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Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

Crisi climatica e disastri territoriali: il PNRR come occasione sprecata.-di Alberto Ziparo

L’ultimo report IPCC/UNEP sui cambiamenti climatici lo aveva previsto: gli effetti catastrofici della
crisi ambientale sono entrati pesantemente nel nostro quotidiano, e lo stiamo sperimentando
soprattutto sotto forma di ondate di calore accompagnate da incendi, o di temporali con “bombe
d’acqua” che innescano disastri franosi e alluvionali.

Certo, si sapeva che l’ipercementificazione del nostro Paese avrebbe causato sofferenze particolari al
suo territorio. E si conoscevano anche i principali fattori di rischio, in questo caso soprattutto idro-
geologico ma anche sismico, di incendi, inquinamenti od obsolescenza e inadeguatezza del patrimonio
costruito. Il risanamento e la riqualificazione di un territorio troppo “consumato” dovevano figurare tra
i primi punti di qualsiasi programma di mitigazione della crisi ambientale: se le grandi politiche di
contenimento degli inquinanti e dei fattori di alterazione eco-climatica richiedono strategie globali, le
ricadute sui territori attengono alle politiche locali, comunali o d’area vasta, regionali e nazionali.
Con la formulazione del Green Deal, l’Europa ha dettato le linee programmatiche per la transizione
ecologica, quindi predisposto, con il NGEU e i relativi Recovery Plans, le azioni progettuali e gli
interventi necessari a supportarla.

Con il suo PNRR l’Italia dispone – tra prestiti e fondi trasferiti – di oltre 200 miliardi di euro da
utilizzare in tal senso. Appare quindi ovvio che, a parte il contributo nazionale alle grandi politiche cui
si è accennato sopra, una quota rilevante degli investimenti doveva essere destinata a mitigare gli effetti
territoriali della crisi ambientale, con azioni di risanamento, riqualificazione e restauro del territorio.
La copertura finanziaria di tali azioni poteva anche essere non troppo problematica: qualche anno fa,
difatti, il MISE – non certo un’organizzazione ambientalista o un centro di ricerca di ecologia radicale –
aveva quantizzato in un importo di poco inferiore al totale messo a disposizione dal PNRR, 190
miliardi di euro, l’investimento necessario a una prima messa in sicurezza dei territori nazionali rispetto
ai rischi ricordati, sempre più enfatizzati dall’acuirsi di una crisi ecologica che ha ormai carattere di
emergenza.

Lo stesso MISE, per attuare il programma necessario, proponeva un progetto poliennale (decennale
o anche ventennale) da avviare però immediatamente. Pena l’esasperazione degli effetti catastrofici sul
territorio che già si registravano, ma che erano chiaramente destinati a intensificarsi con tempi di
ritorno sempre più ravvicinati.

Nel 2015 l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi, anche in base a queste previsioni MISE,
lanciò il programma “Casa Italia” per il risanamento e la messa in sicurezza del territorio abitativo e
urbanizzato. Se ne parlò solo per qualche mese: probabilmente si decise di non farne più nulla quando il
premier e il suo entourage vennero a sapere che si trattava di una serie di piccole azioni di risanamento
(rinaturalizzazione, riterritorializzazione, ripristino ecosistemico, disimpermeabilizzazione,
consolidamento delle alberature, messa in sicurezza della fauna, ecc.) e non di un numero esorbitante di
grande opere di altrettanto grande impatto mediatico e finanziario.

A sei anni di distanza e con una pandemia (più o meno) alle spalle, il PNRR rappresentava dunque
una grande occasione per avviare un progetto di risanamento tanto ampio quanto urgente.
In realtà, a fronte degli oltre 200 miliardi disponibili in totale, e degli oltre 61 espressamente destinati
alla “transizione ecologica”, le risorse investite in programmi di risanamento territoriale ammontano a
meno di 4,5 miliardi di euro, poco più del 2% dell’importo complessivo. I disastri, le alluvioni, gli
allagamenti, le frane, gli incendi, i crolli, che pure non sono mancati proprio mentre i dirigenti
ministeriali competenti scrivevano il piano, non hanno spostato nulla a favore di azioni che, più che
necessarie, erano urgentissime.

La maggior parte delle risorse del PNRR si è usata invece per “dare una
mano di verde” a operazioni vecchie, già obsolete ma gestite da grandi imprese e grandi interessi
finanziari, che anziché contrastare finiranno per accentuare ulteriormente l’attuale stato di crisi.
Così, a fronte dei (comparativamente) pochi spiccioli spesi per risanare il territorio, abbiamo 31
miliardi per Alta Velocità e Grandi Opere; che diventano quasi 80 con il Collegato Infrastrutture –

stesse agevolazioni procedurali e finanziare del Recovery – con cui si recupera gran parte delle opere
previste dalla (già definita “criminogena”) Legge-Obiettivo di berlusconiana memoria.
D’altra parte le contraddizioni del PNRR non si fermano a questo: p.es., la più parte delle risorse
investite per la “transizione energetica” serve in realtà ad alimentare una sorta di “transizione
intrafossile” dal carbone e dal petrolio al gas naturale. Mossa che si è rivelata quanto mai avveduta con
lo scoppio della guerra in Ucraina e i conseguenti tagli del gas russo. I quali a loro volta, piuttosto che
rappresentare un incentivo a una reale conversione alle rinnovabili, sono usati per giustificare nuove
trivellazioni, escavazioni, realizzazioni di opere già in partenza obsolete (leggasi metanodotto per
Foligno) che accentueranno la nostra dipendenza anziché attenuarla. Mentre per le energie alternative
continuano a presentarsi “problemi autorizzativi”.

