Ci lamentiamo del caldo, ma qualcosa sta cambiando e non di poco conto. Inutile nascondere la testa sotto il cuscino mentre la vita sul Pianeta diventa sempre più complicata e messa a dura prova.
Il 28 maggio scorso a Turbat nella regione del Belucistan (Pakistan) si è toccato un nuovo record nelle alte temperature arrivando a 53,7 °C. Nell’ultimo decennio anche in altri paesi asiatici si sono superati i 50°C, in particolare in India, Iran e Iraq.
Ma questo dato non ci ha riguardato, non ci ha interrogato su dove stiamo andando, come è successo con i conflitti armati che infettano tanti paesi dall’Africa all’Asia all’America Latina, finché non è arrivata la guerra alle porte di casa non ce ne siamo preoccupati.
Mentre d’estate i picchi di temperatura si vanno alzando di anno in anno, d’inverno avviene il contrario con temperature sotto lo zero che hanno sfondato il tetto dei 60°C (un fenomeno di cui sono occupato in passato, analizzando alcune serie storiche, nel saggio “Eventi Estremi”, Milano, 2011).
Diciamo meglio: mentre la temperatura media del nostro pianeta si alza dal tempo della rivoluzione industriale, i picchi di temperatura, verso l’alto e verso il basso, continuano a sfondare i limiti estremi, rendendo la vita dei viventi, dalle piante agli animali, estremamente difficile.
La vita sul nostro pianeta è stata resa possibile dentro questo intervallo di temperature. In tutti gli altri pianeti le temperature minime e massime vanno ben al di là dei 100°C, e soprattutto le escursioni termiche, come avviene anche sulla Luna, sono insostenibili per come conosciamo la vita sulla Terra.
L’affascinante Venere che va in scena nelle notti d’estate ha una temperatura di 475°C di giorno e di –185°C di notte, che è pari alla temperatura media del gelido Saturno, mentre Mercurio è più bollente dell’inferno dantesco con i suoi 430°C che di notte scendono a -185°C.
Dovremmo avere la consapevolezza di vivere in un posto speciale, ma allo stesso tempo fragile, con un equilibrio che è il risultato di una evoluzione avvenuta in milioni di anni e che noi nell’arco di una generazione stiamo mettendo a repentaglio. Viviamo una profonda contraddizione esistenziale: abbiamo una informazione globale, sappiamo quello che avviene in tante parti della Terra, ma ci preoccupiamo solo di ciò che ci riguarda da vicino, nello spazio e nel tempo.
Noi umani che abitiamo il Pianeta non abbiamo sviluppato una coscienza all’altezza del progresso tecnologico, anzi ci siamo rinchiusi nel nostro “particulare” nell’accezione di Guicciardini, cioè nella sola sfera in cui pensiamo di agire e contare. Solo quando veniamo colpiti direttamente prendiamo coscienza di un determinato fenomeno.
Così sta avvenendo con gli effetti del mutamento climatico che finora ci hanno solo sfiorato rispetto a quegli eventi estremi che si registrano in altri paesi del Sud del mondo.
E’ bene sapere, invece, che dovremmo prepararci ad affrontare anche questi picchi di temperatura, che come è avvenuto in Francia nel 2003, possono provocare migliaia di vittime tra tutti gli esseri viventi. A partire dagli enti locali, dovrebbe essere previsto un piano di emergenza per le ondate di calore così da mettere in sicurezza le fasce più fragili della popolazione.
Le misure necessarie non sono difficili da individuare.
Bisogna evitare gli sprechi della risorsa idrica che sta diventando, e ce ne accorgiamo in questi giorni, sempre più preziosa, così come andrebbe vietato il consumo irresponsabile dell’aria condizionata con le porte aperte degli esercizi commerciali, mentre persone anziane e povere non possono più permettersi di accendere un ventilatore per gli aumenti della bolletta elettrica.
Allo stesso tempo dovremmo adesso cominciare ad occuparci di come ci potremo riscaldare in inverno se dovesse prevalere lo scenario peggiore (zero gas dalla Russia), con un piano che punti al risparmio energetico e ad un uso ben più diffuso delle energie rinnovabili. Dovremmo operare come i grandi marchi della moda che presentano oggi le novità per la prossima primavera/estate.
Infine, dovremmo unire i nostri sforzi, almeno a livello europeo, per affrontare questa crisi climatica e invece facciamo di tutto per alimentare la guerra in Ucraina, ritorniamo ad usare il carbone, non vogliamo operare nessuna riduzione dei nostri consumi inquinanti, e tutto questo lo chiamiamo “ritorno alla normalità”.
Alla Camera il 15 giugno abbiamo visto la ministra Carfagna battere un colpetto. Di più proprio non possiamo concedere per la sua risposta in question time ai deputati Conte e Fassina, che ponevano interrogativi sui rischi derivanti per l’unità del paese dall’autonomia differenziata. L’approccio di Carfagna è in apparenza assai bellicoso. Pone tre «questioni imprescindibili»: livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e fondo perequativo tra regioni; abbandono del principio della spesa storica; pieno coinvolgimento del parlamento nel processo attuativo. Peccato che il primo sia un miraggio. Mentre il secondo e il terzo sono esplicitamente contraddetti dal testo della cosiddetta legge-quadro uscito dagli oscuri cassetti del ministero delle autonomie.
È una bozza aperta al confronto, come dice Carfagna, o è un disegno di legge ormai alla soglia del consiglio dei ministri, come dice Gelmini? Certo, se arrivasse in consiglio così com’è, a questo punto Carfagna dovrebbe solo votare contro. E allora qual è l’indirizzo di governo sull’autonomia differenziata?
Qui si rischia un compromesso al ribasso, di scambio tra Lep e perequazione da un lato, autonomia differenziata dall’altro. L’ipotesi è già venuta in campo, forse anche nelle «questioni imprescindibili» poste da Carfagna. Ma Lep e perequazione sono un miraggio, o magari uno specchietto per le allodole. Richiedono, per essere davvero efficaci nell’attaccare diseguaglianze nei diritti e divari territoriali, un ciclo economico duraturo di crescita sostenuta che assicuri le compatibilità di bilancio necessarie per risorse aggiuntive ai meno fortunati sufficienti a ridurre, nel tempo e progressivamente, il distacco. Diversamente, rimarranno marginali.
Questo perché in politica Robin Hood non esiste. Togliere gli asili nido a Reggio Emilia per darli a Reggio Calabria è politicamente impraticabile. Una stagione di vacche magre, di stagnazione e di crescita stentata, non può essere una stagione d’oro per Lep e perequazione. È quel che è accaduto in passato, e che probabilmente accadrà con la guerra in Ucraina. Già vediamo che il tasso di crescita crolla, i conti pubblici peggiorano, lo spread rialza minacciosamente la testa.
E dunque le perequazione sono in sé cosa buona e giusta e vanno perseguiti, ma certo non bastano. La vera «questione imprescindibile» per un tempo nuovo di coesione e di eguaglianza è una crescita sostenuta e duratura. Per questo la scommessa è sul rilancio del Sud come seconda locomotiva del paese, come da più parti si chiede. Al tempo stesso, bisogna evitare scelte che rendano difficili o impossibili le forti politiche pubbliche – nazionali – necessarie a tal fine. In questa prospettiva l’autonomia differenziata reca danno a tutti, e non solo al Sud.
È la continuazione delle politiche che hanno condotto le nostre eccellenze del Nord – Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna, Toscana – a una caduta rovinosa nelle classifiche territoriali europee, come dimostra la Svimez (Rapporto 2021). Ma questo non intendono i fan dell’autonomia differenziata, come il professor Andrea Giovanardi, membro della delegazione trattante del Veneto, che sul Foglio del 16 giugno attacca frontalmente chi osa criticare la legge-quadro a firma Gelmini. Il suo ragionare conferma che abbiamo fatto bene a presentare in senato il disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare per una revisione mirata degli articoli 116 (autonomia differenziata) e 117 (riparto di potestà legislative tra stato e regioni), di cui ha dato notizia ieri questo giornale.
Per Giovanardi l’emarginazione del parlamento è inevitabile perché la legge di approvazione dell’autonomia differenziata è adottata sulla base di intesa tra Stato e regione. Se è così, bisogna cancellare non l’autonomia differenziata, ma il principio dell’intesa come fondamento necessario. Come noi proponiamo. Se la legge quadro non può ridurre il numero delle aree di competenza devolvibili, allora bisogna togliere dal catalogo delle potestà concorrenti – tutte devolvibili – quelle strumentali a politiche pubbliche nazionali strategiche, in più introducendo un principio di supremazia della legge statale in vista dell’unità giuridica ed economica del paese e dell’interesse nazionale. Come noi proponiamo. Invero, altre interpretazioni sarebbero possibili, ma sono proprio i Giovanardi – che a palazzo Chigi è ascoltato – a rendere una riforma opportuna, se non necessaria.
Il film del Giovanardi-pensiero l’abbiamo già visto. Errare è umano, perseverare è diabolico. Il presidente Zaia ci ha anche informato che sul tema dell’autonomia differenziata c’è un patto tra gentiluomini, da rispettare. Non sappiamo di chi si tratta, ma dubitiamo che – politicamente – lo siano davvero.
da “il Manifesto” del 16 giugno 2022
Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna
Esattamente cinquanta anni fa si accendeva la spirale inflazionistica in Occidente dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi. In pochi anni divenne la bestia nera dei governi e degli economisti che inutilmente cercarono di controllarla per tutti gli anni ’70 del secolo scorso.
All’origine del fenomeno inflazionistico c’erano più fattori: lo shock del prezzo del petrolio che nel 1973 aumentò in pochi mesi di quattro volte, l’aumento del prezzo di alcune materie prime essenziali per l’industria, e soprattutto la conflittualità della classe operaia. Quest’ultimo divenne nel tempo la causa più rilevante della crescita generalizzata dei prezzi. In breve, alla forza della classe operaia, ai miglioramenti contrattuali e salariali, il capitale rispose nel solo modo che conosceva per ricostruire i margini di profitto, alzando i prezzi delle merci.
In Italia, come è noto, la rincorsa prezzi-salari si interruppe nel 1985 con l’eliminazione della scala mobile che faceva recuperare, seppure in ritardo, il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi.
Ma, proprio la fine della scala mobile produsse l’effetto di ridurre progressivamente la domanda di beni di consumo nel mercato interno per cui le imprese italiane spinsero ancora di più l’acceleratore verso i mercato esteri, con l’appoggio dei vari governi che in quegli anni svalutarono più volte la lira.
A sua volta le svalutazioni che favorivano le imprese esportatrici importavano inflazione, in quanto i beni e servizi esteri costavano di più, e riducevano ulteriormente il salario reale dei lavoratori dipendenti e di una parte del ceto medio.
Da quel momento iniziò una redistribuzione della ricchezza nazionale a favore di profitto e rendita, a danno dei lavoratori che progressivamente hanno perso in quarant’anni 15 punti percentuali a favore del capitale, in particolare della rendita finanziaria.
Con la caduta del muro di Berlino nell’89 e l’apertura della Cina al mercato mondiale abbiamo assistito per trent’anni ad una crescita dell’economia mondiale in un clima di stabilità dei prezzi a fronte di una valanga di liquidità monetaria immessa dalle banche centrali, a partire dagli Usa il cui debito pubblico è andato alle stelle. Malgrado questa valanga di dollari immessa dalla Fed, malgrado una bilancia commerciale perennemente e pesantemente passiva, negli States i prezzi restavano stabili.
