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Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

L’aspetto più incoraggiante di questi ultimi giorni, nei quali
riflettiamo con delusione e frustrazione sui risultati elettorali di
Unione Popolare, è la volontà, espressa da tutti coloro che
intervengono coi loro commenti, di continuare la nostra avventura. Si
legge la stessa determinazione con cui abbiamo affrontato, nelle
condizioni più avverse, la sfida quasi impossibile di raccogliere, nel
cuore di una delle estati più torride del millennio, le decine di
migliaia di firme richieste per la partecipazione alla campagna
elettorale. E bisogna aggiungere che pari ostinazione hanno mostrato
migliaia di cittadini, i quali hanno affrontato in paziente fila, il
sole ustorio di agosto per potere apporre la loro firma.

Dunque volontà di continuare il nostro progetto come del resto avevamo
promesso. Ma come? In che forma, con che modalità organizzativa?
Dobbiamo fare il salto da una lista elettorale imbastita
precipitosamente – ma, bisogna riconoscere, ammirevolmente ben fatta –
a una struttura più stabile, pensata accuratamente nei suoi organismi
rappresentativi, in grado di garantire democrazia ed efficienza
operativa. Non è un obiettivo che si raggiunge in un giorno, ma
bisogna, con il concorso di tutti, gettare da subito le prime
fondamenta su cui costruire l’edificio.

A mio avviso sarebbe molto utile organizzare intorno a metà ottobre
quella Assemblea costituente di due, tre giorni che De Magistris aveva
proposto prima che dovessimo affrontare le elezioni anticipate.
Sarebbe innanzitutto um modo di reincontrarci o di conoscerci per la
prima volta. I compagni e le compagne sentono anche un gran bisogno di
raccontarsi, di narrare le loro esperienze, esprimere le loro
critiche, suggerimenti, proposte. La volontà militante – che
purtroppo, di questi tempi, non è una virtù civile diffusa – si
rafforza se tutti si sentono protagonisti di un progetto, se hanno
diritto di parola, alla pari con gli altri.

Naturalmente occorre arrivare all’appuntamento con qualche idea
organizzativa. L’appuntamento deve essere in parte una festa ma deve
concludersi con indicazioni operative ben chiare, perchè tutte e tutti
tornino a casa sapendo come proseguire. Provo perciò a buttare giù
delle idee da prendere come contributo sperimentale alla discussione
che seguirà. E la prima cosa che mi sento di dire è che – con tutte le
variazioni, declinazioni originali che possiamo immaginare –io non
vedo organizzazione più efficiente, capace di tenere insieme
pluralismo delle idee e capacità di azione, del partito.

Il partito, non dimentichiamolo, è “l’organizzazione della volontà collettiva”
(Gramsci) è una grande conquista della modernità, ha sottratto gli
individui al loro isolamento molecolare e ne ha fatto una comunità di
lotta, un protagonista di prima grandezza dell’età contemporanea in
tutto il mondo. Anche se adesso i partiti non sono, almeno in Italia,
che agenzie di marketing elettorale, noi dobbiamo tentare questo
modello, sapendo che abbiamo intorno altre forze di sinistra con cui
dobbiamo dialogare e un arcipelago vastissimo di associazioni,
circoli, gruppi che non faranno mai parte di un partito, ma che
saranno i nostri compagni esterni nelle varie battaglie e mobilitazioni
che condurremo.

Un partito necessita di un portavoce e noi l’abbiamo.Chi ha seguito De
Magistris anche nelle poche apparizioni televisive ha potuto
constatare la sua capacità di rappresentarci e di dare calore
comunicativo ai punti del nostro programma. Questo al netto della sua
esperienza politico-amministrativa che nessuno di noi possiede.
Naturalmente, come ho sempre sostenuto, se il suo ruolo e la sua
figura nel nostro collettivo, sono naturaliter preminenti, dobbiamo
evitare di imboccare la strada del partito del leader.

