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Polsi, il cuore sacro dell’Aspromonte tradito dalle etichette e dai pregiudizi.-di Tonino Perna

Polsi, il cuore sacro dell’Aspromonte tradito dalle etichette e dai pregiudizi.-di Tonino Perna

Il 2 settembre di ogni anno, per diversi secoli, si è celebrata la festa della Madonna della Montagna, detta anche la festa di Polsi dove sorge il santuario nel cuore dell’Aspromonte. Amava dire il vescovo Bregantini: <>.

Un posto magico, a circa novecento metri di altezza, in una conca che ha di fronte, quasi fosse un gigante minaccioso, la montagna più alta che arriva a Montalto a superare i 2000 metri. Non a caso i greci pensarono che questo luogo fosse simile all’Olimpo, la montagna più alta delle Grecia dove risiedevano gli dei che governavano il Cosmo.
Come sull’Olimpo così a Montalto molto spesso la cima estrema è avvolta in una nuvola che ne aumenta il fascino e il mistero.
Così, secondo un’ipotesi accreditata, ogni anno i coloni greci, partendo dal Persephoneion, il santuario di Persefone sito a Locri Epizefiri, risalivano la montagna dal lato di Potamia, l’antica San Luca che fu abbandonata nel 1592 dopo un evento franoso che la seppellì in parte.

Arrivavano a Polsi, come la chiamiamo oggi, dove probabilmente sorgeva l’altro santuario dedicato a Persefone, la dea della rinascita, dell’eterno ciclo tra la vita e la morte. Secondo un’altra ipotesi guardando l’Olimpo , cioè Montalto, si invocavano gli dei e un aruspice dava il suo responso sul futuro. In ogni caso, come hanno fatto tutti i coloni anche i greci hanno cercato le loro radici, la loro identità, attraverso un luogo che gli ricordasse la sacralità e il possibile contatto con gli dei.

Accanto a Potamia sorgeva l’omonimo fiume di acqua salmastra, navigabile, che arrivava quasi all’altezza dell’attuale località denominata Polsi. Va ricordato che la gran parte di quelli che oggi chiamiamo torrenti nella costa jonica calabrese erano un tempo navigabili per via del mare che entrava in profondità nel massiccio aspromontano, formando dei veri e propri fiordi, paragonabili a quelli norvegesi. Con la cosiddetta Piccola Era Glaciale , dal XIV al XIX secolo, il mare si ritirò e restò solo l’acqua della montagna che arrivava fino a valle nel periodo autunno-inverno.

Ma, per secoli fu possibile raggiungere Polsi agevolmente: si arrivava via mare sul grande arenile dove sorge oggi Bovalino e si proseguiva con la barca o a piedi verso questo luogo sacro. Un luogo unico che per tanto tempo ha visto confluire i coloni greci della Calabria Ultra e della Sicilia orientale, durante le feste in onore di Persefone. Unico luogo sacro che dall’antichità fino al secolo scorso ha unito una parte rilevante di calabresi e siciliani.

Intorno al XIII secolo si stima che sia stato trasformato il culto antico di Persefone in un santuario cristiano di devozione alla Madonna. La tradizione vuole che sia stato un toro che scavando nel terreno abbia trovato una croce in ferro e su questo sito è sorto il Santuario di Polsi. Prima bizantino, come è testimoniato dalla porta principale del santuario che sorgeva ad Est, murata alcuni secoli dopo quando divenne di culto cattolico e sostituita con l’attuale entrata che è rivolta ad Occidente.

Per tanti secoli il pellegrinaggio a Polsi ha coinvolto decine di migliaia di fedeli provenienti da tanti paesi, grandi e piccoli, calabresi e siciliani che avevano qui la loro “casa”. Ancora oggi è possibile trovare i nomi di alcune di queste “case”, di fatto stanze, che ospitavano i pellegrini. Anche questo è un caso unico, niente di tutto questo esiste nelle due regioni.

Così fino alla metà del secolo scorso erano sopravvissute le tradizioni pagane che si erano ibridate con quelle cristiane, un fenomeno di sincretismo religioso ben conosciuto dagli studiosi. Le vacche venivano portate all’altare della chiesa facendole strisciare con la lingua per terra, le capre venivano sgozzate lungo il torrente che assumeva un inquietante colore rossastro, e infine la tarantella portava suonatori e danzatori, accompagnati da dosi di vino gagliardo, a raggiungere uno stato di trance, simile a quello che ci è stato raccontato rispetto ai riti dionisiaci.