Questo fenomeno contraddiceva la teoria quantitativa della moneta, per gli addetti ai lavori la famosa equazione di Fisher, ma era facilmente spiegabile con globalizzazione del mercato capitalistico che aveva messo in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo, facendo sì che molti beni di largo consumo venissero importati in Occidente con una curva dei prezzi in discesa (basti pensare agli elettrodomestici, abbigliamento, ecc). Così per decenni ne hanno beneficiato i consumatori occidentali, ma sono stati progressivamente colpiti i lavoratori dipendenti nel settore privato dell’economia (disoccupazione e blocco/ riduzione salari reali).
Le imprese europee e nordamericane hanno spostato il conflitto di classe, che le aveva viste in grande difficoltà negli anni ’70, dal mercato interno a quello globale, ponendo le basi per un conflitto tra lavoratori sia a livello locale (scontro con gli immigrati) che internazionale ( il cosiddetto “sovranismo” ha questa base materiale).
Con le sanzioni alla Cina, i danni della pandemia, la crisi del mercato globale, gli Usa sperimentano oggi un tasso di inflazione vicino al 10 per cento che non vedevano dal 1981! E la guerra in Ucraina c’entra poco o nulla. Anzi, da questa guerra per adesso l’economia nordamericana ne beneficia, con l’export di gas, cereali ed armi, al contrario dell ’Unione europea che ne subisce proprio in questi settori un forte contraccolpo. L’inflazione che colpisce gli Usa ha una base strutturale che è correlata alla de-globalizzazione, ben messa in evidenza da Bertorello e Corradi su questo giornale, che non verrà facilmente superata nel breve periodo.
I consumatori e le imprese statunitensi non beneficiano più di una parte di beni importati dalla Cina a prezzi stracciati rispetto allo standard a stelle e strisce. E mentre per la Cina esiste un potenziale allargamento del mercato interno per sostituire i flussi di export, non altrettanto può avvenire negli Usa.
Diversamente nella Ue l’inflazione è dovuta soprattutto all’aumento delle materie prime (non solo petrolio, gas e cereali) ed è dunque una inflazione da costi mentre negli anni ’70 era soprattutto un’inflazione da domanda. Per questo la decisione di aumentare il tasso d’interesse da parte della Bce è un brutto segnale, male accolto dagli operatori di borsa e dalle imprese dell’economia reale. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione delle cui avvisaglie su questo giornale avevamo scritto un anno e mezzo fa.
Morale della storia: il governo dell’inflazione, su come ridurla e a chi farla pagare, è una scelta politica prima che economica. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, tenere insieme il diavolo e l’acqua santa (ammesso che sia rappresentata da qualcuno!), e quindi non ci si può nascondere dietro le quinte di un governo “tecnico”, e pensare ad un futuro governo delle larghe intese.
La legge elettorale vigente, costituita dalla legge165/2017 (Rosatellum come integrata e modificata dalla legge n. 51/2019 e completata dal decreto legislativo 23 dicembre 2020, n. 177 sui nuovi collegi elettorali), presenta profili di contrasto con norme costituzionali fondamentali, quali gli articoli 3, 6. 48, 51, 56 e 58, che garantiscono un voto eguale, libero e personale oltre che diretto e il diritto di candidarsi in condizione di eguaglianza alla luce dei principi affermati nelle sentenze della Corte Cost. n. 1/2014 e n. 35/2017.
La situazione si è aggravata con l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 1/2020 sulla riduzione del numero dei parlamentari con la Camera che passa da630 a 400 membri e il Senato da 315 a 200 membri elettivi, e con la conseguente estensione dei collegi uninominali maggioritari (3/8) e quindi dei loro voti, che alterano i risultati della quota proporzionale (5/8), senza la possibilità del cosiddetto “scorporo”.
Tecnicismi che non interessano a nessuno perché con quello che ci succede intorno, dalla pandemia alla guerra, c’è altro cui pensare. Ma questo non è un argomento.
La legge elettorale è la legge che regola il rapporto tra rappresentati e rappresentanti, non proprio una minuzia nella vita democratica. Dalla legge elettorale discende la selezione della classe dirigente e la sua qualità, dal Parlamento fino all’ultimo Comune e all’ultima ASL. Solo che siccome è difficile da capire giornaloni e TV hanno deciso di non occuparsene, cosi i cittadini non se ne interessano e restano sudditi.
Il fatto è che – come acutamente osservato da Silvia Truzzi sul Fatto Quotidiano, -più una legge elettorale è difficile da capire, meno bisogna fidarsi.
Gli elettori si sono stancati di fare ricorsi per affermare il loro diritto di votare in conformità alla Costituzione e d’aver avuto ragione, ben due volte, dalla Corte Costituzionale e constatare che i parlamentari non ne tengono conto, anzi se ne infischiano. La ragione è semplice:con le liste bloccate devono solo ubbidire agli ordini dei capi partito, che li nominano collocandoli nelle teste di lista e non rendere conto agli elettori, che non possono esprimere preferenze e neppure contrarietà a singole candidature.
In vista delle elezioni municipali del 12 giugno è ripreso il dibattito sulla legge elettorale per il rinnovo del Parlamento. Le prossime elezioni alla scadenza naturale della primavera 2023 o anticipate in caso di crisi del Governo Draghi saranno le prime con il Parlamento tagliato in media del 36,50%, come conseguenza della legge costituzionale n.1/2020.
Con il voto congiunto obbligatorio, l’assenza di scorporo dei voti ottenuti nel maggioritario, le soglie nazionali anche per il Senato, (benché l’art. 57 Cost. preveda la sua elezione su base regionale,)c’è il rischio che nel prossimo parlamento siano rappresentate non più di 4/5 liste e al Senato ,nelle regioni più piccole ,non più di 3. Sono inoltre favorite le coalizioni, che non hanno più, dopo la riscrittura dell’art. 14 bis del dpr n. 361/1957, un unico capo politico e nemmeno un programma comune.
Le liste coalizzate per essere conteggiate a favore delle coalizioni nella parte proporzionale basta che superino la percentuale dell’1%, mentre le liste non coalizzate devono raggiungere la soglia del 3%. La violazione degli articoli 3, 48 e 51 Cost., nonché degli artt. 56 e 58 è evidente. Non c’è voto diretto, eguale. libero e personale.
E’ una legge elettorale “di palazzo” fatta per perpetuare il potere e tenere fuori i cittadini elettori che non contano assolutamente niente . Poche persone nominano l’intero parlamento . Dall’entrata in vigore del Porcellum nel 2005 e del Rosatellum nel 2017 sono 18 anni che non possiamo scegliere i parlamentari causa delle liste totalmente bloccate delle elezioni 2006, 2008 e 2013 e nel 2018 nemmeno scegliere liberamente il candidato uninominale maggioritario, a causa della sanzione della nullità del voto disgiunto.
Tuttavia, questa legge non sarà cambiata, se non viene mandata in Corte Costituzionale quest’anno, affinché si possa pronunciare prima delle elezioni 2023. Ed e’ questo il senso di questo articolo . Attualmente pendono 3 ricorsi presso le Corti d’ Appello di Bologna, Messina e Roma e 4 presso i Tribunali di Catanzaro e Reggio Calabria e di recente Torino e Trieste.
Quelli presso i Tribunali calabresi evidenziano più di altri le disparità di trattamento, quindi la incostituzionalità della legge elettorale perche sottopongono ai Giudici l’incredibile disparità che le normative applicabili comportano ad esempio in Calabria e nella Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol.
Nel Senato il Trentino-Alto Adige/sudtirol, che aveva 7 seggi come Abruzzo e Friuli-V.G., con il trucco di dare il minimo di 3 alle Province Autonome ne avrà 6, quindi il taglio è stato del 14,28% e non del 36,50% come nelle altre regioni.
Con 6 senatori il Trentino A.A. ne ha più dei suoi ex-compagni di 7 ABRUZZO e FRIULI, che ne hanno 4 ma anche di Liguria, Marche e Sardegna che ne avevano 8 ed ora 5. Tutte queste 5 Regioni sono più popolate del Trentino-Alto ADIGE, che al censimento 2011 aveva 1.024.000 abitanti.
MA E’ IL CONFRONTO CON LA CALABRIA CHE E’ SCANDALOSO .
Con 1.959.000 abitanti, quasi il doppio (i trentini-sudtirolesi sono il 52,27% dei calabresi) aveva 10 senatori ed ora ne ha 6, con un taglio del 40%. Prima per eleggere un senatore bastavano 195.900 residenti calabresi, ora ne servono 326.500, mentre nella regione trentina-sudtirolese ne bastano 170.666.
Ma i privilegi non finiscono qui: per la legge 51/2019 sia alla Camera che al Senato ci sono 3/8 di seggi maggioritari e 5/8 proporzionali.
Ebbene alla Camera, in Trentino A.A. i seggi maggioritari sono 4 e i proporzionali 3. Al Senato sono 6 maggioritari., mentre in Calabria ,con il doppio degli abitanti ,sono 2 maggioritari e 4 proporzionali.
L’altra discriminazione è per le minoranze linguistiche, che hanno norme speciali di favore solo nelle Regioni Autonome a statuto speciale, eppure la Calabria ha tre minoranze linguistiche riconosciute dalla legge n. 482/1999, di cui la grecanica antichissima, millenaria e l’albanese di insediamento plurisecolare.
Gli albanofoni, peraltro colpiti dall’emigrazione, hanno una consistenza numerica superiore alle minoranze linguistiche slovena, ladina e francese, tutelate in regioni a statuto. Nei ricorsi si censura la discriminazione tra minoranze linguistiche e tra le minoranze linguistiche tutelate e le minoranze politiche con la stessa consistenza elettorale.
Queste discriminazioni degli elettori ed elettrici calabresi meritano un vaglio di costituzionalità, che spetta ai Tribunali Civili di Catanzaro e Reggio Calabria promuovere dovendo giudicare sui ricorsi da noi proposti .
da “il Quotidiano del Sud” del 13 giugno 2022
Beni alimentari e energia, due buone carte per la Ue.-di Tonino Perna
Di pochi giorni fa la notizia che il governo indiano bloccava l’export di grano, poi ridimensionata accettando di far passare l’export già passato, al 14 maggio, alle procedure doganali. Malgrado l’India non sia tra i primi dieci paesi esportatori di grano, è il secondo produttore al mondo di frumento dopo la Cina, che soddisfa essenzialmente il mercato interno.
Con questa mossa il governo del presidente Modi avrebbe voluto assicurarsi che il grano prodotto nel subcontinente indiano restasse all’interno del paese, evitando che l’alto prezzo del cereale favorisse l’export a danno della popolazione più povera. Misura eminentemente politica perché le “guerre per il pane” stanno per ritornare all’ordine del giorno.
I primi paesi importatori al mondo, sono anche paesi, sovrappopolati, con una parte rilevante dei cittadini sotto la soglia della povertà o bordenline. E sono nell’ordine: Egitto (che importa mediamente 12 milioni di tn annue), Indonesia, Algeria, Turchia, Brasile. I primi quattro paesi sono nel Mediterraneo, a cui va aggiunta anche la Tunisia non in termini quantitativi ma relativi, dove anche in tempi recenti sono scoppiate le rivolte per il pane e complessivamente importano ogni anno qualcosa come 37-38 milioni di tn. di grano tenero.
Per inciso, il grano duro, che viene usato per la pasta, rappresenta solo il 5% del mercato mondiale del frumento e viene prodotto in pochi paesi, soprattutto nel Mediterraneo e in Canada, con l’Italia come primo produttore al mondo, ed anche primo importatore data la sua specializzazione nel settore.
