Categoria: Dalla Stampa

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

C’è un vero e proprio progetto politico in linea con la storia del capitalismo. Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro all’epoca della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del secolo XVIII.

Nei libri di scuola, ed anche all’Università, viene raccontata come la semplice introduzione delle macchine (tra cui la famosa spoletta volante di John Kay) nel settore tessile che permise all’Inghilterra di diventare leader in questo settore a livello mondiale. Quello che raramente viene spiegato è che l’introduzione delle macchine arrivò più di un ventennio dopo la loro scoperta e che fu preceduta da profonde riforme legislative, nonché da una tolleranza rispetto a pratiche fraudolente che riguardavano gli articoli di esportazione (adulterazione delle stoffe).

In un voluminoso saggio dal titolo Prometeo liberato (Einaudi 1978), lo storico statunitense David Landes mostrò come fosse determinante l’abolizione di tutta una serie di regole che stabilivano quanto doveva essere larga la stoffa, i colori, il peso, il broccato, ecc. E’ dal tempo di Dante, e ancor prima, che le Corporazioni di arti e mestieri regolavano con estrema cura, quasi ossessiva, ogni tipo di produzione di beni, impedendo la concorrenza sul prezzo (era vietata) e dando ampie garanzie al cittadino (per esempio ogni artigiano doveva svolgere il proprio mestiere davanti alla finestra…).

L’innovazione di prodotto quanto di processo erano rare e difficili, dovendo combattere contro il potere delle Corporazioni. Solo cancellando una parte importante di queste regole il capitalismo, che era nato con le prime banche nel XIII secolo, poté dare vita a alla “rivoluzione industriale”.

Non diversamente oggi la digitalizzazione del tessuto sociale, la nascita delle smart city, e la ripresa degli investimenti su larga scala sarà possibile solo abbattendo quelli che già un governatore della Banca d’Italia definiva “lacci e lacciuoli”. Abbattere i vincoli burocratici e velocizzare la giustizia civile e penale rappresentano la conditio sine qua non del rilancio del modello di sviluppo capitalistico vincente su scala mondiale.

Questo comporterà certamente una crescita dell’economia, in particolare dell’economia criminale, della presenza delle imprese a capitale mafioso, come denuncia Libera e una parte dei sindacati, ma è difficile opporsi se non c’è un modello alternativo realizzabile. Mi spiego meglio con un esempio. Da quando la magistratura, dopo la morte di Falcone e Borsellino, ha ingaggiato una lotta contro le mafie in tutto il Mezzogiorno, con relativa confisca di beni immobili e imprese, i capitali mafiosi sono fuggiti dal Sud e si sono trasferiti nel Nord Italia ed all’estero.

Nel settore edile è diventato difficile portare avanti un’opera per le interdittive della Prefettura a cantieri aperti. Magari dopo che la stessa impresa aveva ricevuto un certificato antimafia. A questo si aggiunga l’atavica gestione neoborbonica della Pubblica Amministrazione che nessuna riforma è riuscita finora a contrastare. In breve, il Mezzogiorno è caduto in una progressiva stagnazione negli ultimi vent’anni proprio a causa di tutti questi vincoli.

E quindi? Dobbiamo sperare che l’economia criminale prenda il sopravvento in nome dello sviluppo? Certamente no. Allo stesso tempo, la lentezza della giustizia civile, la farraginosità delle procedure burocratiche creano un malessere crescente nella stragrande maggioranza della popolazione. Non è facile uscire da questo dilemma, ma non si può smettere di cercare una soluzione alternativa, praticabile, che non può non passare da una reale partecipazione popolare ai processi decisionali, a partire dagli enti locali.

Ma, anche, da una lotta per spostare gli investimenti verso la cura del territorio, verso i servizi sociali, il recupero delle terre abbandonate, delle aree interne, verso una riduzione degli sprechi e dei consumi di suolo. Una vera rivoluzione ecologica non può non accompagnarsi con una forte spinta democratica da basso. Che si traduce in una maggiore resistenza alla penetrazione dell’economia criminale.

da “il Manifesto” del 27 maggio 2021
Foto di MonikaP da Pixabay

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese.- di Enzo Paolini

Due storie concatenate sulla Calabria e sul Paese.- di Enzo Paolini

La prima: una spietata guerra si sta svolgendo sulla pelle dei cittadini calabresi. Nel vero senso della parola, dal momento che il commissariamento del servizio sanitario (cioè di tutto ciò che muove soldi in Calabria insieme alle opere pubbliche) a tutto guarda tranne che alla salute dei calabresi.

NESSUNA IDEA sul potenziamento (o meglio sull’adeguamento, non pretendiamo la luna) dei servizi di emergenza urgenza e sull’efficientamento di quelli territoriali (ambulatori, medici di famiglia, laboratori, specialistica), nessun sussurro sul riassetto della rete ospedaliera, non diciamo nuovi ospedali o eccellenze assolute ma livelli qualitativi sufficienti dei reparti normali; nessuno, proprio nessuno, (solo il Presidente Spirlì, che non è poco, ma nel settore non può fare più di tanto) dice niente, non uno straccio di idea su come far rimanere in Calabria i soldi ed i malati che sono volontariamente e consapevolmente e dolosamente espulsi, mandati a curarsi in altre regioni per prestazioni che potrebbero essere rese in Calabria a costi ridotti e senza disagi per viaggi (ancora) della speranza. Una vergogna che costa ai calabresi 320 milioni all’anno.

È LA QUESTIONE – gravissima – del ceto politico e dirigenziale della Regione, perché non è vero che in Calabria ci sono medici inadeguati in un sistema di livello; al contrario c’è una organizzazione amministrativa e politica inadeguata (nel migliore dei casi, o criminale, nel resto) che mortifica medici bravi ed ottime strutture.

Ed il commissariamento non risolve alcun problema semplicemente perché il rientro dal debito (cioè il deficit che ha prodotto e produce un servizio sanitario siffatto) non è un problema ma è solo una parte di esso e la sua soluzione (cioè l’atto – l’acta – cui è preposto il Commissario) non può essere raggiunta se non si mette mano anche – e contestualmente – a tutti gli altri settori di cui ho detto prima.

In questo sfacelo istituzionale al Commissario sono stati assegnati invece tutti i compiti che spetterebbero al Consiglio regionale, i cui componenti sono evidentemente ritenuti così poco affidabili ed incompetenti da indurre il Governo ad espropriarne le funzioni che assegna loro quel libretto che si chiama Costituzione.

E qui comincia la seconda storia. La rinascita di un popolo, quello calabrese, paradigma di un Paese in ginocchio, passa solo attraverso la riqualificazione della propria classe dirigente che ha perso ogni contatto con i cittadini ed i loro problemi quotidiani.
Alcuni occupanti le Istituzioni sono finanche seri, onesti e preparati, ma è il sistema che non funziona ed ha raggiunto ormai un livello di decozione politico-morale da renderlo scollato dalla realtà.
Da cosa dipende?

APRIAMO GLI OCCHI. Dalla legge elettorale che ha scientemente spezzato, reciso ogni legame tra elettori ed eletti, creando il sistema dei nominati e consolidato un ceto politico autoreferenziale che risponde dei suoi atti e delle sue scelte non ai cittadini ma ai sedicenti capipartito del momento. La Corte Costituzionale con sentenza 1/2014 ha già dichiarato incostituzionale una prima legge elettorale (il Porcellum) invitando il Parlamento a farne un’altra che tenesse conto della necessità di rispettare la connessione tra l’espressione di voto ed il sistema di elezione (in poche parole, preferenze e rappresentanza proporzionale, senza abnormi premi di maggioranza).

Allora il Parlamento dei nominati ne ha fatta un’altra, peggiore, l’Italicum. E qui la Consulta interviene con una nuova dichiarazione di incostituzionalità (sent. 35/2017). Ma siccome il sistema è questo, gli occupanti abusivi del Parlamento hanno spudoratamente prodotto l’ennesima legge elettorale che premia e consolida lo sconcio delle nomine. Il Rosatellum.

INSOMMA, per chiudere, il vecchio sistema proporzionale puro con le preferenze assicurava un contesto istituzionale stabile e controllabile dagli elettori (ed infatti ha condotto l’Italia alla crescita del dopoguerra, alla stagione delle grandi riforme ed alla sconfitta del terrorismo).

Questo attuale papocchio, ci porta – per tornare da dove sono partito – a tollerare, senza un plissé, che un organo istituzionale come un Consiglio regionale sia ridotto al silenzio ed alla inutilità da dieci anni, e alla sua sostituzione con Commissari provenienti ora dalla Guardia di Finanza, ora dall’Arma dei Carabinieri, e attualmente dalla Polizia di Stato i quali, giustamente e conformemente alle loro professionalità, fanno indagini per scovare il malaffare. E lo trovano. Il che, ovviamente, non vuol dire governare il sistema sanitario.

Verrebbe da domandare: le elezioni sono una farsa, le Istituzioni mortificate, serpeggia un certo razzismo, si affermano gli uomini soli al comando, precisamente di quale secolo parliamo? Scherzi a parte: occorre adesso una resistenza organizzata che respinga questo pericolosissimo attacco alla democrazia.

da “il Manifesto” del 23 maggio 2021
Foto di David Mark da Pixabay

Guardie e ladri (e sanità calabrese)- di Enzo Paolini

Guardie e ladri (e sanità calabrese)- di Enzo Paolini

Il generale Cotticelli. Non finisce mai di sorprendere. Ora, dopo aver passato le visite mediche per scoprire (sul “Fatto” di ieri) se lui era lui, ed aver indagato per bene ha concluso che non è stato fatto fuori per il fatto di essere il Commissario al piano di rientro della sanità a sua insaputa. No. Lo ha cacciato la massoneria, quella “deviata” che lui ha combattuto tutta la vita e che si sarebbe, per ciò, vendicata.

