ha bussato alla porta un ispettore dei Vigili Urbani della sua città per notificare allo scrivente una “Ordinanza contingibile ed urgente” con la quale si imponeva, a causa della sua positività al Sars-CoV-2, di sottoporsi alla misura di isolamento domiciliare a decorrere dal 30 agosto 2021, gli è montata una collera che solo il complice imbarazzo dell’ufficiale è stato capace di stemperargliela in uno sconsolato sorriso.

Sorriso reso ancora più amaro dall’arrivo, il giorno prima via e-mail, della notifica da parte del Comune della fine dell’isolamento a seguito della sua “negativizzazione” al tampone molecolare, eseguito alcuni giorni prima. Se si aggiunge che la prima telefonata da parte dell’Usca competente era arrivata all’ora di pranzo del 10 settembre -lo stesso giorno in cui è uscito su questo giornale il racconto della vicenda sanitaria, cioè ben 12 giorni dopo la comunicazione di positività fatta dal laboratorio privato- è evidente a chicchessia che la totale assenza di capacità e di tempestività da parte delle Istituzioni comunali e sanitarie preposte alla sorveglianza non solo impedisce qualsivoglia tipo di tracciamento, ma rende evidente che il distanziamento, l’isolamento e tutte le altre misure di prevenzione sono affidati solo al senso civico dei cittadini.

Quello calabrese è un tessuto istituzionale, sanitario e sociale devastato che non è in grado di fornire alcuna certezza del soddisfacimento dei diritti fondamentali del cittadino, primo fra tutti quello alla salute e alla vita. Si deve ricordare che era il 30 luglio del 2010 quando il presidente Giuseppe Scopelliti fu nominato, da Giulio Tremonti, commissario della Sanità della regione Calabria per il rientro dal debito che, all’epoca, ammontava a circa 150 milioni.

Dal 2010 ad oggi non si contano i commissari che – nonostante i pesanti tagli agli investimenti, i mancati turn over del personale sanitario, il blocco delle assunzioni, la chiusura voluta da Scopelliti di piccoli e medi ospedali che garantivano una qualche tenuta della medicina del territorio – hanno portato il disavanzo ad una cifra che alcuni, non abbiamo numeri certi, stimano essere di più di 1 miliardo. Tutto questo senza che i presidenti ed i consiglieri, alternativamente, di maggioranza ed opposizione regionali di tutti i partiti, sollevassero dubbi o ponessero il ripristino della Sanità al centro della propria battaglia politica.

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La gran parte della responsabilità della catastrofe ricade sui Commissari e sulla loro sterile e discutibile autoreferenzialità, ma deve ricadere anche sull’inanità ed incapacità della politica e dei politici calabresi degli ultimi decenni che non hanno saputo o, più probabilmente, non hanno voluto riprendersi la prerogativa che spettava loro di amministrare il capitolo di spesa più importante, l’80% circa, di una Regione: la Sanità.

Un’incapacità che non viene superata neanche nel pieno della prima ondata della pandemia quando, con il comunicato stampa ufficiale datato 11 marzo 2020 della Regione Calabria (lo si può rintracciare facilmente sul portale web della Regione), la compianta presidente Jole Santelli “…di concerto con il Commissario Cotticelli, approva il “Piano di Emergenza contro il Corona Virus”, dispone l’attivazione di 400 nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva … già domani (12 marzo 2020, n.d.r.) sarà pubblico l’avviso per il reclutamento di 300 medici specializzati e specializzandi. Saranno, inoltre, utilizzate le graduatorie degli idonei a scorrimento per l’assunzione, sempre a tempo determinato di 270 infermieri e 200 Oss”.

I calabresi sanno che quasi nessuna delle promesse fatte nel succitato comunicato è stata mantenuta e che la responsabilità della totale inadempienza non è solo del tanto vituperato Cotticelli, ma anche di chi, la Regione Calabria, lo ha fiancheggiato, per mesi, in quella sua incredibile sconsideratezza e di chi nell’anno successivo, il presidente f.f. Spirlì, nulla ha fatto per cambiare di segno a questa più che tragica situazione. La Sanità calabrese è un orrido e putrescente buco nero senza fondo dal quale gli abitanti cercano di evadere appena possono per andarsi a curare altrove perché qui, a distanza di quasi due anni, non solo nulla è stato fatto per aumentare le capacità di prevenzione e di cura del Sars-Cov-2, ma è anche molto peggiorata l’ordinaria assistenza sanitaria che era già indegna di un paese del cosiddetto primo mondo.