Con il prezzo del grano tenero che sta salendo vertiginosamente, a causa della guerra in Ucraina, l’export di questo cereale sta diventando un’arma politica che serve per stringere alleanze, per far schierare da una parte, la Nato, o dall’altra, questi paesi importatori netti che ne hanno un bisogno vitale. Stesso discorso, in parte, vale per il mais, usato prevalentemente per gli allevamenti zootecnici. In questo caso l’Ucraina ha un peso rilevante, rappresentando il 15 % dell’export mondiale, e la Ue è uno dei principali importatori di mais, soprattutto per la domanda proveniente dagli allevamenti industriali, disallineati rispetto alle risorse agricole del territorio in cui operano.
Stiamo tornando, senza accorgercene, ai tempi delle città-Stato in Grecia, in cui Solone proibì l’export dei beni alimentari, ad eccezione dell’olio d’oliva, ritenendoli come una riserva strategica in caso di guerra. E la Ue che fa in questo nuovo scenario?
E’ il principale esportatore di grano al mondo, con circa 33 milioni di tn, ma è anche un importatore per circa 7 milioni di tn. Dato che è un esportatore netto potrebbe battersi per porre un tetto al prezzo del grano e sostenere, anche con un contributo proprio, il prezzo all’esportazione per i paesi del Mediterraneo più minacciati da questa nuova situazione. La pace si conquista prima che scoppi un conflitto o che un paese precipiti nel baratro di una guerra civile.
È arrivato il tempo in cui la Ue potrebbe pensare seriamente ad un Mercato Comune Mediterraneo con una strategia di integrazione delle economie della sponda Nord e Sud-est, partendo dall’energia e dai beni alimentari, e varando una intelligente politica di accoglienza e gestione dei flussi migratori. Dobbiamo prendere atto che questa guerra, ancor più della pandemia, ha dato un colpo pesante alla globalizzazione capitalistica, alla creazione di un mercato unico mondiale.
La lotta fra gli imperi, richiamata da chi scrive prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, sta ridisegnando le mappe dei diversi mercati “interni” in cui il “prezzo politico” diventa prevalente rispetto a quello economico. Ma, questo processo di de-globalizzazione è anche una occasione storica per ripensare alle politiche economiche in campo energetico e agro-alimentare. In particolare, è arrivato il momento di rivedere radicalmente la P.A.C. (Politica Agricola Comunitaria) che ha privilegiato grandi aziende ad alto consumo energetico e impatto ambientale a favore di una agricoltura contadina, l’unica in grado di proteggere la biodiversità e l’autosufficienza di un territorio.
da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
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Evitiamo il consumo di suolo, mettiamo i pannelli sui tetti.-di Alberto Magnaghi
Su una questione relativa alle conseguenze della guerra c’è unanimità: la necessità per l’Italia, dato il primato della dipendenza dalla Russia, di accelerare le strategie per aumentarne l’autosufficienza alimentare e energetica. Ma qui finisce l’unanimità, in particolare sulla questione energetica, e si aprono almeno tre strade. La prima una capriola “tattica”: lo spostamento su altri paesi della dipendenza, il ritorno al carbone e all’estrazione di metano, l’opzione nucleare, e così via.
La seconda un’accelerazione della produzione già in atto di energie rinnovabili con grandi impianti impattanti sul territorio e di scarsa accettabilità sociale. La terza la promozione di comunità energetiche di produzione e consumo, che valorizzano mix energetici di risorse locali. Ammettiamo che questa terza strada, quella strategica, se pur già avviata e in forte sviluppo in molte regioni, abbia effetti quantitativi di medio e lungo periodo, soprattutto nei piccoli comuni e nelle aree interne. Come accelerare nel breve periodo, attraverso il Pnrr, questa terza strada? Indico una possibile proposta.
Il nostro territorio si caratterizza per una straordinaria permanenza patrimoniale (culturale, ambientale, paesaggistica-urbana e rurale) che ne costituisce una potenziale base di risorse (i patrimoni materiali e immateriali dei contesti rurali e urbani marginali) per affrontare le crisi socioambientali globali; questa permanenza (scarsamente valorizzata, se non in chiave turistica) è stata brutalmente affiancata, con un gigantesco consumo di suolo, da urbanizzazioni diffuse di bassa qualità edilizia, ambientale, urbanistica, paesaggistica: periferie omologanti che attanagliano città storiche piccole, medie e grandi; zone industriali e commerciali; piattaforme di capannoni prefabbricati (non oggetto di insegnamento nelle facoltà di architettura!) disposte con sommarie e scomposte lottizzazioni.
Ora i decisori, anziché direzionare gli impianti energetici verso questo territorio degradato comprendono, nella selezione delle aree, l’Italia dell’alta qualità paesaggistica e ambientale. E i nemici dichiarati della necessaria accelerazione degli investimenti del Pnrr sulla produzione di impianti energetici rinnovabili diventano le soprintendenze, i piani paesaggistici, i piani urbanistici, le VIA, le VAS e cosi via: ovvero notoriamente gli strumenti di tutela e valorizzazione della prima Italia che ho nominato, quella della permanenza diffusa di un alto valore patrimoniale del territorio.
Ma come pensano i decisori di superare gli ostacoli alle autorizzazioni, l’accettabilità sociale degli impianti, la lentezza delle comunità energetiche in questa Italia dei valori patrimoniali?
Oltre alle gravi forzature ministeriali proposte per bypassare le autorizzazioni delle soprintendenze, le regioni stanno proponendo procedure (ad esempio in Toscana sospendere parti della legge di governo del territorio 65/2014, già ripetutamente erosa, e i processi partecipativi ivi previsti) per rendere inoperanti le regole e le tutele urbanistiche per le opere finanziate dal Pnrr; un quadro di totale deregulation, destinato a incidere profondamente sull’abbassamento di valore del nostro patrimonio territoriale; pur essendo sotto gli occhi di tutti che il paesaggio dello sviluppo contemporaneo è denso di milioni di metri quadri di tetti piani di zone industriali, artigianali, commerciali, adatti a grandi impianti di fotovoltaico e minieolico.
Nessuna soprintendenza o Prg o associazione di abitanti metterebbe in discussione la copertura energetica di queste piattaforme che non sono sottoposte in massima parte (se si escludono opere di pregio o di archeologia industriale) per la loro bassa qualità architettonica e degrado urbanistico, ad alcun vincolo artistico, storico o paesaggistico.
Peraltro si tratta in molti casi di strutture gestite in forma organizzata (consorzi e altre forme societarie), già adatte alla potenziale gestione collettiva dell’opera (anche in forma di comunità energetica). Ogni Regione potrebbe dunque: a) operare una analisi speditiva delle principali zone industriali, artigianali e commerciali del proprio territorio regionale; b) costituire un tavolo con i soggetti pubblici e privati che gestiscono tali zone per l’utilizzazione energetica delle coperture attraverso forme di gestione collettiva, (comunità energetiche); c) attivare agevolazioni e incentivi generali e specifici (per coperture obsolete, tetti di amianto, ecc.
La proposta, utile per accelerare le misure d’ emergenza senza far ricorso alla deregulation, riscatterebbe in parte il degrado del territorio produttivo e commerciale, trasformandolo in risorsa concorrente alla sovranità energetica del paese.
da “il Manifesto” del 19 marzo 2022
foto Pixabay
ll bando borghi manca di strategia: che senso ha dare 20 milioni a un Comune solo?di Rossano Pazzagli
Il 18 settembre 2021 il Fatto Quotidiano pubblicò “Non chiamateli borghi, sono paesi”, un mio intervento in cui si richiamava la centralità del paese, inteso come comunità locale, per scongiurare la retorica del piccoloborghismo e curare le disuguaglianze del Paese con la P maiuscola.
L’attuazione del PNRR è andato in direzione opposta, destinando oltre 1 miliardo di euro al cosiddetto piano Attrattività dei Borghi sul quale stanno piovendo critiche da tutte le parti, specialmente dagli stessi enti locali che dovrebbero beneficiarne, come ha riportato ancora il Fatto il 13 febbraio scorso. Tutto è centrato sul borgo.
Ma il borgo esprime una visione parziale: è solo una parte, una definizione retorica di chi guarda dall’esterno. Il paese è tutto, è comunità, territorio, casa; il posto dove tornare o dove restare, non solo il luogo da cui andare via. La questione non è solo terminologica e sottende una visione che ragiona a sistema invariato, cioè tende a riproporre per le zone interne lo stesso modello che le ha marginalizzate, cioè quello della competizione, della crescita economica e dei consumi, seppure ammantato dalle parole magiche che percorrono il Pnrr: sostenibilità, transizione ecologica, digitalizzazione.
Nella sua attuazione pare che si sia presi innanzitutto dalla necessità di spendere e di spendere presto, più che dalla elaborazione di una vera e propria strategia di intervento, da un programma calato dall’alto piuttosto che da una pianificazione partecipata dal basso, di fatto smentendo e rendendo così meno credibile l’impegno profuso con la Snai (Strategia Nazionale Aree Interne) negli ultimi anni in decine di aree italiane. Ne abbiamo una prova nel bando per la presentazione di Proposte di intervento volte alla rigenerazione culturale e sociale dei piccoli borghi storici da finanziare nell’ambito del Pnrr (misura “Attrattività dei borghi storici”, Missione 1). Un avviso pubblico che chiama i Comuni sotto i 5.000 abitanti a presentare progetti economicamente consistenti, alla svelta (entro il 15 marzo), quindi difficilmente agganciati a strategie coerenti di rinascita territoriale e a metodologie partecipative delle comunità locali.
Il miliardo di euro è ripartito in due linee.
Una linea A riservata a 21 progetti pilota per la rigenerazione culturale, sociale ed economica di un borgo individuato da ciascuna regione o provincia autonoma (progetti da 20 milioni di euro ciascuno); una linea B per progetti locali di rigenerazione culturale e sociale di piccoli borghi storici (progetti fino a 1,6 milioni). Appare ovvio che la maggior parte delle risorse (linea A) sarà attribuita a pochi luoghi, scelti dalle rispettive regioni, secondo la logica di creare “eccellenze” e lasciare tutto il resto nelle condizioni in cui si trova. Non è creando punti di eccellenza, ammesso che ci si riesca) che si attenuano le disuguaglianze territoriali e sociali. Ha ragione il presidente Uncem Marco Bussone che proprio su questo giornale ha parlato di una “lotteria da azzerare”.
Intanto ogni regione si è affrettata a individuare il borgo miracolato. L’avviso è uscito alla vigilia delle vacanze di Natale, i sindaci lo hanno visto in gennaio, la scadenza ministeriale è al 15 marzo, ma le regioni l’hanno generalmente anticipata al 15 febbraio per fare la loro scelta: il piccolo Molise, ad esempio, ha già destinato 40.000 euro alla istituzione di una commissione di valutazione per scegliere tra i 27 che si sono fatti avanti quello che potrà ricevere i 20 milioni (Det. Dir. 23 del 16.2.22).
Il Pnrr dovrebbe assicurare futuro e benessere al Paese, ma in questa modalità di attuazione manca in sostanza una visione strategica, sociale e ambientale, manca una effettiva partecipazione senza la quale pochi e frettolosi progetti si riveleranno interventi episodici, o addirittura cattedrali nel deserto, non in grado di durare e di alimentare una vera strategia di rinascita, guidati solo dalla logica di portare a casa qualcosa e di creare qualche rara ‘eccellenza’ per poi poter dire “l’abbiamo fatto”.
