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Crisi dei dazi, la risposta giusta è la domanda interna.-di Tonino Perna

Crisi dei dazi, la risposta giusta è la domanda interna.-di Tonino Perna

Nessuno sa come andrà a finire la questione dei dazi, ma le mosse di Trump hanno rappresentato un campanello di allarme per il modello di sviluppo che ha guidato l’Italia dagli anni Cinquanta.

Insistere in questa direzione anche quando geopolitica ed economia stanno cambiando vuoldire sbattere la testa al muro.

Augusto Graziani, uno dei più prestigiosi economisti italiani del secolo scorso, nel suo saggio L’economia italiana: 1950-70 metteva in luce la debolezza del nostro modello di sviluppo export oriented, fondato su svalutazione della lira e bassi salari. Nulla è cambiato
dal dopoguerra ad oggi: continuiamo ad essere fortemente dipendenti dalle esportazioni con un rapporto sul Pil tra i più alti della Ue: nel 2024 abbiamo registrato 623 miliardi di export a fronte di un Pil di 2.192 miliardi di euro, generando complessivamente un surplus
di 55 miliardi di euro.

Dato che con l’entrata nell’euro abbiamo finito di usare la svalutazione della moneta per rendere competitive le nostre merci, è grazie al basso costo del lavoro, oltre a capacità innovative e creative, che abbiamo potuto mantenere un livello alto delle nostre esportazioni.

Adesso però, con la recessione alle porte di casa, bisognerebbe ripensare al nostro modello economico. Oltre alla ricerca di altri mercati, che richiede tempo e non è scontata, bisognerebbe puntare a un rilancio della domanda interna sia con un aumento di stipendi e salari, sia con investimenti pubblici a partire dalla cura del territorio, mitigazione degli eventi climatici estremi, sviluppo delle energie rinnovabili e risparmio energetico.

Diversamente la pensa Emanuele Orsini, il presidente di Confindustria, che presenta una proposta al governo in cui richiede «incentivi per aumentare ulteriormente l’export di 80 miliardi nel breve termine e di oltre 400 nel lungo termine». Errare humanum est, perseverare autem…

Crediamo che per i settori dell’industria più esposti alla concorrenza internazionale il governo potrebbe intervenire con sgravi sugli oneri sociali evitando di dare incentivi generici che finiscono solo per far quadrare i bilanci in rosso.

In ogni caso è prioritario aumentare la domanda interna attraverso un aumento del monte salari, ormai una necessità per vivere dignitosamente per una maggioranza di lavoratori, nonché per migliorare i servizi pubblici (sanità, scuola, servizi sociali) dove le magre retribuzioni sono una delle cause del degrado.

Non è un sentiero facile, la Cina ci sta provando da almeno un decennio, ma è una strada obbligata. Per i sindacati dei lavoratori il momento è propizio per richiedere con forza e convinzione un aumento di stipendi e salari, dato che solo la crescita della domanda interna
può farci superare la stagflazione che si sta avvicinando inesorabilmente. L’ideale sarebbe orientare questa domanda aggregata, investimenti e consumi, verso un altro modello di società e qualità della vita. Per adesso è solo un sogno in un tempo di fantasmi e mostri

da “il Manifesto” del 15 aprile 2025

La Trumpeconomics,il ritorno del mercantilismo.-di Tonino Perna

La Trumpeconomics,il ritorno del mercantilismo.-di Tonino Perna

La globalizzazione capitalistica, denunziata da decenni dai movimenti sociali No Global è arrivata al capolinea. Fondata sul free trade, l’abbattimento delle barriere doganali e normative, la liberalizzazione degli scambi, la libera circolazione del capitale, è entrata in crisi. Non è il capitalismo che è stato messo in discussione ma una forma di mercato con cui si è diffuso e imposto nel mondo.

Il mercato, ricordiamolo, è una costruzione sociale, che può assumere le forme più diverse, come il grande Fernand Braudel ci ha insegnato. Oggi, l’emergere delle forze politiche “sovraniste” sta rimettendo sulla scena globale un vecchio arnese, una vecchia teoria economico-politica che la storia sembrava avesse seppellito: il mercantilismo.

