Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.
Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.
Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.
Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.
È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.
Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.
Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.
Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.
Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.
Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.
da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022
Una prospettiva agricola per il Sud.-di Piero Bevilacqua
A me è accaduto , alcuni anni fa di chiedere in più occasioni, in vari bar della città di
Catanzaro, una spremuta di arancia e di sentirmi rispondere con una
domanda:”Fanta?”. Spero che voi cogliate la gravità un po’ ridicola di tale risposta.
Noi lasciamo marcire sul campo le nostre arance e vendiamo nei bar il prodotto
industriale di una multinazionale.
E’ un esempio, piccolo certamente, ma significativo
di un quadro generale drammatico della nostra economia, della sua dipendenza
“coloniale” anche per i beni derivati dall’agricoltura. Noi non riusciamo a produrre
ricchezza dalle nostre terre, con il nostro vantaggiosissimo clima, con i nostri saperi
agronomici, le nostre tradizioni artigianali e culinarie, e veniamo colonizzati dai
prodotti fabbricati in altre parti del mondo.
Nel gesto di consumare un’aranciata Fanta, così come le pesche da agricoltura
industriale dell’Emilia, sono condensate varie conseguenze di ordine economico,
culturale, salutistico. E’ ovvio che se compriamo frutta o sue trasformazioni
provenienti da fuori, noi diamo il nostro denaro ad altre economie e impoveriamo il
nostro territorio. Ma in questo modo noi rinunciamo a un prodotto sano, coltivato in
loco, fresco, preferendo un bene non solo scadente, ma potenzialmente dannoso per
la salute.
Sapete perché le pesche che giungono nel nostro mercato hanno un bel
colore e risultano tutte uguali, ma sanno di niente? Perché sono pesche “agli ormoni”.
In natura non accade che i frutti maturino sulla pianta tutti insieme e poiché nelle
aziende agricole industriali, dove la raccolta delle pesche è meccanizzata, occorre
che la macchina raccoglitrice trovi i frutti nello stesso grado di maturazione. Per
ottenere tale risultato gli imprenditori, spruzzano sulle piante dei preparati con
ormoni vegetali (auxine), così che i frutti maturino tutti insieme.
Credete che la perdita dei nostri frutti, verdure, legumi, cereali tradizionali e dei piatti
collegati con questo nostro patrimonio di beni e di cultura, sia senza conseguenze per
la nostra salute?
Una sola, autorevolissima testimonianza, relativa a tutto il nostro
Sud, che negli ultimi anni ha perso tanta agricoltura e cucina tradizionale. Nel 2006 un
rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità relativo alla diffusione dei tumori in Italia
scriveva: “A mano a mano che abbiamo abbandonato le nostre agricolture tradizionali,la nostra
antica alimentazione, acquisendo gli standard dei consumi industriali, ci siamo
sempre più esposti alle malattie degenerative”.
Un polo agricolo e scientifico.
E’ possibile invertire questa tendenza, che ovviamente riguarda tutte le nostre
campagne?Un declino che spopola paesi, impoverisce famiglie, distrugge la
biodiversità, desertifica territori? Oltre che necessario, credo che sia possibile e che
anzi il rovesciamento di tale tendenza possa costituire un progetto in grado di
appassionare i nostri giovani più intraprendenti. Occorre guardare al territorio non
più come una realtà inerte, in attesa di essere “valorizzato” con la costruzione di case
e centri commerciali (veri centri di raccolta dei nostri soldi che vengono portati
altrove) ma come luoghi fertili, potenziali produttori di beni e di ricchezza.
A Catanzaro, nella località di Giovino, potrebbe nascere un Parco delle Varietà
Frutticole Mediterranee, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e
centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono
presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo
amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano
aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà.
Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo
hanno costituito anni fa il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia
di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori
per la loro fioritura spettacolare. Ma l’esempio più importante che io conosca sono i cosiddetti Giardini
di Pomona, realizzati nelle campagne di Cisternino, in Puglia. Qui, un solitario
amatore è riuscito a piantare circa mille piante da frutto, di cui oltre 400 varietà di
fichi.
Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà
vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura
fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro,
dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel
resto del Sud. Giovino dovrebbe diventare il modello e il centro d’irradiazione di una
nuova arboricoltura di qualità, fondata sulla ricchezza della varietà. E’ ovvio che la
riscoperta delle varietà antiche e la messa in produzione dovrebbe riguardare anche
le nostre piante orticole, i legumi, le erbe officinali, aromatiche, ecc.
Ma ciò che bisogna sottolineare è una novità storica importante. La nuova agricoltura
non è un settore economico arretrato e residuale, ma un ambito avanzato e di
avanguardia dell’economia del nostro tempo. Essa non si limita più a produrre carote
o patate, ma crea beni molteplici e svolge, come già accade in Italia e in tante regioni
d’Europa, numerose funzioni. Nei frutteti, ad esempio, è possibile allevare a terra i
volatili (polli, oche, anatre, tacchini) col risultato di contenere le erbe spontanee,
fertilizzare costantemente il terreno senza dover ricorrere a concimi, aggiungere al
reddito della frutta anche quello della vendita delle uova, dei pulcini, della carne. Ma
in ogni azienda agricola non industriale, accanto alla produzione normale oggi si fa
trasformazione dei prodotti ( vino, conserve, marmellate, miele, frutti essiccati,ecc),
ristorazione, talora accoglienza turistica, didattica per le scuole, agricoltura sociale per
i portatori di handicap, ecc.
L’azienda agricola è inoltre un presidio territoriale, fa vivere gli abitati e i villaggi vicini,
protegge il suolo dall’abbandono e dall’erosione,
conserva e rinnova il paesaggio, tutela la bellezza dei nostri territori e un ambiente
sano. Ai piccoli contadini oggi l’UE dovrebbe fornire un reddito di base per il prezioso
lavoro che svolgono di custodi e manutentori del territorio. E questa è una battaglia in
corso.
A tutte queste novità occorre aggiungere alcune importanti informazioni, decisive per
far comprendere che le nostre campagne costituiscono un potenziale economico
straordinario. Negli ultimi anni, grazie a un decisivo mutamento culturale, è esplosa
una nuova domanda di prodotti salutistici, che riguardano sia la cosmesi sia,
soprattutto, l’alimentazione. Sempre di più vengono richiesti prodotti cosmetici non
industriali, che non danneggiano la pelle, composti da materiali naturali e non
chimici.
Il successo straordinario che sta avendo in questi anni l’aloe rappresenta
l’esempio più evidente. Ma in espansione è tutto il vasto campo degli integratori
alimentari e dell’alimentazione macrobiotica, soprattutto i semi, ma anche gli oli
essenziali, i succhi, le tisane,ecc. che incrementano la domanda di lino, canapa,
sesamo, malva, melagrane, ecc. Per le nostre terre, grazie alla mitezza del nostro
clima, alla ricchezza della nostra biodiversità naturale, si aprono prospettive di grande
interesse, che indicano nell’agricoltura, soprattutto ai nostri giovani, non un ingrato
esilio di fatica e miseria, ma un campo di continue scoperte e innovazioni e di
possibilità di occupazione e di reddito.
Naturalmente, fondamentale è associare alla produzione agricola la trasformazione
artigianale dei prodotti. Questo significa non soltanto accrescere il valore dei beni
cavati dalla terra, ma ambire anche a un mercato più vasto, di scala internazionale.
Trasformare la cipolla di Tropea in una pasta racchiusa in un vaso, o perfino in un
tubetto, utilizzabile nei ristoranti, com’è stato fatto, significa farne un prodotto
mondiale, con un valore simbolico che esalta un intero territorio.
Perciò a Giovino occorre progettare e incoraggiare la nascita di piccole imprese di trasformazione,
in modo da formare un vero e proprio distretto agro-industriale, come ne esistono
anche di dinamici e fiorenti nella nostra Calabria. Occorre uscire da una subalternità
culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. Vi ricordo che la Sicilia, il
giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice di agrumi nel mondo, non
ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la
Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. Basta la Fanta.
Infine. Se l’agricoltura non significa più coltivare patate e cipolle, se è un ambito
complesso di attività in continua evoluzione, è evidente che occorre un contributo
della ricerca scientifica per sorreggerla. A tal fine un completamento dell’intero
progetto sarebbe la creazione di un Istituto per la studio della biodiversità agricola e
delle piante della regione mediterranea. Un centro di ricerca, che potrebbe
connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di
studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche
il miglioramento varietale, le patologie, ecc. Un progetto ambizioso, in grado di
attirare tante giovani intelligenze, che potrebbe essere finanziato dall’UE e che
intensificherebbe anche i rapporti di collaborazione scientifica con i Paesi che si
affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo.
Democrazia e ricorsi elettorali in Calabria.- di Felice Besostri, Caterina Neri, Enzo Paolini
La legge elettorale vigente, costituita dalla legge165/2017 (Rosatellum come integrata e modificata dalla legge n. 51/2019 e completata dal decreto legislativo 23 dicembre 2020, n. 177 sui nuovi collegi elettorali), presenta profili di contrasto con norme costituzionali fondamentali, quali gli articoli 3, 6. 48, 51, 56 e 58, che garantiscono un voto eguale, libero e personale oltre che diretto e il diritto di candidarsi in condizione di eguaglianza alla luce dei principi affermati nelle sentenze della Corte Cost. n. 1/2014 e n. 35/2017.
La situazione si è aggravata con l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 1/2020 sulla riduzione del numero dei parlamentari con la Camera che passa da630 a 400 membri e il Senato da 315 a 200 membri elettivi, e con la conseguente estensione dei collegi uninominali maggioritari (3/8) e quindi dei loro voti, che alterano i risultati della quota proporzionale (5/8), senza la possibilità del cosiddetto “scorporo”.
Tecnicismi che non interessano a nessuno perché con quello che ci succede intorno, dalla pandemia alla guerra, c’è altro cui pensare. Ma questo non è un argomento.
La legge elettorale è la legge che regola il rapporto tra rappresentati e rappresentanti, non proprio una minuzia nella vita democratica. Dalla legge elettorale discende la selezione della classe dirigente e la sua qualità, dal Parlamento fino all’ultimo Comune e all’ultima ASL. Solo che siccome è difficile da capire giornaloni e TV hanno deciso di non occuparsene, cosi i cittadini non se ne interessano e restano sudditi.
Il fatto è che – come acutamente osservato da Silvia Truzzi sul Fatto Quotidiano, -più una legge elettorale è difficile da capire, meno bisogna fidarsi.
Gli elettori si sono stancati di fare ricorsi per affermare il loro diritto di votare in conformità alla Costituzione e d’aver avuto ragione, ben due volte, dalla Corte Costituzionale e constatare che i parlamentari non ne tengono conto, anzi se ne infischiano. La ragione è semplice:con le liste bloccate devono solo ubbidire agli ordini dei capi partito, che li nominano collocandoli nelle teste di lista e non rendere conto agli elettori, che non possono esprimere preferenze e neppure contrarietà a singole candidature.
In vista delle elezioni municipali del 12 giugno è ripreso il dibattito sulla legge elettorale per il rinnovo del Parlamento. Le prossime elezioni alla scadenza naturale della primavera 2023 o anticipate in caso di crisi del Governo Draghi saranno le prime con il Parlamento tagliato in media del 36,50%, come conseguenza della legge costituzionale n.1/2020.
Con il voto congiunto obbligatorio, l’assenza di scorporo dei voti ottenuti nel maggioritario, le soglie nazionali anche per il Senato, (benché l’art. 57 Cost. preveda la sua elezione su base regionale,)c’è il rischio che nel prossimo parlamento siano rappresentate non più di 4/5 liste e al Senato ,nelle regioni più piccole ,non più di 3. Sono inoltre favorite le coalizioni, che non hanno più, dopo la riscrittura dell’art. 14 bis del dpr n. 361/1957, un unico capo politico e nemmeno un programma comune.
Le liste coalizzate per essere conteggiate a favore delle coalizioni nella parte proporzionale basta che superino la percentuale dell’1%, mentre le liste non coalizzate devono raggiungere la soglia del 3%. La violazione degli articoli 3, 48 e 51 Cost., nonché degli artt. 56 e 58 è evidente. Non c’è voto diretto, eguale. libero e personale.
E’ una legge elettorale “di palazzo” fatta per perpetuare il potere e tenere fuori i cittadini elettori che non contano assolutamente niente . Poche persone nominano l’intero parlamento . Dall’entrata in vigore del Porcellum nel 2005 e del Rosatellum nel 2017 sono 18 anni che non possiamo scegliere i parlamentari causa delle liste totalmente bloccate delle elezioni 2006, 2008 e 2013 e nel 2018 nemmeno scegliere liberamente il candidato uninominale maggioritario, a causa della sanzione della nullità del voto disgiunto.
Tuttavia, questa legge non sarà cambiata, se non viene mandata in Corte Costituzionale quest’anno, affinché si possa pronunciare prima delle elezioni 2023. Ed e’ questo il senso di questo articolo . Attualmente pendono 3 ricorsi presso le Corti d’ Appello di Bologna, Messina e Roma e 4 presso i Tribunali di Catanzaro e Reggio Calabria e di recente Torino e Trieste.