La generalità dei comuni delle aree interne avrebbe bisogno di qualche decina di migliaia di euro per vivere, per i servizi fondamentali – sanità, scuola, mobilità – per mantenere una strada, una linea di trasporto locale, per incentivare l’agricoltura, la cultura, il paesaggio. Invece si è deciso di dare 20 milioni a un comune solo, magari per creare una eccellenza che nasconda il persistente degrado generale.
da “il Fatto Quotidiano” del 13 marzo 2022
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Le elezioni sono lontane, si può fare politica.-di Piero Bevilacqua
Le reazioni bellicose di gran parte del ceto politico italiano di fronte all’aggressione subita dall’Ucraina- che seguono a decenni di indifferenza nei confronti del quadro politico mondiale – ci spinge con ancora più urgenza a occuparci della scena nazionale. In primissimo luogo osserviamo come l’appiattimento del Partito democratico sulle più triviali posizioni atlantiste rende ormai l’inesistenza di una forza di sinistra una condizione drammatica della vita italiana .
Mentre in varie regioni del pianeta si assiste al collasso degli equilibri ambientali, le pandemie sono diventate un elemento sistemico della condizione sanitaria del nuovo millennio,la nostra popolazione diminuisce di anno in anno, noi ereditiamo un ceto politico legato ancora ai paradigmi del ‘900, che continua la corsa agli armamenti, vive alla giornata, elabora discorsi di pura e scadente pubblicità elettorale. Com’è noto, non si tratta di una situazione solo italiana, ma da noi essa assume le forme più gravi e degradate.
Eppure, c’è un paradosso in tutto questo.Certo, la cultura del ceto politico riflette sempre quella della società civile. E noi abbiamo assistito in questi anni a un immiserimento generale dello spirito pubblico nazionale.Ma non siamo ancora caduti nella notte in cui tutte le vacche sono nere. Esiste una vasta platea di cittadini la cui cultura non è rappresentata dalla politica, anzi è spinta fuori dal recinto sempre più separato della vita dei partiti.
Possiamo forse dire che in nessun altro paese d’Europa si fa cultura e si pratica politica non partitica quanto in Italia. Se proviamo solo ad accennare alle organizazioni, circoli, associazioni, istituti, fondazioni che operano nei più vari ambiti della vita civile, ispirati da un medisimo orizzonte progressista, abbiamo difficoltà a nominarli. Giusto per non restare nel generico penso a quella popolosa ed eterogenea galassia che va da Slow Food di Carlo Petrini, a Libera diretta da Don Ciotti, a consolidate istituzioni come la Fondazione Basso o al Centro per la riforma dello stato, alle varie ONG attive nel volontariato ,da Medici Senza frontiere a Emergency, ai vari movimenti femministi, ultimo Me Too, alle centinaia di associazioni ambientaliste, ad aggregazioni con forte insediamento territoriale come i No Tav in Val di Susa, ad iniziative più inclinate verso l’impegno politico, come l’Associazione per la riforma della sinistra, fondata da Aldo Tortorella, al recente Forum disuguaglianze diversità ispirato da Fabrizio Barca, al recentissimo raggruppamento della Società della cura.
Solo per ricordarne alcuni. E non c’è bisogno di rammentare il ruolo che svolgono i sindacati o un giornale come il Manifesto. Restano ancora fuori i piccoli partiti di sinistra, con o senza presenza in Parlamento, le migliaia di associazioni locali, anche nel nostro Mezzogiorno, il pulviscolo incalcolabile di aggregazioni intorno a riviste, siti, blog.
Ora non ci sono dubbi che tale costellazione di presidi progressisti sono il frutto di due dinamiche diverse. In parte sono il risultato di una deflagrazione avvenuta nel nostro campo politico, ma rappresentano anche il bisogno diffuso e multiforme di presenza civile e culturale di milioni di italiani, che non hanno più alcun punto di riferimento generale né un centro di aggregazione e orientamento. Ed è certo vana fatica cercare di mettere insieme i frantumi di una deflagrazione.Neppure pensabile è tentare di federare raggruppamenti così diversi fra loro, ciascuno impegnato del resto a fare la sua parte nel proprio ambito di attività. Essi fanno tutti politica, che evidentemente non si esaurisce nell’attività dei partiti. Senza di loro l’Italia sarebbe immensamente più povera.
Eppure questa vasta congerie di attività, di intelligenze, di culture potrebbe avere un peso assai più grande nell’influenzare le scelte che decidono della nostra sorte collettiva, se essa venisse anche solo episodicamente federata e mobilitata per singole battaglie di larga e generale condivisione. Una aggregazione momentatanea che rispetti le multiple identità dei protagonisti e che ne metta in campo la forza comune quando è in corso una rivendicazione in cui in tanti possono riconoscersi. Nessuno può negare che questo sia un obiettivo realistico.Le difficoltà sono solo di natura organizzativa e di capacità di direzione politica.
A tal fine un gruppo di studiosi, militanti politici, cittadini senza partito sta tentando una operazione umile e ambiziosa che tenga conto di questa realtà ricca e frantumata e perciò privata della sua grande forza potenziale. L’avvio di un processo costituente, animato da un gruppo pluralista, che fondi il proprio percorso sui grandi problemi del paese- e non sulle alleanze da stabilire o meno con il PD – potrebbe essere la forza in grado di coinvolgere in vario modo l’universo delle associazioni.
Il 9 marzo cominceremo a Roma con un convegno sulla riforma fiscale, cui parteciperanno studiosi, dirigenti politici e sindacali, da Ernesto Longobardi a Luigi De Magistris, da Domenico De masi a Laura Marchetti, solo per ricordarne alcuni. Seguiranno iniziative analoghe contro l’autonomia differenziata, per la sanità pubblica, l’agricoltura biologica,ecc. Le elezioni sono lontane si può dunque fare politica.
da “il Manifesto” dell’8 marzo 2022
Cari Sala e Fontana, il Pnrr ci offre un’alternativa.-di Tonino Perna
La recente polemica, nata dalle esternazioni del sindaco Sala e del presidente della Lombardia Attilio Fontana nei riguardi del Sud, non va presa sottogamba, come un incidente di percorso. Invece va considerata come un segnale, preoccupante, per il futuro del nostro paese. Quello che Sala e Fontana sostengono lo pensano in tanti amministratori: visto che il Sud non è in grado di utilizzare il 40% delle risorse del Pnrr, tanto vale farle gestire alle regioni del Centro-Nord piuttosto che restituire queste risorse a Bruxelles. C’è una parte di verità in queste affermazioni e tanta parte di mistificazione e strumentalizzazione. Innanzitutto, dovremmo chiarire una questione di fondo. L’Italia ha ricevuto, in percentuale della popolazione e del reddito pro-capite, una quantità di risorse comunitarie come nessun altro paese della Ue proprio perché esiste un enorme divario interno tra Nord e Sud.
Per questa ragione, tra gli obiettivi prioritari del Pnrr c’è la riduzione del divario territoriale, e nessun altro paese Ue ne ha uno così marcato che coinvolge un terzo della sua popolazione, ovvero 20 milioni di abitanti con un reddito pro-capite del 40% inferiore a quello dei 40 milioni di abitanti del Centro-Nord. E se prendiamo gli estremi ci rendiamo meglio conto di che cosa parliamo: Il reddito pro-capite della Calabria è di 12.700 euro a fronte degli oltre 36.000 euro pro-capite della Lombardia, regione che ha un tenore medio di vita superiore alla media della Francia e del Regno Unito. E non è solo una questione di reddito o di consumi, ma della quantità e qualità dei servizi, dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), della qualità dell’istruzione, dei trasporti, ecc.
Senza la presenza di un divario così grande l’Italia non avrebbe ottenuto i 191,5 miliardi di euro, di cui 68,9 a fondo perduto, pari a circa il 27% di tutto il plafond messo a disposizione da Bruxelles per tutti i 27 paesi della Ue. Allo stesso tempo, non si può negare che esista un serio problema di progettazione e gestione di queste risorse da parte degli enti locali meridionali. Non che nel resto del paese la situazione sia brillante, ma è indubbio che negli ultimi dieci anni le regioni meridionali abbiano speso mediamente solo tra il 25 e il 30 % delle risorse comunitarie disponibili. Questo non significa che si debbano trasferire questi flussi finanziari nel Centro –Nord creando una ulteriore divisione, potenzialmente irreversibile e insostenibile. Fra l’altro, il contributo comunitario va a compensare la riduzione degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno che, tra il 2008 e il 2018, sono passati da 21 miliardi a poco più di 10.
Se non ci arrendiamo allo status quo possiamo immaginare una alternativa.
Gli enti locali meridionali, a partire dall’Anci, stanno chiedendo insistentemente al governo di dotare le amministrazioni locali di tecnici ed esperti in grado di utilizzare queste risorse del Pnrr. Richiesta sacrosanta che dovrebbe compensare il danno che hanno subito le amministrazioni locali, in tutta Italia, con il blocco del turn over e il taglio di oltre 12 miliardi di contributi statali. Ma non basta. Bisognerebbe mettere insieme i Comuni del Nord, Centro e Sud per una cooperazione fattiva sul piano della transizione ecologica, della digitalizzazione, dell’Istruzione e Ricerca, della Salute.
I Comuni delle aree più ricche avrebbero il vantaggio di trovare ulteriori occasioni di lavoro per le imprese del loro territorio, mentre i Comuni delle aree più povere avrebbero il vantaggio di vedere implementati le idee progettuali a cui hanno pensato, ma difficilmente riuscirebbero a realizzare. Sarebbero auspicabili dei gemellaggi tra territori con caratteristiche e problematiche simili. Per esempio, i Comuni collinari e montani dell’Etna con quelli del Trentino, oppure i Comuni della costa jonica calabrese con quelli liguri.
Ancora meglio, come ha suggerito Pino Ippolito in un recente convegno on line, servirebbe una piattaforma a livello nazionale dove ogni Comune immette i propri bisogni, necessità, e anche disponibilità di white list di tecnici e di imprese nel proprio territorio con esperienze virtuose. Il Pnrr potrebbe diventare la grande occasione, storica, per un incontro tra Nord e Sud, nel nome della trasparenza e della cooperazione, che rilancerebbe, al di là della retorica, l’Unità reale del nostro paese.
da “il Manifesto” del 16 febbraio 2022
Di cattivi esempi sono lastricate le vie dell’eolico.- di Ferdinando Laghi
A Monterosso Calabro, in provincia di Vibo Valentia, lungo il crinale del Monte Coppari, quattromila faggi d’alto fusto saranno abbattuti, ove non si intervenga, per far posto a sei pale eoliche di 150 metri d’altezza, mentre lo splendido paesaggio del golfo di Squillace rischia di essere irreparabilmente stravolto e deturpato dall’insediamento di una selva di aerogeneratori offshore. Terribili aggressioni – ambientali e non solo- di una inaccettabile speculazione affaristica.
Né vale invocare, a giustificazione di interventi ai quali fortemente si oppongono Associazioni ambientaliste, nazionali e locali, e Comitati sorti per difendere il territorio calabrese da assalti ormai continui, la tesi delle energie rinnovabili, “pulite”, necessarie per bilanciare e sostituire quella da combustibili fossili. La faccenda non è né così lineare, né così semplice.
Basti pensare al fatto che non vi è alcun piano energetico che preveda una progressiva sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili, ma le une si vanno a sommare alle altre in una brutta “addizione”, che nuoce alla Calabria e a chi vi abita.
Nel 2020 la Calabria ha avuto un surplus di produzione energetica del 179,5%. Nello specifico, l’eolico con i suoi 400 impianti, ha contribuito con 2.132 GWh – pari a circa il 13% del totale- alla produzione complessiva calabrese di 16.597 GWh (dati TERNA). Una quantità di molto superiore ai consumi che, invece, negli scorsi anni hanno avuto una tendenza al decremento. Per altro, ad onta della sua “spendibilità” di immagine, anche quella eolica presenta delle criticità che dovrebbero essere conosciute e ben valutate prima della concessione di autorizzazioni, richieste, in realtà, soprattutto per mettere le mani sui ricchi incentivi economici previsti per tali fonti energetiche.
