Calabria, l’oblio delle buone pratiche.- di Tonino Perna
Nella torrida estate del 2003 mentre tutta l’Europa del sud bruciava, dal Portogallo alla Grecia, mentre per l’ondata anomala di calore morivano nella sola Francia 25mila persone, venne alla ribalta dei mass media il caso del Parco nazionale dell’Aspromonte. Per la prima volta nella storia contemporanea, si parlava di questa montagna mitica e misteriosa, non per i sequestri di persona, né per omicidi di ‘ndrangheta, ma per un sistema di contrasto agli incendi che da tre anni funzionava.
Il sistema era semplice e andava al nocciolo del fenomeno incendi. Siccome non riusciamo a prevenirli, data la molteplicità delle cause e dei soggetti coinvolti, bisogna trovare il modo di spegnerli appena partono. Con un bando pubblico i circa 40.000 ettari di foresta del Parco nazionale dell’Aspromonte venivano dati in affidamento a soggetti del Terzo Settore (cooperative, associazioni, ecc.) con un contratto che prevedeva un contributo iniziale, in base agli ettari adottati e alla orografia del terreno, e un saldo finale solo nella misura in cui gli ettari andati in fumo non fossero superiori all’1% della superficie adottata.
Veniva evitata la gara al ribasso dell’offerta economica che tanti danni ha provocato, e sostituita con parametri oggettivi. Questi «contratti di responsabilità sociale e territoriale» hanno rappresentato uno strumento per ristabilire un rapporto con questi territori abbandonati, spopolati, dove un tempo vigevano gli usi civici e tutta la comunità si faceva carico della manutenzione dei boschi, del loro uso a fini alimentari e non (legna da ardere, carbone, e persino ghiaccio nelle aree di alta montagna).
Il cosiddetto «metodo Aspromonte» fu imitato da alcuni parchi nazionali e regionali, venne preso in considerazione da Bruxelles, dove nel 2005 chi scrive fu invitato dalla Commissione che si occupa di forestazione, biodiversità, ecc. Fu introdotto in alcuni Comuni con delle interessanti varianti, che davano questa responsabilità territoriale ai contadini piuttosto che ai soggetti del Terzo settore. Insomma, sembrava logico che questa modalità di contrasto degli incendi diventasse una pratica comune. Ed invece nel tempo è prevalso l’oblio. Non a caso: il grande business delle società private che gestiscono l’antincendio ha prevalso e ci ha portato al disastro odierno.
Certo, il surriscaldamento della Terra, estati sempre più afose, lunghi periodi di siccità, tutto questo sappiamo che è dovuto al mutamento climatico indotto dall’uomo, ma proprio per questo dovremmo attrezzarci. Ed invece la cosiddetta «resilienza» appare solo come un vezzo per giustificare investimenti, per utilizzare risorse comunitarie, ma non si vede un piano di resilienza per le città quanto per le zone interne. Aspettiamo la prossima alluvione per gridare alla mancanza di cura del territorio quando potremmo fin d’adesso prendere atto che bisogna dare priorità alla manutenzione e stabilire una nuova relazione con l’ambiente in cui viviamo, fondata sul principio di responsabilità sociale e territoriale.
da “il Manifesto” dell’8 agosto 2021
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