Questi peraltro sarebbero facilmente superabili se operatori pubblici e privati, abbandonando la
logica affaristica dei “grandi impianti”, si limitassero a seguire le direttive dei Piani paesaggistici, che
spesso dicono esattamente dove e in che quantità si possono realizzare pannelli fotovoltaici o
aerogeneratori. O se si incentivassero autentiche comunità energetiche che, ab initio, progettino gli
insediamenti secondo i caratteri ecosistemici e culturali dei luoghi.

C’è oggi tutto un fiorire di attori locali che curano, tutelano e valorizzano i territori portando avanti
“dal basso” opzioni di sostenibilità sociale ed ecologica, a volte anche in contrasto con le grandi
istituzioni finanziarie e programmatiche. È una realtà produttiva che vale diversi miliardi di euro l’anno,
e che promuove azioni che vanno dalle comunità energetiche alla conversione bio-ecologica
dell’agricoltura, dall’eco-turismo esperienziale alla produzione di beni immateriali (conoscenza,
educazione, ricerca…), dal recupero del patrimonio territoriale alla sua reimmissione in circuiti di
produzione di valore. È a questi attori che potevano e dovevano essere destinate le risorse che il PNRR
decentra alle Regioni: la transizione ecologica vera ha bisogno della loro forza visionaria.

da “il Fatto Quotidiano” del 17 ottobre 2022
Foto di Hans da Pixabay

Appello: ridiamo la parola ai cittadini italiani

Appello: ridiamo la parola ai cittadini italiani

Da oltre un mese l’Italia è sotto assedio. Il popolo ucraino, cui va tutta la nostra incondizionata solidarietà, è martoriato dalle bombe russe, noi dalla propaganda di un sistema informativo unilaterale e totalitario.

I nostri media infliggono una grave ferita alla democrazia italiana. E’ evidente che questa schiacciante attenzione alla tragedia ucraina ha diversi scopi. Essa cancella le gravi responsabilità dell’Europa, che negli ultimi 30 anni ha affidato la propria politica estera alla Nato a guida Usa, assecondandola in tutte le guerre condotte nei vari angoli del pianeta.

Oggi la guerra ce l’abbiamo in casa, gli Usa sono lontani, ma è l’Europa a sostenere i contraccolpi delle sanzioni, i costi dell’accoglienza, il flagello dell’inflazione. Ma Tv e grande stampa vogliono far dimenticare agli italiani i problemi irrisolti della sanità pubblica, dopo due anni di devastazione pandemica, della scuola dove gli studenti possono morire per incidenti sul lavoro, del Mezzogiorno dilaniato dalla disoccupazione di massa, della corruzione e del prosperare indisturbato delle mafie. Mentre contribuiscono a mettere da parte i programmi di transizione ecologica, a cedere alle lobbies dell’energia fossile. Ma lo scopo principale è ora far digerire agli italiani la proposta di portare al 2% del nostro Pil la spesa in armamenti.

Rimanere nel cono d’ombra della Nato, vale a dire piegarsi alla pretesa degli Usa di restare l’unica superpotenza del globo, è un errore strategico mortale: significa accettare un progetto di guerra perpetua, e soprattutto rinunciare a un ordine mondiale fondato sulla pace, il multilateralismo e la cooperazione fra gli stati.

Di fronte alle minacce del riscaldamento climatico e dell’esaurimento delle risorse, accrescere gli armamenti, alimentare i conflitti, è un delitto contro l’umanità, una corsa deliberata verso l’abisso.

Di fronte a questa prospettiva, alle forze politiche e di governo che sono diventate un unico raggruppamento di centro, impegnati a difendere il proprio recinto elettorale e dunque lo status quo, l’immobilismo che trascina il Paese nel declino, appare drammaticamente urgente intraprendere una iniziativa politica.

E’ necessario muoversi contro la guerra e per un accordo tra le parti. Ma occorre avviare con urgenza un percorso di confronto tra le forze democratiche e progressiste, in grado di dar voce ai bisogni dei cittadini e una speranza ai giovani.