Gli impatti collegati alla presenza di una centrale eolica sono numerosi, non soltanto dal punto di vista ambientale e paesaggistico, ma anche per i rischi per la salute. Senza tacere dei danni che queste iniziative possono determinare alle economie locali. Ad esempio, nei casi di cui si parla, alle attività turistico-escursionistiche del vibonese o dei pescatori del crotonese.
Le dimensioni delle pale eoliche sono andate progressivamente aumentando nel tempo – la torre può essere alta 150 metri e oltre, mentre il diametro disegnato dalle pale rotanti arriva a superare i cento metri.
I luoghi scelti per la collocazione delle turbine sono in genere zone boscose, come i crinali montuosi, o comunque le aree rilevate, più esposti ai venti. Ma per raggiungerle è necessario costruire strade, abbattere alberi, distruggere la vegetazione presente, contribuendo significativamente al consumo di suolo. L’area individuata per il posizionamento di ogni singola pala viene ricoperta da una colata di cemento per ancorare la torre al terreno. C’è poi un altro impatto certamente non trascurabile, rappresentato dalle opere di adduzione dell’energia prodotta agli elettrodotti che devono veicolarla, con l’ulteriore impatto ambientale su flora e fauna, magari in aree protette, come le Zone di Protezione Speciale (ZPS) che andrebbero ben diversamente salvaguardate. Si è anche molto parlato dei danni all’avifauna per gli uccelli colpiti dalle pale rotanti, problema forse enfatizzato in passato, ma comunque presente e da considerare in una valutazione complessiva costi-benefici.
Ci sono poi ulteriori ricadute, questa volta sulla salute umana. Ove la distanza dalle abitazioni non sia sufficiente, il rumore può rivelarsi disturbante e dannoso per la salute, come la “Sindrome da turbina eolica”, caratterizzata da una serie di sintomi (tra cui vertigini, mal di testa, nausea, offuscamento della vista, tachicardia, insonnia, disturbi della libido).
Nel caso le pale rotanti si interpongano tra l’edificio e i raggi del sole, si verifica il cosiddetto “shadow flickering” –letteralmente, ombreggiamento intermittente- a causa della rapida sequenza sole-ombra-sole, determinata dal ruotare delle pale. Inoltre la presenza di una produzione di energia elettrica e il suo conferimento agli elettrodotti di trasporto, genera inevitabilmente campi elettromagnetici (CEM), ben noti determinanti ambientali di salute.
Né si può non citare un aspetto che, in Calabria, ha toccato livelli inquietanti, quello del malaffare e della infiltrazione criminale e ‘ndranghetista. La storia della produzione energetica dell’eolico calabrese è punteggiata da una lunga teoria di scandali e inchieste della magistratura – da “Eolo” nel 2006, a “Via col vento” del 2019- con indagini che hanno riguardato politici del governo regionale, multinazionali dell’energia e faccendieri vari, che dal grande business dell’eolico (ogni megawatt installato rende almeno 300mila euro l’anno per trenta o anche quarant’anni) hanno tratto enormi vantaggi economici, arrivando a far modificare, per il proprio tornaconto, il Piano Eolico Regionale. Il tutto spesso all’ombra di “famiglie” ‘ndranghetiste che hanno tratto da questo business, che continua senza conoscere crisi, i proventi maggiori.
da il Manifesto del 10 febbraio 2022
Il voto alla camera, come darsi la zappa sui piedi.-di Piero Bevilacqua
Ma che Paese è mai questo? Da 15 anni il Parlamento doveva approvare una legge necessaria per uno dei comparti più vitali della nostra economia, l’agricoltura biologica, e la Camera la rinvia al Senato perché ha abolito l’equiparazione del biodinamico al biologico.
Quindi passerà altro tempo in danno di centinaia di migliaia di imprenditori, con conseguente, ulteriore discredito sui parlamentari italiani, incapaci di decidere su un provvedimento normativo universalmente riconosciuto nella sua utilità economica, sociale e ambientale.
Ricordo che oggi, con circa 2 milioni di ettari, siamo ai primi posti in Ue per superficie coltivata a biologico e biodinamico, nel 2020 abbiamo venduto prodotti per oltre 4 miliardi di euro. Siamo i secondi esportatori al mondo dopo gli Usa, che ci distanziano di poco (2.981mln di euro contro i nostri 2.619) (Osservatorio Sana 2020, Prospettive di mercato e ruolo per il made in Italy, A cura di Nomisma) La legge che era stata approvata al Senato, e serve tra l’altro a dare più fondi alla ricerca scientifica e all’innovazione, si inscrive in una più vasta strategia europea del Green Deal.
Europa primo continente a impatto climatico zero entro il 2050 di cui costituisce parte e tappa particolare un obiettivo di politica agricola: il raggiungimento di una superficie del 25% coltivata a biologico entro il 2030. Oggi la media è dell’8,5% mentre noi siamo al 15,5%. E, è bene anche sapere che la riduzione dell’agricoltura industriale rientra nel più generale piano di transizione ecologica – dato del tutto assente dal dibattito intorno al Pnrr – perché essa contribuisce per almeno il 30% al riscaldamento globale. In questo piano rientra l’obiettivo di ridurre, entro il 2030, del 50% l’uso di pesticidi e antibiotici e del 20% quello dei fertilizzanti.
Ora l’agricoltura biodinamica, come illustrato dalle testimonianze di tanti esperti sulle pagine di questo giornale, è uno degli ambiti dell’agricoltura organica dove si praticano con più rigore i protocolli di coltivazione, quello che cura con maggiore scrupolo la rigenerazione del suolo e la sua fertilità, bandisce più rigorosamente la chimica di sintesi, fa della qualità dei prodotti una vera religione. Questo settore viene bandito perché ritenuto antiscientifico, in quanto nelle aziende biodinamiche si applicano pratiche, i cosiddetti “preparati”, ritenute mere superstizioni, come l’uso del corno letame. Ora, a parte il fatto che questo non accade necessariamente in tutte le aziende, sarebbe opportuno chiedersi quanto questo uso danneggi il suolo, le falde idriche, gli animali domestici, gli insetti, la fauna selvatica.
Dimostrarlo si dimostrerebbe una sfida piuttosto ardua. Si tratta di una consuetudine senza effetti pratici, non dissimile dalla benedizione delle mucche che ancora si svolge con convinzione in alcune zone delle nostre campagne. Anche se i preparati non sono delle mere credenze religiose. Perché, invece, non chiediamo alcun conto di questo genere all’agricoltura industriale? Probabilmente solo per il fatto che essa danneggia (ma lo fa in maniera scientifica), il suolo con la concimazione chimica, contamina le acque con i diserbanti, diffonde patologie con i fitofarmaci, libera CO2 nell’atmosfera come una normale industria?
Ma perché gli scienziati italiani che si oppongono al biodinamico non si fanno queste domande? Siamo convinti che alcuni di loro siano in buona fede, non subiscano cioè le segrete pressioni dalla potenti lobby dell’agroindustria che tentano tutti i mezzi per sabotare le agricolture alternative. Tra questi c’è senza dubbio Giorgio Parisi, che ha di recente onorato il nostro Paese ricevendo la massima onorificenza che si dà oggi alla scienza. N
on voglio rimproverargli un maggiore rispetto per le competenze. A uno scienziato del suo rango non sfugge quanto siano oggi articolati e specializzati i saperi. E chi si occupa di fisica al suo livello è normale che sappia poco di cosa accade nel mondo dell’agricoltura. Ma gli chiedo di non mettere il suo prestigio a favore di una causa ingiusta e sbagliata. Non ascolti i suoi colleghi scienziati, e accetti un consiglio non richiesto: si faccia spiegare come stanno le cose dagli agricoltori biodinamici.
da “il Manifesto, del 10 febbraio 2022
foto Isabelle Perello, Pixabay
Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto
Le città calabresi sono quasi del tutto prive di verde pubblico perché a partire dalla metà del secolo scorso sono state impetuosamente e disordinatamente edificate senza alcun piano regolatore che ne organizzasse lo spazio. Per iperbole si potrebbe dire che, dagli anni ’50 in poi, si siano costruiti prima i palazzi e poi, nello spazio che rimaneva, le strade, tanto sono urbanisticamente inadeguate.
Fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’esempio delle città europee e del nord Italia aveva indotto le Amministrazioni cittadine a progettare secondo gli antichi dettami ‘ippodamei’: vie parallele e perpendicolari orlate, su entrambi i lati, da alberi, e interrotte da piazze circolari o quadrangolari che costituivano pause alberate o, comunque, destinate all’uso ricreativo pubblico. Di tali modelli urbanistici se ne possono trovare ancora tracce, in misura diversa, a Cosenza, a Vibo Valentia, a Lamezia, a Crotone, a Reggio Calabria e a Catanzaro.
Le nostre città, invece, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, se si esclude la Rende di Cecchino Principe. La sola arteria alberata costruita negli ultimi 70 anni, Viale Giacomo Mancini, è stata inopinatamente e inspiegabilmente smantellata e sostituita con una distesa di mattonelle, la piantumazione di qualche stento alberello e la creazione di piste ciclabili di bitume dipinto.
Negli ultimi decenni, è prevalso -a Cosenza, ma non solo- un modello, un po’ piccolo borghese, di elegante città “dechirichiana” che nella concezione del grande artista suscitava, nella sua metafisica astrazione, la sensazione di un luogo disincarnato, privo della presenza umana e, naturalmente, delle piante. Il problema è che -mentre le città dipinte da de Chirico sono il frutto di una raffinatissima operazione di sottrazione che riduce tutto a volumi semplici votati all’essenza e all’eleganza- le piazze, le piazzette e gli slarghi cosentini pavimentati, negli ultimi dieci anni, con cemento oppure con piastrelle grigiastre senza un solo albero, pianta o arbusto -che pure ambiscono a costituire un apparato formale- riescono solo a trasmettere inautenticità, angoscia e spaesamento.
I Centri storici delle città calabresi sono stati abbandonati o ignobilmente deturpati da innumerevoli superfetazioni e inserzioni cementizie, ma quello di Cosenza conserva una sua straordinaria unitarietà armonica dovuta al suo tumultuoso svuotamento avvenuto in un breve arco temporale che non ha permesso inadeguati rifacimenti, inserzioni moderne e superfetazioni. Ma quella che, secondo lo storico greco Strabone, era l’antica capitale dei ‘Brettii’ che giace dal IV secolo a.C. sulla pendice settentrionale del colle Pancrazio, sta sbriciolandosi e franando verso valle. E non solo nessuno ha posto rimedio a questo disastro, ma la precedente Amministrazione ha, addirittura, demolito case e palazzi nel cuore del Centro storico, a Santa Lucia, e lungo la sua via principale, il medioevale Corso Telesio, radendo al suolo, senza alcuna autorizzazione della Soprintendenza ABAP, alcuni edifici impiantati nel XVIII secolo con l’irricevibile motivazione che erano pericolanti.
Demolizione palazzi fra Corso Telesio e Via Gaeta
In questi ultimi anni, invece di investire energie, tempo e denari nel Centro storico della città, sono state spese decine e decine di milioni di euro per ponti spropositati e fuori contesto, per desolati e angoscianti parcheggi/piazze che attirano traffico nell’attuale centro cittadino, per il rifacimento del corso principale, di piazze, piazzette e slarghi nella città moderna senza piantare un albero, una pianta, un solo ciuffo d’erba come se fossero destinate ad abitarla solo le figure e le statue di de Chirico.