Quelli presso i Tribunali calabresi evidenziano più di altri le disparità di trattamento, quindi la incostituzionalità della legge elettorale perche sottopongono ai Giudici l’incredibile disparità che le normative applicabili comportano ad esempio in Calabria e nella Regione Trentino-Alto Adige/Sudtirol.
Nel Senato il Trentino-Alto Adige/sudtirol, che aveva 7 seggi come Abruzzo e Friuli-V.G., con il trucco di dare il minimo di 3 alle Province Autonome ne avrà 6, quindi il taglio è stato del 14,28% e non del 36,50% come nelle altre regioni.
Con 6 senatori il Trentino A.A. ne ha più dei suoi ex-compagni di 7 ABRUZZO e FRIULI, che ne hanno 4 ma anche di Liguria, Marche e Sardegna che ne avevano 8 ed ora 5. Tutte queste 5 Regioni sono più popolate del Trentino-Alto ADIGE, che al censimento 2011 aveva 1.024.000 abitanti.
MA E’ IL CONFRONTO CON LA CALABRIA CHE E’ SCANDALOSO .
Con 1.959.000 abitanti, quasi il doppio (i trentini-sudtirolesi sono il 52,27% dei calabresi) aveva 10 senatori ed ora ne ha 6, con un taglio del 40%. Prima per eleggere un senatore bastavano 195.900 residenti calabresi, ora ne servono 326.500, mentre nella regione trentina-sudtirolese ne bastano 170.666.
Ma i privilegi non finiscono qui: per la legge 51/2019 sia alla Camera che al Senato ci sono 3/8 di seggi maggioritari e 5/8 proporzionali.
Ebbene alla Camera, in Trentino A.A. i seggi maggioritari sono 4 e i proporzionali 3. Al Senato sono 6 maggioritari., mentre in Calabria ,con il doppio degli abitanti ,sono 2 maggioritari e 4 proporzionali.
L’altra discriminazione è per le minoranze linguistiche, che hanno norme speciali di favore solo nelle Regioni Autonome a statuto speciale, eppure la Calabria ha tre minoranze linguistiche riconosciute dalla legge n. 482/1999, di cui la grecanica antichissima, millenaria e l’albanese di insediamento plurisecolare.
Gli albanofoni, peraltro colpiti dall’emigrazione, hanno una consistenza numerica superiore alle minoranze linguistiche slovena, ladina e francese, tutelate in regioni a statuto. Nei ricorsi si censura la discriminazione tra minoranze linguistiche e tra le minoranze linguistiche tutelate e le minoranze politiche con la stessa consistenza elettorale.
Queste discriminazioni degli elettori ed elettrici calabresi meritano un vaglio di costituzionalità, che spetta ai Tribunali Civili di Catanzaro e Reggio Calabria promuovere dovendo giudicare sui ricorsi da noi proposti .
da “il Quotidiano del Sud” del 13 giugno 2022
Di cattivi esempi sono lastricate le vie dell’eolico.- di Ferdinando Laghi
A Monterosso Calabro, in provincia di Vibo Valentia, lungo il crinale del Monte Coppari, quattromila faggi d’alto fusto saranno abbattuti, ove non si intervenga, per far posto a sei pale eoliche di 150 metri d’altezza, mentre lo splendido paesaggio del golfo di Squillace rischia di essere irreparabilmente stravolto e deturpato dall’insediamento di una selva di aerogeneratori offshore. Terribili aggressioni – ambientali e non solo- di una inaccettabile speculazione affaristica.
Né vale invocare, a giustificazione di interventi ai quali fortemente si oppongono Associazioni ambientaliste, nazionali e locali, e Comitati sorti per difendere il territorio calabrese da assalti ormai continui, la tesi delle energie rinnovabili, “pulite”, necessarie per bilanciare e sostituire quella da combustibili fossili. La faccenda non è né così lineare, né così semplice.
Basti pensare al fatto che non vi è alcun piano energetico che preveda una progressiva sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili, ma le une si vanno a sommare alle altre in una brutta “addizione”, che nuoce alla Calabria e a chi vi abita.
Nel 2020 la Calabria ha avuto un surplus di produzione energetica del 179,5%. Nello specifico, l’eolico con i suoi 400 impianti, ha contribuito con 2.132 GWh – pari a circa il 13% del totale- alla produzione complessiva calabrese di 16.597 GWh (dati TERNA). Una quantità di molto superiore ai consumi che, invece, negli scorsi anni hanno avuto una tendenza al decremento. Per altro, ad onta della sua “spendibilità” di immagine, anche quella eolica presenta delle criticità che dovrebbero essere conosciute e ben valutate prima della concessione di autorizzazioni, richieste, in realtà, soprattutto per mettere le mani sui ricchi incentivi economici previsti per tali fonti energetiche.
Gli impatti collegati alla presenza di una centrale eolica sono numerosi, non soltanto dal punto di vista ambientale e paesaggistico, ma anche per i rischi per la salute. Senza tacere dei danni che queste iniziative possono determinare alle economie locali. Ad esempio, nei casi di cui si parla, alle attività turistico-escursionistiche del vibonese o dei pescatori del crotonese.
Le dimensioni delle pale eoliche sono andate progressivamente aumentando nel tempo – la torre può essere alta 150 metri e oltre, mentre il diametro disegnato dalle pale rotanti arriva a superare i cento metri.
I luoghi scelti per la collocazione delle turbine sono in genere zone boscose, come i crinali montuosi, o comunque le aree rilevate, più esposti ai venti. Ma per raggiungerle è necessario costruire strade, abbattere alberi, distruggere la vegetazione presente, contribuendo significativamente al consumo di suolo. L’area individuata per il posizionamento di ogni singola pala viene ricoperta da una colata di cemento per ancorare la torre al terreno. C’è poi un altro impatto certamente non trascurabile, rappresentato dalle opere di adduzione dell’energia prodotta agli elettrodotti che devono veicolarla, con l’ulteriore impatto ambientale su flora e fauna, magari in aree protette, come le Zone di Protezione Speciale (ZPS) che andrebbero ben diversamente salvaguardate. Si è anche molto parlato dei danni all’avifauna per gli uccelli colpiti dalle pale rotanti, problema forse enfatizzato in passato, ma comunque presente e da considerare in una valutazione complessiva costi-benefici.
Ci sono poi ulteriori ricadute, questa volta sulla salute umana. Ove la distanza dalle abitazioni non sia sufficiente, il rumore può rivelarsi disturbante e dannoso per la salute, come la “Sindrome da turbina eolica”, caratterizzata da una serie di sintomi (tra cui vertigini, mal di testa, nausea, offuscamento della vista, tachicardia, insonnia, disturbi della libido).
Nel caso le pale rotanti si interpongano tra l’edificio e i raggi del sole, si verifica il cosiddetto “shadow flickering” –letteralmente, ombreggiamento intermittente- a causa della rapida sequenza sole-ombra-sole, determinata dal ruotare delle pale. Inoltre la presenza di una produzione di energia elettrica e il suo conferimento agli elettrodotti di trasporto, genera inevitabilmente campi elettromagnetici (CEM), ben noti determinanti ambientali di salute.
Né si può non citare un aspetto che, in Calabria, ha toccato livelli inquietanti, quello del malaffare e della infiltrazione criminale e ‘ndranghetista. La storia della produzione energetica dell’eolico calabrese è punteggiata da una lunga teoria di scandali e inchieste della magistratura – da “Eolo” nel 2006, a “Via col vento” del 2019- con indagini che hanno riguardato politici del governo regionale, multinazionali dell’energia e faccendieri vari, che dal grande business dell’eolico (ogni megawatt installato rende almeno 300mila euro l’anno per trenta o anche quarant’anni) hanno tratto enormi vantaggi economici, arrivando a far modificare, per il proprio tornaconto, il Piano Eolico Regionale. Il tutto spesso all’ombra di “famiglie” ‘ndranghetiste che hanno tratto da questo business, che continua senza conoscere crisi, i proventi maggiori.
da il Manifesto del 10 febbraio 2022
Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto
Le città calabresi sono quasi del tutto prive di verde pubblico perché a partire dalla metà del secolo scorso sono state impetuosamente e disordinatamente edificate senza alcun piano regolatore che ne organizzasse lo spazio. Per iperbole si potrebbe dire che, dagli anni ’50 in poi, si siano costruiti prima i palazzi e poi, nello spazio che rimaneva, le strade, tanto sono urbanisticamente inadeguate.
Fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’esempio delle città europee e del nord Italia aveva indotto le Amministrazioni cittadine a progettare secondo gli antichi dettami ‘ippodamei’: vie parallele e perpendicolari orlate, su entrambi i lati, da alberi, e interrotte da piazze circolari o quadrangolari che costituivano pause alberate o, comunque, destinate all’uso ricreativo pubblico. Di tali modelli urbanistici se ne possono trovare ancora tracce, in misura diversa, a Cosenza, a Vibo Valentia, a Lamezia, a Crotone, a Reggio Calabria e a Catanzaro.
Le nostre città, invece, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, se si esclude la Rende di Cecchino Principe. La sola arteria alberata costruita negli ultimi 70 anni, Viale Giacomo Mancini, è stata inopinatamente e inspiegabilmente smantellata e sostituita con una distesa di mattonelle, la piantumazione di qualche stento alberello e la creazione di piste ciclabili di bitume dipinto.
Negli ultimi decenni, è prevalso -a Cosenza, ma non solo- un modello, un po’ piccolo borghese, di elegante città “dechirichiana” che nella concezione del grande artista suscitava, nella sua metafisica astrazione, la sensazione di un luogo disincarnato, privo della presenza umana e, naturalmente, delle piante. Il problema è che -mentre le città dipinte da de Chirico sono il frutto di una raffinatissima operazione di sottrazione che riduce tutto a volumi semplici votati all’essenza e all’eleganza- le piazze, le piazzette e gli slarghi cosentini pavimentati, negli ultimi dieci anni, con cemento oppure con piastrelle grigiastre senza un solo albero, pianta o arbusto -che pure ambiscono a costituire un apparato formale- riescono solo a trasmettere inautenticità, angoscia e spaesamento.
I Centri storici delle città calabresi sono stati abbandonati o ignobilmente deturpati da innumerevoli superfetazioni e inserzioni cementizie, ma quello di Cosenza conserva una sua straordinaria unitarietà armonica dovuta al suo tumultuoso svuotamento avvenuto in un breve arco temporale che non ha permesso inadeguati rifacimenti, inserzioni moderne e superfetazioni. Ma quella che, secondo lo storico greco Strabone, era l’antica capitale dei ‘Brettii’ che giace dal IV secolo a.C. sulla pendice settentrionale del colle Pancrazio, sta sbriciolandosi e franando verso valle. E non solo nessuno ha posto rimedio a questo disastro, ma la precedente Amministrazione ha, addirittura, demolito case e palazzi nel cuore del Centro storico, a Santa Lucia, e lungo la sua via principale, il medioevale Corso Telesio, radendo al suolo, senza alcuna autorizzazione della Soprintendenza ABAP, alcuni edifici impiantati nel XVIII secolo con l’irricevibile motivazione che erano pericolanti.
Demolizione palazzi fra Corso Telesio e Via Gaeta
In questi ultimi anni, invece di investire energie, tempo e denari nel Centro storico della città, sono state spese decine e decine di milioni di euro per ponti spropositati e fuori contesto, per desolati e angoscianti parcheggi/piazze che attirano traffico nell’attuale centro cittadino, per il rifacimento del corso principale, di piazze, piazzette e slarghi nella città moderna senza piantare un albero, una pianta, un solo ciuffo d’erba come se fossero destinate ad abitarla solo le figure e le statue di de Chirico.
Per trasformare in spazi vivibili e non spaesanti tutte queste sterili e orribili superfici, si potrebbero sostituire queste ultime con ‘giardini pensili orizzontali’, come nel caso della vera e propria “isola di calore urbana” di Piazza Fera, e mettere a dimora ogni tipo di pianta adatta ovunque (per esempio a Piazza Riforma, a Piazza Loreto, davanti alla Chiesa di San Domenico etc.) si possa raggiungere, rompendo il cemento e le piastrelle cinesi, il suolo originario.
Sarebbe un’operazione salvifica per la salute dei cittadini e per il clima della città ad un costo contenuto, peraltro, perché il ‘verde pensile orizzontale’ può essere realizzato su tutti i tipi di coperture di edifici esistenti o di nuova costruzione perché è un impianto vegetale su uno strato di supporto strutturale impermeabile leggero, come ad esempio solette di calcestruzzo, solai di cemento e di ferro etc.
Un altro enorme spreco di danaro pubblico è rappresentato dal tentativo di erigere un Museo intitolato ad Alarico, un Museo che potrebbe esser chiamato, a ragion veduta, il Museo del Nulla perché non conterrebbe materialmente nulla, visto che non abbiamo neanche un solo frammento di ceramica che sia riconducibile ad Alarico o ai suoi Visigoti. Per costruirlo il Comune di Cosenza ha acquisito dalla Regione, per ben 2 mln. e 253.000 euro, l’ex Hotel Jolly che sorgeva alla confluenza dei due fiumi, ai piedi del Centro storico. L’edificio è stato acquistato nel 2017 per abbatterne gli ultimi piani e trasformarlo nel rutilante, a giudicare dai rendering pubblicati, Museo del Nulla-Alarico che, a lavori finiti, sarebbe venuto a costare la strabiliante cifra di 7 milioni di euro, esclusi gli arredi interni. Nonostante che la Direzione generale del Mibact avesse negato l’autorizzazione a ricostruirlo, si è proceduto alla demolizione -anche questa non autorizzata dalla Soprintendenza, ma solo dalla Provincia- dell’ex Hotel Jolly abbattendolo quasi tutto, ma, forse complice la pandemia, i lavori si sono fermati e, per fortuna, non più ripresi.