Servono a questo scopo forze sociali e culturali che si mettano al servizio di un compito preciso, testimoniato anche da altri gruppi che hanno già intrapreso questo percorso. Scandagliare il territorio italiano, nella sua varietà policentrica, per far emergere i problemi veri del Paese e delle persone: dalla sanità alla scuola e alla ricerca, dalla questione del salario minimo al lavoro delle partite iva, dalla riforma del welfare ai temi di genere, dall’autonomia differenziata alla transizione ecologica, dall’economia della cittadinanza alla lotta alle rendite, senza mai dimenticare che operiamo in un pianeta in pericolo.

Un percorso che dia voce ai soggetti marginalizzati, a chi non ha voce e potere ma solo bisogni insoddisfatti, se non prospettive di una vita spezzata. Una voce che rimetta senza indugio al centro della sua azione le disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento; e che torni a parlare di giustizia fiscale e ambientale, di rafforzamento dell’occupazione pubblica, di diseguaglianze e povertà, di un nuovo stato sociale, di spiazzamento delle posizioni di rendita, sia private che pubbliche.

Pensiamo a un rivolo che si accresce via via, raccogliendo affluenti dai vari punti delle Penisola, dai sindaci, dagli insegnanti, dagli operai, dai sindacalisti, dai semplici cittadini, alle organizzazioni delle cittadinanza attiva, dai militanti dei tanti collettivi politici e culturali, al mondo delle imprese a impatto sociale.

L’esito di questo percorso dovrebbe portare anche all’individuazione di nuove figure, nuovi candidati e candidate che nutrano il rinnovamento del ceto politico. Una nuova politica culturale mobilitante, per ottenere degli effetti, richiede nuove persone che si vogliano sperimentare in progetti e azioni collettive.

Pensiamo di chiedere questo sforzo generoso d’avanguardia intellettuale a persone con esperienza politica e militanza a favore delle donne, come Laura Marchetti e Tiziana Drago, a insegnanti che da anni si battono per una scuola democratica e contro l’autonomia differenziata, come Renata Puleo, a docenti universitari impegnati nel dibattito pubblico come Filippo Barbera, Pier Giorgio Ardeni e Rossano Pazzagli, a uomini politici di lunga esperienza, ma fuori dai partiti, come Luigi De Magistris, insieme a tanti altri che qui non è possibile menzionare.

Questo movimento dovrebbe anzitutto individuare un certo numero di proposte concrete e operative, all’altezza della radicalità delle sfide che si devono oggi affrontare, mettendo al centro i bisogni delle persone, la loro vita quotidiana e capacità di aspirare a un futuro migliore.

L’esito di questo confronto articolato e diffuso dovrebbe concretizzarsi nella grammatica minima per costruire – insieme agli altri soggetti del “Paese vivo” che si stanno orientando nella stessa direzione – una aggregazione plurale ma con un indirizzo chiaro.

In un Paese con un astensionismo al 40% e un’offerta politica ormai schiacciata verso il centro-destra, occorre restituire rappresentanza a una domanda di democrazia sostanziale e di sinistra che ha ormai perso la voce perfino per potersi lamentare. Occorre elaborare al più presto un programma in pochi punti a cui lavorare nei prossimi mesi.

Primi firmatari

Piero Bevilacqua, Filippo Barbera, Pier Giorgio Ardeni, Guido Ortona, Domenico De Masi, Ginevra Bompiani, Piero Caprari, Tiziana Drago, Maurizio Fabbri, Marina Leone, Ernesto Longobardi, Antonio Castronovi, Gaetano Lamanna, Vezio De Lucia, Enzo Scandurra, Domenico Cersosimo, Giuseppe Giuliano, Battista Sangineto, Ignazio Masulli, Salvatore Romeo Bufalo, Andrea Battinelli, Giuseppe Aragno, Laura Marchetti, Eugenio Occhini, Franco Trane, Renata Puleo, Raul Mordenti, Paolo Favilli, Pino Ippolito, Lucinia Speciale, Franco Santopolo, Sergio Simonazzi, Franca Grasselli, Pietro Soldini, Armando Vitale, Gregorio De Paola, Alberto Ziparo, Umberto Ursetta, Roberto Scognamillo, Luigi Vavalà, Mario Fiorentini, Roberto Musacchio, Amalia Collisani, Franco Novelli, Rossano Pazzagli, Rita Castellani, Salvatore Cingari, Vera Pegna, Gloria Sirianni, Dino Greco, Pierluigi Panici, Sandro De Toni, Umberto Carbone, Marcello Paolozza, Franco Blandi, Gianni Principe, Tiziana Colluto, Franco Toscani, Sonia Marzetti, Paolo Cagna Ninchi, Giuseppe Panuccio, Bruna De Andreis, Isabella Temperelli, Roberto Giordano, Susanna Crostella, Emilia Galtieri, Fabio Marcelli, Vito Teti, Ferdinando Laghi, Maurizio Pelliccia, Marco Cordella, Mara Rossetti, Alessandro Renzi, Marco Tassarotti, Riccardo Tranquilli, Laura Ceccarelli, Carla Grandi, Vincenzo Benessere, Nunzia Di Maria, Massimo Arcangeli, Eduardo Cimmino, Marina Castagneto, Daniela Lourdes Falanga, Ileana Capurro, Salvatore Panico, Franco Arminio, Agnese Palma, Enza Talciani, Gianfranco Argentero, Rodolfo Cilloco, Leonardo De Angelis, Enrico Chiavini, Franco Lufani, Luca Fontana, Giuseppe De Gregori, Piero De Luca.

