Il paese dell’olmo e del vento di Vito Teti

Il paese dell’olmo e del vento di Vito Teti

Sono addossate alle cime dei monti e delle colline le nuvole bianche che danno luce ai piccoli borghi che, dall’alto, sembrano guardarsi e chiamarsi per sentirsi meno soli e meno vuoti. Sono appiccicate ai tetti di quei paesi-presepe dell’estrema punta della Calabria, ai piedi dell’Aspromonte, e sembrano impegnate a tenere fermi quei paesi che da decenni si stanno svuotando. Nomi magici e antichi, greci, Perìpoli, Agrippadi, Condofuri Amendolea, Bova, Pentedattilo guardano incantati lo Stretto, l’Etna, o Mongibello e l’Aspromonte. A contrastare qualsiasi visione edulcorata e neoromantica dell’abbandono ci pensano lo sfasciume contemporaneo e le macerie del presente: case incompiute incollate alle colline o gettate nel letto del fiume, che fanno da controcanto ai paesi vuoti che sembrano crollare sotto i colpi delle piogge, del vento, del sole. L’acqua della vicina distesa marina – là dove Tirreno e Ionio si abbracciano e si confondono generando incontri, arrivi, leggende, miti, mostri, sirene –, le acque delle fiumare e dei torrenti – dove abitavano le Nereidi e le Naiadi, che scendono ora furiose ora lente dalle montagne vicine – e le correnti e i venti, che si formano e giocano tra terra e cielo, creano quei cirri e quelle pecorelle ora stabili ora volanti che sembrano volere distrarti, farti perdere e smarrire, incantato, indeciso se guardare il mare, le vallate, le colline, i monti, le casupole o le campagne, che solo di rado diventano orti e ancora si offrono con le piante di ulivi secolari, di uva, di fichi e più in basso di agrumi.

 

La bellezza di questi luoghi si sposa con la loro fragilità e provvisorietà. Una storia ininterrotta di catastrofi, terremoti devastanti (91 a.C., 18 a.C., 365 d.C., 1509, 1783, 1905, 1907, 1908), di alluvioni e frane (si ricordano ancora quelle degli anni Cinquanta e Settanta), d’invasioni, rapine, abbandoni, disboscamenti, fughe ed esodi. Lo sfasciume non è, come voleva Giustino Fortunato, la maledizione di una terra naturalmente povera e infelice, ma il risultato di una storia di lunga durata che ha visto come protagonisti dominatori, signori, baroni, invasori che si sono succeduti nei secoli, come ricordava Olindo Malagodi a inizio Novecento.

“Terra di bellezze e di rovine”, di eccessi e di grandi contrasti geografici, climatici, sociali. Di pieni e di vuoti. Di suono e di silenzio. Il basso e l’alto, il sottoterra e il cielo. Le luci e le ombre. Le acque dei fiumi e dello Stretto, le cime dei monti e gli sprofondi della natura: tutti qui concentrati.

 

San Lorenzo: una terrazza sul mondo, un paese-presepe arroccato a 787 metri sul livello del mare, uno dei paesi greci della Calabria, a 54 chilometri da Reggio. Del comune, oltre al centro storico, quasi disabitato, fanno parte: Marina di San Lorenzo, Cappella Vecchia, Chorio, Contrada Croce, Gomeno, Lànzina o Lànzena, Mulino di Luciano, San Fantino, San Pantaleone, Santa Maria. L’ultimo dei tanti viaggi compiuti negli anni è dello scorso giugno; una giornata di musiche e poesie, organizzata dal Circolo “Il pettirosso”. Raggiungo, assieme ad alcuni amici – Domenico Minuto, Silvana Guarna, Nuccio Barillà, Nino Zumbo – che amano questi luoghi, la piazza dell’olmo. Deserta. L’olmo si erge solitario e antico al centro di Piazza Regina Margherita, totem comunitario, un emblema del luogo, una risorsa di memorie, di leggende, di nostalgie. Adesso sembra voler custodire il paese. Una leggenda riporta al periodo romano di Augusto, un’altra, più accreditata, alla disfida di Barletta: Lodovico Abenavoli, capitano di ventura e compagno di armi di Ettore Fieramosca, al ritorno nel suo paese pianta l’olmo della memoria. Era il 1503. Ai due lati della piazza dell’olmo, palazzi sventrati e cadenti rendono davvero miracolosa la resistenza delle due chiese del paese: la Matrice, con la statua della Madonna della Neve attribuita al Gaggini, e la Ditterale, dove è custodita l’icona della Madonna della Cappella.

