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La Trumpeconomics,il ritorno del mercantilismo.-di Tonino Perna

La Trumpeconomics,il ritorno del mercantilismo.-di Tonino Perna

La globalizzazione capitalistica, denunziata da decenni dai movimenti sociali No Global è arrivata al capolinea. Fondata sul free trade, l’abbattimento delle barriere doganali e normative, la liberalizzazione degli scambi, la libera circolazione del capitale, è entrata in crisi. Non è il capitalismo che è stato messo in discussione ma una forma di mercato con cui si è diffuso e imposto nel mondo.

Il mercato, ricordiamolo, è una costruzione sociale, che può assumere le forme più diverse, come il grande Fernand Braudel ci ha insegnato. Oggi, l’emergere delle forze politiche “sovraniste” sta rimettendo sulla scena globale un vecchio arnese, una vecchia teoria economico-politica che la storia sembrava avesse seppellito: il mercantilismo.

Nel XVII secolo prima Antonio Serra, nato a Dipignano-Cosenza, e poi il più famoso Jean Batiste Colbert con le loro opere contribuirono a costruire le fondamenta del pensiero mercantilista che influenzò la politica economica dei governi europei. In breve, i mercantilisti ragionavano così: la potenza di un Regno dipende dalla forza militare, quindi dagli armamenti e dall’esercito che hanno un costo crescente per i quali ci vuole molto oro (con cui si identificava la ricchezza), a sua volta questo prezioso metallo per gli Stati che non hanno miniere devono procurarselo aumentando le esportazioni e riducendo drasticamente le importazioni con tutti i mezzi possibili (dazi, quote, tariffe), dato che l’interscambio con paesi terzi avveniva esclusivamente in monete d’oro o, in subordine, d’argento.

Per tutto il secolo XIX questa è stata la dottrina prevalente, ad eccezione del Regno Unito che si fece paladino del free trade dopo aver praticato per un lungo periodo un mercantilismo draconiano nei confronti delle sue immense colonie. Solo nel secolo scorso si è imposto il libero scambio che ha raggiunto il suo culmine con la caduta del muro di Berlino e l’apertura della Cina al mercato mondiale.

OGGI, CON TRUMP il mercantilismo ritorna, sia pure in una versione ibrida. Il neopresidente Usa si è dato l’obiettivo prioritario di ridurre drasticamente il debito pubblico che ha raggiunto la somma record di 36.000 miliardi di dollari, pari al 138% del Pil. Una
bella eredità che gli ha lasciato Biden che in quattro anni ha fatto crescere il debito pubblico di oltre il 30 per cento, portando il deficit del bilancio federale al 6 per cento del Pil.

Risultato: bisogna trovare quest’anno oltre 7.000 miliardi per i bond in scadenza. Come fare? Aumentando i rendimenti, ma questo comporta un ulteriore esborso per la finanza pubblica: durante l’anno fiscale 2024 gli interessi netti sul debito pubblico sono stati pari a 881,6 miliardi, per la prima volta superiore alla spesa militare pari a 841,8 miliardi di dollari. Meglio puntare sul rafforzamento del dollaro anche attraverso una netta riduzione del deficit della bilancia commerciale che nel 2024 ha raggiunto i mille miliardi di dollari.

Lo farà alzando i dazi all’import, stabilendo quote massime di importazione, incentivando finanziariamente le esportazioni, cosa che per la verità già avviene da tempo nel campo agro-alimentare con relativi danni economici per i paesi del Sud del mondo. Allo stesso
tempo espellerà i migranti poveri e senza expertise mentre continuerà la politica di attrazione/importazione dei giovani “talenti” che hanno fatto la fortuna degli Usa (circa centomila ricercatori, professionisti, docenti universitari, scienziati, ogni anno entrano e la
maggioranza resta nel cuore dell’impero a stelle e strisce).

Ma, a differenza della storia del mercantilismo il ruolo dello Stato all’interno del paese si ridurrà decisamente, smantellando quello che resta del welfare, mettendo in pratica il motto laisser faire , laisser passer: totale libertà di azione per l’impresa, abbattimento delle
tasse, di lacci e lacciuoli, secondo il principio neoliberista che vede nell’accumulazione individuale di ricchezza una crescita di benessere per tutti.

Il neomercantilismo si sposa con il neoliberismo producendo un mostro ibrido che tanto assomiglia alla mitologia greca. Classe operaia e ceto medio statunitense ne subiranno le conseguenze con un aumento dell’inflazione e la caduta di offerta di lavoro in agricoltura, piccola industria e servizi per via del blocco dell’immigrazione e relativa espulsione.. Sul piano internazionale, come la storia ci insegna, il neomercantilismo esaspera i conflitti commerciali che possono trasformarsi in conflitti tout court.