E comunque, tanto per chiarire il suo sedicente pensiero, in Calabria tutto ti lasciano fare fino a quando non tocchi i privati.
Ecco. Non sappiamo cosa volesse dire un uomo delle Istituzioni con queste mezze frasi o allusioni ma possiamo intuire che volesse dire: se non dai fastidio agli imbroglioni ed ai criminali che si annidano nella sanità privata, non dai fastidio a nessuno.
Detta così, ci sta bene perché sappiamo, come tutti gli italiani, che nella sanità privata si muovono tanti soldi, e talvolta in maniera illegale, criminale.

E dunque fa bene il Governo a mandare gente che indaghi e colpisca duro.
Ma perché mettere un poliziotto, un generale dell’arma o della GDF a governare il servizio sanitario? Perché deve scovare i criminali, ovvio.
Ma questo lo fanno le Questure e le Procure, non deve farlo il Commissario alla Sanità o la politica.

Se si manda un Commissario poliziotto che, per mandato ricevuto e per sua attitudine professionale deve solo indagare e dunque blocca tutto, ma proprio tutto, servizi, pagamenti, accreditamenti, nomine ecc. ecc. non si governa il servizio, lo si affossa e si aumenta il ricorso a pratiche illecite. Il perché è evidente: se ad esempio si sono scoperti doppi o tripli esborsi per le stesse fatture, liquidate ad imbroglioni con la connivenza di funzionari infedeli, si devono bloccare quelli e solo quelli. Non tutti.

Se non si pagano gli imprenditori per bene, nei cui confronti non v’è neanche un’ombra, se non si eseguono le sentenze della magistratura, ingolfando di pignoramenti gli uffici esecuzioni di tutti i Tribunali, si conducono gli imprenditori per bene alla morosità nei confronti dei fornitori, agli inadempimenti nei confronti dei dipendenti, poi all’usura e poi al fallimento.

Come dobbiamo dirlo, come dobbiamo gridarlo, basta con la Regione commissariata. Mandate pure l’esercito, i caschi blu, mandate chi volete, anche se noi pensiamo che in Calabria vi sono eccome, forze dell’ordine, investigatori e magistrati di prim’ordine ed in grado di fare ciò che deve essere fatto come e meglio di un Commissario sprofondato nella Cittadella regionale che non è stato in grado (non l’attuale, nessuno) di recuperare un solo centesimo del debito che era chiamato a ridurre.

Mandate Mandrake, ma lasciate che la Calabria abbia la possibilità di essere gestita – anche in sanità – secondo le regole della Costituzione, e cioè dagli eletti del popolo.
Non è sano dire che siccome il servizio sanitario funge da greppia per corrotti e corruttori, occorre bonificarlo con un commissariamento illimitato con una antidemocratica abolizione del normale servizio in nome di una emergenza criminale. Anche in Polizia, in Magistratura o in Politica, vi sono corrotti e corruttori: abbiamo abolito la Polizia, o la Giustizia, abbiamo chiuso il Parlamento?

Basta con la demagogia, restituiamo i poteri a chi li deve avere in virtù di quel libretto chiamato Costituzione e pretendiamo che i ladri vengano arrestati dalle guardie. Subito.
Questa sarebbe la vera bonifica.

da “il Quotidiano del Sud” del 19 maggio 2021

La politica non parla più di Napoli e del Sud.-di Massimo Villone

La politica non parla più di Napoli e del Sud.-di Massimo Villone

Sappiamo da sempre che il voto amministrativo nelle grandi città ha un rilievo politico. Così sarà anche questa volta, e forse persino in misura del tutto particolare. Lo apprendiamo da Letta, che nella direzione Pd di venerdì scorso ha delineato un cambio di strategia nazionale che trova diretta origine in quel che accade sul fronte locale.

Nell’assemblea della sua investitura aveva sostanzialmente annunciato la stagione di un nuovo Ulivo, con alleanze strategiche pre-elettorali supportate da un sistema elettorale maggioritario. Era un disegno ambizioso di ritorno al bipolarismo. Si è infranto, al momento, sulla difficoltà di allearsi nel voto amministrativo. Se si va in battaglia frontale oggi, è davvero difficile pensare domani in vista del voto politico a una alleanza strategica e strutturata. Si ritorna allora a un modello multipolare, in cui con un sistema elettorale proporzionale ognuno corre per sé. Le alleanze per il governo si costruiscono dopo il voto, in parlamento.

Letta aveva sottovalutato le convulsioni che attanagliano M5S, in parte originate proprio nella politica regionale e locale. Accade anche a Napoli. Colpisce, però, che nessuno parli di questioni di merito, di progetto, di futuro della città. Invece, è colluttazione permanente su alleanze e persone. Sappiamo di Catello Maresca, candidato tuttora non-candidato che però è già di fatto in campagna elettorale, e ha dato luogo a perplessità per la funzione ricoperta. Sappiamo dei tormenti di Fico che M5S – ma non tutto – vorrebbe candidato. Sappiamo di Manfredi, della sua attesa per alcune telefonate cruciali, e di condizioni da lui poste. Sappiamo che Amendola è in ribasso.

Sappiamo delle 24 liste che il segretario Pd Sarracino mette intorno a un tavolo, e speriamo che almeno lo faccia da remoto. Sappiamo di Bassolino, candidato e da tempo in campo. Sappiamo di una fine che potremmo definire ingloriosa della sindacatura de Magistris, e della debole candidatura della Clemente. Sappiamo di un consiglio comunale ormai moribondo, che non ha nemmeno la forza di esalare l’ultimo respiro. E potremmo continuare.

Al di fuori delle candidature, l’attenzione della politica sembra concentrarsi sui vaccini, sui ricoverati, sui defunti, da un lato, e sulle riaperture più o meno progressive e auspicate dall’altro. Eppure, qui e ora ci giochiamo una parte importante del futuro. Consegnato a Bruxelles il testo definitivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), avremmo ritenuto indispensabile e urgente che i soggetti politici e le assemblee elettive avviassero un approfondimento dei contenuti e delle conseguenti iniziative.

Per quel che sappiamo, almeno per il momento non accade. Eppure, da discutere c’è, e molto. Per una parte, il Piano dipenderà da come verrà concretamente attuato, e su questo si potrà cercare di incidere. In qualche caso già le cifre sono significative. Ad esempio, se si guarda agli stanziamenti per l’Alta velocità sbandierati come cruciali per il Mezzogiorno, si nota che la gran parte delle risorse nei primi anni è destinata al Nord. Per il Sud – sull’asse Salerno-Reggio Calabria – vanno fondi in prevalenza dopo la chiusura del 2026.

Questo significa che i fondi al Nord sono garantiti dalle strette condizionalità poste dall’Europa. Quelli al Sud rimangono affidati alla volatilità della politica nazionale del dopo Piano. Tutto dipenderà da quale paese avremo nel 2026. Quale destino si prefigura per Napoli? La risposta non è certo un carcere a Bagnoli. Né basta colluttare sul debito pregresso. Ad esempio, cosa fare di Napoli Est? Su queste pagine il presidente dell’Unione industriali vede l’area come centrale nella transizione energetica, in cui la Campania ha un ruolo primario per eolico, idrogeno e mare.

È una prospettiva non banale. Cosa ne pensa la politica? E cosa pensa di quel che il Piano dice sui porti e retroporti nel Mezzogiorno? Basta a configurare un sistema Sud proiettato come piattaforma logistica nel Mediterraneo per tutto il paese? In caso contrario, si può recuperare tale vocazione? E come?

Il rilancio del Mezzogiorno come sistema produttivo alla pari con il resto del paese è un obiettivo da non perdere mai di vista. Il Sud non può vivere solo di turismo e cultura. E ancor meno sopravvivere solo con il reddito di cittadinanza. Vediamo in campo molte meritorie iniziative di approfondimento da parte di associazioni, studiosi, esperti. Ma non bastano. Sono indispensabili le voci della politica e delle istituzioni. Sempre che abbiano voglia di ritrovare il ruolo che ogni giorno di più sembrano dimenticare.

da “la Repubblica Napoli” 16 maggio 2021
Foto di pixel1 da Pixabay

Stato-regioni, la “leale collaborazione” non basta.-di Massimo Villone

Stato-regioni, la “leale collaborazione” non basta.-di Massimo Villone

Nella relazione sull’attività della corte costituzionale svolta dal presidente Coraggio viene segnalato ancora una volta il pesante contenzioso tra stato e regioni, e si richiama in particolare la pandemia, per quello che lo stato avrebbe potuto e dovuto fare, e non ha fatto. Citando la recente sentenza 37/2021, Coraggio ricorda che la competenza esclusiva della stato in materia di profilassi internazionale «avrebbe dovuto garantire quella unitarietà di azione e di disciplina che la dimensione nazionale delle emergenze imponeva e tuttora impone». Un obiettivo – si deve intendere – fallito.

Non si può che essere d’accordo, come abbiamo più volte scritto su queste pagine. Ma qui le considerazioni da fare sono almeno tre. La prima, che possono aversi emergenze a dimensione nazionale non riferibili alla profilassi internazionale, come ad esempio un terremoto di gravissima entità; la seconda, che esistono questioni che hanno una dimensione nazionale non qualificabili come emergenze in senso stretto, come il divario Nord-Sud; la terza, che la dimensione nazionale trova nel titolo V della Costituzione un proprio autonomo strumento attuativo solo in misura parziale.

