Tag: sanità pubblica

Guardie e ladri (e sanità calabrese)- di Enzo Paolini

Guardie e ladri (e sanità calabrese)- di Enzo Paolini

Il generale Cotticelli. Non finisce mai di sorprendere. Ora, dopo aver passato le visite mediche per scoprire (sul “Fatto” di ieri) se lui era lui, ed aver indagato per bene ha concluso che non è stato fatto fuori per il fatto di essere il Commissario al piano di rientro della sanità a sua insaputa. No. Lo ha cacciato la massoneria, quella “deviata” che lui ha combattuto tutta la vita e che si sarebbe, per ciò, vendicata.

E comunque, tanto per chiarire il suo sedicente pensiero, in Calabria tutto ti lasciano fare fino a quando non tocchi i privati.
Ecco. Non sappiamo cosa volesse dire un uomo delle Istituzioni con queste mezze frasi o allusioni ma possiamo intuire che volesse dire: se non dai fastidio agli imbroglioni ed ai criminali che si annidano nella sanità privata, non dai fastidio a nessuno.
Detta così, ci sta bene perché sappiamo, come tutti gli italiani, che nella sanità privata si muovono tanti soldi, e talvolta in maniera illegale, criminale.

E dunque fa bene il Governo a mandare gente che indaghi e colpisca duro.
Ma perché mettere un poliziotto, un generale dell’arma o della GDF a governare il servizio sanitario? Perché deve scovare i criminali, ovvio.
Ma questo lo fanno le Questure e le Procure, non deve farlo il Commissario alla Sanità o la politica.

Se si manda un Commissario poliziotto che, per mandato ricevuto e per sua attitudine professionale deve solo indagare e dunque blocca tutto, ma proprio tutto, servizi, pagamenti, accreditamenti, nomine ecc. ecc. non si governa il servizio, lo si affossa e si aumenta il ricorso a pratiche illecite. Il perché è evidente: se ad esempio si sono scoperti doppi o tripli esborsi per le stesse fatture, liquidate ad imbroglioni con la connivenza di funzionari infedeli, si devono bloccare quelli e solo quelli. Non tutti.

Se non si pagano gli imprenditori per bene, nei cui confronti non v’è neanche un’ombra, se non si eseguono le sentenze della magistratura, ingolfando di pignoramenti gli uffici esecuzioni di tutti i Tribunali, si conducono gli imprenditori per bene alla morosità nei confronti dei fornitori, agli inadempimenti nei confronti dei dipendenti, poi all’usura e poi al fallimento.

Come dobbiamo dirlo, come dobbiamo gridarlo, basta con la Regione commissariata. Mandate pure l’esercito, i caschi blu, mandate chi volete, anche se noi pensiamo che in Calabria vi sono eccome, forze dell’ordine, investigatori e magistrati di prim’ordine ed in grado di fare ciò che deve essere fatto come e meglio di un Commissario sprofondato nella Cittadella regionale che non è stato in grado (non l’attuale, nessuno) di recuperare un solo centesimo del debito che era chiamato a ridurre.

Mandate Mandrake, ma lasciate che la Calabria abbia la possibilità di essere gestita – anche in sanità – secondo le regole della Costituzione, e cioè dagli eletti del popolo.
Non è sano dire che siccome il servizio sanitario funge da greppia per corrotti e corruttori, occorre bonificarlo con un commissariamento illimitato con una antidemocratica abolizione del normale servizio in nome di una emergenza criminale. Anche in Polizia, in Magistratura o in Politica, vi sono corrotti e corruttori: abbiamo abolito la Polizia, o la Giustizia, abbiamo chiuso il Parlamento?

Basta con la demagogia, restituiamo i poteri a chi li deve avere in virtù di quel libretto chiamato Costituzione e pretendiamo che i ladri vengano arrestati dalle guardie. Subito.
Questa sarebbe la vera bonifica.

da “il Quotidiano del Sud” del 19 maggio 2021

Draghi ingegnere del sistema e non un pilota automatico.-di Alfonso Gianni

Draghi ingegnere del sistema e non un pilota automatico.-di Alfonso Gianni

Tutto si può dire del governo Draghi, se si farà, tranne che si tratti di un governo tecnico. I precedenti, nati sotto quella definizione, Ciampi, Dini, Monti sono tra i governi che hanno più inciso nella vita materiale del paese – vedi per esempio le pensioni – e quindi hanno fatto politica, nel senso più pregnante del termine. Nello stesso tempo troppo diverse sono le condizioni oggettive e soggettive per poter fare paragoni stringenti con quelle situazioni. Con Draghi abbiamo una compenetrazione tra governance europea e governo nazionale.

È persino riduttivo dire che per l’ignavia delle classi dirigenti politiche ed economiche del nostro paese ci tocca il «pilota automatico», un commissario tecnocrate. Qui abbiamo l’ingegnere costruttore, non solo il suo robot. Mario Draghi ha interpretato diverse fasi della costruzione dell’Europa, qualunque fosse il suo ruolo pubblico o privato. Almeno quattro e tutte decisive, di cui è possibile seguire una successione cronologica, salvo parziali sovrapposizioni temporali.

L’epoca delle grandi privatizzazioni, quelle decise a bordo del Britannia, per cui il nostro paese divenne il secondo dopo l’Inghilterra thatcheriana per volume nel valore delle dismissioni dei beni dello Stato, accompagnate dal fanatismo rigorista che finirà per partorire l’assurdo Fiscal compact e l’accanimento brutale nei confronti della Grecia. La famigerata lettera assieme a Trichet al governo italiano del 5 agosto del 2011 che tracciò un percorso di lacrime e sangue puntualmente eseguito dai governi che seguirono. Il lancio, seppure tardivo rispetto ad altre parti del mondo, della politica monetaria espansiva, con il Quantitative Easing.

Per arrivare all’intervento sul Financial Times del 25 marzo dello scorso anno, nel quale il debito (quello «buono», non per fini assistenzialistici o per tenere in vita imprese zombie, preciserà altrove) smetteva di essere un tabù e allo stesso tempo si denunciavano i limiti di una politica monetaria espansiva non accompagnata da modifiche strutturali.

Svolgendo la pellicola si ha la visione precisa del costruirsi di una politica, quella del tempo della lotta di classe dopo la lotta di classe – avrebbe detto Luciano Gallino – agìta dal punto di vista dei vincitori. Con Draghi quindi non assistiamo alla morte di tutte le politiche. Ma al funerale di quella di cui sopravviveva solo un ingannevole crisalide, una volta che la rappresentanza politica di una delle parti del conflitto sociale era stata – e si era – cancellata.

Le modalità di formazione del nuovo governo presentano non poche anomalie, anche sotto il profilo costituzionale. Lo si può anche definire un governo del Presidente nei limiti in cui questa definizione ha senso in un sistema che ancora mantiene la forma del governo parlamentare.

Senza indulgere a disutili dietrologie, l’insolito attivismo del Capo dello Stato ne ha certamente determinato l’atto di nascita, nel vuoto umiliante di iniziativa delle forze politico-parlamentari, in una situazione che tutti a parole hanno dipinto tanto drammatica da assimilarla a quelle postbelliche. Se si guarda dal buco della serratura dell’oscillazione dello spread non si sono verificati crolli drammatici come nel passato.

Ma questo dimostra solo la compenetrazione della nostra economia nel quadro internazionale e le attese legate all’innovativo intervento europeo. Ma non risolve il problema della diminuzione dell’occupazione, con giovani e donne le prime vittime, o lo sprofondare del nostro mezzogiorno. I ritardi del Recovery Plan non sono temporali, quanto culturali.

