I borghesi ed i pastori. L’identità calabrese nella letteratura contemporanea di Battista Sangineto

I borghesi ed i pastori. L’identità calabrese nella letteratura contemporanea di Battista Sangineto

Un romanzo borghese, finalmente un romanzo borghese ambientato in una città calabrese. “Con beneficio d’inventario” di Tonino Perna è il racconto di una vita simile alla mia, per esperienze, per vissuto familiare, per scelte politiche operate alla stessa età e nello stesso contesto storico, politico e geografico: una città di provincia del remoto e profondo sud, Reggio Calabria, fra la fine dei ’60 e gli inizi dei ‘70.

Il romanzo è strutturato in maniera multiforme, nel corso del suo svolgimento cambia linguaggio e passo: una lunga poesia come incipit, poi una prosa sciolta, leggera, l’inventario del titolo costruito alla George Perec, il copione di una pièce di gusto anni ’70, di nuovo la prosa, ancora l’inventario e, infine, ancora la prosa. Il libro è molto leggero grazie ad una scrittura intessuta, anche nei passi che raccontano i momenti più dolorosi, di una leggerezza che è quella propria dell’animo lieve dell’autore.

L’inventario che Tonino Perna dovrebbe fare, a seguito della morte del padre titolare di una rinomata fabbrica reggina, è quello degli oggetti di una vita, di più vite, la sua e quella dei suoi familiari. Le cose, gli oggetti da inventariare sono importantissimi, perché sono tracce, spie indiziarie, sono frammenti che, come in archeologia, ci permettono, collegandoli gli uni agli altri, di ricostruire le storie e la Storia. L’autore, attraverso gli oggetti, racconta la sua storia individuale e quella collettiva, della sua famiglia, della sua città e della sua, della nostra, generazione. E quanto siano importanti gli oggetti e le suppellettili nella letteratura lo si può capire, per esempio, dalla lettura di un passo di “Lessico familiare” di Natalia Ginzburg: “Io credo che nella Storia, nelle storie, le erosioni, i vuoti, le lacune, gli anelli mancanti mi siano parsi attraenti perché misteriosi e dolorosi perché inoltrarvisi era strano come inoltrarsi per una terra sconvolta da un nubifragio.  Una terra dove accadeva a volte di incontrare oggetti e suppellettili, quando intatti e quando sciupati, ma ancora caldi‚ della vita degli esseri umani che li toccarono“. E l’autore si inoltra in questa sconvolta, ma attraente terra del passato, toccando gli oggetti “caldi” della sua vita e della sua famiglia, facendo raccontare ai bottoni di madreperla, alle molte foto, alle lettere, ai maglioni, alle agendine, ai biglietti del cinema, alle palle da biliardo, al pastore “u meravigghiatu da rutta”, alle medicine, alle penne, alle cravatte le loro storie che, per sinestesia, si rivelano essere la sua e la nostra storia.

Una tappa fondamentale della vita dell’autore è la vicenda collettiva della rivolta di Reggio Calabria del 1970, ma è segnata anche da una vicenda personale molto dolorosa che non è mai divenuta una tragedia collettiva perché, come fondatamente sostiene Perna, siamo in Calabria e i protagonisti, le vittime, sono giovani calabresi che non sono mai stati mediaticamente attraenti. Suo cugino, e compagno, Gianni era uno dei cinque giovani anarchici che morirono, nel settembre di quell’anno, in un finto incidente stradale. Una Mini gialla, avrebbe dovuto esserci anche Perna, che finì, incomprensibilmente, sotto un camion guidato da due fascisti. I ragazzi portavano – all’avvocato anarchico di Roma, Rossi- un faldone di documenti scottanti che, con ogni probabilità, causò la loro morte. Erano furtivamente entrati, qualche settimana prima, nella sede del MSI di Reggio Calabria e vi avevano trovato un serie di documenti, di lettere e di messaggi che, inequivocabilmente, collegavano i fascisti reggini con i Colonnelli greci e che mettevano alla luce i rapporti fra fascisti italiani, Colonnelli greci e Servizi segreti italiani dell’epoca. Per avvalorare l’ipotesi che la morte dei cinque giovani anarchici fosse collegata a quello che avevano scoperto sui legami fra fascisti e Servizi, basti ricordare che, nella notte fra il 7 e l’8 dicembre di quello stesso anno, fu tentato un golpe da parte di Junio Valerio Borghese con l’aiuto di formazioni paramilitari fasciste, alti comandi delle Forze armate e funzionari dei Servizi italiani.

Nel libro c’è una bellissima definizione dei moti reggini: la prima rivolta di popolo su base identitaria del ‘900, la prima perché ne seguirono altre, la più vicina e terribile in Yugoslavia, quella complicata e meravigliosa terra che, come Tonino, attraversai anche io negli anni ‘70. Perna scrive che i reggini in quella circostanza furono capaci, per la prima volta, di autocoscienza e di autoliberazione; si riconobbero come concittadini che, fianco a fianco sulle barricate, si battevano contro il complotto politico ordito da Mancini e da Misasi che non volevano che Reggio Calabria fosse considerato il capoluogo della Regione. I fascisti e Ciccio Franco, arrivarono dopo, solo dopo egemonizzarono e incattivirono quella rivolta di popolo, di un popolo che, principalmente, si sentiva ignorato dallo Stato.