Per trasformare in spazi vivibili e non spaesanti tutte queste sterili e orribili superfici, si potrebbero sostituire queste ultime con ‘giardini pensili orizzontali’, come nel caso della vera e propria “isola di calore urbana” di Piazza Fera, e mettere a dimora ogni tipo di pianta adatta ovunque (per esempio a Piazza Riforma, a Piazza Loreto, davanti alla Chiesa di San Domenico etc.) si possa raggiungere, rompendo il cemento e le piastrelle cinesi, il suolo originario.
Sarebbe un’operazione salvifica per la salute dei cittadini e per il clima della città ad un costo contenuto, peraltro, perché il ‘verde pensile orizzontale’ può essere realizzato su tutti i tipi di coperture di edifici esistenti o di nuova costruzione perché è un impianto vegetale su uno strato di supporto strutturale impermeabile leggero, come ad esempio solette di calcestruzzo, solai di cemento e di ferro etc.
Un altro enorme spreco di danaro pubblico è rappresentato dal tentativo di erigere un Museo intitolato ad Alarico, un Museo che potrebbe esser chiamato, a ragion veduta, il Museo del Nulla perché non conterrebbe materialmente nulla, visto che non abbiamo neanche un solo frammento di ceramica che sia riconducibile ad Alarico o ai suoi Visigoti. Per costruirlo il Comune di Cosenza ha acquisito dalla Regione, per ben 2 mln. e 253.000 euro, l’ex Hotel Jolly che sorgeva alla confluenza dei due fiumi, ai piedi del Centro storico. L’edificio è stato acquistato nel 2017 per abbatterne gli ultimi piani e trasformarlo nel rutilante, a giudicare dai rendering pubblicati, Museo del Nulla-Alarico che, a lavori finiti, sarebbe venuto a costare la strabiliante cifra di 7 milioni di euro, esclusi gli arredi interni. Nonostante che la Direzione generale del Mibact avesse negato l’autorizzazione a ricostruirlo, si è proceduto alla demolizione -anche questa non autorizzata dalla Soprintendenza, ma solo dalla Provincia- dell’ex Hotel Jolly abbattendolo quasi tutto, ma, forse complice la pandemia, i lavori si sono fermati e, per fortuna, non più ripresi.
L’ex Jolly in demolizione
L’attuale Sindaco, l’avvocato Caruso, ha ripetutamente affermato che non ha intenzione di insistere sulla leggenda di Alarico e, dunque, si pone concretamente il problema di cosa fare di quello spazio, una volta sgombrate le macerie. Credo che, tenendo conto della stretta relazione che esso intrattiene con il Centro storico, la cosa migliore sia che tutto quello spazio, di circa 2.500 mq., diventi un luogo come quelli che in Francia sono chiamati ‘jardins familiaux’: un profumato giardino piantumato con alberi, piante ed essenze tipiche del cosentino e delle rive fluviali oppure un rigoglioso orto urbano la cui cura potrebbe essere affidata, in entrambi i casi, ai cittadini del Centro storico ed alle loro Associazioni. Si inizierebbe, con poca spesa, a riportare un po’ di verde in città.
Area libera per un impiantare un giardino
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“Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro
pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra
idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma
parte integrante della natura”. (Stefano Mancuso)
II. Gli orti in città.
Uno degli aspetti urbanistici e paesaggistici più caratteristici di Siena è la presenza, all’interno delle mura medievali, di ampi spazi verdi non urbanizzati che ammontano a ben 32 ettari, rispetto ai 165 complessivi della città murata. Una vera e propria “campagna”, spesso destinata a colture ortive, che si incunea dentro la città formando una sorta di cuscinetto tra il costruito e la cinta muraria medesima. Le città calabresi non hanno la fortuna di aver avuto in dono questa eredità storica, ma potrebbero dotarsene senza troppe difficoltà e spese come nel caso, per esempio, di Catanzaro e di Cosenza.
Un paio di anni fa Piero Bevilacqua, insigne storico contemporaneista, aveva avanzato la proposta di far nascere a Giovino, poco a nord di Catanzaro Lido, un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”. L’area propriamente naturalistica di Giovino, che più esattamente si trova fra i torrenti Castace e Alli, misura circa 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara. La spiaggia di questo luogo ha la peculiarità di modellarsi in ondulazioni sabbiose alte anche 3-4 metri che formano l’ecosistema dunale, un ambiente naturale di grande bellezza e fragilità da preservare. Ma tutta questa porzione di territorio che è caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupati da case, strade, ma anche da orti, aziende agricole, campagne e aree incolte.
Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto la solita cementificazione mentre Bevilacqua crede che sia possibile avviare un modo diverso e ambientalmente sostenibile di dare valore al territorio facendo nascere un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. La Calabria è, infatti, una delle regioni più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia: decine o, forse, centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, etc. Un “Parco”, dunque, al posto di nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare.
La proposta che avanzo per Cosenza è la nascita di centinaia di “orti urbani” sui terreni cosiddetti marginali della città situati lungo i fiumi Busento e Crati, prima e dopo la confluenza. Sulla base di un calcolo approssimativo fatto sulle immagini satellitari questi terreni, che Gilles Clément (Clément 2005) chiama “terzo paesaggio” perché non sono propriamente né città né campagna, avrebbero una superficie di circa 30-35 ettari di proprietà del Demanio o del Comune medesimo. I primi “orti urbani” nascono, in Europa, nel corso del XIX secolo tanto che, per essere più precisi, verso la metà dell’’800 nascono i primi “Kleingarten” tedeschi, spazi riservati esclusivamente ai bambini. Ma è verso la fine dello stesso secolo che l’idea degli “orti urbani” inizia a diffondersi attraverso i “Jardin Ovrieurs”, nati dall’attività del politico e professore francese Jules Lemire (F. Panzini, Coltivare la città, DeriveApprodi 2021).
Uno dei tanti “jardins ouvriers” a Parigi.
Questi giardini operai avevano un duplice obiettivo: coltivare l’orto come possibile fonte di risorse economiche e alimentari, ma considerarlo anche come forma di sviluppo e di arricchimento del rapporto famigliare racchiuso nello slogan: “Il giardino è il mezzo, la famiglia è lo scopo”. Anche in Italia, dopo alcuni esperimenti dei primi del ‘900, hanno iniziato a diffondersi gli “orti urbani”, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana, ma anche nel Veneto, nelle Marche e in Campania.
La Regione Toscana, nell’ambito del progetto “Giovanisì”, ha promosso e finanziato con 3 milioni e 300mila euro il progetto “Centomila orti in Toscana”, con la finalità di sperimentare e diffondere, con il coinvolgimento dei Comuni toscani, un modello di orto urbano toscano, finalizzato non solo alla produzione, ma anche al recupero di aree degradate e alla definizione di aree di aggregazione sociale e di scambio culturale, nel quale i giovani ricoprono un ruolo fondamentale.
Le Amministrazioni comunali interessate, come quella di Siena, partecipano ad un bando per assicurarsi il finanziamento così concepito: ogni singolo orto deve avere una dimensione tra i 50 e un massimo di 100 metri quadrati; i complessi di orti ne conterranno tra i 20 e i 100, mentre ai Comuni va un finanziamento compreso tra i 50mila e i 100mila euro necessari per dotare questi complessi di infrastrutture permanenti come il reticolo viario, il sistema di irrigazione, la recinzione esterna e interna degli orti et cetera.
Gli orti urbani aiutano l’ambiente e fanno bene allo sviluppo economico e sociale del territorio. Promuovono la biodiversità e sono salutari perché portano sulla tavola frutta biologica senza pesticidi. Per dare l’idea dell’efficienza di un “orto urbano”, si ricorda che bastano circa 20 metri quadrati di terreno per produrre sufficiente verdura per una persona per un anno intero. Gli “orti urbani” non solo fornirebbero un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, contribuirebbero all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima, ma favorirebbero anche la tutela della biodiversità agricola, la riduzione della produzione di rifiuti (l’umido sarebbe utilizzato come fertilizzante) e potrebbero generare, con un’adeguata progettazione, una filiera agroalimentare corta. Le esperienze, ormai secolari, ci dicono che gli “orti urbani” sono uno strumento potentissimo per l’inclusione sociale perché danno nuova vita a zone e quartieri potenzialmente isolati o problematici, favoriscono l’amalgamazione sociale e la crescita di nuovi gruppi di persone socialmente attive, accomunate dallo stesso obiettivo lavorativo e dall’appartenenza ad uno stesso luogo.
Pur volendo prendere in considerazione l’uso solo della metà del territorio marginale cosentino disponibile, avremmo a disposizione una quindicina di ettari, cioè 150.000 mq., che sarebbero sufficienti per ben 1.500 unità ortive da 100 mq. Se teniamo conto che ognuno di questi “orti urbani”, senza quasi nessun costo per il Comune se fossero finanziati dalla Regione con i fondi del Pnrr, potrebbe soddisfare il fabbisogno di frutta e verdura di una famiglia di 5 persone per un anno, bisogna riconoscere che essi potrebbero fornire un aiuto economico consistente per le famiglie in difficoltà e, nello stesso tempo, rappresenterebbero una svolta ecologica ed estetica di grande rilievo.
Aree demaniali o comunali libere per la piantimazione di orti urbani.
Insieme alla ripiantumazione ed alla rivitalizzazione degli spazi verdi all’interno del tessuto urbano, gli “orti urbani” formerebbero una magnifica ghirlanda di piante e di alberi intorno a tutta la città rendendola, nel complesso, un esempio di vera e felice riconversione ambientale in tutto il Mezzogiorno e in tutta Italia.
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III. Il verde nel Centro storico.
La lagnanza sull’andamento della cosa pubblica che capita di leggere o ascoltare forse più di frequente in Calabria e al Sud, è quella che riguarda l’abbandono dei Centri storici delle città e dei paesi. Un problema grave e di difficile soluzione, ma che, grazie al finanziamento del Pnrr, potrebbe, o avrebbe potuto, avere un esito positivo. Una delle linee di finanziamento del Pnrr e del Fondo complementare è destinata all’edilizia residenziale pubblica per l’ammontare complessivo di quasi 2 miliardi di euro che dovrebbero esser spesi in quota maggiore nel Mezzogiorno per colmare il divario infrastrutturale presente tra Nord e Sud.
Una parte consistente dei suddetti finanziamenti potrebbe e dovrebbe esser usata, dunque, per far rivivere i Centri storici della Calabria iniziando da quello di Cosenza perché è il più grande, è quello più omogeneo, è quasi del tutto disabitato e, soprattutto, è in via di disfacimento. Un Centro storico così grande, urbanisticamente articolato e disabitato può essere restaurato e recuperato solo se si acquista e/o si espropria il maggior numero possibile di case e di palazzi per creare un “bene comune” unitario e, naturalmente, pubblico.
Un’operazione simile fu fatta nei primi anni ’70 per il Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965. La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare.
Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini (Agostini 2013). Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.
Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).
Schema interventi nel Centro storico di Bologna nel 1972
La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).
Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).
I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).
Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a circa 14 milioni di euro, vale a dire 6 milioni meno del costo del Ponte di Calatrava.
Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, elaborato un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, si sarebbe potuto chiederne, da subito, il finanziamento per mezzo del Pnrr non solo per l’edilizia pubblica residenziale, ma anche per la cosiddetta ‘transizione ecologica’. Fra i 7 progetti presentati e finanziati per la ‘rigenerazione urbana’ con il Pnrr, Cosenza, purtroppo, non figura, ma voglio sperare che ancora si possa riuscire ad accedere a questi fondi e che si possa ristrutturare il Centro storico di Cosenza.