https://ilmanifesto.it/ridiamo-la-parola-ai-cittadini-italiani

Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto

Fiori, frutta e città. Il verde urbano in Calabria-di Battista Sangineto

I. I giardini in città.

Le città calabresi sono quasi del tutto prive di verde pubblico perché a partire dalla metà del secolo scorso sono state impetuosamente e disordinatamente edificate senza alcun piano regolatore che ne organizzasse lo spazio. Per iperbole si potrebbe dire che, dagli anni ’50 in poi, si siano costruiti prima i palazzi e poi, nello spazio che rimaneva, le strade, tanto sono urbanisticamente inadeguate.

Fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 l’esempio delle città europee e del nord Italia aveva indotto le Amministrazioni cittadine a progettare secondo gli antichi dettami ‘ippodamei’: vie parallele e perpendicolari orlate, su entrambi i lati, da alberi, e interrotte da piazze circolari o quadrangolari che costituivano pause alberate o, comunque, destinate all’uso ricreativo pubblico. Di tali modelli urbanistici se ne possono trovare ancora tracce, in misura diversa, a Cosenza, a Vibo Valentia, a Lamezia, a Crotone, a Reggio Calabria e a Catanzaro.

Le nostre città, invece, risultano essere -così come sono state costruite negli ultimi decenni- soffocanti e ininterrotti ammassi di cemento armato misto ad asfalto e lamiere di automobili senza alcuna soluzione di continuità. Non è esagerato affermare che, in Calabria, non siano, negli ultimi decenni, stati intenzionalmente progettati e realizzati giardini pubblici, piazze e vie alberate, se si esclude la Rende di Cecchino Principe. La sola arteria alberata costruita negli ultimi 70 anni, Viale Giacomo Mancini, è stata inopinatamente e inspiegabilmente smantellata e sostituita con una distesa di mattonelle, la piantumazione di qualche stento alberello e la creazione di piste ciclabili di bitume dipinto.

Negli ultimi decenni, è prevalso -a Cosenza, ma non solo- un modello, un po’ piccolo borghese, di elegante città “dechirichiana” che nella concezione del grande artista suscitava, nella sua metafisica astrazione, la sensazione di un luogo disincarnato, privo della presenza umana e, naturalmente, delle piante. Il problema è che -mentre le città dipinte da de Chirico sono il frutto di una raffinatissima operazione di sottrazione che riduce tutto a volumi semplici votati all’essenza e all’eleganza- le piazze, le piazzette e gli slarghi cosentini pavimentati, negli ultimi dieci anni, con cemento oppure con piastrelle grigiastre senza un solo albero, pianta o arbusto -che pure ambiscono a costituire un apparato formale- riescono solo a trasmettere inautenticità, angoscia e spaesamento.

I Centri storici delle città calabresi sono stati abbandonati o ignobilmente deturpati da innumerevoli superfetazioni e inserzioni cementizie, ma quello di Cosenza conserva una sua straordinaria unitarietà armonica dovuta al suo tumultuoso svuotamento avvenuto in un breve arco temporale che non ha permesso inadeguati rifacimenti, inserzioni moderne e superfetazioni. Ma quella che, secondo lo storico greco Strabone, era l’antica capitale dei ‘Brettii’ che giace dal IV secolo a.C. sulla pendice settentrionale del colle Pancrazio, sta sbriciolandosi e franando verso valle. E non solo nessuno ha posto rimedio a questo disastro, ma la precedente Amministrazione ha, addirittura, demolito case e palazzi nel cuore del Centro storico, a Santa Lucia, e lungo la sua via principale, il medioevale Corso Telesio, radendo al suolo, senza alcuna autorizzazione della Soprintendenza ABAP, alcuni edifici impiantati nel XVIII secolo con l’irricevibile motivazione che erano pericolanti.

Demolizione palazzi fra Corso Telesio e Via Gaeta

In questi ultimi anni, invece di investire energie, tempo e denari nel Centro storico della città, sono state spese decine e decine di milioni di euro per ponti spropositati e fuori contesto, per desolati e angoscianti parcheggi/piazze che attirano traffico nell’attuale centro cittadino, per il rifacimento del corso principale, di piazze, piazzette e slarghi nella città moderna senza piantare un albero, una pianta, un solo ciuffo d’erba come se fossero destinate ad abitarla solo le figure e le statue di de Chirico.