Una classe dirigente cresciuta nel mito dell’austerità e del rigore, naturalmente applicati non a sé (si pensi all’isterica reazione a fronte di una timida proposta di patrimoniale) ma ai più deboli, ovvero alla stragrande maggioranza della popolazione, con difficoltà può essere rieducata alla capacità di spesa. Chi ha negato in ragione di principio la possibilità dell’intervento pubblico diretto a impostare un nuovo tipo di sviluppo economico, trova incompatibile l’idea stessa di programmazione. Le questioni che ha davanti Draghi sono queste, assai più gravi del nome dei ministri, della loro estrazione, se dal mondo delle competenze o da quello di una esangue nomenclatura partitica.

Il tentativo della destra nostrana di riaccreditarsi, anche a livello europeo, dimostrandosi disponibile e vogliosa di partecipare in prima persona nel nuovo governo va respinta non inFoto di Harri Vick da Pixabay nome del perimetro «Ursula», ma sulla base di scelte di programma e di senso del bene pubblico. Su questo fronte era lecito attendersi un atteggiamento più prudente da parte dei vertici sindacali, i quali hanno subito espresso un inusitato endorsement per Draghi, prima ancora dell’incontro promesso.

Tanto più che l’intesa raggiunta sul contratto dei metalmeccanici, che dovrà essere validata dai lavoratori, dimostra che si poteva produrre una breccia nel muro confindustriale, riaprendo uno spazio sociale e democratico che è l’unico modo per influire anche sulle scelte del governo che verrà.

da “il Manifesto” del 7 febbraio 2021
Foto di Harri Vick da Pixabay

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

La deriva progressiva delle Regioni parallela a quella dei partiti.-di Piero Bevilacqua.

Il dibattito in corso su questo giornale (il Manifesto) sul fallimento delle Regioni, condotto da Filippo Barbera, Angelo D’Orsi, Laura Ronchetti, Battista Sangineto merita di essere ripreso. È il caso di ricordare che le istituzioni non si inventano a tavolino, ma rappresentano forme di regolazione degli interessi collettivi sorgenti da bisogni locali, morfologie del territorio, culture diffuse, tradizioni storiche. E qui torna in mente Carlo Cattaneo, che nel suo La città considerata come principio ideale delle istorie italiane notava come nessun abitante di Bergamo o di Lodi si definisse lombardo, identificandosi quale abitante di quella regione, ma come bergamasco e lodigiano.

A lungo tuttavia quella dei comuni è stata immaginata come una storia limitata all’Italia centro-settentrionale, pagina di indubbio splendore civile, trascurando le esperienze coeve del Mezzogiorno. Che non sono state alla pari, ma certo non marginali, come mostra la recente ricerca storica, non solo per il ruolo avuto dai comuni (università), pur all’interno dell’ordinamento feudale del Regno, ma per il protagonismo di tante città. Non è del resto senza significato se ancora oggi un napoletano o un salernitano stenteranno a presentarsi come campani cosi come un abitante di Bari o Lecce non sente alcuna necessità di dirsi pugliese al cospetto di un forestiero.

Ovviamente l’osservazione vale per regioni “artificiali” come il Lazio e a maggior ragione per quelle del Centro-Nord. Dunque un rapporto di identificazione storica dei cittadini col territorio regionale si può rinvenire forse per la Calabria, con più deboli tradizioni cittadine (ma a lungo definite le Calabrie), e le isole, ma ricordando la preminenza delle città nella storia della Sicilia.

Dunque a una lunga vicenda di ordinamenti amministrativi incentrati sui comuni, coordinati da un’altra istituzione storica di antica data, le province, rispondenti alla necessità di una tessitura di più ampio raccordo territoriale, si è sovrapposto, nel 1970, un castello istituzionale che non rispondeva ad alcun bisogno amministrativo, senza alcun fondamento culturale, privo di radici storiche che non fossero le remote regioni augustee.

Il nuovo organismo, cui erano affidate più cospicue risorse pubbliche e più estese autonomie, veniva a comportare per i cittadini un ulteriore compito di partecipazione e di controllo democratico, che si aggiungeva a quello richiesto storicamente dagli altri organismi. Un compito che poteva essere svolto solo grazie alla presenza di forze organizzate, i partiti, in grado di assolvere i nuovi impegni di rappresentanza.

E difatti alcune regioni del centro Nord, nei primi decenni, hanno svolto con qualche efficacia i nuovi compiti, soprattutto laddove il Partito comunista italiano – il principale agente di disciplinamento civile dell’Italia repubblicana – aveva più estesi insediamenti, come in Emilia e Toscana ed Umbria. Significativamente, la progressiva degenerazione di questo istituto, diventato un centro moltiplicatore di spesa pubblica incontrollata, inizia con la dissoluzione clientelare dei grandi partiti, di cui gli stessi governi regionali hanno costituito un terreno di coltura e sviluppo. Sarebbe oltremodo interessante una ricostruzione storica del ruolo avuto da tali organismi nella formazione del nostro debito pubblico.

Naturalmente la degenerazione delle Regioni ha preso a galoppare dopo la riforma del sistema elettorale del 1999. L’elezione diretta del presidente, diventato ben presto una sorta di sovrano assoluto, con conseguente emarginazione del Consiglio regionale e l’affidamento di fatto del controllo di legalità agli organi della magistratura. La riforma del Titolo V della Costituzione ha inevitabilmente portato alla situazione attuale: le regioni non tendono ad allargare il potere, stanno disarticolando le stato, puntano, con l’autonomia differenziata, a smembrare il Paese.

Uno stato-unitario che ha poco più di 150 anni di vita. Una prova inquietante di questa deriva è venuta lo scorso anno dal semiconsenso alla richiesta di autonomia differenziata da parte di Veneto, Lombardia e Emilia esibito da De Luca ed Emiliano e dal silenzio degli altri presidenti meridionali. E’ evidente che tutti i nostri cacicchi, a Nord e a Sud, un pugno di politici mediocri e irresponsabili, sono pronti a fare ritornare l’Italia agli statarelli preunitari per pura ambizione personale.

Ora non si tratta di difendere il vecchio centralismo, occorre rafforzare al contrario il potere dei comuni, l’organo più vicino alla possibilità di controllo dei cittadini, rendendo più democratico e trasparente il loro governo e ridando nuove e più ampie funzioni di raccordo territoriale alle province. È il modo di rispondere ai bisogni di decentramento di uno stato moderno senza mandarlo in pezzi. Occorre ricordare che la politica è vittima del crollo antropologico subito dalle società in Occidente. Nessun legame ideale tieni più uniti i Narcisi solitari che son diventati i cittadini. Lasciare pezzi di territorio in mano a poteri personali è un rischio che l’Italia non può correre.

da “il Manifesto” del 25 novembre 2020
foto: Puzzle Italia in legno

La grande occasione del Sud.-di Tonino Perna

La grande occasione del Sud.-di Tonino Perna

Da una recente ricerca della Svimez emerge un dato di grande rilevanza, che potrebbe rappresentare una svolta storica nel rapporto Nord-Sud nel nostro paese. La Svimez, infatti, ha stimato che nell’anno in corso ben 45.000 giovani meridionali a causa della pandemia sono tornati nel Mezzogiorno, continuando a lavorare in smart working. L’inchiesta è stata condotta su un campione rappresentativo di aziende con oltre 250 addetti, ma prendendo in considerazione il resto dei rientrati (comprendendo insegnanti di scuola e Università) sempre la Svimez stima in circa centomila il numero dei giovani rientrati al Sud che lavorano a distanza.

Per richiamare l’attenzione del ministro Provenzano su questo fenomeno (in quel momento soltanto intuito grazie all’iscrizione dei giovani alle liste regionali per entrare in volontaria quarantena) avevamo scritto una lettera aperta che è apparsa sul Manifesto del 21 giugno ed a cui il ministro ha cortesemente risposto. Purtroppo, a tutt’oggi non vediamo una traduzione concreta di quell’appello che mirava a creare un rapporto stretto tra le istituzioni e questi giovani rientrati nel territorio meridionale.