Nel Titolo V la dimensione nazionale non è fortemente presidiata, e in specie non è assistita da una posizione di supremazia. Un implicito riconoscimento si può trovare nell’art. 120 della Costituzione, che assegna allo stato un potere sostitutivo nei confronti di regioni ed enti locali per la tutela di una dimensione nazionale. Un siffatto potere non può non presupporre una supremazia. Ma può essere esercitato solo ex post, per correggere una violazione già avvenuta. Non a caso, la stessa Corte ha ampiamente elaborato il principio di leale collaborazione, che il presidente Coraggio richiama. Il punto è che esso trova il suo ultimo e fisiologico esito nell’intesa, e concettualmente nega qualsiasi supremazia nel rapporto cui si applica.

Ne vengono due possibili alternative. La prima: si introduce una clausola di supremazia esplicita nell’art. 117 della Costituzione, in specie applicabile anche all’art. 116, comma 3, sull’autonomia differenziata (come ho suggerito in una audizione parlamentare sui disegni di legge in discussione). Il secondo: la corte muta parzialmente rotta nella lettura del rapporto stato-regioni, assumendo che un principio di supremazia sia in ogni caso desumibile dal sistema costituzionale nel suo complesso, a partire dall’unità e indivisibilità della Repubblica e dalla tendenziale necessaria uguaglianza nei diritti fondamentali.

E nemmeno basterebbe. Infatti, un potere viene esercitato solo se il titolare così decide. Diversamente, rimane sulla carta. È esattamente quello che è accaduto per l’art. 120 nel caso della pandemia. Alla fine, tutto dipende dal decisore politico, e dalla volontà normativa che esso esprime. La corte, che lascia molto spazio alla discrezionalità legislativa, se ne è resa ben conto quando ha messo in campo la «incostituzionalità prospettata», richiamata dal presidente Coraggio, in specie per il caso Cappato e la diffamazione a mezzo stampa.

Ma allora come poter essere certi, quando sono in gioco i diritti di minoranze, che i giudici siano «garanti di una democrazia veramente inclusiva» come il presidente sottolinea? Anche qui due strade. La prima: la Corte riduce la discrezionalità riconosciuta al legislatore, definendo più ampiamente e in dettaglio il nucleo incomprimibile dei diritti. La seconda: si garantisce con la legge elettorale un parlamento ampiamente rappresentativo scelto da elettrici ed elettori, e senza distorsioni di tipo maggioritario in chiave di supposta governabilità. E sarà quella la sede primaria della «democrazia inclusiva».

Nel sistema istituzionale tutto si tiene. Nel confronto in atto i segnali non sono buoni, e non basta certo una relazione del presidente della corte a riportarlo sui binari giusti. La battaglia è – e rimane – politica.

da “il Manifesto” del 15 maggio 2021

Riecco il Ponte, di inestimabile bruttezza.-di Battista Sangineto

Riecco il Ponte, di inestimabile bruttezza.-di Battista Sangineto

Nel libro XII dell’Odissea, Circe mette in guardia Ulisse sui pericoli che dovrà affrontare nell’attraversare lo Stretto, non solo dalle sirene, ma anche dai due mostri Scilla e Cariddi.

“… E poi i due Scogli: uno l’ampio cielo raggiunge con la cima puntuta: e l’avviluppa una nube livida; e questa mai cede, mai lume sereno la sua vetta circonda, né autunno, né estate; né potrebbe mortale scalarlo, né in vetta salire… A metà dello Scoglio c’è una buia spelonca… Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando… L’altro Scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, vicini l’uno all’altro. Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie: e sotto Cariddi gloriosa l’acqua livida assorbe. Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe paurosamente. Ah che tu non sia là quando assorbe!“.

Per molto tempo il tratto di mare fra Scilla e Cariddi è stato teatro di eventi magici, funesti e misteriosi, ma il mito ha raccontato e spiegato agli uomini antichi i furori, le grandezze e le tragedie della natura.

Il racconto mitico, trasformandosi, è durato per secoli, come testimoniano le leggende nate sulle due sponde, siciliane e calabresi, secondo le quali l’unico uomo in grado di attraversare senza subire danni e di scendere nelle profondità dello Stretto era stato Colapesce o Nicolau o Pescecola. Un’altra persistenza mitica delle sirene omeriche è la leggenda, forse di epoca normanna, della fata Morgana che, secondo la tradizione popolare ancora viva a tutt’oggi, viveva in un castello nelle profondità del mare e traeva in inganno i naviganti con un miraggio facendoli naufragare.

Il ponte che, di nuovo, si vuole costruire decreterebbe la fine del mito perché unirebbe ciò che gli dèi, in questo caso Poseidone, avevano diviso, distinto, separato per sempre. Contravvenire al volere divino oltre che un sacrilegio, sarebbe stato considerato, nell’antichità, un atto di hýbris, di superbia dell’uomo che non vuole piegarsi all’inconoscibile e smisurata potenza degli dèi e della natura.

La ragione e la tecnica ci hanno allontanati dal mito e resi capaci di vincere la natura, ma in questo caso, oltre alle fondate perplessità tecniche sulla fattibilità, sulla tenuta e sulla durata di una simile opera umana in un’area sismica per antonomasia (come ha da poco scritto Tonino Perna su questo giornale https://ilmanifesto.it/il-famigerato-ponte-della-retrocessione-ecologica/), è necessario dire anche quanto sia, banalmente, brutto e vecchio questo ponte.

Deturpare irreversibilmente lo scenario di un mito del quale si sono nutrite generazioni di calabresi, siciliani ed europei avrebbe dovuto consigliare, perlomeno, la progettazione e la costruzione di un manufatto che imprimesse, in quei luoghi, un segno architettonico di mirabile bellezza.

È così difficile capire che per la costruzione di un ponte così poco utile e di così vecchio e disarmonico disegno sarà necessario sfigurare orribilmente il paesaggio dell’estremo lembo della penisola con le ciclopiche opere di fondazioni necessarie per la stabilità strutturale di un tale mostro di cemento e acciaio?

Se si aggiungono le vaste servitù territoriali come le rampe per l’accesso ed il deflusso, su entrambe le sponde, del traffico su ruote e su rotaie – alcune delle quali insisterebbero, peraltro, su aree archeologiche- si capisce facilmente quanto sia devastante costruirlo.

Questa ulteriore cementificazione del territorio non farebbe che accelerare l’eclissi dei paesaggi in regioni, come la Calabria e la Sicilia, già sfigurate dall’insensato e vorace consumo del suolo e dall’abusivismo. I meridionali vivono già nella bruttezza, non ci fanno più caso, vivono in un paesaggio nel quale la natura è stata brutalmente violentata, cancellata e sostituita con colate di asfalto, di cemento armato e di case non-finite.

L’abitudine alla bruttezza genera disarmonia, incuria e disordine, incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. La bruttezza produce assuefazione all’assenza di regole estetiche ed etiche, producendo un’immoralità diffusa che genera ‘ndrangheta e mafia.

Se si vuole investire in opere pubbliche in Italia e, specialmente, nel Mezzogiorno, si faccia quel che fece F.D. Roosevelt che, nel momento di maggiore crisi economica, diede mano ad un’enorme e capillare restauro del paesaggio degli Stati Uniti impiegando tre milioni di giovani dal 1933 al 1942.

Il governo, se fosse davvero interessato alla rinascita del Sud, dovrebbe destinare i circa 10 miliardi di euro che costerebbe questo obsoleto ponte, ad un poderoso e capillare progetto strutturale di “Restauro dei paesaggi storici e naturali” che provi, con l’aggiunta di altri 10 miliardi del Pnrr, a restituire integrità, sicurezza idrogeologica, senso ed armonia ai paesaggi rurali ed urbani del Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 12 maggio 2021

Il famigerato Ponte della retrocessione ecologica. -di Tonino Perna

Il famigerato Ponte della retrocessione ecologica. -di Tonino Perna

Ancora una volta, per l’ennesima volta, si ritorna a parlare del Ponte sullo Stretto di Messina, dopo l’approvazione di un progetto, uscito dal cilindro della commissione istituita ad hoc dal governo Conte-bis. Si tratta di un’ossessione, di un accanimento terapeutico, nei confronti di un territorio fragile che nel corso del tempo, dalla Magna Grecia ad oggi, ha dovuto subire più di venti terremoti devastanti, fenomeni di bradisismo (così si è inabissato a metà del XVI secolo il porto naturale di Reggio), smottamenti e frane delle colline di sabbia che si affacciano su uno degli spettacoli naturali più affascinanti del pianeta.

Dalla Lega a Forza Italia, da Fratelli d’Italia al Pd (soprattutto i deputati calabresi e siciliani) tutti uniti a chiedere che si proceda con il progetto esecutivo e poi si appalti questa “grande” opera.

Sulla stampa locale si leggono dichiarazioni fantasmagoriche: «la più grande attrazione del mondo»…«milioni di turisti …», «180mila nuovi posti di lavoro…». Persino il presidente della Svimez, stimato e rispettabile economista mainstream, si è innamorato di questa idea, senza tenere conto di studi indipendenti sulla fattibilità.