Questa tendenza, ormai dominante dappertutto, va contrastata come effetto
dello svuotamento di democrazia che i partiti hanno subito negli
ultimi decenni, soprattutto in Italia. In concomitanza, del resto, con
la torsione autoritaria che ha investito l’intera società, a
cominciare dai sistemi elettorali. Il neoliberismo non ha liberato
nessuno, ha creato nuovi vincoli e nuove servitù. Mentre la società
dello spettacolo tende a rappresentare la politica come un gioco di
società tra leader facendo scomparire tutti gli altri.

Quindi il portavoce deve avere attorno un gruppo
dirigenterappresentativo delle varie anime di UP, che al momento sono
i dirigenti delle forze politiche che la compongono. Potremmo
chiamarla Segreteriao Direttivo, si vedrà. Naturalmente in seguito
bisognerà inventare procedure elettive che garantiscano un
funzionamento pienamente democratico. E va da sé che occorrerà
elaborare uno statuto. Potrebbe essere il caso di convolgere un gruppo
di saggi – personaggi di prestigio esterni a UP – che ci aiutino in
questo compito di selezione e fondazione delle regole di democrazia
interna.

Un altro organismo che al momento io vedo necessario, per un primo
assetto organizzativo, è un Comitato territoriale, vale a dire un
organo in cui siano presenti i rappresentanti di tutti i territori,
che si riunisce con una periodicità da stabilire. Si dovrà poi capire
se una rappresentanza di dimensione regionale sia la misura più giusta
e meglio gestibile.

Scendendo al livello organizzativo di base, cioé alla necessità di
creare delle unità organizzative che possiamo chiamare
circoli,sezioni, presidi , case del popolo o in altro modo, si pongono
dei problemi politici rilevanti, anzi, il problema politico principale
per la costruzione di un partito. Vale a dire il passaggio di
Rifondazione Comunista, Potere al Popolo, Dema e tutte le formazioni
minori alla nuova creatura chiamata Unione Popolare.

Voglio premettere che io sono uno storico e per giunta un vecchio militante e posso
capire forse più di altri l’attaccamento quasi carnale di tanti
compagni alle proprie bandiere. So che in quel legame c’è un pezzo di
storia della propria vita, battaglie, sacrifici personali, marce e
nottate. Per questo ho il massimo rispetto per tali sentimenti di
fedeltà, che davvero splendono di nobiltà di fronte alle giravolte dei
voltagabbana della nostra scena parlamentare e partitica.

Ma la politica, specie quella che ha l’ambizione di cambiare il mondo, è
consapevolezza del proprio tempo e coscienza della propria storia. E
la nostra, non dimentichiamolo, negli ultimi decenni è stata una
storia di divisioni e lacerazioni. Dobbiamo essere consapevoli che se
non vogliamo limitarci a fare opera di testimonianza, ma abbiamo
l’ambizione di ottenere largo consenso dagli italiani, diventare forti
per aiutare chi è stato emarginato, noi non possiamo presentarci come
i resti di un esercito sconfitto.Diciamo la verità: Rifondazione,
Potere al Popolo, Dema appaiono agli osservatori esterni come la
testimonianza della sempiterna divisione della sinistra. Aggiungo qui
un’altra considerazione: è il nostro vasto e disperso popolo di
militanti e semplici elettori, deluso e scoraggiato, che vive come un
dramma le nostre divisioni. Ne ho avuto ulteriori, molteplici prove
durante la campagna elettorale. E il fatto di non accorgercene è la
nostra maggiore colpa e una delle causa della nostra perdurante
marginalità.

Dunque l’Unione Popolare è un passo in avanti, una conquista a cui
occorre guardare con fiducia e generosità, puntando a rendere
tendenzialmente ancora più vasto il campo dell’ unità con le altre
forze anticapitalistiche che esistono in Italia. Ricordo che
Melanchon, Iglesias, Corbin, Ken Loach, non avrebbero espresso il loro
autorevole appoggio alle singole forze se esse non si fossero
presentate sotto il simbolo unitario dell’Unione.