Ma, quello che non hanno fatto decenni di politiche per il Mezzogiorno, più declamate che fattuali, l’ha fatto l’invisibile mister Covid. Improvvisamente, la fuga dei giovani dal Mezzogiorno non solo si è arrestata, ma si è registrato un, inatteso, grande rientro. Ora, si tratterà di capire quanto di questo cambiamento radicale dei flussi migratori nel nostro paese resterà finita la pandemia. E non riguarda solo il Mezzogiorno, ma tutte le aree esterne al core dello sviluppo economico italiano. Anche nel Centro e nel Nord esistono le cosiddette “aree interne” marginalizzate che hanno visto un rientro di giovani dai grandi centri urbani e aree metropolitane.

Insomma, stiamo assistendo ad un insperato riequilibrio che andrebbe analizzato nei dettagli e accompagnato da politiche che lo incentivino, offendo adeguati servizi: sanità efficiente, connessione digitale, animazione culturale, ecc. Questo “new deal” riguarda non solo il governo, ma anche gli enti locali e il sindacato. Il governo potrebbe incentivarlo sgravando gli oneri sociali alle aziende del Nord per ogni lavoratore in southworking. Gli enti locali potrebbero offrire spazi pubblici gratuiti per il cooworking, oltre a migliorare i servizi pubblici e la connessione digitale.

Ci sarebbe da ripensare il contratto di lavoro in questa chiave di riequilibrio territoriale, che potrebbe offrire dei vantaggi alle grandi città, decongestionandole, quanto alle aree marginali, rivitalizzandole, ma anche agli imprenditori (che potrebbero avere dei risparmi, pensiamo per esempio ai buoni pasto, o ai minori spazi da utilizzare) e ai lavoratori che stando al Sud potrebbero risparmiare sul costo dell’abitazione, sul trasporto, sulla cura della casa e dei figli, ecc. Certo, si perderebbe in socialità, e non è cosa di poco conto, ma si potrebbe anche a pensare a periodi in presenza e periodi di lavoro a distanza.

In breve, si apre una nuova stagione del rapporto tra “luoghi e lavori” che da sempre coincidevano, salvo per sparute élite. Per secoli posto di lavoro e abitazione erano necessariamente vicini e duravano, spesso, per tutta una vita. Adesso, entriamo in una nuova fase che la pandemia ha solo accelerato e che ci offre delle opportunità da non perdere, a partire dal Mezzogiorno.

da “il Manifesto” del 24 novembre 2020
Foto di Alexey Györi da Pixabay

La distruzione del sistema fiscale alla base delle diseguaglianze sociali.-di Piero Bevilacqua

La distruzione del sistema fiscale alla base delle diseguaglianze sociali.-di Piero Bevilacqua

Tra gli effetti indesiderati della pandemia che continua a sconvolgere la vita quotidiana di miliardi di persone c’è il drammatico restringimento del nostro immaginario. Gran parte dei nostri pensieri è assorbita dall’andamento della malattia e dal corredo di conseguenze che trascina con sé. Problemi economici e sociali di rilevante urgenza scompaiono dalla vista generale e dal pubblico dibattito.

In Italia è il caso di tantissime questioni fra le quali spicca la ventilata riforma fiscale, che solo in questi giorni il presidente del Consiglio Conte ha opportunamente ripescato dall’oblio generale, ponendola come uno degli obiettivi dell’agenda governativa per il 2021.

Torno sul tema perché va richiamata l’attenzione di tutte le forze democratiche. Se vogliamo che la riforma annunciata non si esaurisca in un semplice aggiustamento dell’ordine esistente, è necessaria un’ampia mobilitazione dell’opinione pubblica e soprattutto una spinta sociale nel paese che faccia sentire il suo peso sul Parlamento e sul Governo.

Solo realizzando un ordinamento fiscale coraggiosamente progressivo si abbatte il caposaldo che ha retto le politiche neoliberiste degli ultimi 40 anni: la bassa pressione impositiva sui ceti ricchi e le grandi fortune.
Questa scelta, inaugurata da Thatcher e da Reagan, era sostenuta da una teoria economica che l’aveva nobilitata, quella dell’offerta, la cosiddetta supply side economics.

Secondo questa scuola di pensiero diminuire il carico fiscale ai ceti ricchi avrebbe portato più investimenti, posti di lavoro, maggiore ricchezza generale. Già nel 1998, molto prima della grande crisi del 2008, il premio Nobel Paul Krugman l’aveva definito un “errore economico” di cui “gli eventi hanno dimostrato la falsità”. Mentre il suo connazionale, James Galbraith, che ribattezzò la teoria in supply side failure, cioé fallimento, ha ricordato nel 2009 che i ceti ricchi favoriti dall’allentamento fiscale “hanno risposto punteggiando il paesaggio di case signorili”.

La distruzione del sistema fiscale su cui nel Dopoguerra aveva poggiato lo stato sociale è alla base delle inaudite disuguaglianze che lacerano le nostre società, in Italia hanno accresciuto in forme abnormi la ricchezza privata e la povertà pubblica, contribuendo non poco alla crescita del suo debito. Alberto Banti ha appena fornito un quadro ricco di dati su tutto questo che illustra in maniera schiacciante l’andamento delle ricchezze negli ultimi 40 anni connesso ai sistemi fiscali neoliberisti (“La democrazia del followers”, Laterza)

Se vogliamo comprendere le ragioni ultime dell’emarginazione della sanità pubblica, del definanziamento di scuola e università, dell’impoverimento generale dei comuni, della decadenza delle nostre città, dell’assenza di investimenti statali strategici, le dobbiamo cercare in gran parte nel del nostro sistema fiscale.

È davvero avvilente assistere in questi giorni drammatici della vita nazionale allo spettacolo di infermieri e addetti alle pulizie degli ospedali costretti a urlare per le strade la miseria dei loro salari a fronte di lavori massacranti. Mentre sappiamo quante fortune sono ammassate e si vanno ammassando presso tanti settori e ceti, anche in questi mesi che per tanti italiani sono stati di lutti e di angoscia.

Non si capisce, dal momento che nessuna solidarietà viene al paese da tali ambiti, perché il Governo non intervenga con un prelievo d’emergenza finalizzato ai problemi urgenti che incombono. Se non si opera in questi momenti allarmanti della vita nazionale, quando la necessità del sacrificio comune è così evidente, allora quando? Tanti nel Parlamento e forse nel governo non vogliono guastarsela con i potenti che sostengono con discrezione le loro campagne elettorali. Guardano ai personali interessi, fine ultimo del loro agire politico. Sarebbe meglio non dimenticare che quando usciremo dalla pandemia ci attende un debito pubblico gigantesco e senza un sistema fiscale di incisiva progressività il paese tracolla.

Per questo credo che la sinistra e soprattutto le forze sindacali – le uniche organizzazioni che oggi hanno una capacità di mobilitazione popolare – devono guardare a questo passaggio strategico nella vita italiana. La riforma fiscale decide una svolta strutturale nell’assetto economico e sociale del paese. Perciò i sindacati devono muoversi con tutta la loro forza su questo aspetto che non riguarda vertenze e salari.

Mentre noialtri cani sciolti della sinistra, con tutti i mezzi di cui disponiamo, dai giornali alle riviste, dai social alle campagne on line, non dobbiamo dare tregua ai sabotatori nascosti in Parlamento, e mostrare quanto l’ingiustizia fiscale sia alla base del declino recente dell’Italia.

da “il Manifesto” del 18 novembre 2020
Foto di b0red da Pixabay

Italia divisa in due. -di Gianfranco Viesti Il diritto alla salute così diverso nel Paese

Italia divisa in due. -di Gianfranco Viesti Il diritto alla salute così diverso nel Paese

Le tre regioni (Calabria, Puglia, Sicilia) in cui il rapporto fra casi attualmente positivi e popolazione è il più basso d’Italia (monitoraggio Gimbe, al 6 novembre) sono classificate fra le zone “rosse” e “arancioni”. L’apparente contraddizione si comprende guardando ai famosi 21 indicatori elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità: la classificazione dipende da un insieme di variabili, dalla velocità di trasmissione alla capacità di monitoraggio, e di accertamento diagnostico, indagine e gestione dei contatti.