Per trasformare in spazi vivibili e non spaesanti tutte queste sterili e orribili superfici, si potrebbero sostituire queste ultime con ‘giardini pensili orizzontali’, come nel caso della vera e propria “isola di calore urbana” di Piazza Fera, e mettere a dimora ogni tipo di pianta adatta ovunque (per esempio a Piazza Riforma, a Piazza Loreto, davanti alla Chiesa di San Domenico etc.) si possa raggiungere, rompendo il cemento e le piastrelle cinesi, il suolo originario.

Sarebbe un’operazione salvifica per la salute dei cittadini e per il clima della città ad un costo contenuto, peraltro, perché il ‘verde pensile orizzontale’ può essere realizzato su tutti i tipi di coperture di edifici esistenti o di nuova costruzione perché è un impianto vegetale su uno strato di supporto strutturale impermeabile leggero, come ad esempio solette di calcestruzzo, solai di cemento e di ferro etc.

Un altro enorme spreco di danaro pubblico è rappresentato dal tentativo di erigere un Museo intitolato ad Alarico, un Museo che potrebbe esser chiamato, a ragion veduta, il Museo del Nulla perché non conterrebbe materialmente nulla, visto che non abbiamo neanche un solo frammento di ceramica che sia riconducibile ad Alarico o ai suoi Visigoti. Per costruirlo il Comune di Cosenza ha acquisito dalla Regione, per ben 2 mln. e 253.000 euro, l’ex Hotel Jolly che sorgeva alla confluenza dei due fiumi, ai piedi del Centro storico. L’edificio è stato acquistato nel 2017 per abbatterne gli ultimi piani e trasformarlo nel rutilante, a giudicare dai rendering pubblicati, Museo del Nulla-Alarico che, a lavori finiti, sarebbe venuto a costare la strabiliante cifra di 7 milioni di euro, esclusi gli arredi interni. Nonostante che la Direzione generale del Mibact avesse negato l’autorizzazione a ricostruirlo, si è proceduto alla demolizione -anche questa non autorizzata dalla Soprintendenza, ma solo dalla Provincia- dell’ex Hotel Jolly abbattendolo quasi tutto, ma, forse complice la pandemia, i lavori si sono fermati e, per fortuna, non più ripresi.

L’ex Jolly in demolizione

L’attuale Sindaco, l’avvocato Caruso, ha ripetutamente affermato che non ha intenzione di insistere sulla leggenda di Alarico e, dunque, si pone concretamente il problema di cosa fare di quello spazio, una volta sgombrate le macerie. Credo che, tenendo conto della stretta relazione che esso intrattiene con il Centro storico, la cosa migliore sia che tutto quello spazio, di circa 2.500 mq., diventi un luogo come quelli che in Francia sono chiamati ‘jardins familiaux’: un profumato giardino piantumato con alberi, piante ed essenze tipiche del cosentino e delle rive fluviali oppure un rigoglioso orto urbano la cui cura potrebbe essere affidata, in entrambi i casi, ai cittadini del Centro storico ed alle loro Associazioni. Si inizierebbe, con poca spesa, a riportare un po’ di verde in città.

Area libera per un impiantare un giardino

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“Il nostro futuro, il futuro dell’ambiente del nostro
pianeta, è legato al modo in cui trasformeremo la nostra
idea di città: non più luogo separato dalla natura, ma
parte integrante della natura”.
(Stefano Mancuso)

II. Gli orti in città.

Uno degli aspetti urbanistici e paesaggistici più caratteristici di Siena è la presenza, all’interno delle mura medievali, di ampi spazi verdi non urbanizzati che ammontano a ben 32 ettari, rispetto ai 165 complessivi della città murata. Una vera e propria “campagna”, spesso destinata a colture ortive, che si incunea dentro la città formando una sorta di cuscinetto tra il costruito e la cinta muraria medesima. Le città calabresi non hanno la fortuna di aver avuto in dono questa eredità storica, ma potrebbero dotarsene senza troppe difficoltà e spese come nel caso, per esempio, di Catanzaro e di Cosenza.

Un paio di anni fa Piero Bevilacqua, insigne storico contemporaneista, aveva avanzato la proposta di far nascere a Giovino, poco a nord di Catanzaro Lido, un “Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee”. L’area propriamente naturalistica di Giovino, che più esattamente si trova fra i torrenti Castace e Alli, misura circa 12 ettari di pineta e dune di sabbia chiara. La spiaggia di questo luogo ha la peculiarità di modellarsi in ondulazioni sabbiose alte anche 3-4 metri che formano l’ecosistema dunale, un ambiente naturale di grande bellezza e fragilità da preservare. Ma tutta questa porzione di territorio che è caratterizzata dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, è molto più vasta di quanto si creda: circa 240 ettari, occupati da case, strade, ma anche da orti, aziende agricole, campagne e aree incolte.

Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto la solita cementificazione mentre Bevilacqua crede che sia possibile avviare un modo diverso e ambientalmente sostenibile di dare valore al territorio facendo nascere un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. La Calabria è, infatti, una delle regioni più ricca di varietà di alberi da frutto d’Italia: decine o, forse, centinaia di varietà di meli, peri, susine, ciliegi, fichi, peschi, agrumi, viti, etc. Un “Parco”, dunque, al posto di nuovo, ed inutile, cemento e asfalto che farebbero sparire il verde degli orti e delle campagne, aumenterebbero la temperatura locale, accrescerebbero la fragilità del territorio in occasione di piogge intense, richiamerebbero nuovo traffico veicolare.

La proposta che avanzo per Cosenza è la nascita di centinaia di “orti urbani” sui terreni cosiddetti marginali della città situati lungo i fiumi Busento e Crati, prima e dopo la confluenza. Sulla base di un calcolo approssimativo fatto sulle immagini satellitari questi terreni, che Gilles Clément (Clément 2005) chiama “terzo paesaggio” perché non sono propriamente né città né campagna, avrebbero una superficie di circa 30-35 ettari di proprietà del Demanio o del Comune medesimo. I primi “orti urbani” nascono, in Europa, nel corso del XIX secolo tanto che, per essere più precisi, verso la metà dell’’800 nascono i primi “Kleingarten” tedeschi, spazi riservati esclusivamente ai bambini. Ma è verso la fine dello stesso secolo che l’idea degli “orti urbani” inizia a diffondersi attraverso i “Jardin Ovrieurs”, nati dall’attività del politico e professore francese Jules Lemire (F. Panzini, Coltivare la città, DeriveApprodi 2021).

Uno dei tanti “jardins ouvriers” a Parigi.

Questi giardini operai avevano un duplice obiettivo: coltivare l’orto come possibile fonte di risorse economiche e alimentari, ma considerarlo anche come forma di sviluppo e di arricchimento del rapporto famigliare racchiuso nello slogan: “Il giardino è il mezzo, la famiglia è lo scopo”. Anche in Italia, dopo alcuni esperimenti dei primi del ‘900, hanno iniziato a diffondersi gli “orti urbani”, soprattutto in Emilia-Romagna, Lombardia e Toscana, ma anche nel Veneto, nelle Marche e in Campania.

La Regione Toscana, nell’ambito del progetto “Giovanisì”, ha promosso e finanziato con 3 milioni e 300mila euro il progetto “Centomila orti in Toscana”, con la finalità di sperimentare e diffondere, con il coinvolgimento dei Comuni toscani, un modello di orto urbano toscano, finalizzato non solo alla produzione, ma anche al recupero di aree degradate e alla definizione di aree di aggregazione sociale e di scambio culturale, nel quale i giovani ricoprono un ruolo fondamentale.

Le Amministrazioni comunali interessate, come quella di Siena, partecipano ad un bando per assicurarsi il finanziamento così concepito: ogni singolo orto deve avere una dimensione tra i 50 e un massimo di 100 metri quadrati; i complessi di orti ne conterranno tra i 20 e i 100, mentre ai Comuni va un finanziamento compreso tra i 50mila e i 100mila euro necessari per dotare questi complessi di infrastrutture permanenti come il reticolo viario, il sistema di irrigazione, la recinzione esterna e interna degli orti et cetera.

Gli orti urbani aiutano l’ambiente e fanno bene allo sviluppo economico e sociale del territorio. Promuovono la biodiversità e sono salutari perché portano sulla tavola frutta biologica senza pesticidi. Per dare l’idea dell’efficienza di un “orto urbano”, si ricorda che bastano circa 20 metri quadrati di terreno per produrre sufficiente verdura per una persona per un anno intero. Gli “orti urbani” non solo fornirebbero un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, contribuirebbero all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima, ma favorirebbero anche la tutela della biodiversità agricola, la riduzione della produzione di rifiuti (l’umido sarebbe utilizzato come fertilizzante) e potrebbero generare, con un’adeguata progettazione, una filiera agroalimentare corta. Le esperienze, ormai secolari, ci dicono che gli “orti urbani” sono uno strumento potentissimo per l’inclusione sociale perché danno nuova vita a zone e quartieri potenzialmente isolati o problematici, favoriscono l’amalgamazione sociale e la crescita di nuovi gruppi di persone socialmente attive, accomunate dallo stesso obiettivo lavorativo e dall’appartenenza ad uno stesso luogo.

Pur volendo prendere in considerazione l’uso solo della metà del territorio marginale cosentino disponibile, avremmo a disposizione una quindicina di ettari, cioè 150.000 mq., che sarebbero sufficienti per ben 1.500 unità ortive da 100 mq. Se teniamo conto che ognuno di questi “orti urbani”, senza quasi nessun costo per il Comune se fossero finanziati dalla Regione con i fondi del Pnrr, potrebbe soddisfare il fabbisogno di frutta e verdura di una famiglia di 5 persone per un anno, bisogna riconoscere che essi potrebbero fornire un aiuto economico consistente per le famiglie in difficoltà e, nello stesso tempo, rappresenterebbero una svolta ecologica ed estetica di grande rilievo.