Passando perciò ai più terrestri problemi organizzativi io credo
necessario,con tempi di maturazione che varieranno da situazione a
situazione, che occorre creare dovunque sia possibile circoli,
sezioni, case del popolo, ecc , con l’insegna di Unione Popolare,
magari unificando le poche forze che abbiamo anche in uno stesso
locale. Bisogna imparare a vivere insieme: anche questa è intelligenza
politica, lavoro di costruzione del partito. Quanto più realizziamo ed
esprimiamo spirito unitario tanto più diventiamo e appariamo forti e
credibili.

E qui vorrei concludere con tre osservazioni e proposte. Dobbiamo
trasmettere ai cittadini il senso della nostra utilità sociale. Oggi,
fondatamente, la maggioranza degli italiani – come testimonia anche il
crescente astensionismo – considera gli esponenti dei partiti come un
ceto sociale parassitario. Vendono propaganda elettorale e in cambio
ricevono i nostri voti: cioé soldi, potere, privilegi, visibilità
mediatica in cambio di nulla. Quando non compiono scelte
antipopolari…

Noi siamo diversi, abbiamo programmi alternativi, ma
non abbiamo ancora fatto niente, come Unione Popolare,per convincere i
cittadini che siamo diversi e che potremmo realizzarli.Molto
opportunamente, De Magistris ha cercato di smarcarsi da questa
immagine, di rendersi credibile nel grande frastuono pubblicitario
della campagna elettorale, ricordardo la propria esperienza di
sindaco.Ma noi siamo agli inizi e dunque dico che i nostri presidi nel
territorio devono assomigliare a sedi di volontariato.

I cittadini del quartiere devono vedere in esse non soltanto il luogo dove si discute
di politica, ma dove si insegna un po’ di italiano agli immigrati, si
organizzano i GAS per portare le cassette di cibo a casa degli
anziani, si aiutano le persone inesperte a risolvere al computer i
loro problemi amministrativi. Attenzione a quest’ultimo aspetto:
l’anafabetsimo informatico di tanti cittadini costituisce oggi una
limitazione dei loro diritti. E’ come l’analfabetismo totale degli anni
’50. Ma questi nostri centri dovrebbero essere in grado, con altre
forze, di organizzare campagne ambientaliste con i giovani, i quali
oggi sembrano interessati solo a questa forma di militanza. Quindi
giornate dedicate alla pulizia dei giardini pubblici, delle spiagge,
per la piantumazioni di alberi in città, ecc.

Ma c’è un altro aspetto su cui voglio richiamare la vostra
attenzione:noi dobbiamo distinguerci nel linguaggio, parlare davvero
ai sentimenti delle persone, scambiare esperienze umane anche senza
volontà di coinvolgimento politico.L’ideologia neoliberistica ha
ridotto la società a una giungla competitiva e noi dobbiamo
combatterla a partire dal nostro comportamento, dalle nostre parole.

I cittadini non hanno solo bisogno di vedere abbassate le bollette e
aumentati i salari, vorrebbero sentire risuonare di nuovo le parole
dell’amicizia, della solidarietà, della fratellanza e della
sorellanza. Prendiamone atto: un Grande Inverno ha inaridito i
sentimenti che avevano tenuto insieme milioni di persone, unite dalle
stesse speranze e dagli stessi sogni.Le nostre città sono aggregati di
solitudini frettolose: perciò occorre creare momenti di pausa, di
fermo, di incontri senza fini utili, di festa, di bighellonaggio, di
sberleffi alla società agonistica, spietata e stupida della corsa al
danaro.

Organizziamo giornate di rivolta civile spese per strada e
nelle piazze a chiacchierare con gli amici, giocare con nostri figli e
nipoti, coi nostri animali.Rendiamo consapevoli le persone di essere
incalzate dal potere in ogni momento della loro vita, insegniamo loro
a liberarsi. Al tempo stesso dobbiamo esprimere un atteggiamento di
cura verso l’altro perché oggi lo dobbiamo avere anche per la natura,
ferita dal nostro saccheggio. Noi saremo davvero il nuovo mondo
possibile se riusciremo a legare insieme la fratellanza fra di noi con
quella per tutte le altre creture viventi oggi in pericolo.Il rapporto
con il mondo cattolico sensibile al messaggio di papa Francesco, ma
anche con le compagne e i compagni che si raccolgono nella Società
della cura, con tanti movimenti ambientalisti, i ragazzi di Fridays
for Future, ecc. diventa in questo modo possibile.