Ma dipende anche da un elemento fondamentale: la disponibilità di personale e di posti letto. In queste regioni la dimensione del sistema sanitario è nettamente inferiore rispetto al resto del Paese: è questo che contribuisce a determinare le indispensabili misure più restrittive, ma quindi anche a colpire maggiormente le attività economiche. I ristoranti chiudono anche perché gli infermieri e i posti letto sono troppo pochi.

Perché è così? Questa realtà dipende dalla lunga e complessa storia della sanità italiana: e dalle insufficienze e distorsioni del suo governo in alcune regioni, principalmente del Sud; se si vuole difendere il diritto alla salute dei cittadini, non bisogna mai smettere di ricordare le inefficienze delle loro amministrazioni.
Ma dipende anche da oltre un decennio di politiche sanitarie, ed in particolare dai piani di rientro.

E’ utile comparare l’insieme delle regioni soggette a piani di rientro, includendo dunque anche Lazio, Abruzzo, Molise e Campania, con le altre; in tempi di polemiche sui dati, ci si può far guidare da un recente rapporto dell’autorevolissimo Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb). Che ci dice l’Upb? Che nelle regioni in piano di rientro al 2017 c’erano 81 dipendenti del sistema sanitario ogni diecimila abitanti contro 119 in quelle senza piano; in particolare c’erano 35 infermieri contro 49, in un quadro italiano in cui il rapporto fra infermieri e popolazione è solo i due terzi della media europea.

E questo senza considerare le regioni a statuto speciale e le province autonome (nel caso della sanità, la Sicilia non rientra in questo gruppo): un vero mondo a parte, nel quale i dipendenti del servizio sanitario sono quasi il doppio, per abitante, rispetto alle regioni in piani di rientro. Le regioni del Centro-Sud affrontano la pandemia con un numero di posti letto, rispetto alla popolazione, significativamente inferiore rispetto a quelle del Nord; inferiore un terzo rispetto al Trentino Alto-Adige.

Questa situazione è frutto delle scelte di più di un decennio: dal 2008 al 2017 il personale nelle regioni in piano di rientro è diminuito del 16%; è sceso del 2% in quelle senza piano di rientro; è aumentato in quelle autonome. Queste tendenze sono state dovute, appunto, alle regole imposte alle regioni che avevano un forte disavanzo sanitario: spendevano più del finanziamento loro assegnato. Necessario intervenire, in tempi difficili per la finanza pubblica: ma il disavanzo si è praticamente azzerato già nel 2014 e le politiche non sono cambiate.

E le condizioni si sono sempre più divaricate, come ben mostrato in un recentissimo studio di Baraldo, Collaro e Marino pubblicato su lavoce.info. Dettaglio interessante, l’Upb mostra che le regioni e le province autonome avevano un disavanzo “virtuale” (il meccanismo di finanziamento è diverso) di pari dimensione e lo hanno ancora oggi: ma sono un mondo a parte; un mondo di privilegi.

Il disavanzo era dovuto a problemi sensibili nell’organizzazione sanitaria, ma anche ai meccanismi di finanziamento. Il tema è complesso, ma riassumibile in una considerazione: le regole del federalismo fiscale si applicano solo quando convengono ai più forti. Tre esempi.

Il riparto del Fondo Sanitario Nazionale non è legato ad una attenta misura dei “fabbisogni” della popolazione, ma è guidato solo dalla dimensione demografica, in parte “pesata” per l’anzianità: così che la spesa per abitante è in Calabria del 18% inferiore a quella emiliana; del 15% in Campania, del 13% nel Lazio; i dati (Istat) sono del 2018, ma questo accade tutti gli anni. E’ sempre indispensabile ricordarlo (ancora ieri in un’intervista il Presidente della Regione Veneto sosteneva «che è un problema di efficienza e responsabilità non di soldi»).

In secondo luogo, nessuno ha mai provveduto ad una misurazione delle dotazioni strutturali (ospedali, macchinari) delle regioni: eppure esse dovrebbero essere “perequate”, dato che è impossibile avere gli stessi servizi con dotazioni molto dispari. Stime di un istituto specializzato (il Cerm) mostravano al 2010 impressionanti divari; ma la spesa per investimenti pubblici in sanità invece di contribuire a ridurli li ha accresciuti: fra il 2000 e il 2017 gli investimenti nella sanità sono stati pari ogni anno a 22 euro per abitante in Campania e nel Lazio, a 84 in Emilia; a 16 euro per abitante in Calabria contro 184 a Bolzano.

Infine, la necessità di tanti pazienti di spostarsi fra regioni, specie per cure che richiedono dotazioni e specializzazioni avanzate (e che vengono pagate dalle Regioni di provenienza, che così hanno ancora meno risorse), è ormai considerato come un dato fisiologico del sistema, e non come una grave discriminazione da correggere.

Tutti gli italiani dovrebbero avere un eguale diritto alla salute. Sia per motivi di equità, sia per il benessere collettivo. Esso non dovrebbe dipendere né da incapacità politiche regionali (nei confronti delle quali il governo nazionale dovrebbe attivare con incisività ben maggiore i suoi poteri sostitutivi), né dalle regole distorte e incomplete del federalismo fiscale italiano.

E non è un problema locale: la diffusione della pandemia ci ha mostrato in tutta evidenza che la salute è un tema nazionale (europeo), che non conosce confini amministrativi: la disastrosa situazione della sanità calabrese non è solo un problema per gli abitanti di quella regione ma per tutti noi.

E dunque, se davvero vogliamo che l’Italia dopo il covid sia meglio di quella che abbiamo alle spalle, la conclusione è molto semplice: si impongono scelte politiche molto diverse. Il Piano di rilancio e le politiche sanitarie dei prossimi anni non possono che mirare a sanare ingiustizie e squilibri, anche superando incapacità e resistenze degli amministratori regionali.

da “il Messaggero” dell’11 novembre 2020

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Nord-Sud, economisti contro, sui conti (e i soldi) che non tornano. di Massimo Villone

Da Repubblica del 9 novembre Oscar Giannino ci informa, con un articolo dal titolo «I colpi della pandemia riapriranno le ferite del divario nord-sud», sugli esiti inevitabili della crisi. Il calo del Pil ridurrà le risorse prodotte dal Nord e devolvibili alla perequazione territoriale. Cita di passaggio il recente libro di Giovanardi e Stevanato Autonomia, differenziazione è responsabilità, in cui si legge che il trasferimento di risorse pubbliche al Sud è stato negli anni massiccio, e totalmente fallimentare.

Su una linea analoga si erano espressi il 2 ottobre Galli e Gottardo, autorevoli economisti della Cattolica, con un saggio sull’Osservatorio dei conti pubblici italiani. E già il 4 maggio 2019 Tabellini, ex rettore della Bocconi, in un articolo sul Foglio scriveva : «Le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli». In tutte queste prospettazioni il tentativo di ridurre il divario Nord-Sud, comportando uno spreco di risorse, reca al paese danno, e non vantaggio. Ne segue il corollario, esplicitato o meno, che è nell’interesse del paese concentrare le risorse disponibili sulla locomotiva del Nord. Meglio per tutti se il divario rimane.