Aree demaniali o comunali libere per la piantimazione di orti urbani.

Insieme alla ripiantumazione ed alla rivitalizzazione degli spazi verdi all’interno del tessuto urbano, gli “orti urbani” formerebbero una magnifica ghirlanda di piante e di alberi intorno a tutta la città rendendola, nel complesso, un esempio di vera e felice riconversione ambientale in tutto il Mezzogiorno e in tutta Italia.

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III. Il verde nel Centro storico.

La lagnanza sull’andamento della cosa pubblica che capita di leggere o ascoltare forse più di frequente in Calabria e al Sud, è quella che riguarda l’abbandono dei Centri storici delle città e dei paesi. Un problema grave e di difficile soluzione, ma che, grazie al finanziamento del Pnrr, potrebbe, o avrebbe potuto, avere un esito positivo. Una delle linee di finanziamento del Pnrr e del Fondo complementare è destinata all’edilizia residenziale pubblica per l’ammontare complessivo di quasi 2 miliardi di euro che dovrebbero esser spesi in quota maggiore nel Mezzogiorno per colmare il divario infrastrutturale presente tra Nord e Sud.

Una parte consistente dei suddetti finanziamenti potrebbe e dovrebbe esser usata, dunque, per far rivivere i Centri storici della Calabria iniziando da quello di Cosenza perché è il più grande, è quello più omogeneo, è quasi del tutto disabitato e, soprattutto, è in via di disfacimento. Un Centro storico così grande, urbanisticamente articolato e disabitato può essere restaurato e recuperato solo se si acquista e/o si espropria il maggior numero possibile di case e di palazzi per creare un “bene comune” unitario e, naturalmente, pubblico.

Un’operazione simile fu fatta nei primi anni ’70 per il Centro storico di Bologna. Nell’ottobre del 1972 l’Amministrazione comunale di quella città presentò in Consiglio una variante integrativa al piano comunale per l’edilizia economica e popolare (PEEP) vigente dal 1965. La variante – elaborata dall’Assessore all’ Edilizia Pubblica, architetto Pierluigi Cervellati- in applicazione della legge n. 865/1971, estendeva al centro storico gli interventi di edilizia economica e popolare.

Oltre al recupero del costruito e la concomitante tutela sociale, il fine culturale e politico era quello di giungere ad avere abitazioni a proprietà indivisa nei comparti del Centro storico cittadino, trasformando quindi la casa da “bene produttivo” a servizio sociale per i cittadini (Agostini 2013). Fu condotta un’indagine conoscitiva preventiva dalla quale emerse una debolezza nella struttura sociale della popolazione residente che andava protetta e favorita nella continuità abitativa.

Il Comune si proponeva che il restauro-recupero delle case assicurasse il rientro degli abitanti originali con canoni di affitto equo e controllato. In più, nei locali risanati a piano terra, nei sottoportici, dovevano essere ricollocate le attività commerciali e di artigianato ancora presenti. A seguito della predetta indagine furono scelti cinque comparti che -tra i tredici in cui, già a partire dal 1956, era stato diviso il Centro storico bolognese- erano quelli che presentavano le condizioni più precarie e le più gravi emergenze sociali (Cervellati-Scannavini 1973).

Schema interventi nel Centro storico di Bologna nel 1972

La legge 865/1971 era una legge finanziaria che stabiliva le modalità normative per l’accesso ai finanziamenti, comprendendo per l’attuazione l’esproprio per pubblica utilità, di terreni o di immobili compresi anche nei centri storici. Grazie all’interpretazione di questa legge da parte del giurista ed economista Alberto Predieri, fu possibile mettere a punto il piano e il relativo utilizzo dei finanziamenti permettendo all’Amministrazione bolognese di utilizzare i fondi previsti per l’edilizia economica popolare non solo in complessi monumentali pubblici per servizi, ma anche nei comparti abitativi in quanto l’edilizia pubblica è da considerarsi un “servizio pubblico” (Predieri 1973).

Anche se vi furono molte opposizioni, persino nella maggioranza, il Sindaco Renato Zangheri, nel gennaio del 1973, dichiarò che la realizzazione del piano pubblico si sarebbe attuata anche con il concorso dei privati proprietari attraverso convenzioni col Comune, lasciando che l’esproprio fosse considerata l’ultima ratio. In aggiunta, per consentire un avvio dell’intervento pubblico utilizzando i finanziamenti di legge, il Comune si impegnò ad acquisire in via bonaria gli stabili più fatiscenti e a rischio (Cervellati-Scannavini-De Angelis 1977).

I dati forniti nel 1979, un primo bilancio a cinque anni dall’attuazione del piano, registrarono un totale di quasi 700 alloggi risanati per iniziativa pubblica, oltre ad interventi di restauro per la realizzazione di centri civici, culturali, studentati e attività di quartiere, per un totale di circa 120 mila metri quadrati di superficie recuperata. Evitando gli espropri e coinvolgendo i proprietari, sin dal 1956, con articolate convenzioni, gli interventi privati realizzati o in corso di ultimazione assommavano a circa 250 alloggi e 50 negozi per una superficie complessiva di 27.750 mq. (De Angelis 2013).