Basti solo pensare al distacco di un centimetro ogni cinque anni delle due sponde(rilevato dai satelliti), oltre alla grande faglia tettonica che attraversa lo Stretto e potrebbe risvegliarsi (gli scongiuri non bastano! ). Ma, quello che più preoccupa, è l’aver messo da parte, ignorato, cancellato, qualunque discorso sull’impatto ambientale, mentre tutti straparlano di “transizione ecologica”.

Chi è in buona fede non conosce il territorio, non sa che la ferrovia a Messina per essere collegata al Ponte dovrebbe attraversare la città per venti chilometri e essere portata a novanta metri di altezza. Ugualmente sulla costa calabrese bisognerebbe partire da Gioia Tauro per rifare un tratto ferroviario nuovo, bucando montagne e colline della costa viola, tra Bagnara e Cannitello, passando da Scilla, un luogo incantevole già penalizzato da colate di cemento.

C’è in tutto questo anche la responsabilità della grande stampa che da decenni mostra un fotomontaggio del Ponte come una protesi che unisce le due sponde, neanche fosse una frattura scomposta che va operata. Non fa vedere gli ottovolanti, le enormi rampe di cemento armato, lo sconquasso del territorio per arrivare al Ponte. Vista dal Nord, questa immagine leggera e armoniosa, come si fa ad essere contro?

Se ci fosse un ministro dell’Ambiente si sarebbe strappato le vesti di fronte a questa folle corsa a buttare risorse pubbliche, come è già avvenuto in questi decenni dove la Società per il Ponte sullo Stretto è stata lautamente finanziata per un opera tecnicamente improbabile, se non impossibile, e disastrosa sul piano ambientale.

Lo stesso ipotetico ministro per l’Ambiente avrebbe avuto qualcosa da dire anche per l’Alta Velocità ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria, mentre tutte le tratte interne, in tutto il Mezzogiorno, sono senza collegamenti o addirittura vanno a gasolio: il 100% in Sardegna, il 77% in Molise, il 43 per cento in Calabria, il 42% in Sicilia, il 40% in Basilicata, ecc.

Ed anche nel resto del nostro paese dalla Valle d’Aosta al Veneto, dalla Toscana al Friuli Venezia Giulia, pur se con minori percentuali. Insomma, se ci fosse un governo che prendesse sul serio la “transizione ecologica”, sui trasporti ci sarebbe un gran bel lavoro da fare, sia sul piano ambientale (nei prossimi anni i treni che usano l’idrogeno saranno una realtà e non eccezione), sia su quello sociale, unendo territori oggi abbandonati, favorendo le economie locali, le relazioni umane e la vivibilità di una parte importante del nostro paese oggi emarginata.

Aspettando che arrivi un vero ministro per l’Ambiente, diciamo chiaro e forte: NO Ponte.
Questa classe politica è vecchia, priva di fantasia, incapace a prendere coscienza della gravità del disastro ambientale che questo capitalismo di rapina ci ha regalato.

da “il Manifesto” del 4 maggio 2021

La scommessa di De Magistris nella terra più sfortunata del Paese.-di Piero Bevilacqua

La scommessa di De Magistris nella terra più sfortunata del Paese.-di Piero Bevilacqua

Nel 1926, in un saggio per più versi geniale, Gramsci definiva il Mezzogiorno «una grande disgregazione sociale». Quell’espressione – che forse già allora sottovalutava il peso e il ruolo delle città – oggi è la definizione che meglio di tutte descrive la condizione attuale della Calabria, la regione più povera e male amministrata d’Italia. E il concetto di disgregazione consente di cogliere alcune ragioni fondative della sua condizione materiale presente e della debolezza delle sue classi dirigenti. La Calabria è già in origine una terra disgregata per la sua conformazione fisico-geografica. Non è certo un caso se per secoli, sotto il Regno di Napoli, si è avvertito il bisogno di definirla al plurale, Calabrie, e di compartirla in Calabria Citra e Ultra e poi dividerla, con ulteriore segmentazione, in Calabria Ulteriore Prima e Seconda. A differenza di quasi tutte le altre regioni del Sud non ha mai goduto di un polo aggregatore, una vera città capoluogo, in grado di connettere le sparse membra di un territorio disarticolato, difficile e disperso, in un organismo dotato di una qualche omogeneità e unità.

Reggio Calabria, la città più antica, più grande e dinamica, posta sulla punta dello stivale, era proiettata verso la Sicilia e il Mediterraneo, più che verso l’interno della regione. Mentre Catanzaro e Cosenza hanno vissuto storie separate e la prima, posta al centro del territorio, era economicamente troppo debole per svolgere funzioni egemoniche aggregative. Ricordo che negli anni ’60 e ’70, perfino il partito più coeso e unitario d’Italia, il Partito Comunista Italiano, risentiva di questa frantumazione (che comportava diversità di culture locali, legami con il passato greco o con quello latino o addirittura albanese, difformità di dialetti, tradizioni politiche, ecc) al punto che le tre Federazioni provinciali apparivano tre mondi separati.

Né questa frantumazione territoriale, sociale e politica è stata superata nel corso del secondo ‘900. L’assenza di un sviluppo economico omogeneo, ma per isole, non ha dato vita a un ceto sociale dotato di sufficiente omogeneità di caratteri, in grado di costituire l’intelaiatura unitaria che alla Calabria manca drammaticamente. Questo spiega molte cose dell’attuale disastro politico e amministrativo in cui la regione è stata inghiottita.

Una ragione evidente è che ad ogni tornata elettorale, chi ambisce a diventare presidente, non può contare su una omogenea base sociale – magari resa culturalmente autonoma da un lavoro stabile e dall’indipendenza economica – ma deve trovare accordi con la miriade dispersa dei «grandi elettori», portatori di voti raccattati nei territori, con cui mettere insieme una maggioranza.

Sicché, una volta diventato presidente, il suo compito verrà in gran parte assorbito dalla necessità di rispondere alle richieste delle varie e frantumate clientele che gli hanno consentito il successo elettorale. Mai quindi un grande progetto capace di invertire la disgregazione storica originaria, ma solo piccoli interventi di assistenza, volti a placare soprattutto, con pratiche affaristiche, la grande fame di lavoro della gioventù.

È per questo che, alcuni mesi fa, ad apertura della campagna elettorale, quando seppi che Luigi De Magistris intendeva presentarsi quale candidato, ne fui sorpreso e lieto. Non pochi calabresi, anche di sinistra, appresero la notizia con contrarietà, sentendo la candidatura come l’invasione di campo di un forestiero, come se i precedenti presidenti calabresi avessero compiuto miracoli e se ne sentisse la nostalgia.
Ora, a parte il fatto che De Magistris estraneo alla Calabria non è poi così tanto, avendovi svolto il ruolo di magistrato per alcuni anni. Ma quella «estraneità», o per meglio dire quella «esternità», costituirebbe una risorsa preziosa per il futuro del governo regionale.

La popolarità, il carisma di De Magistris, il fatto – che dovrebbe pesare nel giudizio di tutti i democratici del nostro Paese – di essere stato confermato sindaco a Napoli, la città più difficile d’Italia, dovrebbe garantirgli la possibilità di vincere la partita senza sottostare ai patti con la miriade dei grandi elettori, senza dover assecondare i loro minuti interessi, e poter governare liberamente, secondo progetti ambiziosi di trasformazione strutturale.

Un uomo esterno ai partiti (aggregati di gruppi elettorali, nel migliore dei casi), un ex magistrato in una terra funestata da illegalità e criminalità, un amministratore dotato ormai di una lunga esperienza di governo locale, sarebbe una fortuna per la Calabria.

De Magistris da mesi sta conducendo un’azione che dovrebbe costituire un modello per tutti i politici: sta battendo la regione per ascoltare chi ha da esprimere bisogni, chi è in grado di fornirgli consigli. Ricordo infine un aspetto che oggi – di fronte alla devastante prova data dalle regioni italiane in tempi di pandemia – andrebbe sottolineato, l’attiva posizione che De Magistris ha preso contro l’autonomia differenziata. Non lo hanno fatto né Emiliano né De Luca. Per questo il Partito Democratico (quello calabrese, ma anche quello nazionale) deve assumersi tutta la responsabilità di far riuscire o far fallire questa possibilità e questa speranza per la regione più sfortunata d’Italia.

da 2il Manifesto” 30 aprile 2021
foto dalla pagina fb:Luigi de Magistris Presidente per la Calabria
https://www.facebook.com/dema.calabria/photos/a.104456624317449/472593024170472

Dalla pandemia un no all’autonomia differenziata.-di Massimo Villone

Dalla pandemia un no all’autonomia differenziata.-di Massimo Villone

Il Documento di economia e finanza (Def) da ultimo presentato dal governo Draghi include tra i collegati al bilancio un disegno di legge “per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art. 116, 3 comma, Cost.”. In fondo, potevamo aspettarcelo, da un esecutivo che ha nella sua maggioranza la Lega, prima sostenitrice dell’Italia delle repubblichette, e che vede alle autonomie una ministra come la Gelmini, già alfiere del separatismo in salsa lombarda. Ma la pandemia e la crisi sanitaria ed economica suggeriscono un ravvedimento operoso almeno per tre motivi essenziali.

Il primo. È del tutto evidente che un vero sistema sanitario nazionale, come era evocato dalla legge 833 del 1978, non esiste più. Abbiamo un patchwork di sistemi regionali, con devastanti differenze tra territori. Il più fondamentale dei diritti – la salute – è tutelato in modo del tutto precario e ineguale. E conclamate eccellenze, come la Lombardia, si sono rivelate fallimentari.