Voglio ricordare anche quanto siano belle le pagine sul tempo, sul sentirsi eterni da giovani come è accaduto anche a me e, forse, a molti della nostra generazione. “C’è stato un tempo in cui eravamo eterni. Essere eterni è una sensazione che si prova poche volte nella vita, ma non lo si dimentica più. Essere eterni significa essere fuori dalle catene del tempo, pensare che ogni azione, ogni parola abbiano un senso, per sempre. Essere eterni vuol dire questo: avere un tempo infinito davanti a sé”. E ancora “Odio la nostalgia e al contempo non riesco a non pensare che quegli anni sono davvero speciali e irripetibili. Non perché eravamo giovani, ma perché eravamo dei grandi sognatori che viaggiavano nello spazio e fuori da ogni vincolo temporale, senza paura.” Sì, anche io ho nostalgia di quell’epoca non perché ero, perché eravamo giovani, ma perché, forse, eravamo davvero speciali.   Appartengo anche io a quella prima generazione, di cui scrive l’autore, che ha avuto libero accesso, da subito, ai motorini, alle automobili, alle uscite spensierate con gli amici e le prime fidanzatine, ai viaggi in Italia ed all’estero, ai lunghi mesi estivi trascorsi, privi di pensieri, nelle case al mare. Voglio citare, di solito non lo faccio, una canzone sia perché è di un Nobel per la letteratura, sia perché l’autore è il cantore della nostra generazione: Bob Dylan. Lo faccio, soprattutto, perché penso che i suoi versi esprimano abbastanza fedelmente come credo che noi ci si senta o ci si voglia ancora sentire: “Forever Young”. “Possa tu crescere per essere giusto/possa tu crescere per essere sincero,/possa tu sapere sempre la verità/e vedere le luci che ti circondano./Possa tu essere sempre coraggioso,/rimanere in piedi ed essere forte,/Possa tu rimanere per sempre giovane,/per sempre giovane, per sempre giovane,/Possa tu rimanere per sempre giovane”.

“Con beneficio d’inventario” di Tonino Perna, pubblicato da Castelvecchi, racconta anche delle prime auto, dei primi televisori, delle lavatrici, delle prime gite fuori porta, delle case al mare e di quelle in montagna, delle cinepresa super8 con relativi e macchinosi proiettori, dei giradischi con le canzoni di Mina, Edoardo Vianello, Rita Pavone e, poi, Patty Pravo. Come quella di Tonino, anche la mia famiglia andava a Fiuggi, dove passavo le ore a giocare su quegli stessi piccoli tavoli di panno verde sui quali bisognava centrare con le mani le buche (9 mi pare) con palle da biliardo. Ai miei tempi, c’era anche il minigolf al quale era una gioia costringere, in verità si divertiva moltissimo, il mio seriosissimo e trinariciuto padre Isolo, a giocare. Anche io ho giocato, insieme ai miei amici e compagni di scuola, per pomeriggi interi a flipper e a biliardo in locali simili gestiti, persino, da personaggi molto simili a quello descritto da Perna come, per esempio, l’indimenticabile, per i cosentini della mia generazione, Pasquale Grandinetti. Siamo andati, io e Tonino Perna, a vedere gli stessi film, abbiamo avuto, più o meno, gli stessi motorini e le stesse utilitarie, gli stessi jeans e le stesse scarpe scamosciate. Abbiamo avuto, insomma, la vita, le aspettative ed i sogni, anche rivoluzionari, dei giovani borghesi di tutta Italia e di tutto il mondo occidentale negli anni ’60 e ’70. Non sapevo nulla di montagne inospitali e magnifiche, di riti religiosi arcaici, di caciocavalli appesi alle travi di casa, di mamme vestite solo di nero, di scannamenti di maiali e di uomini, di processioni di Madonne ingioiellate che si inchinano, della ferocia immotivata di uomini fuorilegge, di soppressate con o senza lacrima, di bracieri ardenti attorno ai quali si siedono vecchi che raccontano struggenti storie di miseria.

L’autorappresentazione letteraria dei calabresi è costituita, nella quasi totalità dei casi, da una cosiddetta “narrazione” rurale, arcaica, primitiva, violenta, pre-urbana di sé stessi e del proprio orizzonte culturale e territoriale. Una autorappresentazione che alimenta, a piacimento altrui, lo stereotipo negativo del calabrese rude e selvaggio nell’immaginario mediatico e collettivo nazionale. Credo, invece, che una “narrazione” (provo avversione per l’uso corrivo di questo sostantivo) che comprenda anche una temperie storica e culturale così, per fortuna, diffusa nella nostra regione e nelle nostre città, possa restituire, a noi stessi ed ai “forestieri”, un’immagine più veritiera e meno deformata di quella che ci turba vedere riflessa sulle pagine dei giornali nazionali o dei reportage televisivi sulla Calabria.

Nel libro di Tonino Perna ho riconosciuto, finalmente, me stesso e la mia generazione, quella nata attorno negli ’50, costituita, in larga misura, da giovani cittadini, liberi, sognatori, avidi di novità e di modernità che assomigliavano, come ho scoperto più tardi, a tutti i ragazzi dell’Occidente che si ribellavano al potere, alle ingiustizie, alla cultura e alle tradizioni dei loro padri e dei loro nonni.

 

Il Quotidiano del Sud

  7 maggio 2019

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