E ancora ai nostri giorni quando la Madonna della Montagna nel giorno della festa viene portata fuori dalla chiesa subisce una improvvisa virata per proteggersi dallo sguardo della Sibilla che vive nella grotta di fronte.

E’ incredibile come una storia come questa sia ancora in gran parte misconosciuta dagli abitanti di queste terre. Neanche la Sovraintendenza, il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, le Università hanno mai dimostrato un vero interesse ad approfondire, scavare, ricercare in questo luogo così carico di secoli.

Ma, ancora più incredibile, per usare un eufemismo, è che Polsi sia diventato dagli anni ’70 del secolo scorso il luogo principe per le riunioni della ‘ndrangheta. L’identificazione di Polsi con la ‘ndrangheta è non solo un’operazione riduttiva, ma offensiva. Ancora una volta è la storia che bisogna consultare. Per secoli, ne abbiamo testimonianze dal XVIII secolo, durante la festa della Madonna della Montagna del 2 settembre, si riunivano a Polsi i notabili della provincia reggina.

Nobili, prelati, ricchi commercianti, partecipavano alla festa perché gli dava prestigio e, allo stesso tempo, era un’occasione per stringere alleanze o dirimere controversie. Questo Santuario ha avuto storicamente anche questa valenza: una sorta di piccolo parlamento locale. Quando nella seconda metà del XIX secolo, cominciò a crescere e radicarsi la ‘ndrangheta partecipava anch’essa a questa festa insieme alle autorità del tempo.

Il fatto che ancora oggi partecipi qualche ‘ndranghetista alla festa di Polsi non significa che questo sia diventato il luogo di riunione dei boss locali. Per altro se si tratta di latitanti vista la presenza massiccia di forze dell’ordine rischiano di essere catturati, se si tratta di capimafia a piede libero sono dei cittadini come gli altri che hanno diritto a partecipare alla festa.

Avere interrotto una tradizione ultrasecolare che coinvolge una parte importante della popolazione calabrese e siciliana, non ha giustificazioni plausibili. Prima si è detto perché la strada da San Luca è stata interrotta da una frana. Ma, questo non era un problema, ma un’occasione, una opportunità.

Fino agli anni ’70 del secolo scorso la gran parte dei fedeli arrivava a piedi a Polsi. In fondo il pellegrinaggio è questo: il più famoso al mondo, il Cammino di Santiago di Compostela, richiede diversi giorni a piedi prima di raggiungere la meta.

Poteva essere finalmente vietato l’uso delle auto, camion e fuoristrada, almeno per gli ultimi chilometri, ripristinando il vero valore del pellegrinaggio così magistralmente descritto da Corrado Alvaro nel suo “ Polsi nell’arte, nella leggenda e nella storia” 1912: un affresco ricco di emozionanti sguardi sui pellegrini che appesantivano il loro passo portando con sé le pietre più belle che raccoglievano per l’edificazione del Santuario di Polsi.

Così, con questa straordinaria partecipazione popolare una chiesetta è diventata un santuario.

Quando, alcuni giorni fa, la strada è stata riaperta sembra che la Prefettura abbia proibito l’accesso a Polsi per ragioni di sicurezza, dato che ci sono lavori in corso al Santuario. Anche in questo caso non mancavano soluzioni alternative. Per esempio, i fedeli potevano restare fuori dalla chiesa ma la statua della Madonna poteva essere portata all’esterno, anche per un breve saluto e una preghiera. Se si vuole trovare una soluzione la si trova.

La verità è, tristemente, un’altra. Con questo provvedimento si è voluto dare un duro colpo alla riunione della ‘ndrangheta. Che se la ride negli hotel a dieci stelle delle metropoli di mezzo mondo.