Una intollerabile cacofonia autonomistica, in specie da ultimo per le vaccinazioni. Da più parti si è affermato che l’assistenza sanitaria va ricondotta nelle mani dello Stato. In specie considerando che il contagio da Covid 19 durerà nel tempo e potrà diventare endemico, mentre in futuro è probabile che si presentino altri virus, liberati dalla globalizzazione e dallo sfruttamento esasperato delle risorse naturali. Persino in Germania – stato federale – il Bundestag ha da ultimo centralizzato la lotta alla pandemia, per porre fine alla babele generata dai Lander.

Il secondo. La necessità di un ripensamento sull’autonomia differenziata non si manifesta solo per la sanità. Per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) le priorità variamente dichiarate – come transizione ecologica, digitalizzazione, giovani, donne, Mezzogiorno – richiedono la definizione di obiettivi strategici nazionali e la capacità di formulare e implementare politiche nazionali forti volte a realizzarli. Su questo va attentamente misurata la compatibilità delle autonomie, in specie se declinate come nel separatismo soft di Lombardia, Veneto e in buona misura anche Emilia-Romagna.

Ad esempio, ampie competenze regionali in tema di ambiente metterebbero o no a rischio la transizione ecologica? E che dire della digitalizzazione, e degli interventi necessari per il riequilibrio nel sistema scolastico e per le università, essenziali per evitare le migrazioni di giovani qualificati dal Sud al Nord, e dall’Italia verso l’estero? Una estesa regionalizzazione di strade, autostrade, ferrovie, aeroporti sarebbe compatibile con una strategia di riequilibrio a favore del Mezzogiorno dell’alta velocità e più in generale dei trasporti e della mobilità? Un’autonomia regionale sui porti favorirebbe o ostacolerebbe un rilancio del sistema portuale del Sud come base logistica nello scacchiere euromediterraneo?

Il terzo. Si sente dire spesso, e autorevolmente, che dalla crisi non deve uscire la stessa Italia, con qualche toppa a riparare la crisi che ci ha duramente colpito. Deve uscire un’Italia nuova e diversa. È giusto. Ma dall’autonomia differenziata ex art. 116.3 può rivelarsi difficile, o persino impossibile, tornare indietro, per come è disegnata nella norma costituzionale. Se si attuasse in modo sbagliato nel corso dell’attuazione del PNRR, potrebbe bene essere la pietra tombale sul Piano. Allora bisogna vedere quale Italia esce dalla crisi, e solo dopo eventualmente riprendere qualsiasi discorso sull’autonomia differenziata. Per fortuna, l’inserimento tra i collegati indica in principio una priorità nell’indirizzo di governo, ma non garantisce di per sé che all’approvazione del ddl si giunga in un tempo dato, o mai. Auspichiamo una serena dipartita.

Abbiamo sempre sostenuto che l’autonomia differenziata non può avere ingresso alcuno in materie strategiche per l’unità o l’identità del paese, come ad esempio la scuola. Oggi la pandemia evidenzia una Italia sofferente perché troppo diseguale. L’ultima cosa di cui il paese ha bisogno è che il peso delle diseguaglianze aumenti. C’è una indiscutibile allergia tra pandemia e autonomia. In specie se differenziata.

da “il Manifesto” del 25 aprile 2021

DEF 2021: è stata prevista l’Autonomia Differenziata! Comunicato stampa. Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

DEF 2021: è stata prevista l’Autonomia Differenziata! Comunicato stampa. Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

Il governo Draghi con il Documento di Economia e Finanza 2021 ha confermato, tra i disegni di legge collegati alla legge di Bilancio 2022-2024, il DDL “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art.116, 3° comma, Cost.”.

Ha, cioè, riproposto al Parlamento – e Camera e Senato hanno accettato, ratificando il DEF 2021 lo scorso 22 aprile (ed è la terza volta consecutiva!) – di riservare un iter legislativo privilegiato ad una proposta di legge che ratifichi l’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario, con il rischio aggiuntivo che, qualora intervenisse – modificandoli – sui capitoli di bilancio 2022-2024, essa potrebbe essere sottratta a qualsiasi richiesta di referendum abrogativo.

Tale fatto politico non può essere considerato né una pura distrazione né una mera concessione alla Lega ed ai sostenitori dell’autonomia differenziata per tenere unita la maggioranza.

Si tratta di una provocazione irresponsabile.

Non si può riaprire la strada politico legislativa, seppure nel prossimo futuro, a velleitarie prassi secessioniste e autarchiche, mentre la epidemia pandemica Covid-19 sta imperversando ancora sul popolo italiano in tutte le regioni del Nord, del Centro e del Sud e continuano a realizzarsi diseguaglianze nell’accesso ai vaccini tra i cittadini e le cittadine delle diverse regioni.

Non sono bastate tutte le pessime prove che le amministrazioni regionali hanno fornito nella pretesa di definire autonomamente (e velleitariamente) norme e regole in ambito di sanità, scuola, trasporti, beni culturali?

Non sono bastati i morti e gli effetti disastrosi sull’economia sulla convivenza civile e sociale, in particolare per le fasce deboli e non protette della società, in cui le epidemie producono i loro effetti più gravi?

Purtroppo, anche il governo Draghi (in continuità con il Conte bis e quindi ancor più colpevolmente) non ha voluto ricorrere:

– all’art. 120 della Cost. comma 2°: “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni (omissis) quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”,

– all’art. 117 comma 2 lettera q, che prevede la profilassi internazionale tra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato, richiamata dalla Corte Costituzionale con comunicato del Comunicato del 24 febbraio 2021.

– all’art. 6 della Legge 833/78, che recita: “Sono di competenza dello Stato le funzioni amministrative concernenti: (omissis) b) la profilassi delle malattie infettive e diffusive, per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché gli interventi contro le epidemie e le epizoozie”.

Ci rifiutiamo di credere che il Parlamento voglia assumersi la responsabilità storica di aggravare disastri già provocati dalla prima regionalizzazione attuata in applicazione della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001.

Proprio ciò che è successo e sta succedendo in conseguenza di quella riforma, compresi gli scontri tra Stato e regioni, dimostra che un solo passo in più sulla strada dell’autonomia regionale aprirebbe scenari inquietanti di vera frantumazione della Repubblica, di balcanizzazione del Paese.

Ciò di cui ha bisogno il Paese è di fermarsi, non di procedere ulteriormente nella divisione.

Da parte nostra, non staremo a guardare e ci mobiliteremo, anche con petizioni popolari, per fermare questo scempio.

Non lasceremo le proteste di piazza alle destre.

Già abbiamo iniziato: dal il prossimo 25 Aprile si aprirà in Emilia-Romagna la raccolta di firme per una petizione per il ritiro della richiesta di autonomia differenziata avanzata nel 2018 dalla regione Emilia-Romagna.

Perseguiremo lo stesso obbiettivo in tutte le regioni a statuto ordinario.

Lo faremo nel nome della Resistenza, nel nome della Costituzione, nell’interesse del mondo del lavoro e delle componenti fragili della società; ci batteremo perché la Repubblica rimanga una e indivisibile, per garantire uguaglianza dei diritti e ottemperanza ai doveri, contro vecchie e nuove diseguaglianze.

Lo faremo con quanti – cittadine e cittadini, associazioni, sindacati, partiti, personalità, organi di stampa e mass media – condividono le ragioni di questa lotta e l’impegno per tenere unito il Paese.

Il Parlamento e le Regioni abbandonino una volta per tutte e per sempre ogni tentazione di autonomia regionale differenziata!

***comitato stampa contro qualunque autonomia differenziata, per l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti

Cosa si aspetta, una strage senza innocenti?- di Battista Sangineto

Cosa si aspetta, una strage senza innocenti?- di Battista Sangineto

Non è più come nella primavera dell’anno scorso, quando, dalla Calabria assistevamo, attoniti, a quel che accadeva nelle altre regioni, soprattutto in Lombardia. Ora siamo colpiti anche qui nello stesso straziante modo, vediamo intorno a noi parenti e amici infettati da questo virus che, mutando, diventa sempre più pervasivo e strazia famiglie intere nelle città e nei paesi. Gli ospedali sono al collasso e ci sono molte persone, soprattutto anziani, che muoiono a casa senza che sia stato praticato loro un tampone, senza che siano stati visitati da un medico o, meno che mai, curati a casa.

I numeri ufficiali sono diventati in queste ultime settimane in Calabria sempre più preoccupanti: quasi 11.000 casi attivi attualmente, 500 nuovi contagi al giorno e più di 10 morti quotidiani, di cui più della metà nei nosocomi cosentini (ieri, 5 aprile, 7 morti di cui 6 all’Annunziata di Cosenza, 82 in un mese), con un indice di positività del 13-14%, quasi il doppio di quello nazionale che è del 7,9%. Noi meridionali e calabresi temevamo che questa pandemia potesse espandersi e incrudelirsi anche al Sud ed in Calabria perché sapevamo che le nostre strutture sanitarie sono in condizioni disastrose e che i nostri sanitari sono pochi e impreparati alla bisogna.

Temevamo e sapevamo, ma niente è stato fatto, da più di un anno a questa parte, per rafforzare strutture e personale medico. Niente!

Come ci raccontano Rocco Valenti e Massimo Clausi su questo giornale, la Calabria è la sola regione italiana priva di un piano anti-Covid tanto che le terapie intensive sono rimaste 152 (l’Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani ne ha censite, addirittura, solo 133) a fronte delle 280 appena sufficienti, previste già un anno fa. A fronte della media nazionale di 3,2 posti letto ospedalieri ogni mille abitanti, la Calabria ne ha la metà: 1,7; la provincia di Cosenza, secondo il decreto 64 del 2016 emanato dal commissario Scura, avrebbe dovuto avere, per esempio, altri 354 posti per malati acuti che, naturalmente, non sono mai stati realizzati.