Paradossalmente sarà la Cina con i Brics a difendere il Wto (che Trump vorrebbe cancellare insieme a tutte le istituzioni internazionali) e le regole del commercio internazionale basate sulle regole e la cooperazione.

da “il Manifesto” del 21 gennaio 2025
foto: Di Vladislav Talaev – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25408370

Stile di vita e industria bellica Usa nello scenario ambientale post-Covid.- di Piero Bevilacqua

Stile di vita e industria bellica Usa nello scenario ambientale post-Covid.- di Piero Bevilacqua

La dimensione mondiale della pandemia prefigura oggi uno scenario ingannevole rispetto ai problemi che gli Stati dovranno affrontare allorché si presenteranno, con la loro drammatica urgenza, i nodi inaggirabili del collasso ambientale. Oggi abbiamo di fronte un nemico comune e questo rende più facile l’unità di intenti – in questo caso la ricerca di un vaccino – ma in futuro non sarà così.

La catastrofe ambientale cui andiamo incontro per effetto del caos climatico non avrà le fattezze di un nemico invisibile che ci accomunerà nella lotta per fronteggiarlo. Ma avrà forme ben più complesse e soprattutto dinamiche tendenti a dividere e perfino a contrapporre i comportamenti dei vari governi nazionali.

La catastrofe ambientale verosimilmente si presenterà come sommersione di vaste zone terrestri, desertificazione, riduzione dei corsi fluviali e degli specchi lacustri, diminuzione delle terre fertili, di estati roventi, perdita di raccolti, alluvioni, scarsità di materie prime. Quando questo scenario ambientale apparirà in tutta la sua cogenza sarà difficile, stante l’attuale ordine mondiale, immaginare una risposta concorde e unitaria da parte dei singoli Stati.

L’equilibrio, fondato sulla competizione più sfrenata, che ha disseminato la Terra di focolai di guerra, non può affrontare le emergenze ambientali con spirito cooperativo e solidale come si può affrontare una pandemia. E’ drammaticamente realistico immaginare che il venir meno di risorse fondamentali per mantenere gli standard economici dei vari paesi, acuirà i termini della competizione, con possibilità di conflitti armati dagli esiti imprevedibili.

Dobbiamo rammentare quanto è già avvenuto, prova sperimentale di quel che potrà succedere con ben altri esiti. Vale ricordare con quale espressione George W.Bush si smarcò dagli obblighi del Protocollo di Kyoto: ”Lo stile di vita americano non è negoziabile”. Ebbene, questo voleva significare che un paese con il 4% della popolazione mondiale, ma che consuma il 30% delle risorse del pianeta, si rifiutava di condividere le responsabilità collettive delle scelte che il riscaldamento climatico imponeva a tutti. Ma tale posizione di Bush, reiterata di recente in forme più aggressive e grottesche da Donald Trump, deve indurre a una riflessione sul ruolo degli Stati Uniti nello scenario mondiale.

Gli Usa sono un Paese che ha subìto negli ultimi 30 anni una rottura dei suoi equilibri interni e internazionali. Con il crollo dell’Urss, i suoi gruppi dirigenti hanno perso il nemico storico, un pilastro fondamentale per il loro dominio sull’Occidente. Il ruolo di contenitore del comunismo aveva fornito uno strumento egemonico impareggiabile sia per il consenso interno, che per imporre modelli culturali nel resto del mondo e possibilità di ingerenza in territori lontani come il Mediterraneo e il Medio Oriente.

Ora, è esattamente questo squilibrio destabilizzante, che mostra quanto profondamente sia diviso al suo interno il paese America, e la spasmodica ricerca dei suoi gruppi dirigenti di un nuovo nemico che autorizzi la continuità della sua politica imperiale e recuperi il consenso sul fronte interno. Non è tutto. Nella politica internazionale degli Usa un ruolo rilevante lo svolge il Pentagono ovvero la più grande fabbrica d’armi del pianeta. Un’industria che rappresenta una delle componenti del suo sviluppo economico: indirettamente per la supremazia militare che assicura e per gli incrementi del Pil. E questo non da oggi appartiene alla consapevolezza strategica dei gruppi dirigenti.

Già nel 1950, nell’amministrazione Truman « si teorizzava non solo la piena compatibilità tra burro e cannoni, welfare state e warfare state, ma la loro stretta interdipendenza: la crescita dei secondi avrebbe alimentato quella del primo, in una spirale virtuosa potenzialmene illimitata».(M.Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, Laterza). Dunque lo “stile di vita americano” è sostenuto anche dal successo dell’industria militare, grazie a un numero crescente di conflitti armati per il mondo.

È la continuità sostanziale della politica militare Usa, resa possibile dalla Nato, sopravvivenza della guerra fredda, a cui l’Europa continua a restare asservita. I 70 milioni di cittadini che hanno eletto Trump saranno disposti a rinunciare all”America first”? Che cosa aspetta l’Ue a staccarsi dalla Nato e favorire un assetto più equilibrato dei poteri mondiali, unica condizione per evitare che la lotta per accaparrarsi i beni scarsi della Terra si trasformi nell’ultima delle guerre?

da “il Manifesto” del 16 novembre 2020
Foto di David Mark da Pixabay