Si deve ricordare che in Calabria le terapie intensive sono passate da 152 a 174, a fronte delle 280 previste già un anno fa per poter avvicinare la regione alle 14 per 100mila abitanti della media nazionale, invece delle 9,2 attuali. Senza voler tenere conto che, al netto della pandemia, a fronte della media nazionale di 3,2 posti letto ospedalieri ogni mille abitanti, la Calabria ne ha poco più della metà: 1,7.

Una situazione così catastrofica pretenderebbe una risposta dal governo Draghi, perché, nonostante il commissariamento sia della Sanità regionale con il questore Longo, sia del piano vaccinale nazionale con l’alpino Figliuolo, i calabresi non hanno visto alcun miglioramento per opera dei Migliori, anche se spettano loro le stesse cure mediche che competono, secondo l’articolo 32 della Costituzione, ad ogni cittadino italiano. Quale miglioramento si è avuto nella Sanità calabrese – ma anche nell’Istruzione, nei Trasporti, nelle Infrastrutture e nelle Strutture- per merito del governo dei Migliori? Nessuno. I Migliori non hanno migliorato assolutamente nulla, in otto mesi.

Bisogna che si torni alla “normalizzazione” della Sanità calabrese che deve essere gestita ed amministrata dalla Politica e non da Commissari, riaffermando così la primazia della Politica che, pur con tutti i suoi difetti, soprattutto in Calabria, ha i suoi meccanismi di controllo costituzionali ed elettorali

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È solo grazie ad uno dei pochissimi fortilizi di capacità e competenza che ancora resistono in mezzo alle macerie della Sanità calabrese che chi scrive è riuscito a curarsi, in Day Hospital, per mezzo dell’unico protocollo farmacologico approvato dall’Aifa, gli anticorpi monoclonali. Un protocollo che, a chi scrive, ha fatto regredire i sintomi in poche ore e che, al netto delle successive conseguenze del Long Covid, ha sconfitto l’infezione in meno di 15 giorni. Sulla scorta di questa sua esperienza, chi scrive ha una serie di domande da fare ed anche qualche fondata opinione da esprimere.

Perché l’Aifa, che pure ha approvato l’uso sperimentale di questa cura su quasi 9.000 casi (cfr.: https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1475526/report_n.22_monitoraggio_monoclonali_03.09.2021.pdf), non ha ancora diffuso i dati delle sperimentazioni che, da marzo ‘21, si stanno facendo sulla sua efficacia degli anticorpi monoclonali? Sulla base dei dati che si dispongono -Regione Veneto: (guarigioni dell’89% su 1167 casi), Asl 3 di Napoli (100% su 50 casi), Azienda Ospedaliera di Cosenza (100% su più di un centinaio di casi)- sembra che gli anticorpi monoclonali siano davvero efficaci. E, ancora, perché il governo non fornisce il numero degli infettati, dei ricoverati e dei deceduti ‘bi-vaccinati’?

Pur dando, ormai, per scontato che ci si può infettare fra bi-vaccinati (cfr, lo studio di fine luglio dei CDC americani: www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7031e2.htm?s_cid=mm7031e2_w)), lo scrivente ritiene che i vaccini siano indispensabili per la radicale riduzione della diffusione della pandemia, delle ospedalizzazioni, delle malattie gravi e delle morti, nonostante che un altro studio dei CDC americani dimostri una perdita di efficacia di potere immunizzante di Moderna, Pfizer-BioNTech e Johnson & Johnson dopo qualche mese
(cfr.:https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/w/mm7038e1.htm?s_cid=mm7038e1_w).

Chi scrive sommessamente ipotizza che la vaccinazione non possa essere, però, l’unica strada da percorrere non solo per la sopradetta diminuzione di efficacia dei vaccini, ma soprattutto perché il rapido avvicendarsi delle varianti e la grande quantità di popolazioni, soprattutto del terzo mondo, non vaccinate renderanno impossibile il raggiungimento dell’immunità di gregge (cfr.: Krause et alii, in ‘Lancet’, 13.09.21, https://doi.org/10.1016/ S0140-6736(21)02046-8).

Lo scrivente vorrebbe, da vecchio sostenitore del sessantottesco sapere critico, suggerire che si debba perseguire, con maggior tenacia e con finanziamenti pubblici paragonabili a quelli già erogati, anche la strada della cura e non solo quella dei vaccini di Big Pharma che, in questi ultimi due anni, si è enormemente arricchita. I vaccini sono indispensabili, ma, purtroppo, non sono sufficienti per vincere questa malattia pandemica.

da “il Quotidiano del Sud” del 23 settembre 2021
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