Credo che si possa farlo ponendo particolare attenzione al verde pubblico iniziando, come ho già scritto, con la trasformazione in giardino dello spazio dell’ex Jolly, ma anche piantando alberi e piante a Piazza dei Valdesi, in Piazza Spirito Santo, lungo entrambe le rive del Crati e del Busento, nello spazio un tempo occupato dalla caserma dei Pompieri ora solo parcheggio, lungo le strade e nella piazza della frazione di Casali, risistemando e rinfoltendo sia il Vallone di Rovito dei fratelli Bandiera sia la centenaria Villa Vecchia sia Piazza dei Follari, piantumando tutta l’area dell’ex Umberto I, creando giardini e ‘jardins familiaux’ negli squarci creati dalle demolizioni di Santa Lucia, di Corso Telesio e Via Gaeta. Persino Piazzetta Toscano potrebbe esser resa di nuovo bella e vivibile rimuovendo le superfetazioni architettoniche che nascondono i resti della “domus” romana e rimodulando tutto lo spazio includendovi alberi, piante e fiori.
Aree da “rinverdire” e/o da piantumare ex novo.
Grazie all’esperienza bolognese si arrivò ad una legge nazionale -la n. 457 del 1978, soprattutto il Titolo IV- che fissava anche disposizioni per le aree ad orti o a giardini all’interno del centro storico, che dovevano rimanere libere, introducendo all’interno delle città storiche il principio di pubblica utilità per la casa: ovvero, la casa pubblica come bene pubblico, come bene sociale di pubblica utilità.
Il restauro e il “rinverdimento” del Centro storico non produrrebbero solo un risultato esteticamente incantevole, ma genererebbero, perché le pietre e le piante non si conservano senza i cittadini, un accrescimento quantitativo e qualitativo delle attività economiche, una redistribuzione della ricchezza conseguente all’assegnazione degli alloggi pubblici, una maggiore coesione sociale e una migliore qualità della vita derivanti dalla salubrità dell’ambiente urbano, dall’attività fisica e dalla necessaria cooperazione per la gestione dei giardini e degli orti comuni.
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Lo scritto qui riportato è formato da tre articoli usciti, con titoli diversi, il 10, il 13 ed il 22 gennaio 2022 su “il Quotidiano del Sud” e costituiscono una proposta complessiva avanzata da Battista Sangineto per rendere Cosenza, ma anche le altre città calabresi, meno tossica, con più piante e verde che contribuirebbero ad un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima. Città, dunque, più inclini all’indispensabile cooperazione fra uomini e piante e più socialmente coese.
Elaborazioni grafiche della cartografia: Pierluigi Caputo.
L’arroganza antropocentrica dei filosofi no vax.-di Piero Bevilacqua
Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, noti e prestigiosi filosofi, cui si è aggiunto un giurista di rango come Ugo Mattei e altri intellettuali, hanno già ricevuto più di una sensata obiezione alle loro posizioni sostanzialmente no vax. Credo tuttavia che lo spettro delle critiche da muovere a questi volenterosi difensori delle nostre libertà, debba essere meno limitato e riferirsi a una visione più radicale.
Quel che in realtà appare sorprendente e meritevole di approfondimento è la cultura di fondo, l’implicito “inconscio filosofico” su cui si reggono le posizioni di questi studiosi, che non differiscono in nulla rispetto alle vulgate popolari dei no vax di strada. La rivendicazione della libertà di spostamento e di movimento degli individui, al centro delle critiche e delle proteste, che pare essere una trincea di lotta democratica, rivela in realtà una concezione squisitamente neoliberista, se non aristocratica, della società.
Non a caso si tace del tutto il fatto che la libertà di spostamento degli individui, in quanto esseri sociali, comporta relazioni e vicinanza con gli altri ed è quindi il vettore unico e universale della trasformazione di una malattia virale in una pandemia planetaria. Senza contatti il virus non si diffonde, così che la loro limitazione per intervento statale costituisce una iniziativa di salute pubblica, mirata a difendere la comunità, contro il diritto solitario del singolo che vuole essere libero di contagiare gli altri.
I filosofi potevano esaminare e lamentare i guasti di una società già devastata dall’individualismo edonistico della nostra epoca, cui si aggiunge, per dolorosa necessità, questa ulteriore spinta dall’alto alla disgregazione. Ma non lo fanno, figli poco filosofici della propria epoca, lamentano le restrizioni subite dall’individuo solitario.
Non meno rivelatore di un atteggiamento che non si discosta dalla psicologia corrente del comune uomo medio, è la posizione critica e recriminatoria contro la scienza medica che si occupa di monitorare l’andamento della pandemia e che orienta il governo nelle sue strategie di contenimento. Si tratta di rivendicazioni che muoverebbero al riso per la loro superficiale ingenuità, ma che rivelano rimozioni più profonde.
La continua protesta di Cacciari, come di tanti non filosofi, per la scarsa informazione fornita dagli scienziati, per le loro comunicazioni contraddittorie, per gli effetti collaterali del vaccino non perfettamente indagati, rivelano in realtà l’ingenua pretesa della infallibilità della scienza, che vorrebbero simile a quella dei papi medievali. Ma non sanno i filosofi che anche nel mondo della scienza esistono diverse scuole, differenti approcci metodologici, molteplici esperienze sperimentali, che portano anche a conseguenze e risultati difformi?
E davvero i filosofi possono, senza arrossire, rimproverare agli scienziati errori e contraddizioni, dimenticando che costoro hanno dovuto far fronte a un nemico sconosciuto, che nei primi tempi combattevamo a mani nude, e che in poco tempo ci hanno fornito conoscenza e strumenti efficaci di contenimento?
Ma la ragione di fondo, la base “filosofica” di quasi tutte queste posizioni di recriminazione contro le scelte istituzionali è con ogni evidenza quella che potrei definire l’arroganza antropocentrica di un pensiero che oggi appare invecchiato di fronte alle emergenze ambientali del nostro tempo. Perché non riconoscono il virus, non riescono a concepire la superiorità e la potenza della natura, di qualcosa che sfugge al dominio dell’uomo e lo sovrasta. Rimuovono del tutto la sconfitta sul campo dell’uomo tecnologico, la cui illusoria infallibilità hanno introiettato come un dato naturale e pretendono perciò fanciullescamente che esso continui la sua marcia trionfale al centro del creato.
Ma la rimozione del virus come un accidente transitorio è in questo caso la spia di un distacco profondo del pensiero filosofico, e in genere di quasi tutta la cultura italiana, dal mondo della natura, dagli sconvolgimenti inflittale dall’uomo. Il quale rimane il signore di tutte le cose, secondo l’antica concezione giudaico-cristiana. Non si è compreso il salto epocale, generato dal fatto, per dirla con Edgar Morin, che «più l’uomo possiede la natura, più la natura lo possiede».
Tutte le pandemie degli ultimi decenni provengono dagli allevamenti intensivi e in genere da un assoggettamento sempre più vasto del mondo selvaggio alle economie umane. Non si pretende che i filosofi si occupino di zootecnica, ma forse qualche visione generale del mondo dovrebbero trarre dal fatto che miliardi di animali, sono oggi ammassati in giganteschi lager, imprigionati in gabbie, fatti vivere per breve tempo in condizioni di sofferenza inaudita.
Su tale realtà, soprattutto fuori d’Italia, è fiorita una vasta letteratura, perfino una corrente di pensiero, quella sui diritti degli animali (animal rights). La nostra civiltà si regge sul dolore e sullo sterminio quotidiano di milioni di creature viventi, ma in Italia il fenomeno non viene degnato di alcuna considerazione da un pensiero umanistico invecchiato, rimasto fermo all’homo sacer.
da “il Manifesto” del 6 gennaio 2022
La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto
I giudici della Corte costituzionale hanno dato seguito, con una sentenza del 23 novembre scorso, alle parole di Piero Calamandrei che agli studenti milanesi, nel gennaio del 1955, diceva: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.
La Corte costituzionale non ha lasciato la Carta in terra, ma ha mantenuto quelle promesse e quella responsabilità muovendosi per bocciare la legge del 2 luglio del 2020, n. 10, recante “Modifiche e integrazioni al Piano Casa (l. r. 11 agosto 2010, n. 21)”, varata dalla giunta regionale della Calabria. Secondo la sentenza di pochi giorni fa la Regione Calabria avrebbe voluto, con questa legge, sostituirsi “alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente venendo meno al principio di leale collaborazione e dando vita ad un intervento regionale autonomo al posto della pianificazione concertata e condivisa (con la Soprintendenza, n.d.r.), prescindendo da questa e superandola, peraltro smentendo l’impegno assunto nei confronti dello Stato di proseguire un percorso di collaborazione”.
Così facendo si sarebbe vanificato il potere dello Stato nella tutela dell’ambiente, rispetto al quale il paesaggio assume valore primario e assoluto, in linea con l’art. 9 della Costituzione. Secondo la relatrice della sentenza, Silvana Sciarra, le previsioni della quantità di cemento versato avrebbero finito per danneggiare il territorio in tutte le sue componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale, in violazione dell’art. 9.
Secondo la Corte tale lesione era resa più grave dalla circostanza che, in questo lungo lasso di tempo (il protocollo d’intesa fra Mibact e Regione Calabria è del 23 dicembre 2009, n.d.r.), non si è ancora proceduto all’approvazione del piano paesaggistico regionale, ma solo al temporaneo Quadro territoriale regionale a valenza paesaggistica (Q.T.R.P.) che la giunta Oliverio non è stata capace di trasformare, come prescriveva il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nel definitivo “Piano paesistico”.
Tutto ha inizio con la legge regionale della giunta Scopelliti dell’11 agosto 2010 che, in virtù del “Piano Casa” voluto nel 2009 dal governo Berlusconi, permetteva il condono degli abusi edilizi e dava la possibilità di ricostruire edifici esistenti aumentandone la volumetria del 15%. Il 16 luglio 2020 il secondo governo Conte ha emanato il “Decreto Semplificazioni” che ha, di fatto, annullato questo premio volumetrico berlusconiano, ma la giunta regionale calabrese, presidente il leghista Spirlì, senza alcuna opposizione in Consiglio regionale ha cercato di eludere, prevenendolo, questo problema.
Pochi giorni prima del “Decreto”, il 2 luglio 2020, ha varato una legge regionale che non solo elargiva questo premio, ma lo aumentava di altri 5 punti in percentuale, arrivando fino ad uno spropositato regalo di volumetria pari al 20% in più per ogni edificio da ricostruire.
Quanto fosse sciagurata una simile legge lo dimostrano i numeri: in Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% (più di 3 milioni e mezzo di ettari) della Superficie agricola utilizzata, la Sau, è stata cementificata o degradata e la Calabria è in cima a questa classifica negativa con ben il 27% del suolo consumato, subito dopo la Liguria (ISTAT 2005). Un’altra statistica (Rapporto Ispra Snpa, 2015) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti e che le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat 2005).
Il consumo del nostro suolo ha galoppato, nel 2020, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo, 57 chilometri quadrati in un anno, tanto che ognuno degli italiani avrebbe oggi a “disposizione” 355 metri quadrati di superfici costruite (Rapporto Ispra Snpa, 2021). La Calabria vanta anche il record negativo di avere il 65% dei suoi paesaggi costieri stravolti per sempre dal cemento: su un totale di 798 chilometri di costa (il 19% dell’intera penisola), meno di un quarto sono rimasti intatti, mentre ben 523 chilometri sono stati deturpati da interventi edilizi, spesso illegali.