L’ex Jolly in demolizione
L’attuale Sindaco, l’avvocato Caruso, ha ripetutamente affermato che non ha intenzione di insistere sulla leggenda di Alarico e, dunque, si pone concretamente il problema di cosa fare di quello spazio, una volta sgombrate le macerie. Credo che, tenendo conto della stretta relazione che esso intrattiene con il Centro storico, la cosa migliore sia che tutto quello spazio, di circa 2.500 mq., diventi un luogo come quelli che in Francia sono chiamati ‘jardins familiaux’: un profumato giardino piantumato con alberi, piante ed essenze tipiche del cosentino e delle rive fluviali oppure un rigoglioso orto urbano la cui cura potrebbe essere affidata, in entrambi i casi, ai cittadini del Centro storico ed alle loro Associazioni. Si inizierebbe, con poca spesa, a riportare un po’ di verde in città.
Area libera per un impiantare un giardino
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“Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro
pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra
idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma
parte integrante della natura”. (Stefano Mancuso)
II. Gli orti in città.
Uno degli aspetti urbanistici e paesaggistici più caratteristici di Siena è la presenza, all’interno delle mura medievali, di ampi spazi verdi non urbanizzati che ammontano a ben 32 ettari, rispetto ai 165 complessivi della città murata. Una vera e propria “campagna”, spesso destinata a colture ortive, che si incunea dentro la città formando una sorta di cuscinetto tra il costruito e la cinta muraria medesima. Le città calabresi non hanno la fortuna di aver avuto in dono questa eredità storica, ma potrebbero dotarsene senza troppe difficoltà e spese come nel caso, per esempio, di Catanzaro e di Cosenza.
Un paio di anni fa Piero Bevilacqua, insigne storico contemporaneista, aveva avanzato la proposta di far nascere a Giovino, poco a nord di Catanzaro Lido, un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”. L’area propriamente naturalistica di Giovino, che più esattamente si trova fra i torrenti Castace e Alli, misura circa 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara. La spiaggia di questo luogo ha la peculiarità di modellarsi in ondulazioni sabbiose alte anche 3-4 metri che formano l’ecosistema dunale, un ambiente naturale di grande bellezza e fragilità da preservare. Ma tutta questa porzione di territorio che è caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupati da case, strade, ma anche da orti, aziende agricole, campagne e aree incolte.
Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto la solita cementificazione mentre Bevilacqua crede che sia possibile avviare un modo diverso e ambientalmente sostenibile di dare valore al territorio facendo nascere un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. La Calabria è, infatti, una delle regioni più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia: decine o, forse, centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, etc. Un “Parco”, dunque, al posto di nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare.
La proposta che avanzo per Cosenza è la nascita di centinaia di “orti urbani” sui terreni cosiddetti marginali della città situati lungo i fiumi Busento e Crati, prima e dopo la confluenza. Sulla base di un calcolo approssimativo fatto sulle immagini satellitari questi terreni, che Gilles Clément (Clément 2005) chiama “terzo paesaggio” perché non sono propriamente né città né campagna, avrebbero una superficie di circa 30-35 ettari di proprietà del Demanio o del Comune medesimo. I primi “orti urbani” nascono, in Europa, nel corso del XIX secolo tanto che, per essere più precisi, verso la metà dell’’800 nascono i primi “Kleingarten” tedeschi, spazi riservati esclusivamente ai bambini. Ma è verso la fine dello stesso secolo che l’idea degli “orti urbani” inizia a diffondersi attraverso i “Jardin Ovrieurs”, nati dall’attività del politico e professore francese Jules Lemire (F. Panzini, Coltivare la città, DeriveApprodi 2021).
Uno dei tanti “jardins ouvriers” a Parigi.
Questi giardini operai avevano un duplice obiettivo: coltivare l’orto come possibile fonte di risorse economiche e alimentari, ma considerarlo anche come forma di sviluppo e di arricchimento del rapporto famigliare racchiuso nello slogan: “Il giardino è il mezzo, la famiglia è lo scopo”. Anche in Italia, dopo alcuni esperimenti dei primi del ‘900, hanno iniziato a diffondersi gli “orti urbani”, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana, ma anche nel Veneto, nelle Marche e in Campania.
La Regione Toscana, nell’ambito del progetto “Giovanisì”, ha promosso e finanziato con 3 milioni e 300mila euro il progetto “Centomila orti in Toscana”, con la finalità di sperimentare e diffondere, con il coinvolgimento dei Comuni toscani, un modello di orto urbano toscano, finalizzato non solo alla produzione, ma anche al recupero di aree degradate e alla definizione di aree di aggregazione sociale e di scambio culturale, nel quale i giovani ricoprono un ruolo fondamentale.
Le Amministrazioni comunali interessate, come quella di Siena, partecipano ad un bando per assicurarsi il finanziamento così concepito: ogni singolo orto deve avere una dimensione tra i 50 e un massimo di 100 metri quadrati; i complessi di orti ne conterranno tra i 20 e i 100, mentre ai Comuni va un finanziamento compreso tra i 50mila e i 100mila euro necessari per dotare questi complessi di infrastrutture permanenti come il reticolo viario, il sistema di irrigazione, la recinzione esterna e interna degli orti et cetera.
Gli orti urbani aiutano l’ambiente e fanno bene allo sviluppo economico e sociale del territorio. Promuovono la biodiversità e sono salutari perché portano sulla tavola frutta biologica senza pesticidi. Per dare l’idea dell’efficienza di un “orto urbano”, si ricorda che bastano circa 20 metri quadrati di terreno per produrre sufficiente verdura per una persona per un anno intero. Gli “orti urbani” non solo fornirebbero un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, contribuirebbero all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima, ma favorirebbero anche la tutela della biodiversità agricola, la riduzione della produzione di rifiuti (l’umido sarebbe utilizzato come fertilizzante) e potrebbero generare, con un’adeguata progettazione, una filiera agroalimentare corta. Le esperienze, ormai secolari, ci dicono che gli “orti urbani” sono uno strumento potentissimo per l’inclusione sociale perché danno nuova vita a zone e quartieri potenzialmente isolati o problematici, favoriscono l’amalgamazione sociale e la crescita di nuovi gruppi di persone socialmente attive, accomunate dallo stesso obiettivo lavorativo e dall’appartenenza ad uno stesso luogo.
Pur volendo prendere in considerazione l’uso solo della metà del territorio marginale cosentino disponibile, avremmo a disposizione una quindicina di ettari, cioè 150.000 mq., che sarebbero sufficienti per ben 1.500 unità ortive da 100 mq. Se teniamo conto che ognuno di questi “orti urbani”, senza quasi nessun costo per il Comune se fossero finanziati dalla Regione con i fondi del Pnrr, potrebbe soddisfare il fabbisogno di frutta e verdura di una famiglia di 5 persone per un anno, bisogna riconoscere che essi potrebbero fornire un aiuto economico consistente per le famiglie in difficoltà e, nello stesso tempo, rappresenterebbero una svolta ecologica ed estetica di grande rilievo.
Aree demaniali o comunali libere per la piantimazione di orti urbani.
Insieme alla ripiantumazione ed alla rivitalizzazione degli spazi verdi all’interno del tessuto urbano, gli “orti urbani” formerebbero una magnifica ghirlanda di piante e di alberi intorno a tutta la città rendendola, nel complesso, un esempio di vera e felice riconversione ambientale in tutto il Mezzogiorno e in tutta Italia.
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III. Il verde nel Centro storico.
La lagnanza sull’andamento della cosa pubblica che capita di leggere o ascoltare forse più di frequente in Calabria e al Sud, è quella che riguarda l’abbandono dei Centri storici delle città e dei paesi. Un problema grave e di difficile soluzione, ma che, grazie al finanziamento del Pnrr, potrebbe, o avrebbe potuto, avere un esito positivo. Una delle linee di finanziamento del Pnrr e del Fondo complementare è destinata all’edilizia residenziale pubblica per l’ammontare complessivo di quasi 2 miliardi di euro che dovrebbero esser spesi in quota maggiore nel Mezzogiorno per colmare il divario infrastrutturale presente tra Nord e Sud.
Una parte consistente dei suddetti finanziamenti potrebbe e dovrebbe esser usata, dunque, per far rivivere i Centri storici della Calabria iniziando da quello di Cosenza perché è il più grande, è quello più omogeneo, è quasi del tutto disabitato e, soprattutto, è in via di disfacimento. Un Centro storico così grande, urbanisticamente articolato e disabitato può essere restaurato e recuperato solo se si acquista e/o si espropria il maggior numero possibile di case e di palazzi per creare un “bene comune” unitario e, naturalmente, pubblico.
Un’operazione simile fu fatta nei primi anni ’70 per il Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965. La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare.
Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini (Agostini 2013). Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.
Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).
Schema interventi nel Centro storico di Bologna nel 1972
La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).
Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).
I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).
Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a circa 14 milioni di euro, vale a dire 6 milioni meno del costo del Ponte di Calatrava.
Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, elaborato un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, si sarebbe potuto chiederne, da subito, il finanziamento per mezzo del Pnrr non solo per l’edilizia pubblica residenziale, ma anche per la cosiddetta ‘transizione ecologica’. Fra i 7 progetti presentati e finanziati per la ‘rigenerazione urbana’ con il Pnrr, Cosenza, purtroppo, non figura, ma voglio sperare che ancora si possa riuscire ad accedere a questi fondi e che si possa ristrutturare il Centro storico di Cosenza.
Credo che si possa farlo ponendo particolare attenzione al verde pubblico iniziando, come ho già scritto, con la trasformazione in giardino dello spazio dell’ex Jolly, ma anche piantando alberi e piante a Piazza dei Valdesi, in Piazza Spirito Santo, lungo entrambe le rive del Crati e del Busento, nello spazio un tempo occupato dalla caserma dei Pompieri ora solo parcheggio, lungo le strade e nella piazza della frazione di Casali, risistemando e rinfoltendo sia il Vallone di Rovito dei fratelli Bandiera sia la centenaria Villa Vecchia sia Piazza dei Follari, piantumando tutta l’area dell’ex Umberto I, creando giardini e ‘jardins familiaux’ negli squarci creati dalle demolizioni di Santa Lucia, di Corso Telesio e Via Gaeta. Persino Piazzetta Toscano potrebbe esser resa di nuovo bella e vivibile rimuovendo le superfetazioni architettoniche che nascondono i resti della “domus” romana e rimodulando tutto lo spazio includendovi alberi, piante e fiori.
Aree da “rinverdire” e/o da piantumare ex novo.
Grazie all’esperienza bolognese si arrivò ad una legge nazionale -la n. 457 del 1978, soprattutto il Titolo IV- che fissava anche disposizioni per le aree ad orti o a giardini all’interno del centro storico, che dovevano rimanere libere, introducendo all’interno delle città storiche il principio di pubblica utilità per la casa: ovvero, la casa pubblica come bene pubblico, come bene sociale di pubblica utilità.
Il restauro e il “rinverdimento” del Centro storico non produrrebbero solo un risultato esteticamente incantevole, ma genererebbero, perché le pietre e le piante non si conservano senza i cittadini, un accrescimento quantitativo e qualitativo delle attività economiche, una redistribuzione della ricchezza conseguente all’assegnazione degli alloggi pubblici, una maggiore coesione sociale e una migliore qualità della vita derivanti dalla salubrità dell’ambiente urbano, dall’attività fisica e dalla necessaria cooperazione per la gestione dei giardini e degli orti comuni.
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Lo scritto qui riportato è formato da tre articoli usciti, con titoli diversi, il 10, il 13 ed il 22 gennaio 2022 su “il Quotidiano del Sud” e costituiscono una proposta complessiva avanzata da Battista Sangineto per rendere Cosenza, ma anche le altre città calabresi, meno tossica, con più piante e verde che contribuirebbero ad un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima. Città, dunque, più inclini all’indispensabile cooperazione fra uomini e piante e più socialmente coese.
Elaborazioni grafiche della cartografia: Pierluigi Caputo.
La Corte ferma il piano casa della Calabria.- di Battista Sangineto
I giudici della Corte costituzionale hanno dato seguito, con una sentenza del 23 novembre scorso, alle parole di Piero Calamandrei che agli studenti milanesi, nel gennaio del 1955, diceva: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”.
La Corte costituzionale non ha lasciato la Carta in terra, ma ha mantenuto quelle promesse e quella responsabilità muovendosi per bocciare la legge del 2 luglio del 2020, n. 10, recante “Modifiche e integrazioni al Piano Casa (l. r. 11 agosto 2010, n. 21)”, varata dalla giunta regionale della Calabria. Secondo la sentenza di pochi giorni fa la Regione Calabria avrebbe voluto, con questa legge, sostituirsi “alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente venendo meno al principio di leale collaborazione e dando vita ad un intervento regionale autonomo al posto della pianificazione concertata e condivisa (con la Soprintendenza, n.d.r.), prescindendo da questa e superandola, peraltro smentendo l’impegno assunto nei confronti dello Stato di proseguire un percorso di collaborazione”.