Era il 30 luglio del 2010 quando Scopelliti fu nominato, da Tremonti, Commissario della Sanità della Regione Calabria per il rientro dal debito che, all’epoca, ammontava a circa 150 milioni. Dal 2010 ad oggi si sono succeduti molti Commissari che – nonostante i pesanti tagli agli investimenti, i mancati turn over del personale sanitario, il blocco delle assunzioni, la chiusura di piccoli e medi ospedali che garantivano la tenuta della medicina del territorio- hanno portato il disavanzo ad una cifra che alcuni stimano essere di più di 1 miliardo.

Tutto questo senza che i Presidenti ed i consiglieri, alternativamente, di maggioranza ed opposizione regionali, di centrodestra e di centrosinistra, ponessero, con forza, al centro della loro battaglia politica la Sanità. E’ stata, anzi, solo terreno di sterili o dannose polemiche e di totale immobilismo.

Il governo Conte, dopo le tragicomiche vicende dei Commissari che tutta Italia ha potuto vedere in tv, aveva, almeno, provveduto a far montare un Ospedale militare da campo a Cosenza ed aveva permesso a Gino Strada di impiantare una struttura di ‘Emergency’ a Crotone. Ora ‘Emergency’ se n’è andata e l’Ospedale militare di Cosenza è stato, incredibilmente, trasformato in centro vaccinale, mentre all’Ospedale dell’Annunziata i malati Covid inondano gli altri reparti, sabato 3 aprile ne erano ricoverati 137, e le poche terapie intensive sono tutte occupate. Cosa si aspetta a trasformare di nuovo in terapie intensive le strutture sanitarie dell’Ospedale militare?

Il Commissario Longo, nominato ad ottobre, avrebbe, secondo questo giornale, elaborato un nuovo piano rispetto a quello di Cotticelli, ma non avendo inserito la rendicontazione della spesa dei fondi Covid sarebbe stato sospeso dal tavolo interministeriale. Avremmo, dunque, ancora in vigore il piano Cotticelli che, comunque, prevedeva 280 terapie intensive, per poterci avvicinare alle 14 per 100mila abitanti della media nazionale, invece delle 7,9 attuali, ma dopo 15 mesi dall’inizio della pandemia ce ne sono ancora 152. Sono saltate tutte le possibilità -tracciamento, tamponi e aree rosse circoscritte- di contenere l’epidemia, l’ultima chance sarebbe una campagna vaccinatoria capillare ed efficace.

Ma come è andata, come sta andando con i vaccini? Nel modo peggiore possibile: la Calabria è all’ultimo posto avendo somministrato solo il 78,8% delle dosi distribuite dallo Stato alle Regioni; non si capisce che fine abbiano fatto -come ha chiesto più volte, senza avere risposta, Massimo Clausi su questo giornale- oltre 74.000 dosi che sono ‘sparite’; la percentuale di vaccinati alla voce “altri”, che però comprende anche i “fragili”, è la più alta d’Italia con oltre il 23%, 79.000 su 293.000, mentre i sanitari vaccinati sono 78.000 e gli ultraottantenni solo 82.000 (i dati sono consultabili su: www.governo.it/it/cscovid19/report-vaccini/).

Una situazione così catastrofica non può essere più ignorata dal Governo che, invece, deve dare risposte urgenti ai calabresi: perché, nonostante il commissariamento sia della sanità regionale con il poliziotto Longo sia del piano vaccinale nazionale con l’alpino Figliuolo, i calabresi non hanno le stesse cure mediche che spettano, secondo l’art. 32 della Costituzione, ad ogni cittadino italiano? Perché non sono stati aumentati le terapie intensive e i letti ospedalieri per le degenze Covid e non-Covid in questi ultimi 14 mesi? Perché non è stato approntato e realizzato un piano sanitario regionale anti-Covid? Perché il piano vaccinale funziona così a rilento e in maniera così poco trasparente in questa regione? Perché il generale Figliuolo – che in occasione della sua visita in Calabria si è incontrato con il commissario Longo e con il Presidente-chef leghista Spirlì- ha certificato, invece, che il piano di vaccinazione predisposto da Regione e struttura commissariale andava benissimo e che non c’erano aggiustamenti da fare?

Una strage degli innocenti, quella che si sta minacciosamente profilando all’orizzonte dei cittadini calabresi nelle prossime settimane? No, di innocenti, qui in Calabria, ce ne sono ben pochi.

da “il Quotidiano del Sud” del 6 aprile 2021

Immagine: Duccio di Buoninsegna,Strage degli innocenti, Museo del Duomo di Siena, inizi XIV secolo.
Di © José Luiz Bernardes Ribeiro, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=53194180

Calabria. Sui rifiuti, oltre che sulla sanità, si misura il fallimento.-di Pino Ippolito Armino

Calabria. Sui rifiuti, oltre che sulla sanità, si misura il fallimento.-di Pino Ippolito Armino

Su tutto domina la spazzatura. Un’affermazione improntata a cupo pessimismo morale? No, parlo della spazzatura fisica, reale, quella che nella mia infanzia passava a raccogliere, con un minuscolo bidoncino munito di ruote, un netturbino credo di origini siciliane perché annunciandosi urlava «A munnizza» e a volte, per risparmiare fiato, anche semplicemente «A mizza».

Chi l’avrebbe detto che da lì a qualche tempo quella sarebbe divenuta una delle principali economie del Mezzogiorno? La spesa per la gestione dei rifiuti è, infatti, tra le più rilevanti all’interno dei disastrati bilanci delle regioni meridionali.

In base agli ultimi dati disponibili, questa voce vale 11 milioni di euro in Puglia, 40 milioni in Sicilia, più di 130 milioni in Calabria, addirittura 260 milioni in Campania. Nello stesso periodo e per le medesime attività il Piemonte ha speso 9 milioni di euro e il Veneto soltanto 760 mila euro, nemmeno lo 0,6% di quanto ha speso la Calabria, con una popolazione che è più che due e volta e mezza quella calabrese e un territorio più ampio del 20%! Contemporaneamente la regione Veneto, che è quella che ha fatto meglio, ha differenziato quasi il 75% della sua raccolta rifiuti e la Calabria non ha toccato neppure il 48% (Ispra Catasto Nazionale Rifiuti).

Due facce della stessa medaglia, più si differenzia meno si spende. Ma fino a un certo punto. È fin troppo evidente che la spesa calabrese è abnorme, persino rispetto a quella della Campania se si tiene conto del rapporto fra le due popolazioni. Dove finiscono tutti quei soldi? A chi va in tasca quel tesoro mentre la regione annaspa tra i suoi rifiuti?

Aprire alla coltivazione una discarica – come si dice con termine che forse vorrebbe fare dimenticare l’inquinamento del suolo e dell’aria che questa modalità di trattamento produce – non è solo il modo più semplice e inquinante per affrontare il problema, è anche quello più costoso per le casse pubbliche e più lucroso per gli imprenditori del ramo.

Non si spiega altrimenti, ad esempio, la costruzione in corso in provincia di Reggio Calabria (dove la raccolta differenziata è ferma al 36%) di una nuova megadiscarica per rifiuti non differenziati (400.000 tonnellate) che mette a rischio un’importantissima sorgente d’acqua potabile e distrugge molti ettari di autentiche coltivazioni agricole di qualità ma avrà, nondimeno, un «merito» niente affatto trascurabile.

A conti fatti, smaltire una tonnellata di rifiuti in quella discarica significherà spendere tre volte quanto servirebbe per conferirla all’inceneritore e persino più di quanto oggi costi inviarla fuori regione. Sui rifiuti, oltre che sulla sanità, si misura il fallimento del regionalismo italiano.

Le nuove «repubbliche regionali», lontano dai riflettori e fuori da ogni controllo, riproducono un mosaico ancor più frazionato e composito di quello che ereditava nel 1861 il nuovo stato italiano, instaurando un regime di concorrenza fra le stesse che non può che condannare la parte più debole, ancora una volta il Mezzogiorno d’Italia, all’arretratezza e al degrado.

da “il Manifesto” del 2 aprile 2021
Foto di prvideotv da Pixabay

La transizione ecologica non è una riforma ma una rivoluzione.-di Piero Bevilacqua

La transizione ecologica non è una riforma ma una rivoluzione.-di Piero Bevilacqua

Come bene argomentato da P.G. Ardeni e M. Gallegati l’annunciata rivoluzione verde europea e la sua versione italiana, la transizione ecologica, sembrano esaurirsi in un progetto di innovazione tecnologica orientato a ridurre i gas climalteranti, a limitare gli impatti dell’energia fossile, a rendere insomma il mondo un po’ meno sporco e a continuare tuttavia nella «crescita». Come se il problema fosse solo questo.

C’è un treno che corre a velocità crescente e in traiettoria lineare, senza stazioni e senza destinazione finale, che sembra voler uscire dalla terra e continuare nello spazio delle galassie, e l’ambizione è di fargli produrre meno fumo e meno rumore, ma spingendolo a correre ancora di più. Si fa finta di non capire (o non si capisce realmente) che il problema è il treno, non la qualità dei suoi carburanti. La grande questione è il capitalismo nella fase storica presente e nella configurazione dei suoi poteri a livello mondiale.