Stupisce infine il silenzio dell’Episcopato di fronte ad un’imposizione di un rappresentante dello Stato con trova giustificazioni plausibili.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 agosto 2025

Che fare? Quello che la California ci insegna.-di Tonino Perna

Che fare? Quello che la California ci insegna.-di Tonino Perna

Sono almeno dieci anni che gli studiosi hanno statisticamente rilevato un incremento della superficie bruciata a causa degli incendi in tutto il mondo. Ma, grazie ai mass media, nell’immaginario collettivo si è radicata l’idea che gli incendi devastanti siano una realtà eccezionale, una emergenza che riguarda solo alcune parti del pianeta.

Pochissimi sanno che l’area più colpita al mondo non sia l’Amazzonia, ma quella delle foreste equatoriali che dalla Repubblica Democratica del Congo si estendono all’Angola, alla Repubblica Centrafricana e ad altri Paesi limitrofi.

Non se ne parla mai nelle varie Coop, nei meeting internazionali che tentano di affrontare la questione ambientale, come se il fenomeno non incidesse sulla produzione di CO2. Si pensi solo che nel 2023 queste emissioni, come ricordava ieri Luca Martinelli, sono state pari a sei volte la CO2 prodotta dall’Italia e, secondo una stima attendibile, pari all’impatto del traffico aereo che concorre col 2% alle emissioni globali di gas climalteranti.

Non solo California, dunque, ma un fenomeno mondiale. Negli stessi Usa l’andamento del rapporto tra superfice bruciata e numero degli incendi (vedi il grafico) ci mostra come non sia tanto il numero degli incendi a crescere quanto la furia e l’impatto devastante di questo fenomeno.

Incendi negli Usa dal 1983 al 2022 (media mobile di tre anni)
Periodo/Incendi/Acri bruciati-1.000/ Acri-incendio
1986-88 86.600 3.391 39,2
1989-91 63.900 3.133 49,0
1992-94 75.000 2.646 35,3
1995-97 81.300 3.587 44,1
98-2000 88.200 4.783 54,2
2001-03 73.800 4.905 66,5
2004-06 76.000 8.890 117,0
2007-09 81.000 6.847 84,5
2010-12 68.000 7.155 105,2
2013-15 59.200 6.013 101,6
2016-18 65.100 8.101 124,4
2019-21 52.700 7.303 138,6
2022 59.900 7.577 126,5
Fonte: N.E. su dati dell’Annual Wildfire Burned Area in U.S.

Spesso la classe politica locale si dimostra talmente impotente e impreparata da sfiorare il ridicolo. Esemplare è il caso del governatore della California, David Newsome, che nell’ottobre del 2020 di fronte a uno dei più devastanti incendi che hanno colpito la California negli ultimi anni ha reagito a questo dramma con un provvedimento che vieta la vendita delle auto a benzina a partire dal 2035 (sic!).

Ma, quello che la California ci insegna è che in una delle aree più ricche del nostro pianeta la tecnologia più avanzata è impotente se pensa di fare a meno del ruolo della organizzazione sociale. Di anno in anno si moltiplicano gli elicotteri, si usano i droni, le connessioni satellitari sono fantastiche nel regno di Elon Musk, ma niente possono di fronte all’avanzata degli incendi. E non si tratta di una natura che si vendica quanto di una società capitalistica portata alle estreme conseguenze.

Chi scrive ha sperimentato con successo, quando era presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte, come si potessero ridurre drasticamente gli incendi puntando sul presidio dei territori, sulla responsabilità e motivazione, nonché su una premialità per chi opera per spegnere da terra, quando parte il fuoco, affinché non si propagandi.

Il cosiddetto “modello Aspromonte” è stato per dieci anni imitato anche da altri parchi nazionali, ma poi è stato messo da parte dalla potenza delle lobbies dei mezzi aerei che affittano allo Stato le proprie prestazioni. Qualche maligno in passato ha detto “se non ci fossero gli incendi fallirebbero queste imprese” che solo nelle regioni meridionali arrivano a gestire più di duecento milioni di euro l’anno.

Il successo del “metodo Aspromonte” era basato sul fatto che i cosiddetti “contratti di responsabilità territoriale” venivano assegnate ad associazioni o cooperative che avevano nel curriculum un bagaglio di impegni in campo ambientale, unitamente al riconoscimento economico del lavoro fatto. Esattamente l’opposto di quanto avviene in California dove vengono utilizzati i carcerati per spegnere gli incendi quando ormai divampano. E questi poveretti, circa ottocento secondo le cronache, sono stati anche questa volta mandati allo sbaraglio, rischiando la vita per un dollaro l’ora.