Infine una proposta che ho già avanzato e che ripeto.Io ho i rapporti
personali necessari per poter organizzare una Scuola di cultura
politica e ambientale online, capace di diventare, con una lezione da
remoto ogni settimana, un nostro marchio culturale e al tempo stesso
uno strumento di formazione, di allargamento della nostra influenza,
di arricchimento e unificazione della soggettività politica di tanti
italiani, di dialogo con le altre forze di sinistra.Ogni settimana uno
studioso terrà una lezione su un tema di sua competenza, che gli verrà
richiesto secondo un calendario da costruirsi, così che centinaia di
migliaia di persone possano ascoltarla in ogni angolo d’Italia.

Ma per fare questo occorre una grande piattaforma informatica.Lo strumento,
tra l’altro, che ci può consentire l’informazione alternativa alla
manipolazione sistematica della TV capitalistica. Questione non solo
tecnica, ma anche politica. Occorre che le mailing list di Dema,
Rifondazione, Potere al Popolo e delle altre formazioni si fondano.
Ancora una volta dunque occorre un altro salto verso l’unificazione di
Unione Popolare.

Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna

Il governo dell’inflazione è una scelta politica.-di Tonino Perna

Esattamente cinquanta anni fa si accendeva la spirale inflazionistica in Occidente dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi. In pochi anni divenne la bestia nera dei governi e degli economisti che inutilmente cercarono di controllarla per tutti gli anni ’70 del secolo scorso.

All’origine del fenomeno inflazionistico c’erano più fattori: lo shock del prezzo del petrolio che nel 1973 aumentò in pochi mesi di quattro volte, l’aumento del prezzo di alcune materie prime essenziali per l’industria, e soprattutto la conflittualità della classe operaia. Quest’ultimo divenne nel tempo la causa più rilevante della crescita generalizzata dei prezzi. In breve, alla forza della classe operaia, ai miglioramenti contrattuali e salariali, il capitale rispose nel solo modo che conosceva per ricostruire i margini di profitto, alzando i prezzi delle merci.

In Italia, come è noto, la rincorsa prezzi-salari si interruppe nel 1985 con l’eliminazione della scala mobile che faceva recuperare, seppure in ritardo, il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi.

Ma, proprio la fine della scala mobile produsse l’effetto di ridurre progressivamente la domanda di beni di consumo nel mercato interno per cui le imprese italiane spinsero ancora di più l’acceleratore verso i mercato esteri, con l’appoggio dei vari governi che in quegli anni svalutarono più volte la lira.

A sua volta le svalutazioni che favorivano le imprese esportatrici importavano inflazione, in quanto i beni e servizi esteri costavano di più, e riducevano ulteriormente il salario reale dei lavoratori dipendenti e di una parte del ceto medio.

Da quel momento iniziò una redistribuzione della ricchezza nazionale a favore di profitto e rendita, a danno dei lavoratori che progressivamente hanno perso in quarant’anni 15 punti percentuali a favore del capitale, in particolare della rendita finanziaria.

Con la caduta del muro di Berlino nell’89 e l’apertura della Cina al mercato mondiale abbiamo assistito per trent’anni ad una crescita dell’economia mondiale in un clima di stabilità dei prezzi a fronte di una valanga di liquidità monetaria immessa dalle banche centrali, a partire dagli Usa il cui debito pubblico è andato alle stelle. Malgrado questa valanga di dollari immessa dalla Fed, malgrado una bilancia commerciale perennemente e pesantemente passiva, negli States i prezzi restavano stabili.