Così facendo si sarebbe vanificato il potere dello Stato nella tutela dell’ambiente, rispetto al quale il paesaggio assume valore primario e assoluto, in linea con l’art. 9 della Costituzione. Secondo la relatrice della sentenza, Silvana Sciarra, le previsioni della quantità di cemento versato avrebbero finito per danneggiare il territorio in tutte le sue componenti e, primariamente, nel suo aspetto paesaggistico e ambientale, in violazione dell’art. 9.
Secondo la Corte tale lesione era resa più grave dalla circostanza che, in questo lungo lasso di tempo (il protocollo d’intesa fra Mibact e Regione Calabria è del 23 dicembre 2009, n.d.r.), non si è ancora proceduto all’approvazione del piano paesaggistico regionale, ma solo al temporaneo Quadro territoriale regionale a valenza paesaggistica (Q.T.R.P.) che la giunta Oliverio non è stata capace di trasformare, come prescriveva il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nel definitivo “Piano paesistico”.
Tutto ha inizio con la legge regionale della giunta Scopelliti dell’11 agosto 2010 che, in virtù del “Piano Casa” voluto nel 2009 dal governo Berlusconi, permetteva il condono degli abusi edilizi e dava la possibilità di ricostruire edifici esistenti aumentandone la volumetria del 15%. Il 16 luglio 2020 il secondo governo Conte ha emanato il “Decreto Semplificazioni” che ha, di fatto, annullato questo premio volumetrico berlusconiano, ma la giunta regionale calabrese, presidente il leghista Spirlì, senza alcuna opposizione in Consiglio regionale ha cercato di eludere, prevenendolo, questo problema.
Pochi giorni prima del “Decreto”, il 2 luglio 2020, ha varato una legge regionale che non solo elargiva questo premio, ma lo aumentava di altri 5 punti in percentuale, arrivando fino ad uno spropositato regalo di volumetria pari al 20% in più per ogni edificio da ricostruire.
Quanto fosse sciagurata una simile legge lo dimostrano i numeri: in Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% (più di 3 milioni e mezzo di ettari) della Superficie agricola utilizzata, la Sau, è stata cementificata o degradata e la Calabria è in cima a questa classifica negativa con ben il 27% del suolo consumato, subito dopo la Liguria (ISTAT 2005). Un’altra statistica (Rapporto Ispra Snpa, 2015) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti e che le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat 2005).
Il consumo del nostro suolo ha galoppato, nel 2020, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo, 57 chilometri quadrati in un anno, tanto che ognuno degli italiani avrebbe oggi a “disposizione” 355 metri quadrati di superfici costruite (Rapporto Ispra Snpa, 2021). La Calabria vanta anche il record negativo di avere il 65% dei suoi paesaggi costieri stravolti per sempre dal cemento: su un totale di 798 chilometri di costa (il 19% dell’intera penisola), meno di un quarto sono rimasti intatti, mentre ben 523 chilometri sono stati deturpati da interventi edilizi, spesso illegali.
In Italia ed in Calabria si continua, nonostante il declino demografico e socioeconomico, a cementificare così tanto perché è il modo più facile per creare rendite fondiarie e immobiliari che diventano comode rendite finanziarie, anche per la ‘ndrangheta. Le scellerate politiche urbanistiche degli ultimi decenni hanno favorito l’accelerazione della cementificazione senza alcuna tutela del paesaggio come dimostrano non solo le deroghe per le Grandi Opere, ma anche i provvedimenti come lo “Sblocca Italia” e come quest’ultimo tentativo di rimessa in vigore del berlusconiano “Piano casa” da parte della giunta Spirlì.
da “il Manifesto” del 18 dicembre 2021
foto di Marco Benincasa da Pramana
La sfida ecologica alla società dei consumi.-di Tonino Perna
In questi giorni tutti i mass media riportano il dato della crescita del Pil italiano che quest’anno dovrebbe attestarsi oltre il 6 per cento, recuperando i due terzi di quanto si è perso nel 2020. Come è noto, il motore di questa crescita economica è stato il balzo in avanti dei consumi, un dato che ci aspettavamo come reazione alle restrizioni che hanno costretto i consumatori ad una drastica riduzione dei consumi nel 2020, con relativo netto incremento dei risparmi delle famiglie.
Se, da una parte, questa ripresa ci fa piacere, dall’altra si scontra con la necessità di una transizione ecologica che non può non toccare il modello dei consumi, il paniere scelto dai consumatori. Come si suol dire, non possiamo avere la botte piena (pil) e la moglie ubriaca (ecologia). O detto con un altro motto: non si possono servire due padroni. Bisognerà rivedere la qualità dei nostri consumi sul piano dell’impatto con l’ecosistema.
Se prendiamo, ad esempio, l’usa e getta dei contenitori delle bevande (acqua, vino, birra, succhi, ecc.) non possiamo non considerare il fatto che nel nostro paese solo la metà dei contenitori di vetro o plastica viene riciclato, il resto finisce nell’indifferenziata.
In Italia, ogni anno, 7 miliardi di contenitori di bevande sfuggono alla differenziata e finiscono nei rifiuti! Nella Ue il “vuoto a rendere” funziona e ha portato la raccolta differenziata, nei paesi nordici, al 90%. Per questo l’Associazione nazionale Comuni Virtuosi chiede l’introduzione di un sistema di deposito cauzionale per facilitare il riciclo delle bottiglie di plastica.
In Calabria, un sistema di questo tipo ridurrebbe la massa del “tal quale”, ovvero dell’indifferenziata che non riusciamo a smaltire, darebbe una mano all’ecologia e un’altra agli enti locali. In fondo si tratta di riprendere vecchie pratiche (i più anziani ricordano le bottiglie per il latte) e collegarle alla filiera dell’economia circolare, che altrimenti è solo uno slogan.
Il governo regionale potrebbe incentivare, usando le risorse comunitarie per la transizione ecologica, quegli esercizi commerciali che adottano questa pratica. E si potrebbe anche andare oltre. Per esempio, riducendo l’uso della plastica nel confezionare i prodotti alimentari da banco. Non dico di tornare alla carta oleata, ma non è nemmeno accettabile questi giri e rigiri di film di plastica su tutti i prodotti.
Per non parlare degli sprechi energetici, che certo fanno crescere il Pil, ma fanno male all’ambiente e alle tasche dei consumatori. Basti guardare a quegli esercizi commerciali che in piena estate tengono le porte spalancate e l’aria condizionata al massimo, o nelle case dove in pieno inverno si sta in maniche corte. Almeno su questo piano non imitiamo il Nord, dove, dagli Usa alla Ue, passando per la Cina, assistiamo da decenni ad un uso perverso dei climatizzatori, sia d’estate che d’inverno.
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Reddito di cittadinanza:i guasti politici dell’invidia sociale.- di Piero Bevilacqua
Un ampio ventaglio di ragioni e di umori, posizioni teoriche e avversioni viscerali, militano contro il reddito di cittadinanza in Italia. E’ un calderone in cui si agitano i cascami della cultura neoliberista, secondo la quale non esiste la keynesiana “disoccupazione involontaria”, essendo la mancanza di lavoro responsabilità di chi non lo cerca.
Come ci ricorda ora il saggio di Mauro Callegati, Il mercato rende liberi e altre bugie del neoliberismo (Luiss,2021). Ma si rinvengono anche opposizioni “di sinistra”, come quelle del sindacato, che teme il dilagare di un assistenzialismo deteriore, destinato ad accrescere la subalternità dei ceti proletari.
Il lavoro, si sostiene, è l’unica leva del riscatto, senza troppe remore a perpetuare così la cultura del dominio capitalistico sugli individui, e tenendo in poco conto che il lavoro non c’è e la sua scarsità è un’arma formidabile in mano ai gruppi padronali. I quali la usano per fare accettare condizioni anche estreme di precarietà, soprattutto ai giovani e agli immigrati, per fare pressione sui governi, per creare egemonia col porsi come dispensatori di impiego e di reddito, i benefattori dell’umanità.
Ho ascoltato sindacalisti criticare il reddito di cittadinanza in Calabria, dove tanti giovani laureati, che arrivano a 30 40 anni con lavoretti, e non hanno la possibilità di fuggire all’estero, oggi sarebbero alla disperazione senza il cosiddetto reddito di cittadinanza. Di cui conosciamo peraltro i limiti e a cui Roberto Ciccarelli ha dedicato su questo giornale analisi circostanziate, sino alla intervista a Chiara Saraceno (10/11), dove si denunciano gli intenti punitivi delle annunciate “correzioni” governative.
Ma esiste anche un’avversione più oscura a questa forma di sostegno alla sopravvivenza, che si agita tra gli strati popolari a cui do il nome di invidia sociale. I lavoratori non sopportano che ci siano nel loro ceto persone retribuite, sia pure in forma modesta, senza fatica e impegno. Trovano intollerabile questa “ingiustizia”. Anche chi è in condizioni di estremo bisogno deve meritarsi il pane, accettando qualsiasi forma di occupazione.
E’ su questo giustizialismo rancoroso che la nostra destra plebea fa le proprie fortune, come le ha fatte con la narrazione degli stranieri che rubano il lavoro agli italiani. Si tratta di un humus culturale pernicioso con cui i gruppi dominanti e il ceto politico che li serve, scatenano la guerra tra gli ultimi e i penultimi, perpetuando il proprio soggiogamento materiale e culturale su gran parte dei ceti popolari.
Un coacervo ideologico su cui l’assenza di uno sguardo radicale impedisce un’opera salutare di demistificazione. E’ esemplare a tal proposito l’imbarazzata timidezza del ministro Orlando di fronte alle recriminazioni per gli abusi emersi nella percezione del reddito.
Egli non è riuscito a ricordare ai suoi interlocutori e all’opinione pubblica, che in Italia non si riesce a tassare le grandi ricchezze di pochi, i patrimoni immobiliari di molti, le fortune di una platea estesa di famiglie e si lascia nella povertà milioni di persone che pur lavorano, una fascia crescente di occupati precari, 2 milioni di famiglie in povertà assoluta (dati Istat 2020) mentre si costringono le migliori energie intellettuali del Paese a cercare occupazione all’estero.
Ho conosciuto gli effetti perversi dell’invidia sociale in un ambito “alto” della società italiana, l’università. Allorché incominciarono a circolare le prime notizie sui criteri di valutazione dei titoli scientifici dei docenti da parte di una autorità esterna, che sarebbe poi diventata l’Anvur.
E’ apparso evidente che a far accettare l’imposizione di un Moloch burocratico calato dall’alto per il controllo di merito sulle attività dei professori è stato il desiderio di “giustizia valutativa” da parte soprattutto dei colleghi scientificamente più attrezzati e progressisti. Non sopportavano la presenza dei (pochissimi) docenti scarsamente attivi e produttivi o l’avanzamento di carriera di quelli, altrettanto pochi, considerati non meritevoli.
Così un sistema di valutazione affidato ai concorsi e tutto interno a una istituzione secolare, l’autonomia universitaria, gestito dai docenti, e certamente segnato da pecche e punti deboli, è stato abbandonato per sanare queste mancanze. Lo scandalo sollevato dai media sul familismo nell’università, sui concorsi truccati…, ha spinto a buttare via il bambino con l’acqua sporca. Il più antico e uno dei migliori sistemi universitari del mondo è stato avviato alla sua trasformazione aziendalistica secondo i dettami europei elaborati dal cosiddetto Processo di Bologna(1999).
Nessuno dei moralisti di allora è stato in grado di sollevare lo sguardo dal pelo nell’uovo per scorgere il superiore disegno di asservimento del sistema formativo europeo alle ragioni della strategia neoliberista della Ue. In assenza della critica sociale un tempo esercitata dal movimento operaio, la grande massa dei cittadini opera così per il proprio volenteroso asservimento alla grande macchina capitalistica.
da “il Manifesto” del 13 novembre 2021
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Agricoltura sostenibile: la rivalutazione delle aree marginali della Calabria.-di Tonino Perna
Tra i fattori che hanno provocato l’aumento della temperatura media del nostro pianeta spesso ci si dimentica del ruolo che gioca l’agricoltura/zootecnia industriale nella produzione dei gas serra. Per molto, troppo tempo siamo vissuti con la convinzione che la terra fosse un corpo inerte dove con la chimica si poteva ottenere quello che si voleva, che gli animali da allevamento fossero delle macchine che si potevano perfezionare a volontà per aumentarne l’efficienza.
Tutto il sapere dell’agricoltura contadina è stato scartato come un residuo di un passato pretecnologico. Così gli allevamenti intensivi di migliaia di animali, chiusi in spazi sempre più ristretti, riempiti di ormoni e antibiotici, erano visti come un progresso per l’umanità, perché aumentavano la produzione per unità e ridotto i costi unitari.