Denaro, tecnologia, potenza militare, non servono a niente per contrastare gli incendi come dimostra un caso esemplare nel nostro paese. il Trentino-Alto Adige (Sud Tirolo). In questa bellissima regione gli incendi sono stati da sempre controllati grazie a una tradizione civica così forte e radicata che porta migliaia di volontari, ogni anno, a presidiare il territorio e a spegnere i focolai quando dovessero innescarsi.

Come ormai avviene nel campo della salute dove la durata media della vita diminuisce quando aumenta la privatizzazione dei servizi sanitari così nella cura del territorio se si abbandona questo bene comune alla logica del profitto, se non si fa prevenzione, saremo sempre più esposti ad incendi, alluvioni, e disastri ambientali.

da “il Manifesto” del 12 gennaio 2025

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

In tutta Italia sta emergendo una critica incessante e capillare alla diffusione delle energie rinnovabili, in particolare rispetto al solare e all’eolico. Paradossalmente, questa critica proviene in questo momento storico proprio da una parte significativa del mondo ambientalista. È come se persone impegnate da tanti anni in difesa dell’ambiente avessero dimenticato che dobbiamo uscire dalla dipendenza dalle fonti fossili che ancora rappresentano nel nostro Paese oltre la metà della produzione di energia, pari al 56 per cento del totale dell’energia prodotta.

Certo, l’Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi quindici anni nel campo delle energie rinnovabili, soprattutto solare ed eolico. Ma, dobbiamo ancora avanzare nella sostituzione dei combustibili fossili, che vergognosamente ricevono notevoli contributi pubblici, anche per gli impegni presi a livello internazionale ed europeo.

Le critiche mosse da una parte del movimento ambientalista, da alcuni noti intellettuali, hanno un fondamento che non va sottovalutato. Questa crescita degli impianti eolici e solari è avvenuta molte volte senza un criterio, sfruttando incentivi e la mancanza di una pianificazione territoriale. Importanti estensioni di terreno sono state sottratte all’agricoltura per essere utilizzate da una miriade di pannelli solari.

Così come impianti eolici in località che hanno una particolare valenza paesaggistica sono stati installati senza tenerne conto. Va detto con chiarezza: non bisogna fermare la crescita degli impianti solari ed eolici, ma bisogna che questo sviluppo avvenga all’interno di una pianificazione sul piano regionale. I pannelli solari vanno messi sugli edifici, ad iniziare da quelli pubblici (scuole, ospedali, ecc.) e vanno collegati (questo è uno scandalo di cui poco si parla, frutto della sciatteria di alcuni enti locali, e di cui potrei fornire un vergognoso elenco).

Gli impianti eolici vanno impiantati dopo uno studio attento e possibilmente, là dove ci sono le condizioni, vanno messi off shore. Chi scrive, in qualità di presidente del Parco Nazionale Aspromonte promosse il primo parco eolico in Italia all’interno di una area protetta, dopo aver avuto il supporto delle principali associazioni ambientaliste, infischiandosene dei soliti Sgarbi, Ripa di Meana e compagnia blasé che nelle pale eoliche avevano visto i mulini a vento del Don Chisciotte della Mancia.

Infine, vanno moltiplicate le iniziative che vanno nella direzione del risparmio e della gestione migliore dell’energia da fonti rinnovabili come avviene con le “Comunità energetiche”, che andrebbero promosse dovunque come giustamente affermava su questo giornale l’ingegnere Piero Polimeri qualche giorno fa.

E veniamo al dibattito che si è sviluppato in Calabria nell’ultimo anno. Diversi interventi critici sull’avanzata degli impianti solari ed eolici hanno sottolineato il fatto che la Calabria consuma meno energia di quella che produce, e quindi non avrebbe senso continuare a installare impianti per le rinnovabili. Intanto va subito chiarito che questo surplus energetico è dovuto alla presenza della centrale termoelettrica di Rossano, senza la quale dovremmo importare energia dalle altre regioni.