Sino a poco meno di un secolo fa il capitalismo, nonostante le alterazioni prodotte nel corso del 1800, era un sistema compatibile con le risorse disponibili e con gli equilibri del pianeta. A partire dagli anni 30 del ‘900, durante la Grande Depressione, alcuni manager americani si accorgono di ciò che Marx aveva già colto a suo tempo: l’industria capitalistica produce molte più merci di quante i salariati e il mercato riescano ad assorbirne. Una contraddizione da cui si poteva uscire in due modi: rendendo più rapidamente deperibili le merci, programmandone l’obsolescenza, e mettendo in piedi una gigantesca macchina pubblicitaria, in grado di inventare sempre nuovi desideri, così da trasformare gli individui in consumatori ansiosi di comprare cose di cui non hanno alcun bisogno.

Questo mutamento storico avviato negli Usa è diventato il modello di tutti i paesi capitalistici e oggi appare configurato in un sistema internazionale il cui tracollo catastrofico è l’esito più probabile. Come ha scritto Luigi Ferrajoli in uno splendido capitolo del suo La costruzione della democrazia (Laterza,2021): è «inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro a catastrofi umanitarie, nucleari, economiche ed ecologiche».

Dunque il problema, gigantesco, è duplice: rendere circolare la corsa del treno, vale a dire rendere riparabili e riciclabili le merci, i materiali ecc, mutare la scala dei bisogni e soprattutto puntare a un nuovo ordine mondiale, a un «costituzionalismo sovranazionale» come dice Ferrajoli, che insieme a Raniero La Valle ha costituito il movimento Costituente Terra. Si tratta di una strada obbligata per la salvezza del pianeta eppure non utopica. Nel dopoguerra, lo ricorda sempre Ferrajoli, la nascita dell’Onu aveva per qualche tempo orientato gli Stati verso una condotta cooperante ormai perduta.

Ma ci sono prove storiche poco note di come si può fare per intervenire con potere politico, sulle produzioni, sui mercati, sui singoli Stati. Il 1988 non evocherà nessun passaggio epocale nella mente dei lettori. Ebbene, in quell’anno vengono avviati in Europa, all’interno della Politica Agraria Comunitaria, i programmi di set-aside (messa da parte) per limitare gli eccessi di produzione agricola e alimentare.

Ai contadini viene richiesto di smettere di coltivare in cambio di un rimborso economico da parte della Comunità Europea. È un piccolo episodio legislativo, ma una svolta di portata simbolica universale. Mai era accaduto nella storia delle società umane che gli stati (i re, gli imperatori) esortassero a non coltivare la terra, ricevendone addirittura un compenso. Per millenni è accaduto il contrario. Questa politica di contenimento degli eccessi di produzione è proseguita con gli allevamenti, le note Quote latte, continua oggi anche con la viticultura.

Nessun imprenditore europeo è oggi libero di coltivare viti sul suo terreno se non possiede quote disponibili che lo autorizzino. Non ha qui senso entrare nel merito di questi provvedimenti, ma voglio sottolineare il loro carattere dirompente e carico di indicazioni per il futuro prossimo. Per la prima volta nella storia un potere sovranazionale interviene sulla libertà d’impresa dei diversi Stati, limita la produzione, regola il mercato.

Dunque, se è stato possibile in Europa deve essere possibile anche a livello globale: è solo questione di volontà politica. Ma questa volontà politica bisogna costruirla subito, puntare a un ordine internazionale di cooperazione non più rinviabile. Per questo restiamo sgomenti di fronte all’ottuso atlantismo del nostro ceto politico e del giornalismo che gli dà voce, incapace di vedere dove corre la storia del mondo.

Come si fa a seguire gli Usa che credono di essere ancora nel ‘900 e di poter continuare la guerra fredda per conservare una centralità ormai perduta? Come si può restare dentro un’alleanza che ha fatto esplodere guerre dappertutto, sta facendo lievitare la produzione e la vendita di armi in ogni angolo del mondo? Un macabro festival degli armamenti, in cui il nostro paese è protagonista, di ordigni di morte, mentre nel mondo già muoiono milioni di persone per un virus. E a quale fasulla mascherata si è ridotta la nostra democrazia, se di fronte a scelte tanto gravi dei governi la voce dell’opinione pubblica conta men che nulla.

da il Manifesto del 31 marzo 2021
Foto di Alexander Vollmer da Pixabay

Gli appuntamenti con la storia che la sinistra rischia di perdere.-di Piero Bevilacqua

Gli appuntamenti con la storia che la sinistra rischia di perdere.-di Piero Bevilacqua

Ha scritto Norma Rangeri a proposito delle possibilità che si aprono alla sinistra in Italia: “Perchè in teoria si tratterebbe di coltivare una vasta prateria, grande quanto l’arcipelago sociale che in questi anni ha conosciuto il protagonismo di movimenti giovanili, ambientalisti,femministi insieme a nuove soggettività cresciute nel lavoro intermittente, manuale e intellettuale” (il manifesto,16.3.2021.

Aggiungerei una considerazione d’insieme. Siamo in presenza della chiusura di un ciclo storico. Una fase che potremmo definire di rivoluzione conservatrice, di globalizzazione sregolata, di dominio capitalistico senza antagonisti. Iniziata 40 anni fa con la riscossa dei partiti conservatori nel Regno Unito e negli Usa, che offrono ai gruppi imprenditoriali vistose riduzioni fiscali, la lotta aperta contro i sindacati, la riduzione del welfare conquistato nel dopoguerra.

Questa rimonta conservatrice si accompagna all’evento straordinario della rivoluzione informatica. Non solo si aprono nuove praterie di profitto per il capitale nella fase storica in cui declinano le fortune dell’industria automobilistica (vero motore del capitalismo novecentesco), ma si offrono alle imprese vantaggi insperati nei rapporti di forza con la classe operaia.

La delocalizzazione delle aziende, la mobilità mondiale dell’impresa di fronte alla fissità locale della forza lavoro, spezza drammaticamente il motore rivoluzionario del modo di produzione capitalistico: il conflitto di classe. E qui trascuriamo tutti gli aspetti di riorganizzazione del lavoro che frantumano il fronte operaio. Non è tutto: l’antagonista storico, pure imbalsamato in burocrazie autoritarie, ma in piedi su un fronte internazionale, il comunismo, tracolla.

E poiché la fortuna dei fortunati non ha confine, il capitalismo internazionale riceve bello e pronto un corpus di dottrine economiche, il neoliberismo – peraltro pluripremiato dai Nobel per l’economia – con cui dare dignità teorica e culturale al suo dominio assoluto sul mondo.

Ora dopo 40 anni guardiamo ai risultati. Le più vertiginose disuguaglianze sociali lacerano le società, la classe media è drammaticamente regredita, per ampi strati sociali il lavoro non è più sufficiente per emancipare gli individui dalla povertà, mentre avanzano disoccupazione e impieghi precari e le protezioni si riducono di anno in anno. In quelle che erano state le società del benessere i legami sociali vanno in frantumi, la vita pubblica viene mercificata, il nichilismo preconizzato da Nietzsche è ormai la stoffa del vivere quotidiano. Si crede che tutto questo non abbia effetti sulla vita politica?

Dismessi i grandi ideali, nei partiti d’un tempo si persegue la carriera personale, il cinico tran tran quotidiano che ha fatto rinascere i relitti del sovranismo e della xenofibia. Nel frattempo le crisi cicliche si sono sempre più ravvicinate nel tempo e con caratteri dirompenti, i conflitti locali, frutto di un assetto mondiale fondato sulla competizione intercapitalistica, costituiscono ormai una guerra mondiale permanente a bassa intensità. A causa delle guerre e per i mutamenti climatici, moltitudini di migranti vagano per il globo varcando mari, muri e fili spinati.

Dopo una serie ravvicinata di pandemie, ne è giunta una che da un anno semina morte e devastazione. Mentre si altera il clima e le risorse collassano, il pianeta Terra è sempre più minacciato. Mai era capitato nella storia che l’umanità potesse intravedere come suo possibile prossimo avvenire la fine della propria specie.

Ebbene, c’è qualcuno che può qualificare questa breve rassegna di trofei con un termine diverso da disfatta, fallimento, tracollo, sconfitta? Non ci interessa la risposta. Non abbiamo in mente il vaste programme di redimere gli imbecilli. La storia ha sempre proceduto a loro insaputa. La domanda è rivolta agli amici, alle donne e agli uomini che hanno davanti questa prateria.
Ebbene, nessuno si illuda che qualche risposta possa venire dal Pd. Giustamente lo hanno ricordato qui anche Alfonso Gianni e Paolo Favilli. Solo perché ora è arrivato Enrico Letta?

Con tutto il rispetto, mi avessero detto Vladimir Ilic Lenin redivivo avrei nutrito qualche speranza. Il Pd è stato un errore strategico, così lo definii alla sua nascita e non ho qui lo spazio per ripetere analiticamente tutte le ragioni di quel giudizio. Ma la storia reale dei sui 13 anni è più eloquente di me.

Allora? Approfitto dell’ospitalità del manifesto per un gesto improprio, un invito a Elly Schlein. perché senza cambiare la sua attuale collocazione politica, non prova a promuovere quel che lei stessa ha auspicato? Perché non prova a mettere insieme gli esponenti più rappresentativi dei vari gruppi e formazioni per una campagna che duri qualche tempo su temi che accomunano tutti? Sulla riforma elettorale mi sono già espresso. Ma anche su obiettivi più limitati, come l’abrogazione della Bossi Fini e lo Ius soli, il reddito per meriti ambientali per tutti i coltivatori che stanno sulla terra, ecc.