Per decenni solo pochi profeti, spesso ignorati, hanno denunciato i danni alla salute dell’uomo e dell’ambiente di questo modo di produzione. Jeremy Rifkin, prestigioso economista statunitense, aveva denunciato in un suo saggio del 1998 i danni all’ambiente causati dall’industrializzazione della produzione zootecnica, e spinta in avanti dal nostro eccessivo consumo di carne.
Unitamente alla denuncia che da tempo molti studiosi hanno formulato nei confronti dell’agricoltura industriale, per l’uso eccessivo di fertilizzanti che rendono sterili i terreni, per l’inquinamento delle falde acquifere e, last but not least, per i danni alla nostra salute. Questo non significa ritornare alla zappa e alla falce, ma significa fare tesoro di tecniche agricole che rispettino i cicli vitali, che considerano la terra un corpo vivo, con le sue esigenze e i suoi tempi.
La transizione ecologica rivaluta l’agricoltura contadina e gli allevamenti a piccola scala in cui gli animali non vengono rinchiusi in un lager e non si usano sostanze artificiali per aumentarne la produttività. Naturalmente questo significa pagare di più i beni alimentari alla fonte e ridurre i costi dell’intermediazione e distribuzione che oggi assorbe mediamente l’80 per cento del valore.
Vale a dire: è necessario rivedere tutta la filiera agroalimentare con l’obiettivo di tutelare la salute dei consumatori, difendere la biodiversità, ridurre le emissioni di gas serra, dare un “giusto prezzo” ai prodotti delle aziende agricole e condizioni di lavoro e salario dignitosi ai lavoratori. Non si tratta di utopie o di sogni romantici perché esistono tante esperienze sul campo che potremmo raccontare, diverse reti che uniscono braccianti-imprenditori- consumatori in forme diverse e con beneficio di tutti gli attori.
In questa visione la transizione ecologica offre una straordinaria opportunità alla agricoltura calabrese, a quelle piccole aziende agricole e zootecniche che sembravano un residuo del passato, un segno di arretratezza, e invece rappresentano il futuro.
In particolare, la gran parte delle zone interne che non sono state inquinate, che hanno vissuto solo marginalmente l’impatto della chimica sui terreni agricoli, potrebbero uscire dall’abbandono ed essere valorizzate, offrendo prodotti agricoli di prima qualità, con l’utilizzo anche di semi antichi e piante da frutto autoctone, uscendo dalla omologazione attuale dell’offerta di ortaggi e frutta standardizzata.
In questa direzione sarebbe opportuno varare una seconda Riforma Agraria in chiave ecologica, che consenta di mettere a frutto i terreni abbandonati che rappresentano una parte rilevante delle aree collinari, con tutti i vantaggi che ne conseguirebbero anche sul piano idrogeologico. Siamo di fronte ad un bivio. Se non prendiamo adesso la strada giusta non avremo un’altra opportunità.
Col garbo e la finezza argomentativa che lo contraddistinguono, Agazio Loiero polemizza con me su questo giornale( 26/9 ) perché io, in quanto intellettuale, e dunque dotato di ampie capacità di valutazione e di giudizio, sostengo la candidatura di Luigi de Magistris a presidente della Regione Calabria.
Cercherò perciò di esporre le ragioni per cui, proprio in virtù delle doti che lui mi attribuisce, io sostengo convintamente questa candidatura.Non senza aver espresso tuttavia, preliminarmente, il disagio di una discussione così impostata, che mi pone in una posizione di “avvocatura” nei confronti di una singola persona, quando noi, a pochi giorni dal voto, dovremmo parlare dei drammatici nodi che strangolano la regione, di programmi di riforma, di prospettive possibili per le nuove generazioni.
Ma questo è lo stato degenerato della democrazia e della vita politica in Italia. Si discute solo di uomini, di alleanze, di posizionamenti, di gruppi, cioé solo di potere, di ceto politico: i cittadini, le masse lavoratrici, le loro condizioni, sfuggono al radar di ogni considerazione.
Loiero muove critica a due apetti e momenti dell’eperienza pubblica di de Magistris: in quanto magistrato, che ha operato in Calabria per alcuni anni e in quanto sindaco di Napoli, dove non avrebbe combinato granché. Da magistrato avrebbe condotto “molte inchieste quasi tutte senza successo”; e soprattutto ha inviato avvisi di garanzia a personaggi pubblici – Prodi, Mastella, lo stello Loiero – che non avrebbero poi condotto ad alcuna condanna giudiziaria. Ma, osserva Loiero, mettere sotto accusa i potenti offre a un magistrato una visibilità mediatica enorme.
Una possibilità che de Magistris ha sfruttato a piene mani. Questo dimostrerebbe che l’attuale sindaco di Napoli sarebbe “l’archetipo di una Italia guappa e furba in cui la demagogia si coniuga con il diffuso populismo”.
Non è possibile, in un breve articolo, entrare nel merito di complicate vicende giudiziarie (ammesso di possedere le conoscenze necessarie per farlo) e io posso anche concedere ad Agazio, nel merito, qualche imprudenza, errore ed avventatezza del magistrato de Magistris, allora trentenne. Ma sotto il profilo politico io traggo conseguenze opposte. Un magistrato che punta a indagare sui potenti è un uomo coraggioso, che in un paese come l’Italia rischia di rompersi l’osso del collo, di compromettere per sempre la propria carriera.
Qui non si tratta di guapperia, caso mai di temerarietà e in una regione come la Calabria, segnata da tanta corruzione e malavita, un presidente intransigente sul piano della legalità è quanto mai necessario. A de Magistris non chiediamo di tornare a fare il magistrato, ma di governare la regione.
Su un punto devo dare ragione ad Agazio, là dove affermo che il sindaco di Napoli è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro l’autonomia differenziata. Intendevo una figura con carica istituzionale nel momento delle trattative del 2019. Loiero è stato in effetti uno dei pochissimi dirigenti italiani a schierarsi contro la Lega, in difesa del Sud, anche con pubblicazioni, già in anni precedenti. E veniamo al sindaco de Magistris.
Davvero non si comprende la taccia di populismo che gli viene inflitta. Perché non partecipa ai giochi dei gruppi e gruppetti annidati nei partiti politici? Napoli è stata l’unica grande città d’Italia che ha reso pubblica l’acqua, abbasandone anche il prezzo, rispettando il risultato del refenendum istituzionale del 2011, dunque ottemperando a un dettato della Costituzione. Gli altri partiti politici, a cominciare dal PD, hanno sistematicamente sabotato la volontà popolare.
A Napoli de Magistris ha risolto l’umiliante problema dei rifiuti, che in certe zone della città si innalzavano sino ai primi piani dei palazzi, e lo ha fatto con pochissimi mezzi finanziari e con un rafforzamento della macchina amministrativa pubblica, contro un andazzo neoliberista che faceva prosperare la criminalità. Ha tolto il servizio di raccolta e smaltimento alle società private che si spartivano la torta, e lo affidato all’azienda comunale Asìa.
Tramite la creazione di 10 isole ecologiche, una per ogni municipalità, e cinque itineranti (per raccogliere mobili ed elettrodomestici che prima finivano per la strada) l’acquisto di nuovi macchinari, la creazione di una polizia ecologica, che ha sanzionato migliaia di trasgressori, l’esportazione in Olanda, Napoli ha raggiunto il 40% della raccolta differenziata.Oggi in quasi tutti i quartieri è diffusa la raccolta porta a porta e le tariffe TARI sono fra le più basse d’Italia.
C’è stata una importante iniziativa del sindaco, che ha avuto esiti importanti per la città, ma anche effetti negativi sulla sua immagine di uomo politico. Si è trattato di una scelta politica di legalità e profondamente antineoliberista: de Magistris ha ricondotto all’interno della macchina comunale, cioé del potere pubblico, la gestione del patrimomio immobiliare di Napoli, prima affidato all’imperenditore Romeo, finito in alcune inchieste giudiziarie.
E’ stato un gesto che solo un politico di grande coraggio come de Magistris poteva compiere, gli altri sindaci non avevano osato.Perché Romeo, membro di un potentissimo gruppo finanziario, è da lunga data amico della famiglia Caltagirone, patron del Mattino di Napoli, il più diffuso e infuente quotidiano della città. Da allora quel giornale ha iniziato una vera e propria guerra diffamatoria contro De Magistris, a cui si è associata anche La Repubblica locale, che sostiene il PD, nemico giurato del sindaco, il quale fa politiche “populiste”, cioé non viene realisticamente a patti con i potenti. Gran parte dell’immagine pubblica che abbiamo del politico De Magistris viene costruita da questi giornali e dalla TV regionale, che ubbidisce agli stessi orientamenti.
E’ dunque naturale che si sappia poco di quel che egli ha realizzato a Napoli. Ad es. non si sa dei miglioramenti i apportati al sistema del traffico cittadino, con la trasformazione di quasi tutti gli incroci in rotonde, il rifacimento di centinaia di km di strade, la pedonalizzazione di gran parte del lungomare di via Caracciolo, l’incremento del trasporto pubblico con l’acquisto di 150 nuovi autobus (rinnovando una flotta risalente al più agli anni ’90), l’apertura di 5 nuove stazioni della Metro. Tutto accompagnato dal risanamento dell’azienda pubblica di trasporto, l’ANM, il cui bilancio è ritornato in attivo. Niente male per una amministrazione penalizzata da un debito accumulato dal terremoto dell’80.
Io potrei qui dilungarmi con un lungo elenco di realizzazioni che farebbero impallidire il bilancio di molti sindaci italiani. Potrei rammentare la rigenerazione del quartiere Sanità, la “riconquista” dei Quartieri Spagnoli, un tempo luoghi pericolosi, oggi pullulanti di osterie e bar, affrescati da murales giganteschi noti in tutto il mondo. Potrei ricordare gli investimenti in verde grazie all’apertura di tanti parchi, in centro come in periferia.
Potrei rammentare i tratti di spiaggia un tempo privatizzati e riconsegnati ai cittadini, i monumenti ristrutturati, i centri culturali aperti, in centro e nelle aree degradate.Ma vorrei ricordare, che il sindaco ha inaugurato una politica di ascolto dei cittadini e dei loro diritti. Napoli è stata la prima città d’Italia a dotarsi di un registro delle unioni civili, che ha permesso il riconoscimento legale a coppie dello stesso sesso e ai loro figli, anche adottivi, esempio poi seguito anche da altre città.
Almeno questo dovrebbe bastare per fare di de Magistris un candidato degno di governare la Calabria.
da “il Quotidiano del Sud” del 30 settembre 2021
Nella brutta esperienza ho toccato con mano il “buco nero” della Sanità calabrese.- di Battista Sangineto
Quando, domenica 19 settembre 2021, ha bussato alla porta un ispettore dei Vigili Urbani della sua città per notificare allo scrivente una “Ordinanza contingibile ed urgente” con la quale si imponeva, a causa della sua positività al Sars-CoV-2, di sottoporsi alla misura di isolamento domiciliare a decorrere dal 30 agosto 2021, gli è montata una collera che solo il complice imbarazzo dell’ufficiale è stato capace di stemperargliela in uno sconsolato sorriso.
Sorriso reso ancora più amaro dall’arrivo, il giorno prima via e-mail, della notifica da parte del Comune della fine dell’isolamento a seguito della sua “negativizzazione” al tampone molecolare, eseguito alcuni giorni prima. Se si aggiunge che la prima telefonata da parte dell’Usca competente era arrivata all’ora di pranzo del 10 settembre -lo stesso giorno in cui è uscito su questo giornale il racconto della vicenda sanitaria, cioè ben 12 giorni dopo la comunicazione di positività fatta dal laboratorio privato- è evidente a chicchessia che la totale assenza di capacità e di tempestività da parte delle Istituzioni comunali e sanitarie preposte alla sorveglianza non solo impedisce qualsivoglia tipo di tracciamento, ma rende evidente che il distanziamento, l’isolamento e tutte le altre misure di prevenzione sono affidati solo al senso civico dei cittadini.
Quello calabrese è un tessuto istituzionale, sanitario e sociale devastato che non è in grado di fornire alcuna certezza del soddisfacimento dei diritti fondamentali del cittadino, primo fra tutti quello alla salute e alla vita. Si deve ricordare che era il 30 luglio del 2010 quando il presidente Giuseppe Scopelliti fu nominato, da Giulio Tremonti, commissario della Sanità della regione Calabria per il rientro dal debito che, all’epoca, ammontava a circa 150 milioni.
Dal 2010 ad oggi non si contano i commissari che – nonostante i pesanti tagli agli investimenti, i mancati turn over del personale sanitario, il blocco delle assunzioni, la chiusura voluta da Scopelliti di piccoli e medi ospedali che garantivano una qualche tenuta della medicina del territorio – hanno portato il disavanzo ad una cifra che alcuni, non abbiamo numeri certi, stimano essere di più di 1 miliardo. Tutto questo senza che i presidenti ed i consiglieri, alternativamente, di maggioranza ed opposizione regionali di tutti i partiti, sollevassero dubbi o ponessero il ripristino della Sanità al centro della propria battaglia politica.
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La gran parte della responsabilità della catastrofe ricade sui Commissari e sulla loro sterile e discutibile autoreferenzialità, ma deve ricadere anche sull’inanità ed incapacità della politica e dei politici calabresi degli ultimi decenni che non hanno saputo o, più probabilmente, non hanno voluto riprendersi la prerogativa che spettava loro di amministrare il capitolo di spesa più importante, l’80% circa, di una Regione: la Sanità.