In Italia ed in Calabria si continua, nonostante il declino demografico e socioeconomico, a cementificare così tanto perché è il modo più facile per creare rendite fondiarie e immobiliari che diventano comode rendite finanziarie, anche per la ‘ndrangheta. Le scellerate politiche urbanistiche degli ultimi decenni hanno favorito l’accelerazione della cementificazione senza alcuna tutela del paesaggio come dimostrano non solo le deroghe per le Grandi Opere, ma anche i provvedimenti come lo “Sblocca Italia” e come quest’ultimo tentativo di rimessa in vigore del berlusconiano “Piano casa” da parte della giunta Spirlì.
da “il Manifesto” del 18 dicembre 2021
foto di Marco Benincasa da Pramana
Parte da Condofuri la riqualificazione e il rilancio delle coste calabresi.-di Alberto Ziparo
Le accelerazioni evidenti e i relativi accentuati disastri (alluvioni invernali, incendi estivi) della crisi climatica – e le sue ricadute, compresa pandemia- stanno spingendo ad una maggiore attenzione generale alla riqualificazione ecologica dei contesti territoriali, che devono assicurare anche i contributi locali alla lotta per l’ambiente e il clima.
In questo quadro di forte tensione verso l’ innovazione ecologica si inserisce (purtroppo per adesso come unica eccezione calabrese) il “progetto di Parco a Mare di Condofuri “ , che sta infatti ottenendo riconoscimenti importanti da consessi culturali, tecnici e scientifici nazionali e internazionali attinenti le discipline urbanistiche e territoriali, quale modello innovativo di riqualificazione costiera utile anche a livello sovra regionale. E che sarà oggetto martedì 14 gennaio pv. di un convegno in webinar organizzato dai corsi di laurea di urbanistica e pianificazione dell’università di Firenze.
A Condofuri siamo in presenza di un tratto di costa ionica reggina che si è preservato dalla diffusione dell’insediamento, pervasivo e degradante, che ha segnato l’intorno- come molta costa calabra – e presenta ancora i caratteri ecopaesistici originali, con la percepibilità della sequenza linea di battigia – spiaggia – fascia predunale – dune – macchia mediterranea intensa e poi di transizione – urbanizzato. Tale area è però oggi minacciata da un lato dai processi erosivi della costa, dovuti a fattori macro e micro climatici, e dall’altro da una non ancora rilevante, ma crescente, recente pressione insediativa del centro urbano.
E’ localmente molto attiva la presenza di un laboratorio territoriale, formatisi già da alcuni anni per iniziativa di tecnici e ambientalisti locali, che è il proponente del progetto di riqualificazione. Elaborazione che costituisce il portato del programma territorialista, filone innovativo di ricerca e azione urbanistica centrato sui valori dei luoghi.
Il progetto di “Parco a mare” di Condofuri non nasce però originariamente quale operazione di tutela, riqualificazione e restauro della fascia costiera del comune com’è oggi. Circa una decina di anni or sono il comune infatti era riuscito a farsi approvare nell’abito del POR Calabria 2007-13 (Programmazione nazionale e comunitaria) un “vecchio” progetto di realizzazione del Waterfront nella fascia costiera del territorio comunale.
Gli ambientalisti locali di tutela facevano subito notare che, riproposta una ventina d’anni dopo, la configurazione dell’opera si rivelava assolutamente inadeguata, anche perché contrastante con la corrente normativa nazionale e regionale, che non permettevano più operazioni tanto vaste di cementificazione, consumo di suolo, impermeabilizzazione e impatto ambientale in area costiera (interamente tutelata dal Codice del Paesaggio).
Il citato laboratorio ha promosso allora una serie di momenti di discussione ed elaborazione che si riferivano da una parte al filone territorialista e dall’altra a modelli progettuali innovativi di riqualificazione delle fasce costiere, che, muovendo dalle originali elaborazioni americane EPA/Baltimore University, diverse strutture scientifiche, accademiche e ambientaliste, stanno tuttora veicolando anche in Europa e in Italia .
Il Comune di Condofuri nel 2014 ha accettato di rivedere il progetto, trasformandolo secondo le istanze del laboratorio da “lungomare” in “Parco a mare”, che intende consolidare gli ecosistemi presenti, considerati gli habitat e gli apparati esistenti, preservare la costa in erosione, e creare un parco costiero (non marino), che diventi area di incontro e fruizione socioculturale e ambientale permanente, fruita non soltanto dagli abitanti del comune.
Nel progetto di massima ,si erano individuate le diverse “fasce paesistiche” parallele alla linea di costa: per ciascuna di esse si predisponevano meccanismi di tutela e leggera fruizione; si prevedeva di realizzare attrezzature non fisse, prevalentemente stagionali, per le attività di servizio alla balneazione e all’uso sociale del tempo libero e di riposo, con l’impiego di materiale e strutture ecologicamente compatibili.
Le Linee Guida Territorialiste, venivano consolidate anche dallo studio di supporto alla progettazione effettuato dall’urbanista Enrico Gullì , in occasione della sua tesi di laurea.
Nella elaborazione progettuale definitiva si ripropongono gli apparati paesistici e gli ecosistemi originali, con elementi della rete ecologica e segnatamente delle “green e blue ways”, anche in funzione di integrazione e connessione delle diverse fasce paesistiche, secondo la matrice ambientale preesistente, reindividuata tramite il “patrimonio territoriale”.
In particolare si realizzano adesso attrezzature di difesa e consolidamento delle dune e degli apparati predunali, sentieri che seguono gli originali collettori ecologici, e soprattutto si ripristina per quanto è possibile l’apparato vegetale un tempo ricchissimo e in parte scomparso, con la riproposizione degli antichi “ giardini botanici”. Il Parco a Mare diventa così parte di una più ampia operazione di riterritorializzazione della fascia costiera.
Il progetto, che oggi potrebbe vedere la realizzazione con le risorse dei Collegati al PNRR, suscita interesse perché va oltre le pure importanti tutela e riqualificazione costiera , per proporre un processo di valorizzazione legato al paesaggio , e segnatamente a cultura , turismo esperienziale , produzione di beni immateriali , educazione e ricerca. Con la stessa logica di coniugazione di sviluppo e paesaggio che sta contrassegnando l’azione locale in tutta l’Area Grecanica . E a cui si sta guardando da tutta la Calabria e il Mezzogiorno.
da “il Quotidiano del Sud” del 14 dicembre 2021
L’ecobonus, dalla transizione ecologica a regalo alla rendita.-di Gaetano Lamanna
I provvedimenti del governo Draghi sulla casa spiegano bene il collegamento tra aumento delle diseguaglianze sociali e inefficienza e iniquità fiscale. La casa è una questione sociale irrisolta e, al tempo stesso, si delinea come uno snodo importante delle politiche ambientali. Grazie all’ecobonus del 110 per cento sugli interventi di riqualificazione energetica e antisismica del patrimonio residenziale, il comparto dell’edilizia è in forte ripresa.
Detto questo, è pur vero che un provvedimento, di per sé positivo perché per la prima volta antepone la manutenzione al consumo e alla cementificazione del suolo, presenta due gravi difetti. Il primo è che le maglie dei possibili beneficiari si sono troppo allargate, arrivando a comprendere seconde case, collegi, ospizi, conventi, seminari, case di cura, e via dicendo. Sarebbe stato quanto meno opportuno affidare alle amministrazioni locali un ruolo di coordinamento e di programmazione degli interventi, anche per stabilire criteri di priorità.
Invece l’ecobonus, lasciato alla mercé della libera iniziativa privata, sta diventando appannaggio quasi esclusivo di fasce sociali ed entità giuridiche più informate e più pronte a coglierne i vantaggi. Il risultato è che le impalcature si vedono dappertutto, fuori e dentro le mura urbane, soprattutto davanti ai palazzi condominiali dei quartieri di media e ricca borghesia o intorno alle ville unifamiliari, meno nelle nostre periferie, nei centri storici degradati, nelle borgate e nelle zone ex Iacp (case popolari), dove gli impianti di riscaldamento sono inefficienti e costosi. L’ecobonus, scansando nella sua attuazione pratica i ceti a basso reddito, si configura come l’ennesimo fattore di disparità sociale.
In secondo luogo, al netto di frodi e truffe (già venute a galla) migliaia di immobili, ritrovando efficienza e qualità, aumentano sia il valore d’uso che quello di scambio. La ratio della legge è il recupero di valore d’uso, anche in chiave di contrasto al cambiamento climatico. Ma a prevalere, ancora una volta, è il valore di scambio. I lavori di ristrutturazione contribuiscono in modo considerevole a determinare il prezzo di mercato dell’immobile, che negli anni si rivaluta anche grazie ai processi di riqualificazione urbana ad opera della mano pubblica: verde, infrastrutture, servizi.
Ciò potrebbe spingere il proprietario a incassare il capital gain (il guadagno di capitale) maturato nel tempo e quello acquisito con l’ecobonus. Assistiamo così al paradosso che case, ville, fabbricati con varia destinazione d’uso, ristrutturati con i soldi dei contribuenti, possano essere rivenduti con tanti saluti e ringraziamenti da parte di chi fa l’affare. Il provvedimento non prevede nulla che impedisca operazioni speculative subito dopo la fine dei lavori.
Com’è noto, nel nostro paese, a differenza del resto d’Europa, manca un’imposta sulle plusvalenze realizzate con le transazioni immobiliari. Le poche imposte che si pagano, quelle catastali, sono solo a carico degli acquirenti. Siamo di fronte a un caso di scuola. Un esempio eclatante di legislazione per la “transizione ecologica” piegata a vantaggio dei ceti benestanti e dei rentiers (beneficiari di rendite).
Ma non finisce qui. Tra le misure di sostegno, varate in piena pandemia dal governo Draghi, c’è la possibilità per i giovani sotto i 36 anni di comprare casa con mutui agevolati e garantiti dallo Stato. Una grande banca si spinge a offrire mutui al 100 per cento fino a quarant’anni!
I proprietari di decine di migliaia di edifici, rimasti invenduti nelle periferie urbane, applaudono. Dietro la parvenza di una politica per i giovani si cela in realtà un grosso regalo alla rendita. A che serve concedere incentivi per comprare casa quando, con insistenza, viene chiesto ai giovani di essere disponibili alla mobilità territoriale per trovare lavoro? Sarebbe molto più coerente investire nella ricomposizione e nell’allargamento di uno stock di alloggi sociali in affitto.
Si continua, insomma, a privilegiare la proprietà quando sarebbe di gran lunga preferibile un riequilibrio del rapporto proprietà-locazione. Siamo dunque di fronte a un provvedimento sbagliato, che favorisce i figli di papà e, comunque, famiglie agiate che possono investire nel mattone, intestando la proprietà ai figli.
In Italia abbiamo un surplus di abitazioni – solo a Roma se ne contano 200 mila inutilizzate -, ma senza un uso adeguato della leva fiscale il mercato dell’affitto non riparte. Il punto è che la rendita non è tassata ed è favorita in tutti i modi. Le imposte sul patrimonio contribuiscono con un misero 7 per cento al gettito fiscale complessivo.
Quelli che quotidianamente criticano il reddito di cittadinanza come fonte di sprechi non spendono mai una parola sui proprietari che non pagano l’Imu sui palazzi invenduti o la pagano solo al 50 per cento. Un vero scandalo. Solo una tassazione efficace può evitare che grandi ricchezze continuino ancora a nascondersi e che la rendita si ponga come motore di sprechi e di nuove ingiustizie, senza essere chiamata in alcun modo a contribuire al benessere collettivo.