Si rafforza e si manifesta lo schieramento che nega ad un tempo lo scippo di risorse a danno del Sud da parte del Nord, e la riduzione del divario tra le due Italie. È una cannonata contro l’opposta tesi che l’Italia non esce dalla crisi se non rilanciando il Sud come secondo motore produttivo del paese: solo così può essere fermato e invertito il declino che ha devastato il Sud ma ha colpito – sia pure in misura assai minore – anche il Nord. Tesi sostenuta dalla Svimez e da autorevoli economisti, e soprattutto, almeno prima facie, accettata dal governo nelle sue scelte di politica economica e negli orientamenti nella utilizzazione dei fondi Recovery, anche in osservanza delle indicazioni UE.

Le due narrazioni contrapposte trovano aggancio in due serie di dati divergenti, entrambe di matrice pubblica: una, dei Conti pubblici territoriali dell’Agenzia per la coesione, per cui ai cittadini del Nord sono assegnate risorse pubbliche pro capite in misura maggiore che ai cittadini del Sud; l’altra, di provenienza Istat e Bankitalia e ora adottata da Galli e Gottardo e dall’Ocpi, che dice l’esatto contrario. Se fosse una contrapposizione accademica, potremmo non occuparcene. Ma sono ovvie le implicazioni per le scelte di politica economica e gli indirizzi di governo, inclusa la risposta alla crisi Covid.

Il 9 novembre, in un seminario presso la Fondazione Astrid su «Il ruolo del Mezzogiorno per la ripresa», il ministro Provenzano ha dato un’ampia informazione delle iniziative del governo. Nessuno dubita del personale e forte impegno del ministro a favore del Mezzogiorno. Ma può la sua posizione decisivamente orientare le politiche del governo nel suo complesso? Qualche domanda si pone.

Delle due serie di dati contrapposti prima richiamate, quale è adottata da Palazzo Chigi ai fini delle scelte e degli indirizzi di governo? Il ministro Provenzano assume quella dei Conti pubblici territoriali. Ma non sembra, ad esempio, di poter dire lo stesso per il ministro Boccia. Come conciliare con l’obiettivo di ridurre il divario Nord-Sud la sua debole proposta di legge-quadro sull’autonomia differenziata, che vuole collegare al bilancio pur essendo tecnicamente inidonea a frenare le pulsioni separatiste? Andrebbe tolta dal tavolo.

Come scommettere sui Lep (livelli essenziali delle prestazioni) come elemento decisivo di equità territoriale, dopo il fallimento del loro equivalente sanitario (Lea) e la conseguente frantumazione del servizio sanitario nazionale? Come assumere le conferenze e la concertazione tra esecutivi come luogo e metodo di un nuovo regionalismo – come suggerisce in audizione presso la Commissione bicamerale per le questioni regionali il 30 settembre – quando l’esperienza passata ne dimostra gli effetti negativi sulla coesione territoriale, e la crisi Covid oggi ne conferma in termini anche più generali le pesanti conseguenze?

Avremo un ritorno della questione meridionale o di quella settentrionale? Lo vedremo sul palcoscenico del dopo Covid, dove si recita a soggetto. Il che può anche andar bene, a meno che gli attori non mostrino di essere – magari con eccezioni lodevoli – guitti di secondo ordine.

da “il Manifesto” dell’11 novembre 2020

Calabria. Gli ultimi disastrosi 10 anni, la stagione dei commissari. -di Battista Sangineto

Calabria. Gli ultimi disastrosi 10 anni, la stagione dei commissari. -di Battista Sangineto

Era il 30 luglio del 2010 quando il presidente Giuseppe Scopelliti fu nominato, da Giulio Tremonti, Commissario della Sanità della Regione Calabria per il rientro dal debito che, all’epoca, ammontava a circa 150 milioni.

Dal 2010 ad oggi si sono succeduti molti Commissari che – nonostante i pesanti tagli agli investimenti, i mancati turn over del personale sanitario, il blocco delle assunzioni, la chiusura di piccoli e medi ospedali che garantivano una qualche tenuta della medicina del territorio- hanno portato il disavanzo ad una cifra che alcuni, non abbiamo numeri certi, stimano essere di più di 1 miliardo. Tutto questo senza che i Presidenti ed i consiglieri, alternativamente, di maggioranza ed opposizione regionali, di tutti i partiti, sollevassero dubbi o ponessero la Sanità al centro della battaglia politica.

Il 7 dicembre 2018 viene nominato Commissario unico il generale in pensione Saverio Cotticelli, con una delibera del Consiglio dei Ministri del Governo giallo-verde, firmata da Conte, dal ministro della Salute Giulia Grillo (5stelle) e dal ministro delle Finanze Giovanni Tria. Al cambio di colore del Governo, da giallo-verde a giallo-rosso, il Commissario è rimasto al suo posto anche se, come tutti abbiamo potuto finalmente vedere nel corso della trasmissione televisiva “Titolo Quinto” su Rai 3, nulla sapeva della complessa materia sanitaria e nulla faceva, nonostante sia arrivato il peggior flagello dell’ultimo secolo.

La responsabilità del disastro sanitario calabrese ricade tutta sull’ormai ex Commissario ad acta, il generale Cotticelli? La gran parte sicuramente sì, ma una porzione non irrilevante pesa sulla politica e sui politici calabresi degli ultimi decenni e, soprattutto, degli ultimi dieci anni che non hanno saputo o, più probabilmente, non hanno voluto riprendersi la prerogativa che spettava loro di amministrare, come avviene a seguito dell’esecrabile modifica del Titolo V della Costituzione, il capitolo di spesa più importante, l’80% circa, di una Regione: la Sanità.

Con il comunicato stampa ufficiale, datato 11 marzo 2020, della Regione Calabria (lo si può rintracciare facilmente sul portale web della Regione stessa) la compianta presidente Jole Santelli “…di concerto con il Commissario Cotticelli, approva il “Piano di Emergenza contro il Corona Virus”, dispone l’attivazione di 400 nuovi posti di terapia intensiva e subintensiva …e già domani sarà pubblico l’avviso per il reclutamento di 300 medici specializzati e specializzandi. Saranno, inoltre, utilizzate le graduatorie degli idonei a scorrimento per l’assunzione, sempre a tempo determinato di 270 infermieri e 200 Oss”.

I calabresi sanno che nessuna delle promesse fatte in questo comunicato è stata mantenuta e che la responsabilità della totale inadempienza non è solo di Cotticelli, ma anche di chi, la Regione Calabria, lo ha fiancheggiato, per mesi, in questa sua incredibile sconsideratezza.

Il nuovo Commissario appena nominato dal ministro Speranza, Giuseppe Zuccatelli, pur volendo sorvolare sull’imbarazzante video sull’inutilità delle mascherine, si era già dimostrato, dal dicembre 2019 ad oggi, del tutto inadeguato come Commissario sia dell’Asp di Cosenza, sia delle Aziende ospedaliere ‘Mater Domini’ e ‘Pugliese Ciaccio’ di Catanzaro.

I calabresi vorrebbero un Commissario capace, magari uno dei molti conterranei degni di ricoprire questo ruolo, ma, soprattutto un Commissario che sia solo “straordinario”, solo per questa emergenza “straordinaria”.
Bisogna che si torni alla “normalizzazione” della Sanità calabrese che deve essere gestita ed amministrata dalla Politica e non da Commissari, riaffermando così la primazia della Politica che, pur con tutti i suoi difetti, soprattutto in Calabria, ha i suoi meccanismi di controllo costituzionali.

Un Presidente ed una Giunta eletti dovranno rispondere agli elettori, mentre i Commissari, come abbiamo sperimentato in questi ultimi 10 anni, non rispondono a nessuno. I cittadini calabresi si aspettano che sia rispettato il diritto alla salute, come recita l’art. 32 della Costituzione, e che questo diritto abbia un identico livello in tutta Italia, compresa questa “inesplorata penisoletta”, come definiva la Calabria Corrado Alvaro, negli anni ‘30.

da “il Manifesto” del 10 novembre 2020
foto: Wikipedia

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Sbagliato scambiare questioni sociali con affari criminali.- di Tonino Perna

Il generale dei carabinieri in pensione, Saverio Cotticelli, nominato commissario della sanità in Calabria dal primo governo Conte, sembra arrivato su quella poltrona da un altro pianeta.