Un’incapacità che non viene superata neanche nel pieno della prima ondata della pandemia quando, con il comunicato stampa ufficiale datato 11 marzo 2020 della Regione Calabria (lo si può rintracciare facilmente sul portale web della Regione), la compianta presidente Jole Santelli “…di concerto con il Commissario Cotticelli, approva il “Piano di Emergenza contro il Corona Virus”, dispone l’attivazione di 400 nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva … già domani (12 marzo 2020, n.d.r.) sarà pubblico l’avviso per il reclutamento di 300 medici specializzati e specializzandi. Saranno, inoltre, utilizzate le graduatorie degli idonei a scorrimento per l’assunzione, sempre a tempo determinato di 270 infermieri e 200 Oss”.
I calabresi sanno che quasi nessuna delle promesse fatte nel succitato comunicato è stata mantenuta e che la responsabilità della totale inadempienza non è solo del tanto vituperato Cotticelli, ma anche di chi, la Regione Calabria, lo ha fiancheggiato, per mesi, in quella sua incredibile sconsideratezza e di chi nell’anno successivo, il presidente f.f. Spirlì, nulla ha fatto per cambiare di segno a questa più che tragica situazione. La Sanità calabrese è un orrido e putrescente buco nero senza fondo dal quale gli abitanti cercano di evadere appena possono per andarsi a curare altrove perché qui, a distanza di quasi due anni, non solo nulla è stato fatto per aumentare le capacità di prevenzione e di cura del Sars-Cov-2, ma è anche molto peggiorata l’ordinaria assistenza sanitaria che era già indegna di un paese del cosiddetto primo mondo.
Si deve ricordare che in Calabria le terapie intensive sono passate da 152 a 174, a fronte delle 280 previste già un anno fa per poter avvicinare la regione alle 14 per 100mila abitanti della media nazionale, invece delle 9,2 attuali. Senza voler tenere conto che, al netto della pandemia, a fronte della media nazionale di 3,2 posti letto ospedalieri ogni mille abitanti, la Calabria ne ha poco più della metà: 1,7.
Una situazione così catastrofica pretenderebbe una risposta dal governo Draghi, perché, nonostante il commissariamento sia della Sanità regionale con il questore Longo, sia del piano vaccinale nazionale con l’alpino Figliuolo, i calabresi non hanno visto alcun miglioramento per opera dei Migliori, anche se spettano loro le stesse cure mediche che competono, secondo l’articolo 32 della Costituzione, ad ogni cittadino italiano. Quale miglioramento si è avuto nella Sanità calabrese – ma anche nell’Istruzione, nei Trasporti, nelle Infrastrutture e nelle Strutture- per merito del governo dei Migliori? Nessuno. I Migliori non hanno migliorato assolutamente nulla, in otto mesi.
Bisogna che si torni alla “normalizzazione” della Sanità calabrese che deve essere gestita ed amministrata dalla Politica e non da Commissari, riaffermando così la primazia della Politica che, pur con tutti i suoi difetti, soprattutto in Calabria, ha i suoi meccanismi di controllo costituzionali ed elettorali
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È solo grazie ad uno dei pochissimi fortilizi di capacità e competenza che ancora resistono in mezzo alle macerie della Sanità calabrese che chi scrive è riuscito a curarsi, in Day Hospital, per mezzo dell’unico protocollo farmacologico approvato dall’Aifa, gli anticorpi monoclonali. Un protocollo che, a chi scrive, ha fatto regredire i sintomi in poche ore e che, al netto delle successive conseguenze del Long Covid, ha sconfitto l’infezione in meno di 15 giorni. Sulla scorta di questa sua esperienza, chi scrive ha una serie di domande da fare ed anche qualche fondata opinione da esprimere.
Perché l’Aifa, che pure ha approvato l’uso sperimentale di questa cura su quasi 9.000 casi (cfr.: https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1475526/report_n.22_monitoraggio_monoclonali_03.09.2021.pdf), non ha ancora diffuso i dati delle sperimentazioni che, da marzo ‘21, si stanno facendo sulla sua efficacia degli anticorpi monoclonali? Sulla base dei dati che si dispongono -Regione Veneto: (guarigioni dell’89% su 1167 casi), Asl 3 di Napoli (100% su 50 casi), Azienda Ospedaliera di Cosenza (100% su più di un centinaio di casi)- sembra che gli anticorpi monoclonali siano davvero efficaci. E, ancora, perché il governo non fornisce il numero degli infettati, dei ricoverati e dei deceduti ‘bi-vaccinati’?
Pur dando, ormai, per scontato che ci si può infettare fra bi-vaccinati (cfr, lo studio di fine luglio dei CDC americani: www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/wr/mm7031e2.htm?s_cid=mm7031e2_w)), lo scrivente ritiene che i vaccini siano indispensabili per la radicale riduzione della diffusione della pandemia, delle ospedalizzazioni, delle malattie gravi e delle morti, nonostante che un altro studio dei CDC americani dimostri una perdita di efficacia di potere immunizzante di Moderna, Pfizer-BioNTech e Johnson & Johnson dopo qualche mese
(cfr.:https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/w/mm7038e1.htm?s_cid=mm7038e1_w).
Chi scrive sommessamente ipotizza che la vaccinazione non possa essere, però, l’unica strada da percorrere non solo per la sopradetta diminuzione di efficacia dei vaccini, ma soprattutto perché il rapido avvicendarsi delle varianti e la grande quantità di popolazioni, soprattutto del terzo mondo, non vaccinate renderanno impossibile il raggiungimento dell’immunità di gregge (cfr.: Krause et alii, in ‘Lancet’, 13.09.21, https://doi.org/10.1016/ S0140-6736(21)02046-8).
Lo scrivente vorrebbe, da vecchio sostenitore del sessantottesco sapere critico, suggerire che si debba perseguire, con maggior tenacia e con finanziamenti pubblici paragonabili a quelli già erogati, anche la strada della cura e non solo quella dei vaccini di Big Pharma che, in questi ultimi due anni, si è enormemente arricchita. I vaccini sono indispensabili, ma, purtroppo, non sono sufficienti per vincere questa malattia pandemica.
da “il Quotidiano del Sud” del 23 settembre 2021
Foto di David Mark da Pixabay
Chi può difendere il Sud dalla secessione?-di Piero Bevilacqua
Una delle immagini più avvilenti degli ultimi tempi,un episodio da nulla, ma che mi ha mostrato in quale catastrofe culturale, prima ancora che politica, fosse caduta la Calabria, mi è caduta sotto gli occhi nel 2019.
Nel servizio di un telegiornale nazionale, dedicato agli impegni elettorali dei vari leader, ho visto Matteo Salvini passegiare per le strade di una città calabrese tra ali di folla, mentre una donna si chinava ai suoi piedi baciandogli la mano. Come è potuto verificarsi un gesto del genere? Tanto calore di folla e perfino l’umiliazione di un baciamano, che di solito si dispensa alla Madonna o ai capimafia? Dove vivevano quei calabresi almeno 5 o 10 anni prima? Avevano letto qualche giornale, o almeno seguito qualche programma televisivo in cui era di scena la Lega e i suoi dirigenti?
E’ davvero stupefacente constatare tanta smemoratezza, anche se so bene che in altre città della Calabria Salvini è stato vigorosamente osteggiato. Ma il punto clamoroso che rende inconcepibile l’accoglienza e il consenso a un dirigente leghista nelle nostre regioni è che la Lega è alla radice un partito antimeridionale, che nasce e continua a operare come avversario e denigratore della nostra gente. E non per gratuita cattiveria ma per strategia politica.
Debbo qui ricordare che sin dalle origini, questo partito, la Lega Nord di Umberto Bossi, fonda le sue fortune nei territori del Nord inventando fasulle identità etniche, ma soprattutto creando due nemici: “Roma ladrona” e il “Sud che vive a spese del Nord.” Questa narrazione intessuta di menzogne, ha avuto una grande fortuna – nulla funziona meglio in politica della creazione di un nemico e di un capro espiatorio cui addossare la responsabilità dei disagi e dei problemi – al punto da condizionare le politiche pubbliche a favore del Sud per i decenni successivi.
Ebbene, l’astuzia di Salvini è consistita nel trovare un nuovo nemico con cui sostituire i meridionali e Roma, che a Umberto Bossi era nel frattempo diventata simpatica, visti i lauti stipendi istituzionali di cui ha goduto e le possibilità che il suo potere di governo ha offerto alla sua famiglia.
I nuovi nemici, a partire dal nuovo millennio, sono diventati gli immigrati, i clandestini, i disperati della terra che scappavano da guerre e miseria, trasformati in criminali, violentatori delle nostre donne, venuti a rubare il lavoro agli italiani. Salvini ha continuato il lavoro di Bossi, promuovendo i meridionali a italiani così da estendere a tutto il territorio nazionale il bacino elettorale della Lega.
Ora non si tratta di rimproverare a Salvini il suo passato antimeridionale.Anche se dai meridionali si pretenderebbe una memoria critica sempre vigile, per rammentare i danni gravi che sono statti loro inflitti. Il fatto è che il partito della Lega continua con più accortezza la sua politica di sempre. Mentre infatti il suo capo viene a fare comizi nelle nostre regioni, i presidenti del Veneto e della Lombardia continuano in segreto a lavorare perl la secessione delle loro regioni dal resto d’Italia. Esse rivendicano la piena podestà su ben 23 materie (scuola, sanità, trasporti,energia, ambiente, ecc.) e soprattutto pretendono di incassare tutti gli introiti fiscali generati nel loro territorio.
In questo modo viene meno la solidarietà fiscale su cui si regge qualsiasi stato al mondo e l’Italia va letteralmente a pezzi. I meridionali possono solo immaginare quel che accadrebbe alla sanità pubblica, che nel giro di pochi anni verrebbe in gran parte privatizzata.I “viaggi della speranza” di tanti malati verso gli ospedali di Roma e del Nord avrebbero costi insostenibili. Ma è l’Italia, così com’è stata costruita a partire dal 1861, dopo 4 secoli di divisioni e di asservimento allo straniero, che verrebbe di nuovo riportata agli statarelli di antico regime.
Ne abbiamo avuto la prova nel 2019, quando si stava per realizzare in gran segreto, saltando il Parlamento,l’accordo tra Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e il governo nazionale. In quei mesi, anche Piemonte, Liguria, Umbria manifestarono la stessa volontà di secessione, anticipando quel che sarebbe accaduto se l’accordo fosse stato raggiunto.
Ebbene, non c’è dubbio che l’autonomia differenziata costituisca la più grave minaccia che grava ancora oggi sull’avvenire del nostro Paese:la frantumazione territoriale che ci ha reso irrilevanti in Europa per tutti secoli dell’età moderna. E e allora come è possibile che ci sia così tanto poco allarme e informazione su tale gravissimo pericolo? I motivi sono due.I grandi giornali nazionali sposano ormai la posizione di gran parte dell’industria e della finanza del Nord, secondo cui il Sud costituisce un freno all’economia nazionale.Quindi sono d’accordo sulla secessione e tacciono. L’altra ragione riguarda i partiti e soprattutto il PD, l’unica formazione con insediamento locale, che avrebbe interesse a contrastare la Lega, soprattutto al Sud, ricordando i suoi propositi secessionisti. Ma questo non accade, perché una delle regioni chiave di questo partito, l’Emilia Romagna di Bonaccini, rivendica anch’essa l’autonomia differenziata, sebbene su un numero minore di materie.
Debbo qui rivelare una esperienza personale.Nei mesi che precedettero la campagna elettorale amministrativa del 2019, insieme ad altri amici, avevamo tentato di organizzare una carovana di uomini e donne che partisse dal Sud e arrivasse al Nord, con un pulman, per spiegare al maggior numero possibile di cittadini qual’era la vera strategia della Lega: Salvini che faceva l’italiano al Sud e i presidenti di regioni che lavoravano per la secessione. Per tale iniziativa fui all’inizio sostenuto dalla CGIL nazionale.Ed ebbi vari incontri a Roma, nella sede centrale di Corso Italia. Ma a un certo punto tutto naufragò, la disponibilità del sindacato venne ritirata. Nessuno lo disse esplicitamente, ma il PD non voleva che si danneggiasse la campagna elettorale di Stefano Bonaccini e il tema secessione non andava sollevato.
Un’arma efficacissima per battere la destra nel Sud e in Calabria fu abbandonato. Ebbene, agli amici stupiti che tanti intellettuali si siano schierati a fianco di De Magistris, debbo ricordare che questo leader è stato l’unico politico meridionale a schierarsi contro la secessione leghista e la semisecessione di Bonaccini; che nella sua lista annovera figure di prim’ordine estranei ai giochi nazionali dei partiti, tra cui Mimmo Lucano, il quale, come sindaco di Riace, ha riscattato l’onore della Calabria agli occhi del mondo.A chi denigra la sua figura di sindaco di Napoli ha già risposto su questo giornale Pino Ippolito(6/9).