 

Arrivano due anziani e si siedono su una panchina. La piazza sembra animarsi dopo una funzione religiosa. Tre bambini tirano calci a un pallone. Un giovane parroco, con una mole imponente che non passa inosservata, attraversa la piazza seguito da una donna e da due ragazzini. Tre persone sono sedute su una panchina poggiata al muro di una casa di fronte all’olmo. Mi guardano con l’aria di domandare chi sono e cosa voglio. Saluto e mi rispondono, curiosi e rassicurati, con un’espressione greca. Entro nell’unico bar della piazza e del paese: un giovane serve bevande e caffé mentre due ragazzi smanettano concentrati sui loro videogiochi. Uno stemma di qualche scudetto della Juve mi permette di aprire un discorso confidenziale. Sono ormai restati in pochi, vedono le partite al bar, ma i pochi giovani rimasti sono pronti a partire. Molte porte e finestre chiuse esibiscono piante e fiori, quasi attendessero il ritorno degli antichi abitanti o di qualcuno che le riapra.

 

Il vento che affratella e accomuna i luoghi dell’Appennino. Uno dei tanti nomi di San Lorenzo è Ventiloro o Vintirolo, il paese del vento. Per un gioco di correnti, di fughe, di dirupi si sente anche d’estate e si capisce che era una sorta di anima del luogo; quel soffio insistente che accompagnava i giochi dei bambini nascosti e accovacciati ai piedi della Torre, che faceva vibrare i fili del telefono, e creava effetti sonori, come sequenze musicali della natura, ma che, nella fantasia popolare induceva a volare e a fuggire, generando leggende e creando visioni apocalittiche.

Compio il mio rituale pellegrinaggio davanti al vecchio municipio. Da una fontana esce l’acqua fredda e pulita della montagna, quasi ad alimentare la memoria. Poggiata alla facciata dell’edificio dipinto in giallo, una targa racconta una storia del Risorgimento meridionale, ormai una sorta di leggenda per i pochi abitanti del luogo.

 

«A perpetua memoria/ che il 17 agosto 1860/ i volontari Calabresi e 200 Garibaldini/ d’ogni parte d’Italia/ qua venendo d’Aspromonte/ al comando dei colonnelli/ Musolino Benedetto e Plutino Agostino/ questo paese occuparono/ accolti festosamente dagli abitanti/ provocando lo sbarco di Garibaldi a Melito/ che nel seguente mattino 18 agosto/ qui primo comune del Napolitano/ fu proclamata la decadenza del Borbone/ e la dittatura del Generale Giuseppe Garibaldi/ preludio ed augurio dei prossimi destini d’Italia/ che nelle sale di questo palazzo/ ebbero ristoro e alloggio18 primi eroi/ tra i quali Nullo Alberto Mario e Missori/ e nelle migliori famiglie richiesti a gara/ gli altri Garibaldini/ e che nel successivo 19 agosto/ di qua mosse la forza armata/ per congiungersi al dittatore/ e convolare con lui al conquisto di Reggio/ il 21 agosto 1860/ Bruno Rossi pose nel cinquantesimo anniversario/ 17 agosto 1910».

Gli entusiasmi, il sacrificio, gli slanci eroici, i tradimenti, le illusioni e le delusioni del Risorgimento meridionale fanno parte della mia memoria e della mia vita.

Dopo la conquista della Sicilia, Garibaldi comincia a progettare il passaggio dello Stretto. Questo periodo è contrassegnato da attese, indecisioni, contrasti e anche da iniziative che, a causa dei dissidi tra i protagonisti, mettono a repentaglio il successo dell’impresa. Garibaldi attende a Punta Faro di Messina. La diplomazia europea, l’Inghilterra, la Francia e la posizione di Cavour consigliavano cautela. L’8 agosto 1860 una spedizione parte da Messina per preparare il terreno e avviare i contatti: Benedetto Musolino, Giuseppe Missori e 450 volontari su 25 scialuppe sbarcano tra Altafiumara e Cannitello.

La sorpresa non riesce. Le truppe borboniche costringono alcuni volontari a tornare indietro mentre altri a guadagnare in maniera avventurosa l’accesso all’altopiano dell’Aspromonte.

 

Garibaldini e volontari annaspano tra difficoltà, ostacoli, errori di valutazione. Paesi come Bova non sono entusiasti per l’arrivo dei Mille. Ci pensa però Bruno Rossi, sindaco di San Lorenzo, a sbloccare la situazione di stallo, invitando i volontari già sbarcati e operanti in Aspromonte a insediare il quartiere generale a San Lorenzo. La notte del 17 agosto, i garibaldini (Mario Alberto, La Camicia Rossa, ed. inglese del 1865) si gettano “sull’alto versante tirrenico”, saltando di “cresta in cresta”, si dirigono verso la “montagna rocciosa, scoscesa, per avventura inespugnabile”, e su “un colle a pan di zucchero” arrivano al “paesello di San Lorenzo”.