Non sa niente sul piano sanitario anti- Covid, scopre che doveva essere proprio lui e non la Regione, a doverlo costruire. Questa storia, tragicomica, fa riflettere sul ruolo del giornalismo d’inchiesta, lavoro prezioso per tutta la comunità nazionale. Ma, allo stesso tempo, scoperchia negligenze, ritardi, mancanza di controllo. C’è da chiedere al ministro Speranza: a) perché non ha cacciato per tempo questo commissario, b) se esiste un sistema di controllo sull’operato di questi commissari o se, una volta nominati, purché non disturbino il potere romano, possono restare al loro posto. C’è da chiedere ai partiti del centro sinistra, all’opposizione nel Consiglio Regionale della Calabria, come mai non si siano accorti che a capo della sanità c’era questo personaggio inqualificabile, irresponsabile, assolutamente non competente.

Adesso se ne è accorto, grazie al giornalista Walter Molino, anche il premier Conte che ha immediatamente dimesso l’improbabile carabiniere-commissario.

Problema risolto? Assolutamente no. Il commissario Cotticelli deve rispondere penalmente dei gravi danni inferti alla salute dei cittadini calabresi, del danno economico alle imprese e ai lavoratori avendo determinato la dichiarazione di zona rossa per la Calabria, con la sua gravissima omissione di atti d’ufficio. Se un commissario rischia solo il licenziamento si pone un grave problema di discriminazione rispetto agli altri cittadini ed amministratori della res publica che rischiano processi penali e civili per ogni infrazione, sia pure senza scopo di lucro.

Ancora una domanda inevitabile: vorremmo capire in base a quale valutazione l’ex ministro Giulia Grillo (M5S) abbia scelto, per gestore un settore così delicato e complesso come la sanità calabrese, un generale in pensione. Siccome non credo che l’on Grillo abbia la voglia di rispondere le posso facilitare il compito.

Si nomina un generale dei carabinieri in pensione per gestire la sanità in Calabria, afflitta da debiti-corruzione-malgoverno, perché si riduce la questione sanitaria a questione criminale.

Così come questo governo ha nominato al ministero dell’ambiente un generale delle guardie forestali, come se la complessità dell’ecologia si potesse ridurre alla repressione delle mafie.

Da quando, anni ’90 del secolo scorso, la “questione meridionale” è stata ridotta a “questione criminale”, la Calabria è diventata l’avamposto di questo brand, per cui nessuno batte ciglio se commissariano decine e decine di Comuni, di enti pubblici, fino ad arrivare al sistema sanitario, comprese le Asp, anche loro commissariate.

Per quanto ne sappia non ho mai visto una commissione d’inchiesta insediarsi per monitorare l’operato di un commissario. Conosco commissari che hanno operato bene, e andrebbero premiati, ma quelli che hanno fatto poco e nulla, che hanno bloccato tutto, lasciando morire d’inedia intere città, preso uno stipendio giusto per tenere in caldo una poltrona, nessuno li ha mai giudicati.

da “il Manifesto” dell’8 novembre 2020

Un commissario unico per la sanità calabrese.-di Battista Sangineto Nominare un Commissario Straordinario unico per la Sanità e chiudere tutto al più presto

Un commissario unico per la sanità calabrese.-di Battista Sangineto Nominare un Commissario Straordinario unico per la Sanità e chiudere tutto al più presto

Le misure riguardanti l’epidemia – quelle contenute nell’ultimo Dpcm, ma anche quelle preannunciate in queste ore- sono del tutto insufficienti, soprattutto per le regioni meridionali ed, in particolar modo, per la Calabria. Il 3 maggio scorso avevo scritto, su questo giornale, che in Calabria ci si sarebbe dovuti occupare, a partire almeno da quel momento, delle disastrose condizioni in cui versa la sanità, predisponendo piani sanitari, implementando le scarsissime dotazioni, strutturali e di personale sanitario, dei nostri ospedali e della medicina del territorio per affrontare, con meno terrore, il lungo periodo nel quale avremmo dovuto convivere con il virus.

Alcuni mesi fa temevo che, senza aver incrementato le dotazioni sanitarie e la quantità di medici ed infermieri, l’ampiamente prevista seconda ondata di Covid 19 avrebbe provocato, al Sud, un’ecatombe.

Questi timori sembra che, purtroppo, fossero fondati perché le regioni meridionali sono state investite in pieno da questa seconda ondata e la Calabria, che è fra le regioni con lo scenario 4, è la quarta fra quelle con l’indice Rt più alto, all’1,84, dopo Molise (2,1), Lombardia (2,01) e Piemonte (1,99).

Al contrario di quanto si era auspicato, abbiamo appreso dall’ultima ricerca effettuata dal Sole 24ore –non si avevano notizie ufficiali da parte della Regione- che in Calabria sono state approntate solo 6 terapie intensive in più per un totale di 152, invece delle 300 programmate. In Calabria, dunque, ce n’è una ogni 13.000 abitanti mentre la media nazionale attuale è di una ogni 6.000 abitanti.

Il dato ufficiale riguardante le Usca, “Unità speciali di continuità aziendale”, è che ne risultano in attività solo 14 sulle 35 necessarie. Le Usca dovrebbero rappresentare la risposta della sanità pubblica all’emergenza del Coronavirus sul territorio, per evitare il sovraffollamento delle terapie intensive e in Calabria, dove le terapie intensive sono molto poche, ne mancano 21, cioè il 60%. E molti dubbi e rimpalli di responsabilità tra Commissari e Regione ci sono sull’impiego dei 45 milioni di euro arrivati alla Calabria per la sanità, con i decreti legge 14 e 18 del 9 e 17 marzo 2020.

A Cosenza, per esempio, c’è una sola Usca in funzione, il reparto Covid 19 è già saturo e si stanno ancora approntando alla bisogna altri presidi ospedalieri nella provincia, visto che, finora, non lo si era fatto. Nessuna delle cose che si chiedevano da mesi è stata realizzata in Calabria e ora -con più di 200 contagi al giorno, più di 160 ricoverati di cui almeno 10 in terapia intensiva- noi calabresi non possiamo fare altro che chiedere che si chiuda tutto per due o tre settimane, altrimenti sarà una tragedia non solo sanitaria, ma anche economica perché se si ritarda ancora potrebbe essere necessario, dopo, chiudere per alcuni mesi, come è già accaduto in primavera.

Allo stesso tempo bisogna garantire, come scrive Tonino Perna, a tutte le categorie colpite un reddito di base che, per evitare di far crescere ancora il debito pubblico, si potrebbe far pagare a chi ha continuato a guadagnare da questa situazione: il mondo della finanza, le aziende e le multinazionali come Amazon, Microsoft, Facebook, Big Pharma et cetera.

Mesi di sacrifici, per molti di noi strazianti, sono stati vanificati da un’estate da irresponsabili che il Governo nazionale e quelli locali non sono riusciti, in nessun modo, a gestire. Non voglio maramaldeggiare sulla inopportunità degli inviti fatti, nel corso dell’estate, a venire ad ingrassare qui in Calabria o sulle spese sostenute per spot pubblicitari enormemente costosi e, perlomeno, improbabili invece che per la Sanità pubblica, ma solo rilevare che l’incapacità dei Commissari alla Sanità insieme a quella della Regione hanno prodotto la drammatica situazione nella quale ora ci troviamo.

Se non vogliamo centinaia o migliaia di morti in Calabria, il ministro Speranza deve nominare un Commissario Straordinario unico per la Sanità e si deve, purtroppo, chiudere tutto al più presto, per poter riprendere con un po’ più di tranquillità, prima di Natale.

da “il Quotidiano del Sud”, de 2 novembre 2020
Foto di Alina Kuptsova da Pixabay

Solo il Servizio pubblico può contenere l’epidemia.-di Edoardo Turi Le Regioni del Sud in affanno.