Questo fenomeno contraddiceva la teoria quantitativa della moneta, per gli addetti ai lavori la famosa equazione di Fisher, ma era facilmente spiegabile con globalizzazione del mercato capitalistico che aveva messo in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo, facendo sì che molti beni di largo consumo venissero importati in Occidente con una curva dei prezzi in discesa (basti pensare agli elettrodomestici, abbigliamento, ecc). Così per decenni ne hanno beneficiato i consumatori occidentali, ma sono stati progressivamente colpiti i lavoratori dipendenti nel settore privato dell’economia (disoccupazione e blocco/ riduzione salari reali).

Le imprese europee e nordamericane hanno spostato il conflitto di classe, che le aveva viste in grande difficoltà negli anni ’70, dal mercato interno a quello globale, ponendo le basi per un conflitto tra lavoratori sia a livello locale (scontro con gli immigrati) che internazionale ( il cosiddetto “sovranismo” ha questa base materiale).

Con le sanzioni alla Cina, i danni della pandemia, la crisi del mercato globale, gli Usa sperimentano oggi un tasso di inflazione vicino al 10 per cento che non vedevano dal 1981! E la guerra in Ucraina c’entra poco o nulla. Anzi, da questa guerra per adesso l’economia nordamericana ne beneficia, con l’export di gas, cereali ed armi, al contrario dell ’Unione europea che ne subisce proprio in questi settori un forte contraccolpo. L’inflazione che colpisce gli Usa ha una base strutturale che è correlata alla de-globalizzazione, ben messa in evidenza da Bertorello e Corradi su questo giornale, che non verrà facilmente superata nel breve periodo.

I consumatori e le imprese statunitensi non beneficiano più di una parte di beni importati dalla Cina a prezzi stracciati rispetto allo standard a stelle e strisce. E mentre per la Cina esiste un potenziale allargamento del mercato interno per sostituire i flussi di export, non altrettanto può avvenire negli Usa.

Diversamente nella Ue l’inflazione è dovuta soprattutto all’aumento delle materie prime (non solo petrolio, gas e cereali) ed è dunque una inflazione da costi mentre negli anni ’70 era soprattutto un’inflazione da domanda. Per questo la decisione di aumentare il tasso d’interesse da parte della Bce è un brutto segnale, male accolto dagli operatori di borsa e dalle imprese dell’economia reale. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione delle cui avvisaglie su questo giornale avevamo scritto un anno e mezzo fa.

Morale della storia: il governo dell’inflazione, su come ridurla e a chi farla pagare, è una scelta politica prima che economica. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, tenere insieme il diavolo e l’acqua santa (ammesso che sia rappresentata da qualcuno!), e quindi non ci si può nascondere dietro le quinte di un governo “tecnico”, e pensare ad un futuro governo delle larghe intese.

da “il Manifesto” del 14 giugno 2022
Foto di Mediamodifier da Pixabay

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

È tempo di scelte coraggiose, se non ora quando?- di Tonino Perna

Siamo rientrati in un incubo collettivo. Dove è finita l’Italia indicata dalla OMS, nel mese di settembre, come un modello da seguire a livello mondiale? L’Italia che guardava con sufficienza gli altri paesi europei entrati nell’occhio malefico della pandemia e già pensava al Recovery Fund e a grandi progetti da presentare a Bruxelles. In meno di due settimane è cambiato tutto.

Gli esperti l’avevano preannunciato questa estate, sia pure con cautela, che una seconda ondata sarebbe stata molto probabile. Non gli abbiamo voluto credere, e soprattutto abbiamo fatto ben poco per prevenire, per correre ai ripari ai primi segnali che arrivavano dal resto d’Europa, come se il Bel Paese grazie a una sorta di buona stella – il sole, la dieta mediterranea, il buon governo…- ci avesse immunizzato.