Nel pomeriggio del 18 agosto, all’arrivo dei garibaldini a San Lorenzo, il sindaco Rossi, dal balcone del comune, proclama la decadenza della dinastia borbonica e dà adesione  alla dittatura di Garibaldi. In quell’area si erano affermati sentimenti antiborbonici non soltanto tra la borghesia e certa aristocrazia liberale e illuminata, ma anche tra i ceti popolari. A Gerace, il 2 ottobre 1847, i giovani capi di una sommossa, Michele Bello, Rocco Verduci, Gaetano Ruffo, Domenico Salvadori, Pietro Mazzoni, tutti studenti di giurisprudenza a Napoli, vengono fucilati. I loro corpi, in segno di disprezzo, sono gettati nella “lupa”, la fossa comune. Già nel 1853, in un clima d’insoddisfazione e di fermenti innovativi, anche a San Lorenzo c’era stato un tentativo di ribellione contadina, che trovò sostegno delle popolazioni di Grana, Chorio, S. Pantaleo, subito represso con violenza.

 

La rivolta di San Lorenzo, sette anni dopo, è decisiva per fare rompere gli indugi a Garibaldi che sbarca a Melito il 19 agosto. Tutta l’area tra Melito e San Lorenzo è occupata da migliaia di camicie rosse. Bruno Rossi e i volontari garibaldini seguono Garibaldi a Reggio, combattendo per la liberazione di quella città.

Nel 1861, San Lorenzo (con le sue frazioni) ha 3896 abitanti, che nei decenni successivi aumentano progressivamente fino a raggiungere le 6137 unità nel 1931. Nel 1951, gli abitanti sono quasi 6000. Pasquale Manti, uno studioso del luogo, ricorda in Il paese dell’olmo (La città del sole, 2011)  la vitalità, la voglia di mutamento, il desiderio di conoscenza degli abitanti del paese. Nel dopoguerra, nascono un teatro e una “Schola cantorum”, grazie all’iniziativa di alcuni giovani, mentre altri cominciano a spostarsi a Reggio per studiare. Aprono numerose botteghe di generi alimentari e tante attività artigianali e commerciali. Al bar arrivano il primo televisore in bianco e nero e il biliardo americano. Presto però le rovinose alluvioni degli anni Cinquanta e Settanta e il grande esodo che ne seguirà determinano l’abbandono d’intere comunità di quell’area e di altre zone della Calabria. Anche per San Lorenzo il boom economico rappresenta un miracolo appena assaporato e pagato a duro prezzo.

 

La discesa lungo le pianure e le marine, la nascita dei paesi doppi non sono indolore, creano lacerazioni e divisioni tra chi vuole partire e chi vuole restare. Le opere di ricostruzione fanno la fortuna dei ceti dirigenti che prosperano sulle catastrofi naturali. Riprende un nuovo grande esodo. Tutti i partiti politici vedono nella montagna un luogo d’isolamento, di solitudine, di arretratezza non favorevole alla produzione, e cercano la centralità nelle fabbriche del Nord, dove una classe operaia politicizzata avrebbe dovuto finalmente realizzare una società più giusta.

 

La rivolta di Reggio e la scelta industrialista, l’elargizione di un centinaio di miliardi alla Liquichimica di Saline Ioniche, la nascita di un’economia assistita, la rapina del territorio e l’avvelenamento portato avanti dalle mafie, le incompiute del passato e quelle della modernità – poche fabbriche, opifici, mulini, case, edifici, strade e poi depuratori, immobili, opere finanziate con denaro pubblico – diventano i titoli di coda di un film che non è stato a lieto fine. Si afferma anche una criminalità che nel giro di decenni segnerà quelle zone per poi espandersi, come una grande holding, in tutte le parti del mondo. Un popolo che aveva tratto da vivere da un fazzoletto di terra, che “faceva dalle pietre pane”, coltivava rasule portate sempre vie dall’acqua, compiva ore di cammino al giorno per raggiungere i pascoli o i terreni coltivabili, affrontava viaggi a piedi e per mare prima in Sicilia e poi nelle Americhe, viene trasformato in popolo ozioso, apatico, rassegnato, alimentando e quasi inverando la favola del dolce far niente.

 

La modernizzazione, fatta di devastazioni e incompiutezze, crea malesseri al Nord e al Sud, frustrazioni speculari e opposte, rivendicazioni localistiche e particolaristiche, grazie anche al trasformarsi dei partiti in gruppi di potere, in fattori di conservazione e di gestione della cosa e della spesa pubblica. Nel 2011 l’intero territorio comunale ha soltanto 2685 abitanti, ancora diminuiti negli ultimi anni, quasi tutti spostatisi in pianura e nella Marina, mentre nel centro storico sono poco più di un centinaio.