Solo il Servizio pubblico può contenere l’epidemia.-di Edoardo Turi Le Regioni del Sud in affanno.

Per la previdibile recrudescenza autunnale dei casi di Covid e le nuove misure di prossima emanazione è utile uno sguardo critico. Le epidemie non sono nuove per l’umanità che convive con malattie infettive da sempre per scelte operate dall’uomo: allevamento animale (morbillo), commerci (peste), guerra (spagnola). La rivoluzione industriale dell’Ottocento modificò l’epidemiologia con comparsa di malattie cronico-degenerative (cuore, polmoni, diabete, tumori) per nocività da lavoro e ambientale, consumi e riduzione di malattie infettive per miglioramento di condizioni di vita nel mondo a capitalismo avanzato (acqua, abitazioni, alimenti, farmaci, vaccini, servizi sanitari).

Nel Sud del mondo le malattie infettive sono ancora un flagello. Il capitale ha avuto interesse a ridurre le malattie infettive interferenti con la produzione ma non le malattie cronico-degenerative: sviluppo in tarda età, non subito mortali, motivo di profitti con farmaci e diagnostica. L’epidemia da Covid nasce da sfruttamento ambientale (megalopoli), salto di specie (pipistrelli) e globalizzazione. Le società industrializzate hanno diminuito prevenzione e controlli, preferendo vaccinazioni e farmaci a più alta redditività di capitale.

L’Italia taglia la spesa sociosanitaria, per vincoli Ue e fiscal compact in Costituzione, e indebolisce il Servizio Sanitario Nazionale(SSN) con l’idea di «Sistema» (usato da molti al posto di Servizio, erroneo sinonimo teorizzato dal pensiero neoliberale come complementarietà tra SSN pubblico e privato). La spesa sanitaria è il 70% dei bilanci regionali e il personale incide al 60%, settore ad alta intensità di lavoro umano. Qui i tagli: un falso in bilancio, che sposta la spesa da personale a acquisizione di beni e servizi: erogatori privati, esternalizzazioni, convenzioni di medici/pediatri di base, specialisti ambulatoriali, consulenze.

Più del 50%: il privato fa profitti con regole meno severe del pubblico su assunzioni, con ricorso a partite Iva, licenziamenti, riappropiandosi del prelievo fiscale. Le mutue integrative, prospettate in molti CCNL, sottraggono altre risorse con la defiscalizzazione. L’epidemia conferma: privati posti letto Covid, test sierologici e tamponi, Unità domiciliari Covid, precariato. Toscana, Veneto, Lombardia, Le Case della Salute invece inEmilia-Romagna autorizzano tamponi molecolari nel privato. Recovery Fund e Mes al 50% prenderanno queste strade. Una «ri-mutualizzazione» del SSN, che compra prestazioni private a costi elevati e non produce servizi, anche nell’epidemia è subalterno al privato.

Il SSN è impreparato all’epidemia perché, in attesa di vaccino o farmaco, e l’imbuto di tamponi, laboratori, difficoltà al tracciamento dei contatti, che richiede centinaia di operatori, non si è pensato in questi mesi a specifici servizi di prevenzione e cura Covid con organico dedicato, come si fece in passato per l’Aids. Alla morte da Covid si somma anche quella per blocco di attività sanitarie come durante il lockdown. Il SSN deve attrezzarsi a convivere con la pandemia, per non chiudere il Paese, con danni a salute, lavoratori esposti (iniziando con classificare correttamente Covid nel rischio biologico 3, trasmissibile alla popolazione), istruzione e reddito dei cittadini.

Il lavoro agile è un privilegio di classe senza regole che scarica costi sui lavoratori. Serve subito una ripubblicizzazione della sanità con assunzioni sufficienti, concorsi regionali per discipline, graduatorie a scorrimento e re-internalizzazioni, compresa la medicina di base, ripensandone la formazione collocandola in ambito universitario oltre il numero chiuso.

Le Regioni, con tagli di spesa, diventano traduttrici di confuse indicazioni di Governo e Ministero della salute: siamo al regionalismo differenziato anticipato da un governo di centro sinistra con la modifica del titolo V della Costituzione e il Sud al palo con guerra delle ordinanze e costo diverso dei tamponi. Non serve il centralismo, ma un giusto rapporto costituzionale Stato-Regioni-Comuni, negli organismi previsti, per l’ uniformità dei diritti. Il SSN ha poi un vulnus democratico, aggravato dagli accorpamenti di Aziende Sanitarie, Distretti enormi, incapacità dei Comuni di rappresentare le realtà locali nei confronti delle Regioni e direzioni aziendali anacronisticamente simbolo di una verticalizzazione autoritaria.

Decentramento e partecipazione sono negate, erano le bandiere della sinistra che, dopo anni di governo, non può accusare altri. Le Case della salute, che Maccacaro pensò nel 1975 erano realtà partecipative in Usl e Distretti piccoli, riviste nel 2004 dalla Cgil, per una trasformazione della medicina territoriale come presa in carico dei cronici in ASL. Le Case della salute invece in Distretti di grandi dimensioni, presenti in poche Regioni, sono spesso proposte come soluzione a tutto, senza adeguate risorse e progettualità. Ma serve un movimento di lotta a partire dall’epidemia che apra su questo conflitti e vertenze, scuotendo la pigra sinistra.

L’autore è medico-Direttore Distretto ASL Roma e partecipa al Forum per il diritto alla salute- Medicina democratica

da “il Manifesto” del 18 ottobre 2020
Foto di fernando zhiminaicela da Pixabay

Le barche e la salute dei calabresi.-di Battista Sangineto

Le barche e la salute dei calabresi.-di Battista Sangineto

Il presidente Santelli ha emanato, nel corso della tarda serata di mercoledì, un’ordinanza che, a dispetto dei suoi precedenti proclami e provvedimenti reclusorî, riapre a moltissime attività e a molti spostamenti, in barba alle raccomandazioni degli epidemiologi e in spregio alle norme del DPCM.

Quello stesso Presidente che non ha ancora detto ai calabresi: quanti posti di terapia intensiva in più sono stati approntati, rispetto ai poco più di 100 che erano presenti sul territorio regionale all’inizio della pandemia; quanti guariti ci sono per ricoverati; quanti e quali D(ispositivi) p(rotezione) i(ndividuale) sono stati distribuiti ai medici e agli infermieri degli Ospedali e, soprattutto, ai medici di base nel territorio; quanti e quali, con esattezza, Ospedali sono stati dedicati alla cura del Covid-19, in Calabria; se sono state previste squadre sanitarie che si occupano dei malati a domicilio ; se sono state disposte ispezioni in tutte le RSA convenzionate con la Regione; se e quale strategia (di categoria, geografica, sociologica, demografica etc.) è stata seguita per i tamponi e per l’esame sierologico.

Il Presidente che aveva negato con tutte le forze il ritorno, fino a ieri, dei calabresi che studiavano o che lavoravano in altre regioni, nella notte di mercoledì ha emanato una ordinanza con la quale si è premurata che, con i primi due articoli del provvedimento, fossero consentiti gli sport extra-comunali e gli spostamenti per raggiungere le imbarcazioni di proprietà (da diporto) da sottoporre a manutenzione e riparazione, ma, per carità, una sola volta al giorno.

Con i rimanenti articoli, invece, dà il via libera all’apertura di bar, pasticcerie, pizzerie e ristoranti che servano all’aperto e di tutti i negozi di fiori e sementi, anche ambulanti. I calabresi, dunque, avranno la possibilità di mangiare una pizza all’aperto, magari dopo aver passato un paio di mani di antivegetativo alla carena della barca e comprato un mazzo di fiori alle fidanzate che non vedevano un paio di mesi. Non potranno, però, fare un’ecografia e le analisi del sangue in un laboratorio o farsi operare d’ernia addominale in una clinica, perché l’attività degli Ospedali è limitata alle urgenze indifferibili.