Nel XVII secolo prima Antonio Serra, nato a Dipignano-Cosenza, e poi il più famoso Jean Batiste Colbert con le loro opere contribuirono a costruire le fondamenta del pensiero mercantilista che influenzò la politica economica dei governi europei. In breve, i mercantilisti ragionavano così: la potenza di un Regno dipende dalla forza militare, quindi dagli armamenti e dall’esercito che hanno un costo crescente per i quali ci vuole molto oro (con cui si identificava la ricchezza), a sua volta questo prezioso metallo per gli Stati che non hanno miniere devono procurarselo aumentando le esportazioni e riducendo drasticamente le importazioni con tutti i mezzi possibili (dazi, quote, tariffe), dato che l’interscambio con paesi terzi avveniva esclusivamente in monete d’oro o, in subordine, d’argento.

Per tutto il secolo XIX questa è stata la dottrina prevalente, ad eccezione del Regno Unito che si fece paladino del free trade dopo aver praticato per un lungo periodo un mercantilismo draconiano nei confronti delle sue immense colonie. Solo nel secolo scorso si è imposto il libero scambio che ha raggiunto il suo culmine con la caduta del muro di Berlino e l’apertura della Cina al mercato mondiale.

OGGI, CON TRUMP il mercantilismo ritorna, sia pure in una versione ibrida. Il neopresidente Usa si è dato l’obiettivo prioritario di ridurre drasticamente il debito pubblico che ha raggiunto la somma record di 36.000 miliardi di dollari, pari al 138% del Pil. Una
bella eredità che gli ha lasciato Biden che in quattro anni ha fatto crescere il debito pubblico di oltre il 30 per cento, portando il deficit del bilancio federale al 6 per cento del Pil.

Risultato: bisogna trovare quest’anno oltre 7.000 miliardi per i bond in scadenza. Come fare? Aumentando i rendimenti, ma questo comporta un ulteriore esborso per la finanza pubblica: durante l’anno fiscale 2024 gli interessi netti sul debito pubblico sono stati pari a 881,6 miliardi, per la prima volta superiore alla spesa militare pari a 841,8 miliardi di dollari. Meglio puntare sul rafforzamento del dollaro anche attraverso una netta riduzione del deficit della bilancia commerciale che nel 2024 ha raggiunto i mille miliardi di dollari.

Lo farà alzando i dazi all’import, stabilendo quote massime di importazione, incentivando finanziariamente le esportazioni, cosa che per la verità già avviene da tempo nel campo agro-alimentare con relativi danni economici per i paesi del Sud del mondo. Allo stesso
tempo espellerà i migranti poveri e senza expertise mentre continuerà la politica di attrazione/importazione dei giovani “talenti” che hanno fatto la fortuna degli Usa (circa centomila ricercatori, professionisti, docenti universitari, scienziati, ogni anno entrano e la
maggioranza resta nel cuore dell’impero a stelle e strisce).

Ma, a differenza della storia del mercantilismo il ruolo dello Stato all’interno del paese si ridurrà decisamente, smantellando quello che resta del welfare, mettendo in pratica il motto laisser faire , laisser passer: totale libertà di azione per l’impresa, abbattimento delle
tasse, di lacci e lacciuoli, secondo il principio neoliberista che vede nell’accumulazione individuale di ricchezza una crescita di benessere per tutti.

Il neomercantilismo si sposa con il neoliberismo producendo un mostro ibrido che tanto assomiglia alla mitologia greca. Classe operaia e ceto medio statunitense ne subiranno le conseguenze con un aumento dell’inflazione e la caduta di offerta di lavoro in agricoltura, piccola industria e servizi per via del blocco dell’immigrazione e relativa espulsione.. Sul piano internazionale, come la storia ci insegna, il neomercantilismo esaspera i conflitti commerciali che possono trasformarsi in conflitti tout court.

Paradossalmente sarà la Cina con i Brics a difendere il Wto (che Trump vorrebbe cancellare insieme a tutte le istituzioni internazionali) e le regole del commercio internazionale basate sulle regole e la cooperazione.

da “il Manifesto” del 21 gennaio 2025
foto: Di Vladislav Talaev – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25408370