Ma importante sarebbe sperimentare in queste occasioni forme di aggregazione che si stabilizzano, che danno vita a organismi più durevoli, per sfidare la frontiera di una nuova forma di politica di sinistra organizzata. Schlein, è una leader, ma di tipo nuovo, non solo perché è donna, ma perché è persuasiva, netta nei contenuti e misurata nei toni. Deve farsi coraggio.
da “il Manifesto” del 18 marzo 2021

Nella riforma fiscale la chiave per riunire l’agorà della sinistra.- di Piero Bevilacqua

Nella riforma fiscale la chiave per riunire l’agorà della sinistra.- di Piero Bevilacqua

Su questo giornale Gaetano Lamanna (3.3.2021) ha sottolineato il rilievo strategico che può assumere la riforma fiscale e l’impegno politico della sinistra a suo sostegno. Il tema merita di essere ripreso su entrambi i versanti. Intanto occorre ricordare che l’odierno sistema costituisce il pilastro portante del dominio del capitale sulla classe operaia degli ultimi 40 anni. Testimonia ancora oggi la controffensiva vittoriosa dell’imprenditoria industriale sulla classe operaia dopo i conflitti e le conquiste degli ani ’70. Fu avviata nel 1981 da Reagan con L’Economic Recovery Tax Act regalando una gigantesca esenzione fiscale ai ceti ricchi, e definita “il più grande taglio di tasse nella storia americana” (M.Prasad, The politics of free market, Chicago University Press, 2006).

La fine della fiscalità progressiva, messa in atto da quasi tutti gli stati, ha significato la riduzione di risorse per scuole, sanità, servizi pubblici, insomma la semi demolizione del welfare che aveva reso prospere e stabili le società avanzate del dopoguerra. La teoria economica del cosiddetto trickle down, di lasciare più soldi ai ricchi perché li avrebbero accresciuti reinvestendoli, con vantaggio di tutti, si è rivelato un grave errore di fatto e un inganno politico.

La ricchezza è aumentata per pochi e la povertà per molti e perfino la solida middle class degli Usa (quella del “sogno americano”) è stata investita da una ondata senza precedenti di immiserimento e di regressione sociale. Il nuovo sistema fiscale dell’età neoliberista è dunque all’origine delle gravi disuguaglianze attuali, dell’aumento del debito pubblico e privato e – nel declino generale dei sindacati e dei partiti popolari – dell’esplosione del populismo che minaccia le democrazie in tante regioni del mondo.

Ora che l’esecutivo Draghi, riprendendo il proposito del governo Conte, promette di mettere mano a una riforma del fisco credo che la sinistra debba, in anticipo, battere un colpo. Nicola Fratoianni, pur se segretario di una piccola formazione politica, Sinistra Italiana, può prendere qualche iniziativa nel Paese. Senza attendere che la riforma venga discussa in Parlamento, sarebbe invece utile e necessario da subito prendere contatti con Maurizio Acerbo, anche lui segretario di un’altra piccola formazione politica, il Partito della Rifondazione Comunista, e concordare con il suo gruppo dirigente un’azione comune di discussione, mobilitazione e confronto.

Così come occorre coinvolgere Fabrizio Barca e i dirigenti del Forum Disuguaglianze, ricco di intelligenze e competenze che costituiscono parte dell’élite della sinistra reale italiana, oggi resa invisibile dall’inerzia dei micro partiti e dai media, che parlano eternamente con le stesse facce e gli stessi stanchi linguaggi.

Il raggio deve essere più ampio. Non solo devono essere coinvolte, con varie modalità, vecchie istituzioni come Il Centro per la Riforma dello Stato, ma anche i movimenti delle donne, i gruppi organizzati come il Gruppo Abele di Don Ciotti o la Costituente Terra di Raniero La Valle e di Luigi Ferrajoli, e tante altre formazioni. Senza dimenticare il più grande movimento di resistenza del nostro Paese, che per ampiezza e durata non ha confronti in Europa, la comunità dei No Tav, in lotta da 30 anni contro lo sperpero di denaro pubblico per un’opera insensata.

Aprire nel paese, prima che in Parlamento, un ampio approfondimento sulle strutture del bilancio pubblico, mostrare con settimane di incontri, in presenza e da remoto, con comunicati, volantini, messaggi via social, interventi in televisione, giornali amici, come vengono spesi dai governi i soldi di tutti gli italiani costituirebbe un grande evento di democrazia, una vasta agorà che ricomporrebbe almeno temporaneamente il vasto e disperso popolo della sinistra reale.

Gli italiani saprebbero quanti miliardi mancano per le scuole, la ricerca scientifica, le borse di studio, la manutenzione delle strade comunali, i mezzi pubblici, e quanti sono spesi per armi destinate a distruggere paesi, a uccidere la popolazione civile in questa o in quella regione dell’Africa e del Medioriente, o per rifornire gli eserciti di paesi che torturano e uccidono i nostri ragazzi, come accade in Egitto.

Le donne del Sud che non possono lavorare perché mancano gli asili nido, verrebbero così informate che ciò accade anche perché i soldi vengono spesi in raccordi autostradali inutili, in stipendi favolosi ai manager pubblici, in sostegno privilegiato a questo o a quell’ente importante per i consensi elettorali che può fornire. Potrebbero finalmente cogliere il nesso tra il comportamento del deputato che hanno eletto e i disagi e la marginalità della propria vita.

L’iniziativa potrebbe costituire anche un contributo propositivo importante: l’ideazione di un sistema fiscale reso più semplice e comprensibile: colpire le grandi fortune, soprattutto immobiliari, e premiare gli investimenti, soprattutto in ricerca e formazione, scoraggiando e punendo le attività inquinanti, incentivando la formazione di giovani ispettori contro gli evasori in ogni angolo del paese e del mondo, prefigurando una fiscalità europea omogenea, che non dia scampo ai colossi multinazionali, nuovi padroni del pianeta.

da “il Manifesto” del 9 marzo 2021
Foto di 👀 Mabel Amber 👀, Messianic Mystery Guest da Pixabay

Cari grillini, una risata vi seppellirà.- di Tonino Perna

Cari grillini, una risata vi seppellirà.- di Tonino Perna

Lettera aperta ai grillini

Cari grillini
Siete cresciuti velocemente. In pochi anni avete conquistato prima le città, poi le regioni, e infine siete arrivati a essere il primo partito in Italia. Il vostro strepitoso successo ha stupito il mondo ed ha riempito di speranze le nuove generazioni. Con le piazze del “Vaffa…” avete mandato a quel paese la classe politica, incapace e corrotta, avete sognato e sperimentato i primi tentativi di democrazia diretta grazie ad internet, avete immaginato un mondo in cui tutti i cittadini, come nell’antica Atene, a turno potevano esercitare il potere politico e amministrativo.

Per questo avete introdotto paletti al numero dei mandati, per questo avete imposto che i rappresenti politici del M5S si dimezzassero gli emolumenti, investendoli in un fondo per le start up delle nuove generazioni. Avete portato un’aria fresca pensando che come piove sui buoni e sui cattivi, così potessero sostenere questo progetto tanto persone di destra che di sinistra.

Giovani, sognatori, con la faccia pulita, avete raccolto i voti della rabbia sociale, di una parte della sinistra radicale quanto della destra xenofoba, avete entusiasmato e portato a votare milioni di italiani stanchi e insoddisfatti. Avete sfiorato il potere nell’elezioni politiche del 2013, ma non avete ceduto alle lusinghe del mite Bersani, perché voi rifiutavate le alleanze, gli inciuci, i compromessi.

Qualcuno vi ha accusato di non volervi prendere le responsabilità che il voto di massa vi aveva affidato. E nel marzo del 2018 avete risposto a queste critiche con un grande senso di responsabilità: andando al governo con la Lega di Salvini. Un matrimonio che è durato un anno e mezzo per colpa del leader leghista che pensava di far fuori Conte e, sull’onda dei consensi che si gonfiavano a dismisura, conquistare i pieni poteri.

Avete tremato un attimo, ma poi vi siete subito ripresi e fidanzati con il maledetto, nel senso del partito di cui avete più parlato male, il famigerato PD. Tutto sembrava filare liscio finché il toscanaccio non vi ha rotto le uova sotto il sedere. E allora, di fronte al fatto di tornare a casa avete abbracciato tutti i partiti possibili e impossibili, compreso il Berlusca che avete sbeffeggiato per un decennio.

Allo stesso tempo, avete mandato in soffitta i limiti al mandato parlamentare, i vostri capi si sono tenuti stretti alle poltrone come nemmeno i più beceri dei vecchi democristiani. Ma, il massimo è stato quando il presidente Mattarella ha indicato Draghi, il banchiere, l’uomo della Troika che ha spezzato le gambe alla Grecia. Ho scommesso, con uno dei pochi giornalisti che vi ha seguito fin dall’inizio, che sareste andati all’opposizione. Ho perso ovviamente. Ma, quello che supera ogni fantasia, che mi ha letteralmente piegato in due dalle risate, che è stato un colpo di genio degno di un grande comico è stata la frase di Grillo su Draghi: è uno di noi, un grillino!

Se un caro amico non mi fermava avrei continuato a ridere con le lacrime, come un fiume in piena. Non ridevo così da tanto tempo. Un grande Grillo. Lui vi ha creato e lui vi ha seppellito… con una risata.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 febbraio 2021

Foto di Gianni Crestani da Pixabay