L’ordinanza della Santelli e l’occupazione del Senato da parte dei leghisti fanno parte, è evidente, di una ben orchestrata manovra politica tesa a mettere in crisi l’azione del Governo in uno dei momenti più difficili del nostro Paese, dalla fine della Seconda Guerra mondiale.

Jole Santelli avrebbe dovuto, e dovrebbe, occuparsi di intervenire sulle disastrose condizioni in cui versa la Sanità calabrese, predisponendo piani sanitari, implementando le scarsissime dotazioni, strutturali e di personale sanitario, dei nostri Ospedali e della medicina del territorio per affrontare, con meno terrore, il lungo periodo nel quale dovremo convivere con il virus, invece di compiere spericolate fughe in avanti con una del tutto improvvida riapertura.

Foto di Dimitris Vetsikas da Pixabay

La dura lezione sulla sanità.- di Enzo Paolini La sanità in Calabria

La dura lezione sulla sanità.- di Enzo Paolini La sanità in Calabria

Se c’è una cosa che gli eventi di questi giorni fanno emergere in maniera chiara è la conferma dello spessore della visione politica che, nella seconda metà del Novecento, ha prodotto un sistema sanitario solidaristico ed universale e cioè assistenza e cure per tutti, senza alcuna distinzione sociale e senza oneri perché finanziate dalla fiscalità generale. Il servizio sanitario pubblico Italiano nel quale chi ha di più garantisce – attraverso una tassazione proporzionalmente progressiva – lo stesso servizio a chi ha di meno o non ha niente.

Al netto di lacune ed insufficienze – di cui diremo dopo -l’emergenza non ha fatto differenze tra classi o tra chi ha possibilità economiche maggiori di altri.

E ciò introduce alcuni temi che trovano in Calabria il loro esempio paradigmatico.

Il primo: la necessità e l’urgenza di difendere e potenziare il servizio pubblico. Il che vuol dire cancellare per sempre dal lessico e dall’azione di qualsiasi governo che il diritto alla salute non sarebbe assoluto ma sacrificabile sull’altare delle esigenze della spesa dello Stato e/o dei bilanci regionali. Vediamo in questi giorni il disastro che, in termini di forza e di efficienza hanno provocato i tagli alle risorse sanitarie disposti dai governi degli ultimi 25 anni. Un danno che viene contenuto solo dalla solidità strutturale del sistema e dalla straordinaria abnegazione degli operatori sanitari.

Il diritto alla salute è previsto nella Costituzione, all’art. 32, mentre in nessuna parte della Carta sta il richiamo ad un primato dei conti pubblici. Ed è bene che in un momento come questo l’abbia detto -esplicitamente – il presidente del consiglio, perché il fatto che tutto, anche i principi costituzionali ,la sanità in primis,siano trattati come merci è una vergogna che non deve più sentirsi.

Diritti costosi,ed infatti previsti a carico dello Stato ,perché i ricavi da essi prodotti non sono inscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto ,essendo fatti di cultura ,senso civico, ,conoscenze, benessere,in un ideale -ma ben percepibile -bilancio istituzionale e politico.

Il secondo tema, conseguenziale: lo Stato deve mettere a disposizione i fondi necessari per far fronte ai fabbisogni e laddove sono riscontrati deficit di bilancio nel settore – come in Calabria – si devono individuare e tagliare gli sprechi,perseguendo e sanzionando i responsabili ed i ladri, e non limitare le prestazioni con la politica mercantilistica dei budget o “ acquisti di prestazioni” ( terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello Stato,cioè di un loro diritto) che,inevitabilmente,provoca aumento della lista d’attesa ed emigrazione sanitaria.

I commissariamenti, è dimostrato, non servono a niente, men che meno ad abbattere il debito, anzi lo aumentano. Servono, eccome,a creare un centro di potere permanente ed estraneo al circuito democratico espropriando la responsabilità del governo della sanità che spetta al governo ed all’assemblea regionali.

Il terzo tema: la rete ospedaliera. In Calabria, da dieci anni gli unici (asseriti) rimedi al deficit sono stati – per decisione di boiardi e generali in pensione nominati commissari – la chiusura di ospedali in zone disagiate, il blocco delle assunzioni e i tagli delle risorse. Il tutto senza alcuna azione di rigenerazione complessiva come avrebbe potuto essere quella di potenziare i servizi territoriali, la specialistica ambulatoriale, l’urgenza emergenza, iDEA. Come se la creazione di un ospedale hub si possa fare per decreto e non in seguito alla elaborazione ed implementazione di un progetto. Eppure è così, così è stato .

Il quarto tema, i privati. Se ne è avuto un coinvolgimento modesto in questa fase di crisi, perchè per anni si è alimentato un sistema in cui le strutture serie e di eccellenza sono state mortificate con riduzione di posti letto e tagli lineari lasciando ingrassare le nicchie dei profittatori. Eppure in teoria il sistema è semplice. Il servizio sanitario è pubblico, tutto, ed è fatto da strutture di mano pubblica e da altre gestite da imprenditori privati che, per legge, devono avere gli stessi requisiti strutturali tecnologici ed organizzativi degli ospedali pubblici . Esse devono essere controllate, verificate, dagli uffici della Regione e pagate con tariffe fissate dallo Stato in base alle prestazioni rese secondo gli standard stabiliti dalle norme.

Se ben guidata da una classe dirigente seria ed all’altezza del compito sarebbe una integrazione virtuosa che inevitabilmente farebbe aumentare la qualità e diminuire i costi per la comunità. Ma questa è roba per la Politica con la P maiuscola, non per i viceré mandati dai capibastone a rastrellare qualche milione sul fondo destinato alla tutela della salute di cittadini, come avviene da dieci anni in Calabria nella indifferenza della quasi totalità dei parlamentari calabresi nominati dagli stessi capibastone. La lezione di questi giorni è dura ma forse può servire per chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire.

L’ultimo tema è l’indicazione pratica che ci viene dai difficili giorni che stiamo vivendo: la salute dei cittadini di una nazione non può essere regionalizzata. Ai problemi portati dal virus si sono aggiunti i disagi derivanti dai comportamenti dagli atteggiamenti e dalle disposizioni diverse della politica locale.

Noi lo diciamo da anni, ma ora il re e’ nudo: la tutela della salute e’ un diritto fondamentale garantito ad ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri per poter assicurare benessere e dunque efficienza ,efficacia ai cittadini che così possono produrre cultura idee,formazione ,e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita ,giusta ed equilibrata del sistema paese.

La vera grande opera pubblica che ci serve e’questa :sostenere la scuola,tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale, assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.

Dunque, occorre ripensare almeno in parte allo sgangherato titolo V della Costituzione così come modificato da un Parlamento largamente inadeguato sul piano tecnico e culturale e votato alla creazione di piccoli e grandi centri di potere locali.

Dobbiamo ripartire in senso inverso rispetto alla sciagurata idea della autonomia differenziata che, per una sorta di eterogenesi dei fini, in presenza di un fenomeno come quello del potenziale contagio definito per “focolai”, mostra tutti i suoi limiti in termini di tutela non solo della salute ma dei diritti e della libertà dei cittadini.

Si tocca con mano, oggi, si avverte chiaramente sulla pelle ,e non nelle parole di un talk show, che i diritti fondamentali, quelli che definiscono l’identità di un popolo e danno il senso della comunità, non possono essere interpretati ed applicati in maniera diversa a Roma a Reggio Calabria o a Trieste.

Sono il patrimonio politico della Repubblica e non hanno prezzo, in tutti i sensi.

da il Quotidiano del Sud, 12 aprile 2020