Io aggiungerei che chi vuol valutare con onestà quella esperienza, deve considerare il grave debito che egli ha ereditato dalle precedenti amministrazioni, lo strangolamento finanziario subito da tutti i comuni italiani in questi anni, il fatto di amministrare la più difficile città d’Italia avendo contro tutti i partiti, la grande stampa e la TV nazionale. Che un personaggio così isolato, privo di mezzi e osteggiato sia stato riconfermato sindaco, ai calabresi onesti dice che potrebbe essere un ottimo presidente di Regione . Che egli venga diffamato perché a Napoli non ha fatto “questo” e quello” è in tanti casi la prova che il personaggio non rientra negli schemi del conformismo politico dominante. Quel conformismo che occorre far saltare per l’avvenire della Calabria.
“Che faccia tosta Luigi De Magistris! Non lo vogliono a Napoli e se ne viene in Calabria”. De Magistris è stato eletto per la prima volta sindaco di Napoli nel 2011. Al primo turno aveva avuto 128.303 preferenze e al ballottaggio ha superato l’avversario di centro-destra, Giovanni Lettieri, con il 65,38% dei suffragi. Si è ricandidato a sindaco nel 2016 e ha preso al primo turno oltre quarantamila voti in più della tornata elettorale precedente (172.710).
Ha poi nuovamente battuto Lettieri al ballottaggio ma con un margine superiore di quello del 2011 (66,85%). Non pare, dunque, che sia così sgradito ai napoletani e che, almeno, il primo mandato non sia stato apprezzato. Certo, non sappiamo cosa pensano i napoletani del secondo mandato ma, come è noto, la legge elettorale non consente la candidatura a sindaco per più di due volte consecutive.
“Che faccia tosta Luigi De Magistris! Non ha saputo affrontare la questione rifiuti a Napoli e viene qui in Calabria dove affoghiamo nella spazzatura”. La città metropolitana di Napoli ha una densità di 2.560 ab/Kmq, la più alta in Italia e una delle più alte al mondo; Reggio Calabria ha una densità per abitante (164 ab/Kmq) che è un quindicesimo di quella napoletana. È del tutto evidente che la complessità del problema rifiuti è direttamente e positivamente correlata alla densità abitativa; nondimeno Napoli appare oggi assai più pulita che Reggio, la città più sporca della Calabria. Non è solo un’apparenza.
Napoli produce circa un milione e mezzo di tonnellate di rifiuti l’anno e ne differenzia il 47,05%; Reggio produce poco più che duecentomila tonnellate differenziandone il 36,34%, 10 punti in meno di Napoli (Ispra – Catasto nazionale rifiuti).
In vero la contestazione più ricorrente che viene fatta a De Magistris è di non essere calabrese, di essere napoletano. Sembra farlo, e spiace davvero, anche Jasmine Cristallo, leader delle Sardine calabresi, in una recente intervista a un quotidiano (Domani, 23 agosto 2021) quando dice “Voglio vedere se si trasferirà, se vivrà in Calabria, ma lo escludo. La mia terra è stata consegnata”.
Consegnata a un napoletano. Un argomento curioso soprattutto se a muoverlo è chi da sempre si batte contro ogni pregiudizio e sa bene che le identità tanto più sono locali, soltanto locali, tanto più sono asfittiche. La storia della Repubblica è ricca di donne e di uomini che sono stati candidati dai partiti a rappresentare in parlamento regioni diverse dalla loro provenienza. Non risulta che abbiano sempre demeritato e soprattutto se lo hanno fatto non era perché venivano da una regione diversa da quella nella quale sono risultati eletti.
Credo sia più importante sapere che Napoli è stata la prima città italiana a rispettare, con la ri-pubblicizzazione del servizio idrico, la volontà espressa da 27 milioni di elettori italiani con il referendum del giugno 2011. Ancora più importante credo non dimenticare che il sindaco De Magistris è stato, come ricorda Piero Bevilacqua (Il Quotidiano del Sud, 24 agosto 2021), l’unica figura istituzionale meridionale di rilievo che si è apertamente schierata contro l’autonomia differenziata – richiesta da Veneto e Lombardia e sostenuta dall’Emilia Romagna presieduta dal democratico Stefano Bonaccini – che, come dovremmo ormai sapere, se attuata sarebbe una catastrofe per l’intero Mezzogiorno.
Ma De Magistris, piaccia o meno, ha un’ambizione assai più grande del governo della Calabria. Questo non sarebbe che il primo tassello di un disegno che, nelle sue intenzioni, dovrebbe coinvolgere l’intero Mezzogiorno per riscattarlo dalle miserie e dall’arretratezza dell’oggi e per riconsegnarlo all’Italia e all’Europa nel posto che gli spetta per la sua antichissima storia di civiltà. Che importa se è un napoletano a provare a farlo?
Regioni 50 anni di fallimenti scritto da Franco Ambrogio con Filippo Veltri (Rubbettino editore, 2021) è un libro di grande attualità. Ci offre l’occasione di discutere della crisi calabrese e delle sue origini. Una crisi strutturale, non solo economica e sociale, ma anche politica, istituzionale, morale, di classe dirigente. Ambrogio è lapidario: «si è realizzato un nuovo centralismo inefficiente». Argomenta che al centralismo di Roma si è aggiunto quello di Catanzaro. Inefficienza su inefficienza. E aggiunge: «La delega agli enti locali rimane nel cassetto […] La Regione non è stata strumento di allargamento e rafforzamento della democrazia».
Ce ne siamo accorti tutti in questi due anni di grave emergenza sanitaria. E ce ne accorgiamo ogni giorno, di fronte all’incendio dei nostri boschi, una delle tante declinazioni di un malgoverno che riguarda la gestione del territorio. Devastato prima tutto dall’incuria e dall’incapacità di poteri pubblici collusi con la criminalità mafiosa Chi governa la regione o ambisce a governarla è poi del tutto silente rispetto all’attuazione del Pnrr e alla vexata quaestio dell’autonomia differenziata, cioè rispetto a scelte politiche e istituzionali destinate ad avere un peso determinante sullo sviluppo economico, sull’evoluzione delle disuguaglianze sociali e territoriali, sull’assetto e la tenuta della democrazia.
Una cosa è certa. Dopo 50 anni, in Calabria pochi credono in un ruolo positivo, di cambiamento e di sviluppo, dell’ente regione. Il fatto che alle elezioni di due anni fa abbia votato meno del 45 per cento degli aventi diritto la dice lunga sui sentimenti dei calabresi verso questa istituzione. Concordo dunque pienamente con la valutazione degli autori sul fatto che l’esperienza regionalista ha indebolito le ragioni del meridionalismo. Dagli anni 80 in poi la propaganda leghista ha diffuso un’immagine delle regioni meridionali condannate all’inefficienza e all’assistenzialismo e perdute irrimediabilmente alla causa dello sviluppo.
C’è da dire che il senso comune, diffuso tra le popolazioni settentrionali, di un Sud come «palla al piede» è avvenuto anche per la cattiva prova degli amministratori regionali e per l’abbandono, da parte degli eredi del Pci e della Dc, di un pensiero politico che aveva proprio nel meridionalismo una delle sue radici più forti. La questione meridionale diventa un problema di «coesione sociale e territoriale», viene declassata a ritardi di sviluppo da recuperare facendo leva sulle «eccellenze». Come se alcune oasi felici potessero invertire la tendenza del deserto che avanza.
In linea col pensiero liberista dominante, il Pds e a seguire i Ds e il Pd abbandonano di fatto la tradizione meridionalista e abbracciano acriticamente la «questione settentrionale». Mi pare che questo mutamento d’approccio, culturale e politico, che ha molto influito sulla vita delle autonomie regionali, non risalti come avrebbe meritato, nella conversazione tra Ambrogio e Veltri. I divari e le disuguaglianze sociali e territoriali tra Nord e Sud, a 50 anni dall’istituzione delle Regioni, sono cresciuti per una politica con una forte impronta liberista, attenta al profitto d’impresa, che si è presa cura delle aree forti a scapito di quelle deboli. Tanto la «mano invisibile» del mercato avrebbe provveduto a mettere le cose a posto. Una convinzione miope, che stiamo pagando a caro prezzo e che non poteva non avere come conseguenza politica la famigerata «autonomia differenziata».
I limiti e le difficoltà del regionalismo nel Mezzogiorno andrebbero indagati, a mio avviso, anche in un’altra direzione. Ambrogio sottolinea giustamente che gli uffici regionali si sono gonfiati, in questi 50 anni, di personale poco qualificato (di norma), con assunzioni basate poco sul merito e molto, invece, sulla logica clientelare. Mano a mano che venivano trasferiti poteri e competenze statali alle Regioni, anziché emanare provvedimenti di delega agli enti locali, in Calabria e nelle altre regioni del Sud, si rafforzavano le funzioni gestionali, creando un corto circuito tra l’aumento delle cose da fare (e dei soldi da spendere) e la lentezza e l’inefficienza dell’apparato burocratico. Sta qui una delle cause principali dell’aumento del divario Nord-Sud, particolarmente marcato negli ultimi vent’anni. Sono peggiorati tutti gli indicatori riguardanti i servizi pubblici, la qualità della vita, gli investimenti produttivi e infrastrutturali. Per non parlare, degli sprechi, della corruzione, delle infiltrazioni mafiose.
Un po’ di storia ci aiuta a capire meglio alcune dinamiche politiche ed economiche. Prima dell’attuazione dell’ordinamento regionale, la gestione della cosa pubblica era essenzialmente garantita dai comuni, dalle province e dagli enti periferici dello Stato. Con una variante significativa nel Mezzogiorno, che è stata, dagli inizi degli anni ’50, la Cassa del Mezzogiorno. Il ricorso all’intervento “straordinario” ha segnato la vita e il funzionamento del sistema istituzionale e politico meridionale L’uniformità ordinamentale si piegava, nelle intenzioni del legislatore, all’esigenza di rispondere alla peculiarità economica, sociale e culturale delle regioni meridionali.
Al dualismo economico si accompagna, dunque, una sorta di dualismo istituzionale, che ha avuto un peso rilevante. Mentre nelle aree del Nord gli interventi erano regolati sulla base di una distinzione fondamentale tra obiettivi d’interesse nazionale e quelli di scala locale, in quelle del Sud, invece, soprattutto a partire dall’istituzione della Cassa del Mezzogiorno (1950), vi è la contestuale presenza di una pluralità di soggetti pubblici operanti nel medesimo ambito territoriale, e a volte nell’ambito delle stesse materie. Inoltre le risorse necessarie derivavano dalla finanza centrale e il loro controllo dipendeva essenzialmente dagli “enti speciali”.
Si è molto discusso se la Cassa del Mezzogiorno abbia o meno contribuito a ridurre il divario economico tra Nord e Sud. Non si è riflettuto abbastanza sul fatto che il gap ha interessato non solo la sfera economica, ma anche la struttura istituzionale, quella amministrativa e quella, da non sottovalutare, degli interessi privato-collettivi (imprese, sindacato, associazionismo). Il giudizio sostanzialmente positivo, oggi in voga, sull’intervento straordinario non tiene conto del fatto che questo modello di governo ha depotenziato di fatto l’amministrazione ordinaria. Ha contribuito a dequalificarne gli apparati, ha determinato la cronica inefficienza dei servizi, e anche il degrado politico e morale che avvolge il settore pubblico. Tutto questo è, in grande misura, il riflesso dell’intervento straordinario, da molti ancora invocato come panacea di tutti i mali.
L’amministrazione ordinaria, insomma, quella che nel resto del paese è preposta al governo regionale e locale, in Calabria ha perso autorevolezza ed efficienza. E’ relegata a un ruolo subordinato, di «ancella» esecutiva del sistema di potere politico-affaristico-mafioso. La lunga transizione dalla “straordinarietà” alla “ordinarietà” dell’intervento pubblico non si è ancora conclusa e rischia di riaprirsi con la gestione del Pnrr.
L’esperienza regionalista non è stata pari alle aspettative. Non ha determinato quel salto di qualità auspicato nella politica di programmazione e nell’efficienza ed efficacia dell’amministrazione. Non ha rappresentato il punto di svolta in un percorso di autonomia politica, progettuale e finanziaria per le diverse aree del Sud. E’ prevalsa una logica di sovrapposizione di competenze tra Stato e Regione che ha prodotto una crescita della spesa pubblica e improduttiva.
Per lunghi decenni, dal 1970 in poi, la finanza regionale, totalmente derivata dal centro, ha permesso una larga autonomia di spesa senza alcuna autonomia di entrata, generando una totale deresponsabilizzazione degli amministratori e degli apparati dirigenziali delle Regioni sia sul fronte del reperimento delle risorse finanziarie (garantite dai trasferimenti erariali e dai fondi strutturali europei) sia riguardo alla gestione oculata delle stesse. Per il Mezzogiorno e la Calabria, dunque, la Regione è stata un nuovo grande centro di spesa pubblica, che, per le sue caratteristiche, ha accentuato la tradizionale “dipendenza” economica.
Lo strutturale “ritardo di sviluppo” è il frutto della crisi politica e istituzionale. La regressione culturale, il degrado della vita pubblica, l’avanzata incessante della criminalità mafiosa trovano una spiegazione nel ruolo “minimo” dei partiti, in quello che sono diventati.