Pertanto, se vogliamo essere veramente indipendenti dal petrolio dobbiamo aumentare la produzione di energia rinnovabile. Ma, soprattutto, ragionare in questo modo fa il paio con chi sostiene l’autonomia differenziata, ovvero guardare al proprio territorio fregandosene del contesto nazionale. Il Mezzogiorno nel suo complesso produce oggi oltre il 90% dell’energia eolica che viene messa in rete e intorno al 45% dell’energia solare. In una logica di autonomia differenziata si dovrebbe dire basta: non mettiamo più pale eoliche nel territorio meridionale.

Se invece superiamo la logica dell’egoismo territorialista allora possiamo far pesare questo grande contributo alla transizione green che sta dando il nostro Sud, rivendicando una logica nazionale anche per la sanità, la scuola, ecc. O siamo un Paese con obiettivi condivisi e camminiamo nella stessa direzione dando a tutti i cittadini gli stessi diritti fondamentali o ritorniamo agli statarelli già condannati dal “grande fiorentino”: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2024

Calabria, l’oblio delle buone pratiche.- di Tonino Perna

Calabria, l’oblio delle buone pratiche.- di Tonino Perna

Nella torrida estate del 2003 mentre tutta l’Europa del sud bruciava, dal Portogallo alla Grecia, mentre per l’ondata anomala di calore morivano nella sola Francia 25mila persone, venne alla ribalta dei mass media il caso del Parco nazionale dell’Aspromonte. Per la prima volta nella storia contemporanea, si parlava di questa montagna mitica e misteriosa, non per i sequestri di persona, né per omicidi di ‘ndrangheta, ma per un sistema di contrasto agli incendi che da tre anni funzionava.

Il sistema era semplice e andava al nocciolo del fenomeno incendi. Siccome non riusciamo a prevenirli, data la molteplicità delle cause e dei soggetti coinvolti, bisogna trovare il modo di spegnerli appena partono. Con un bando pubblico i circa 40.000 ettari di foresta del Parco nazionale dell’Aspromonte venivano dati in affidamento a soggetti del Terzo Settore (cooperative, associazioni, ecc.) con un contratto che prevedeva un contributo iniziale, in base agli ettari adottati e alla orografia del terreno, e un saldo finale solo nella misura in cui gli ettari andati in fumo non fossero superiori all’1% della superficie adottata.

Veniva evitata la gara al ribasso dell’offerta economica che tanti danni ha provocato, e sostituita con parametri oggettivi. Questi «contratti di responsabilità sociale e territoriale» hanno rappresentato uno strumento per ristabilire un rapporto con questi territori abbandonati, spopolati, dove un tempo vigevano gli usi civici e tutta la comunità si faceva carico della manutenzione dei boschi, del loro uso a fini alimentari e non (legna da ardere, carbone, e persino ghiaccio nelle aree di alta montagna).

Il cosiddetto «metodo Aspromonte» fu imitato da alcuni parchi nazionali e regionali, venne preso in considerazione da Bruxelles, dove nel 2005 chi scrive fu invitato dalla Commissione che si occupa di forestazione, biodiversità, ecc. Fu introdotto in alcuni Comuni con delle interessanti varianti, che davano questa responsabilità territoriale ai contadini piuttosto che ai soggetti del Terzo settore. Insomma, sembrava logico che questa modalità di contrasto degli incendi diventasse una pratica comune. Ed invece nel tempo è prevalso l’oblio. Non a caso: il grande business delle società private che gestiscono l’antincendio ha prevalso e ci ha portato al disastro odierno.

Certo, il surriscaldamento della Terra, estati sempre più afose, lunghi periodi di siccità, tutto questo sappiamo che è dovuto al mutamento climatico indotto dall’uomo, ma proprio per questo dovremmo attrezzarci. Ed invece la cosiddetta «resilienza» appare solo come un vezzo per giustificare investimenti, per utilizzare risorse comunitarie, ma non si vede un piano di resilienza per le città quanto per le zone interne. Aspettiamo la prossima alluvione per gridare alla mancanza di cura del territorio quando potremmo fin d’adesso prendere atto che bisogna dare priorità alla manutenzione e stabilire una nuova relazione con l’ambiente in cui viviamo, fondata sul principio di responsabilità sociale e territoriale.

da “il Manifesto” dell’8 agosto 2021
Foto di jlujuro da Pixabay