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Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Certo, non tutti gli argomenti contrari sono convincenti. Sostenere che “con tutti quei soldi si farebbe un regalo alle mafie”, non lo è. Implica una resa preventiva dello Stato di fronte alla criminalità organizzata, sconsiglierebbe di fare qualsiasi opera pubblica; rischi ci sono, ci si deve attrezzare per affrontarli. Sostenere che “quei territori sono poveri, con basso reddito e pochi traffici; meglio spendere altrove” è obiezione persino peggiore della precedente, dato che interventi per migliorare la mobilità sono fra i più opportuni per determinare un maggiore sviluppo.

In Sicilia e in Calabria (come in Sardegna) il deficit nelle infrastrutture e nei servizi di trasporto è colossale: nell’Isola circolano poco più di 450 treni regionali (vecchi e assai lenti), la metà che in Emilia-Romagna, un quarto rispetto alla Lombardia; l’accessibilità ferroviaria è la metà rispetto al Nord.

Perché allora il Ponte non è una buona idea? Tanto per cominciare, ci sono ancora dubbi tecnici sulla fattibilità dell’opera, che ha caratteristiche che non si ritrovano in nessun altro caso al mondo. Sono legati alla lunghezza della campata, alla sismicità dei luoghi, all’altezza del ponte sul mare e a quella delle sue torri (da realizzare, tra l’altro, in zone di grande pregio ambientale), all’impatto dei venti. Le sfide ingegneristiche difficili vanno affrontate, non demonizzate: ma la realizzazione di un intervento così grande va avviata solo quando vi sia assoluta certezza di fattibilità.

Le grandi opere possono avere un notevole fascino simbolico (si pensi all’Autostrada del Sole) nella vita di una comunità nazionale: ma solo se e quando si completano. In Italia sono già molte le dighe senza condotte, i binari senza treni. Vi è il rischio tangibile che il Ponte alla fine non si faccia, ma vengano intanto assicurati alle imprese coinvolte grandi benefici economici anche in caso di mancato completamento; peggio, che si proceda anche a immani lavori preliminari (treni e auto devono essere portati alla notevole altezza del Ponte) lasciandoli poi in futuro abbandonati.

Ipotizziamo che i dubbi tecnici siano superati. Sarebbe bene farlo? Un elemento fondamentale di cui tenere conto è il suo costo: al momento quasi 15 miliardi, ma destinati assai verosimilmente a crescere molto; e che non si aggiungono ad altri interventi infrastrutturali, ma che in larga misura li stanno sostituendo. Il suo finanziamento sta già drenando ampiamente le risorse disponibili per interventi trasportistici, e in genere per investimenti pubblici, nelle due regioni. Potrebbe farlo a lungo. Quindi la vera domanda non è sì o no al Ponte. È: quale è il modo più opportuno di spendere 15 miliardi a vantaggio della Sicilia, della Calabria, e quindi dell’intero Paese?

Una forte riduzione dei tempi di percorrenza, soprattutto ferroviari, fra le due regioni e poi verso Nord è certamente molto auspicabile. Poter salire su un Frecciarossa a Catania e scendere a Napoli avrebbe un significato economico e psicologico notevole. Ma puntando tutto e solo sul Ponte, tantissimi Siciliani e Calabresi resterebbero comunque isolati; impossibilitati, come sono ora, a raggiungere le stazioni delle città. I trasporti sono un sistema a rete: toccare solo un punto può non migliorare molto le cose.

I collegamenti interni alle due regioni resterebbero nella attuale, arcaica, situazione. Basta consultare il documentatissimo rapporto Pendolaria di Legambiente per una gran mole di fatti e dati. Uno per tutti: fra Caltagirone e Catania ci sono solo due treni al giorno, che impiegano circa due ore per percorrere gli scarsi 80 chilometri che le separano. Il Ponte avrebbe il paradossale effetto di rinviare molti miglioramenti a un futuro imprecisato. Inoltre, le distanze in termini di tempo, e quindi la fluidità degli spostamenti, fra le città di Messina e Reggio Calabria sarebbero marginalmente toccate: il Ponte non collegherebbe le due città ma il punto di minor distanza fra le due coste, che è relativamente lontano dall’una e dall’altra.

Benissimo i treni a lunga distanza: ma la geografia resta un vincolo. In base alle migliori proiezioni ci vorrebbero comunque 7 ore da Palermo a Roma; tutta la fascia adriatico-jonica resterebbe irraggiungibile; al Nord non si potrebbe che continuare ad andare in aereo. Per il trasporto merci con l’Europa, poi, è il mare molto più che la strada a rappresentare la migliore opzione. Per di più, la realizzazione di un’opera non garantisce affatto sul servizio disponibile: quanti treni in più, con quale frequenza e quali standard qualitativi partirebbero da Catania solo perché potrebbero passare sul Ponte? E questo, quando?

Domande senza risposta. L’attraversamento dello Stretto può essere assai migliorato (si veda il Rapporto del 2021 della Struttura Tecnica di Missione del ministero), con costi e tempi infinitamente minori rispetto alla grande opera. Attraversare lo Stretto in treno non implica necessariamente smontare i convogli ferroviari vagone dopo vagone, traghettarli, e poi rimontarli. La tecnologia può aiutare, e molto: a ridurre i tempi morti; a integrare meglio ferro e mare con strutture di interscambio; attraverso nuovi mezzi marittimi.