Per le acquisizioni e per i cantieri furono utilizzati (De Angelis 2013) diversi finanziamenti: oltre allo stanziamento comunale iniziale di L. 800.000.000, furono utilizzati i fondi provenienti dalla legge 865/71 (L. 1.900.000.000) e quelli delle successive leggi, compresi quelli derivanti dalla liquidazione della Gescal, per circa L. 2.000.000.000. A questo proposito vale la pena ricordare che a Cosenza, invece, proprio i fondi ex Gescal – secondo Carlo Guccione ben 10 milioni di euro che dovevano servire per l’edilizia sovvenzionata e convenzionata- sono stati impropriamente usati dal sindaco Occhiuto per costruire il sommamente inutile e costosissimo, 20 milioni di euro, Ponte di Calatrava.
Per un lavoro di ripristino e di ristrutturazione così capillare ed esteso si spesero, dunque, meno di 5 miliardi di lire, il cui potere di acquisto ora equivarrebbe, secondo i più comuni convertitori (cfr. Sole24ore), a circa 14 milioni di euro, vale a dire 6 milioni meno del costo del Ponte di Calatrava.

Certo, se il Comune di Cosenza avesse, negli anni e nei decenni precedenti, elaborato un progetto dettagliato di ripristino, ristrutturazione degli edifici e degli spazi pubblici, rifacimento dei servizi e dei sottoservizi, acquisto e/o esproprio degli edifici privati, si sarebbe potuto chiederne, da subito, il finanziamento per mezzo del Pnrr non solo per l’edilizia pubblica residenziale, ma anche per la cosiddetta ‘transizione ecologica’. Fra i 7 progetti presentati e finanziati per la ‘rigenerazione urbana’ con il Pnrr, Cosenza, purtroppo, non figura, ma voglio sperare che ancora si possa riuscire ad accedere a questi fondi e che si possa ristrutturare il Centro storico di Cosenza.

Credo che si possa farlo ponendo particolare attenzione al verde pubblico iniziando, come ho già scritto, con la trasformazione in giardino dello spazio dell’ex Jolly, ma anche piantando alberi e piante a Piazza dei Valdesi, in Piazza Spirito Santo, lungo entrambe le rive del Crati e del Busento, nello spazio un tempo occupato dalla caserma dei Pompieri ora solo parcheggio, lungo le strade e nella piazza della frazione di Casali, risistemando e rinfoltendo sia il Vallone di Rovito dei fratelli Bandiera sia la centenaria Villa Vecchia sia Piazza dei Follari, piantumando tutta l’area dell’ex Umberto I, creando giardini e ‘jardins familiaux’ negli squarci creati dalle demolizioni di Santa Lucia, di Corso Telesio e Via Gaeta. Persino Piazzetta Toscano potrebbe esser resa di nuovo bella e vivibile rimuovendo le superfetazioni architettoniche che nascondono i resti della “domus” romana e rimodulando tutto lo spazio includendovi alberi, piante e fiori.

Aree da “rinverdire” e/o da piantumare ex novo.

Grazie all’esperienza bolognese si arrivò ad una legge nazionale -la n. 457 del 1978, soprattutto il Titolo IV- che fissava anche disposizioni per le aree ad orti o a giardini all’interno del centro storico, che dovevano rimanere libere, introducendo all’interno delle città storiche il principio di pubblica utilità per la casa: ovvero, la casa pubblica come bene pubblico, come bene sociale di pubblica utilità.

Il restauro e il “rinverdimento” del Centro storico non produrrebbero solo un risultato esteticamente incantevole, ma genererebbero, perché le pietre e le piante non si conservano senza i cittadini, un accrescimento quantitativo e qualitativo delle attività economiche, una redistribuzione della ricchezza conseguente all’assegnazione degli alloggi pubblici, una maggiore coesione sociale e una migliore qualità della vita derivanti dalla salubrità dell’ambiente urbano, dall’attività fisica e dalla necessaria cooperazione per la gestione dei giardini e degli orti comuni.

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Lo scritto qui riportato è formato da tre articoli usciti, con titoli diversi, il 10, il 13 ed il 22 gennaio 2022 su “il Quotidiano del Sud” e costituiscono una proposta complessiva avanzata da Battista Sangineto per rendere Cosenza, ma anche le altre città calabresi, meno tossica, con più piante e verde che contribuirebbero ad un migliore stoccaggio dell’anidride carbonica, all’assorbimento della pioggia in eccesso e alla mitigazione del clima. Città, dunque, più inclini all’indispensabile cooperazione fra uomini e piante e più socialmente coese.

Elaborazioni grafiche della cartografia: Pierluigi Caputo.