Non bisogna essere scienziati per capire che quando la curva della pandemia mostra una crescita iperbolica abbiamo poco tempo per correre ai ripari. Il nostro sistema sanitario, se non si rallenta l’espansione dei contagi, non è in grado di reggere. Soprattutto nel Mezzogiorno, dove le Regioni hanno fatto ben poco per adeguare i reparti destinati alle terapie intensive, sia come posti letto a disposizione che come personale. Le nuove assunzioni di medici e infermieri sono state assolutamente inadeguate, o addirittura non ci sono state, e oggi ci troviamo di fronte a una tragedia che potrebbe superare quanto abbiamo visto nella scorsa primavera in Lombardia.

Purtroppo, la paura avanza a passi da gigante e sinceramente non vorremmo essere nel ruolo di governatori o premier. Se chiudiamo tutto, o quasi, rischiamo di vedere affossata una debole ripresa economica e, soprattutto, di sotterrare quel poco di speranza e progettualità che si stava ricostruendo. Senza contare i milioni di lavoratori precari, piccoli imprenditori, che finiscono nella miseria e nella disperazione. E’ una situazione simile alla condizione di chi sta per affogare e si è salvato, ma al momento di essere soccorso e salire su una nave cade di nuovo in acqua in maniera rovinosa.

Se invece, continuiamo con blande misure anticovid che colpiscono più l’immaginario collettivo che il virus, allora rischiamo la catastrofe umanitaria con gli ospedali che scoppiano, file di ambulanze di fronte al pronto soccorso, persone gravemente malate che rimangono a casa senza cure. Insomma, siamo di fronte a quella doppia epidemia lucidamente disegnata da Norma Rangeri nell’editoriale di domenica scorsa.

Se possiamo fare un paragone, fatti i dovuti distinguo, è quello con la crisi da stagflazione che colpì l’economia occidentale, e in special modo la nostra economia. Allora, stagnazione economica ed alti tassi d’inflazione ponevano i governi di fronte al dilemma: combattere l’inflazione riducendo la liquidità del sistema, oppure rilanciare l’economia uscendo da una lunga stagnazione. Nel primo caso si abbassava la crescita dei prezzi ma si aggravava la recessione e aumentava la disoccupazione già alta in quel decennio.

Nel secondo caso si favoriva un ulteriore crescita dell’inflazione che colpiva il potere d’acquisto dei ceti a reddito fisso e le fasce più deboli della popolazione. La maggior parte dei governi adottarono una politica dello “stop and go”, che tradotto in altri termini significa “un colpo al cerchio e una alla botte”. Ma, alla fine la via d’uscita si trovò con una ristrutturazione del mercato mondiale, attraverso il decentramento produttivo dell’industria manifatturiera, una compressione dei salari (che in Italia si concluse con la cancellazione della scala mobile), e la vittoria della Thacher in Inghilterra e Reagan negli Usa che inaugurarono l’era neoliberista. Speriamo che nel nostro caso non finisca così!

Certamente non ci troviamo di fronte ad una semplice scelta tra la salute e l’economia, ad una scelta tecnica, ma politica che ridisegnerà il nostro futuro. Se vogliamo salvarci dal Covid 19 (ormai sarebbe più corretto chiamarlo Covid 20) dobbiamo avere il coraggio di scelte drastiche. La politica dei piccoli passi non paga e ci porta nel baratro. Se dobbiamo rallentare la diffusione della pandemia perché le nostre strutture sanitarie non sono in grado di reggere allora finiamola con questi provvedimenti a macchia di leopardo.

Allo stesso tempo garantiamo a tutte le categorie colpite, compresi precari e disoccupati, inoccupati, ecc. un reddito di base, a cui accedere immediatamente senza farraginose procedure. Inoltre, per non continuare a indebitarci, facciamo pagare chi ha continuato a guadagnare da questa situazione, a partire dal mondo della finanza, dagli speculatori che hanno festeggiato durante questo crollo dell’economia reale. In una situazione come questa si impongono drastiche scelte di redistribuzione della ricchezza nazionale, se vogliamo evitare che il paese vada verso il default e la maggioranza della gente s’impoverisca.

da “il Manifesto” del 28 ottobre 2020
Foto di Sebastian Thöne da Pixabay