Alcune grandi opere servono, specie al Sud. Non sempre, non tutte. Insieme ad alcuni grandi interventi sono soprattutto indispensabili efficienti sistemi di opere anche minori, disegnati con intelligenza e ben funzionanti nel produrre in tempi ragionevoli servizi per cittadini e imprese: come per il trasporto pubblico in Calabria e in Sicilia. Inoltre, le risorse per gli investimenti, così come per i servizi pubblici, potrebbero tornare ad essere scarse con la nuova austerità. Tutti elementi che dovrebbero imporre una discussione collettiva aperta, serrata, informando e coinvolgendo i cittadini, su come utilizzare al meglio ciò che abbiamo, sulle scelte migliori per il futuro.

Da questo punto di vista il percorso verso il Ponte sullo Stretto è l’esatto contrario: la retorica degli annunci roboanti, l’inganno della soluzione facile, la ricerca del consenso immediato, l’ombra del grande intervento che oscura le difficoltà quotidiane di milioni di persone, l’opacità dei processi, gli interessi nascosti. Destinare con queste modalità colossali risorse al suo avvio è l’immagine non di un futuro, ma del difficilissimo presente del nostro Paese.

Una grande questione, che richiede una diversa soluzione. Forse, allora, Schlein e Conte potrebbero pensare di trasferirsi con i loro gruppi parlamentari per un weekend in Sicilia e in Calabria. Per tenere cento e cento assemblee nelle città. Per raccontare come loro utilizzerebbero quelle risorse, per discuterne con i cittadini, per raccogliere suggerimenti, per dar forma e rendere chiara un’offerta politica alternativa, a partire da un esempio molto concreto.

da “il Fatto Quotidiano”

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?

È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?

In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?

L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è condotta dalla giunta regionale e dal governo, ma il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa, ma sarebbe assurdo che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non potesse esercitare poteri decisionali su una questione che investe l’interesse generale.

Tali dubbi procedurali potrebbero essere risolti da una legge di attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione?

È quello che vorrebbe fare il governo con la proposta di legge Calderoli, per la quale il Parlamento può esprimere solo un indirizzo. Tuttavia, poiché l’intesa Stato-regione va approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può stabilire come quella legge dovrà essere approvata: fonti del diritto dotate di pari forza non possono prevalere l’una sull’altra. Solo una legge costituzionale, dotata di forza superiore, potrebbe vincolare la legge di approvazione dell’intesa.

Ma allora la proposta Calderoli non è vincolante nemmeno nella parte in cui stabilisce che prima dell’attribuzione delle nuove competenze alle regioni occorre approvare i livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti civili e sociali?

Esatto: le nuove competenze potrebbero comunque essere attribuite alle regioni anche senza i lep.

A proposito di lep: come e quando saranno individuati?
La legge di bilancio 2023 prevede i seguenti passaggi, da realizzarsi in un anno: (1) la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa) formula una prima ipotesi di lep; (2) la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico; (3) la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) e il Parlamento forniscono il loro parere; (4) il Presidente del Consiglio approva i lep con dPcm.

È una procedura costituzionalmente corretta?

No, la Costituzione attribuisce il compito di definire i lep al Parlamento in tutte le materie, invece lo farà il governo e solo in alcune materie. Inoltre, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che sarà il bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario (come dice la sentenza 275/2016 della Corte costituzionale).

Dai lep dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze?

No, tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione del residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere parte delle risorse versate al fisco. È una rivendicazione illogica, perché a pagare le tasse sono le persone (non le regioni) sulla base del loro reddito (non del luogo di residenza). Ed è incostituzionale, perché gli articoli 2 e 53 della Costituzione sanciscono la solidarietà economica e tributaria a livello nazionale.

Ma, allora, definire i lep a cosa serve?

Dai lep dovrebbe dipendere il livello minimo di finanziamento assegnato ugualmente a tutte le regioni, in modo che tutte possano offrire le medesime prestazioni di base. Ma c’è poco da illudersi: in sanità i lep già esistono e, tuttavia, l’ammontare del finanziamento e la qualità delle prestazioni sono tutt’altro che uniformi.

Quali regioni hanno sinora manifestato l’intenzione di avvalersi dell’autonomia differenziata?

Tutte le regioni ordinarie, tranne Abruzzo e Molise. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le più avanti nelle trattative con il governo, al punto da aver sottoscritto una bozza d’intesa.

Quali sono, secondo tali bozze d’intesa, le competenze che verranno attribuite alle tre regioni?

Sono competenze amplissime: il governo della sanità e della scuola; fondi integrativi per università e ricerca; la regionalizzazione dei musei; l’organizzazione della giustizia di pace; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale; il controllo di porti e aeroporti; la protezione civile; il ciclo dei rifiuti; le semplificazioni amministrative in edilizia; l’energia; ecc. Il Veneto vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, il reclutamento dei Vigili del Fuoco… L’Emilia-Romagna è più prudente, ma ugualmente incisiva: per esempio, non chiede il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Come fermare l’autonomia differenziata?

La via maestra sarebbe eliminare dalla Costituzione l’ipotesi stessa. Più realisticamente, si potrebbe modificare l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, riducendo il numero di materie richiedibili dalle regioni, introducendo una clausola di supremazia statale e prevedendo la possibilità di referendum approvativo e abrogativo per la legge di recepimento dell’intesa (come propone il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale con una legge di iniziativa popolare che si può sottoscrivere qui). Al minimo, bisognerebbe valorizzare il principio che tutela l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e, dunque, ritenere incostituzionali le richieste regionali – come quelle di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – prive di una dimostrata esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.).

da “il Manifesto” del 4 febbraio 2023