 

Generazioni di meridionalisti e di meridionali (dalla fine dall’Ottocento a oggi, da Padula a Ciccotti, da Colajanni a Salvemini, da Nitti a Gramsci, da Alvaro a Russo) hanno scritto migliaia di pagine sul Risorgimento tradito, sull’atteggiamento coloniale del nuovo Stato, sulla repressione violenta del brigantaggio (che aveva risvolti sociali e politici), sulla distruzione delle economie locali, sulla rivoluzione silenziosa dell’emigrazione. Eppure, oggi affiorano mitologie e visioni neoborboniche per cui tutti i mali del Sud sarebbero stati occultati. E si rimuove il fatto, con un revisionismo a buon mercato, che le progressive e non magnifiche sorti del Mezzogiorno sono state compiute con la complicità e con la responsabilità dei suoi ceti politici dirigenti.

 

Un angusto localismo meridionale (risvolto delle retoriche identitarie antimeridionali e ora antimmigrati della Lega) richiama in vita la monarchia dei Savoia, che dal Sud è stata cacciata dopo la seconda guerra mondiale grazie alla lotta partigiana, alla Resistenza e a un referendum, nello stesso Sud dove i Savoia ebbero il sostegno tenace e unanime dei gruppi dominanti e dei dirigenti locali. La “retrotopia” (adopero un termine Zygmunt Bauman) neoborbonica o l’idealismo utopistico del passato, con il richiamo a un buon tempo antico mai esistito, è la risposta sbagliata, carica di rischi incalcolabili, e suona come un’autoassoluzione e anche come una legittimazione dei gruppi dirigenti locali.

 

Negli anni Sessanta del Novecento, la lingua dei paesi dell’Amendolea era ancora il greco preomerico e il greco bizantino. Una lingua e una cultura che dall’inizio dell’Ottocento hanno attirato e incantato studiosi e filologi stranieri, tedeschi, greci, italiani e del luogo. Negli ultimi decenni si assiste a un “ritorno” alla “grecità”, a una tradizione culturale e religiosa greco-bizantina (i riti in lingua greca erano ancora vivi nel Seicento), sempre rivisitata, reinventata, rinnovata, di cui attestano nomi di luoghi e di paesi, statue, icone, canti, musiche, cibi, forme di socialità e devozione popolare, processioni come quella della Madonna della Cappella (Kapelas, un’antica fiera che si svolgeva nelle vicinanze dei luoghi sacri e dei monasteri della vallata) e della Madonna Nera con il Bambino, che tiene un’arancia in mano. América Liuzzo – nata a Caracas, in Venezuela, da genitori originari di San Lorenzo, emigrati negli anni del grande esodo, tornata nel 1982 assieme al padre, alla sorella e al fratello –  ha fondato nella casa della nonna materna con altre donne il “Circolo del cinema Il Pettirosso”.

 

América parla, con convinzione e passione, di resistenza e di scelta di restare. Un sogno di speranza e di rinascita che ci viene trasmesso da donne che custodiscono libri, scritti, documenti, fotografie, oggetti, organizzano incontri di musica, cinema, poesia, letteratura e si occupano di artigianato e prodotti dell’area grecanica. Questi luoghi hanno bisogno di una cultura del fare, di memoria, di piccoli gesti. Forse più che separarla, l’Italia, bisognerebbe finalmente unirla. C’è bisogno di un nuovo Risorgimento, che realizzi i sogni disattesi e traditi di quello già avvenuto, ma che è rimasto incompiuto rischiando di essere cancellato. Questi luoghi avrebbero bisogno di cura e di apertura, di progetti comuni, condivisi, di nuove solidarietà e non di separazioni inventate. Occorrerà dare un senso e uno sbocco positivo ai sentimenti contrastanti, a quelle tendenze antitaliane che affiorano in seguito a delusioni recenti. Il nome Italia, che qui è nato, racconta di un’identità fatta non di sovrapposizioni e di sommatorie, ma di conflitti, ombre, luci, contrasti, scambi, dialoghi. Il vento comincia a farsi sentire anche in quel caldo pomeriggio d’inizio estate. Il vento sibila d’inverno e morde le pareti dei muri cadenti, lacera i tetti e le tegole crollate, fischia sui mattoni forati e senza intonaco delle case incompiute, batte le piantine davanti alle finestre chiuse. Il vento esisterà ancora quando nessuno potrà più ascoltarlo? Le nuvole faranno ancora parte di un paesaggio disabitato? I venti delle utopie minute, che non guardano indietro, contrasteranno il vento della fine possibile e porteranno un nuovo Risorgimento?

testo e foto di Vito Teti

 

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