Nel colloquio di Franco Ambrogio con Filippo Veltri ci sono molte verità e sono presenti molte critiche. Ma, accanto ad alcune omissioni che ho segnalato, ho colto una certa reticenza politica. Se si vuole invertire la tendenza auto-distruttiva della sinistra bisogna affermare un’idea della politica non già come presidio della stanza dei bottoni e nemmeno solo come buona amministrazione, che dovrebbero essere sempre i presupposti di chi si occupa della cosa pubblica.
La politica è innanzitutto radicamento territoriale, conflitto sociale, capacità di leggere e interpretare problemi di uomini e donne, la vicinanza a chi ha più bisogno, l’impegno nel trovare risposte immediate e concrete senza mai smarrire la prospettiva del cambiamento. Sono queste le condizioni minime perché la sinistra riacquisti forza attrattiva e diventi perno della costruzione di un più largo campo democratico e progressista. Diventerebbe anche più semplice discutere del futuro da riservare alle Regioni.
da “il Quotidiano del Sud” del 31 agosto 2021
L’occasione che i calabresi non possono perdere.-di Piero Bevilacqua
Grande è la confusione sotto il cielo della Calabria a poco più di un mese dalle elezioni regionali.Molti i gruppi in campo, molti i nomi, che affondano e riemergono, pochissime idee programmatiche, nessun progetto visibile.Tranne l’eccezione De Magistris. Eppure, se si possiede un po’ di prospettiva storica, se si conoscono le vicende politiche nazionali degli ultimi anni, se si esaminano le scelte politiche dei partiti, la nebbia presente si dirada, la confusione svanisce, alcuni aspetti della battaglia elettorale in corso diventano semplici, perfino banali.
Almeno due verità inoppugnabili vanno dette oggi ai calabresi, che si trovano davanti alla possibilità di cambiare il proprio destino o di assistere all’ennesima, avvilente replica di una vecchia storia: il ritorno della regione in mano a gruppi di potere che amministrano clientele e non promuovono alcun progetto di trasformazione profonda della Calabria.
La verità più nota è che, soprattutto nella nostra regione, tanto le formazioni della destra, quanto il Partito democratico non sono più partiti, ma aggregati di potere, gruppi clientelari portatori di pacchetti di voti, la cui azione di governo si traduce, di legislatura in legislatura, nella continua mediazione per soddisfare le richieste eterogenee e particolari di tali raggruppamenti. Con i risultati, sulle condizioni della regione, storicamente constatabili da tutti.
La seconda verità, meno nota, è che tanto la destra nazionale, in primo luogo la Lega, quanto il PD, hanno accettato le lettura che dell’intero Mezzogiorno fa da tempo la borgesia industriale del Nord, la sua stampa di riferimento ( La Repubblica, Il Corriere, La Stampa), gruppi intellettuali, settori di opinione pubblica, formazioni politiche:questa parte d’Italia è una palla al piede del Paese, impedisce all’economia del Nord di competere con le grandi regioni industriali del Nord Europa ( come la Baviera), e perciò bisogna sganciare le aree più dinamiche e più prospere dai “vagoni più arretrati”, con vantaggio generale dell’Italia.
Tale narrazione sbagliata sotto tutti i profili, anche quello economico (come hanno mostrato gli studi dello SVIMEZ) ispira, come è noto, la richiesta di autonomia differenziata avanzata da Veneto e Lombardia e poi dall’Emilia Romagna, presieduta da Stefano Bonacci, autorevole dirigente del PD. Gran parte del gruppo dirigente di questo partito è convinta di tale interpretazione, o è del tutto indifferente alle vicende che riguardano il destino generale del Sud e dell’Italia.
Nel migliore dei casi cercano delle vie per rendere meno devastante la secessione, come fa Francesco Boccia, che ha curato i rapporti con le regioni nel precedente governo e ora lo fa per il PD. Ma l’aspetto più grave è che perfino autorevoli presidenti di regioni meridionali, come De Luca ed Emiliano, nel 2019, nel momento in cui la Lega stava per fare approvare in Parlamento l’autonomia differenziata, non hanno mostrato la benché minima opposizione a un progetto che emarginava irrimediabimente il Sud e metteva in pericolo l’unità del Paese. E qui debbo evocare una esperienza personale.
In quelle concitate settimane, in gennaio, io scrissi una lettera aperta ad Emiliano, presidente della Puglia, pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno, perché esprimesse una esplicita condanna di quella forma camuffata di secessione. Non ci fu alcuna risposta e nessuna azione. E per completezza di informazione debbo ricordare che l’unica figura istituzionale meridionale di rilievo, che si schierò contro l’autonomia differenziata, fu il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, il quale, invitato da un gruppo di cui facevo parte, venne a Roma e tenne un vigoroso comizio davanti il palazzo di Montecitorio.
Tutto questo prova ampiamente che al Partito democratico, come alla destra, importa poco o nulla del destino in sé della Calabria, se non come pedina nei rapporti di forza nazionali. Ora, la chiarezza semplicissima cui facevo riferimento consiste in questo: i calabresi che votano per la destra devono sapere che danno un voto a favore della secessione delle regioni del Nord, per accrescere il distacco delle aree del Sud dal resto del Paese.
Questo è il programma nazionale della Lega approvato dagli alleati. Chi vota per il PD vota in realtà per la sconfitta del fronte democratico. E’ evidente a tutti che questo partito e l’intero centro sinistra sono caduti nel discredito generale, disamorando anche i loro antichi elettori.
L’enorme difficoltà che il PD ha mostrato negli ultimi mesi nel trovare un canditato presentabile quale presidente della Regione, mostra il disfacimento di questo partito, un arcipelago di gruppi, privo ormai, come la destra, di qualunque cultura politica , senza il benché minimo progetto di rinnovamento strutturale della Calabria. E dovrebbe costituire ragione di umiliazione e di offesa, per i calabresi, che le designazioni dei candidati, una più fallimentare dell’altra, partissero da Roma.
Ora, l’ultima semplice verità da dire è che il Partito democratico, certo della sconfitta, gioca tuttavia una sua partita elettorale: quella di impedire che vinca Luigi De Magistris.Non è affatto un paradosso. Per i gruppi di potere che operano in quel partito “destra” e “ sinistra” non hanno alcun significato. Quel che importa è poter realizzare, anche dall’opposizione, tramite i dovuti compromessi con i gruppi di destra, le operazioni e gli affari che ispirano la loro condotta. E questo, con De Magistris presidente, sarebbe molto più difficile o impossibile.
Per tale ragione è evidentissimo che chi voterà per il PD in realtà voterà a favore della destra, con tutti i danni che deriveranno alla Calabria. Perciò mi permetto di rivolgermi ad Amalia Bruni, persona degna, che ha lasciato le proprie ricerche per entrare in un mondo che non è il suo, per chiederle di riflettere sul ruolo ingrato e anticalabrese che le è stato assegnato.
da “il Quotidiano del Sud” del 24 agosto 2021.
Incendi e crisi ambientale.- di Alberto ZiparoSalvare il paesaggio e il futuro della Calabria
Il mese di luglio 2021 è stato il più caldo di sempre. La crisi ambientale infatti sta aggravandosi sensibilmente. Le ondate di calore che imperversano vengono improvvisamente interrotte da burrasche e “bombe d’acqua”. Un’atmosfera sempre più “arrabbiata”(gonfiata da entropia crescente)si abbatte su territori sempre piu’ stressati e indeboliti dai conflitti dei cicli “ Calore/siccità / inaridimento vs. macroprecipitazioni”.
In Calabria, lo “Sfasciume pendulo”, ulteriormente piagato (abbiamo cementificato anche le fiumare), esaspera così gli effetti delle criminali azioni incendiarie di speculatori e ndranghetisti.
L’attuale disastro pero’ chiama in causa in primis le responsabilità delle istituzioni politiche ,nazionali e locali.
La “transizione ecologica” italiana infatti si sta rivelando sempre più una barzelletta: infatti stiamo facendo ridere tutta Europa pretendendo di attuare il Green Deal con misure di facciata: ancora cemento e consumo di suolo; e la perdurante dominanza dell’energia da fossili. Addirittura integrando il Recovery Plan, che già prevede di suo ca 30 miliardi di Euro per TAV e Grandi Opere (spacciati per mobilita’ sostenibile) con il Collegato,ovvero l’ennesimo “Sblocca cantieri”. In cui “recuperiamo” 57 megaprogetti- e 81 miliardi di euro- della “criminogena “ (definizione ANAC) legge Obiettivo di Berlusconi.
Così la “svolta ecologica “ italiana si dovrebbe realizzare con opere ad alto impatto ambientale per una quota pari a dieci volte quanto si investe per tutela e risanamento del territorio. Che invece sarebbe l’unica grande opera davvero utile e necessaria. E che in Calabria rappresenta un’urgenza assoluta.
Draghi dice in queste ore che finanzierà programmi di rimboschimento e risanamento ambientale delle aree piu’colpite da incendi. E’ bene che i relativi fondi siano gestiti senza improvvisazioni emotive o mediatiche , ma usando quegli strumenti di pianificazione già finalizzati a questo ; che non abbiamo mai attuato. Certo , affrontando subito l’emergenza , cui devono seguire progetti di adattamento ai mutamenti climatici. E quindi la riqualificazione ecopaesistica del territorio. L’unica risorsa ancora in grado di prospettare un futuro.
I guasti che ovunque, in Europa e in Italia, sono stati causati da modelli di sviluppo falliti e ipercementificazione, in Calabria e in altre aree a grande intensità criminale risultano ingigantite, amplificando autentiche catastrofi ambientali , come oggi gli incendi.
Eppure la Calabria si era dotata di un ottimo Piano Territoriale Paesaggistico: ma all’atto della sua approvazione l’allora giunta regionale di Centro destra- subentrata a quella di segno opposto che l’aveva formulato- pensò bene di smantellarne la normativa ; trasformando un fondamentale atto di governo e risanamento di territorio e paesaggio in una esercitazione accademica: E cancellando così anche le regola di difesa da dissesti e disastri , incendi compresi.
Con un piano realmente cogente, infatti, ciascun ambito paesaggistico avrebbe regole e misure per affrontare l’emergenza e quindi risanare il territorio. Chiunque saprebbe che la prima difesa è rappresentata dalla ricostituzione degli ecosistemi , dell’ecofunzionamento “dell’organismo territorio”. Più che da generici rinverdimenti o rimboschimenti.
Nell’emergenza odierna, bisogna tener conto del drastico peggioramento della crisi ambientale negli ultimi anni. E’ utile certamente l’idea degli ex Presidenti del Parco Dell’Aspromonte, Perna e Bombino, di rilanciare i “Contratti di Solidarietà” , investendo associazioni e cooperative locali di produttori, con funzioni di vigilanza continua e primo intervento.
Ma questo va integrato con la “Task Force “ proposta (speriamo seriamente) per il Governo dal Ministro delle Politiche agricole Patuanelli; che prevede il coordinamento e l’ampliamento degli organismi già preposti agli interventi di emergenza, Vigili del fuoco, Protezione Civile, Carabinieri Forestali e Operai Forestali residui, cui si potrebbero aggiungere i “Nuovi responsabili”, oltre ai comuni e agli enti interessati ,come i Parchi che dovrebbe continuamente monitorare il territorio con mappe digitali aggiornate in continuo .
E quindi intervenire subito: sapendo già come e dove intervenire , una volta localizzati i primi focolai. E conoscendo anche le postazioni dei siti di approvvigionamento d’acqua, in funzione delle aree di operazione.
L’emergenza incendi va affrontata usando anche la risorsa idrica dei grandi invasi interni –spesso totalmente inutilizzata – a cominciare dalla diga del Menta . Oggi è assurdo che , come è capitato in questi giorni , i pompieri possano restare senz’acqua proprio al culmine del loro intervento . Inoltre si consideri che un CanadAir impiega nel tragitto andata /ritorno tra il cuore dell’Aspromonte o della Sila e il mare circa 25 minuti, un elicottero oltre mezzora: nell’eccezionalità l’uso dell’acqua degli invasi abbatterebbe i tempi a pochi secondi.
Le emergenze di questi giorni però diventeranno sempre più una costante , sia pure in forme diverse: pensiamo alle piogge che arriveranno tra qualche settimana e troveranno un territorio già dissestato anche da migliaia di frane. Che almeno vengano liberate le vie di fuga dell’acqua, in primis le fiumare. Bisogna fronteggiare situazioni anche molto difficili.
Ma senza smarrire la capacità di guardare anche oltre. Le stesse misure previste dal piano paesaggistico, se riprese, ci indicano le operazioni utili e necessarie alla tutela e al risanamento ambientale ; compresi i progetti di resilienza ed adattamento climatico di periodo medio-breve. Fino ad un territorio riqualificato , da cui possano emergere scenari futuri di auto sostenibilità sociale legati al paesaggio.
Mentre si cercano misure per affrontare l’emergenza drammatica , risulta davvero grottesca e incomprensibile la decisione di riaprire la caccia. Vabbè che i cacciatori sono elettori, ma metter la loro incolumità e la vita stessa a rischio in contesti dissestati e accidentati da roghi appena sopiti, per renderli i giustizieri degli ultimi uccelli e della fauna sopravvissuta, sembra irresponsabile quanto- ribadiamo- incomprensibile.
da “il Quotidiano del Sud” del 18 agosto 2021.
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