Mese: aprile 2018

Per la Calabria. Contro la “calabresità” e i “calabresismi” di Vito Teti

Per la Calabria. Contro la “calabresità” e i “calabresismi” di Vito Teti

Intanto, i giornali locali parlano della «grande dimenticata», della «grande silenziosa», cioè la Calabria. Dicono sempre che in questa terra, poiché era ricca di vitelli, nacque il nome d’Italia, e ne rivendicano la proprietà letteraria. Prospera qui, non si sa come, in una contrada semplice, vera, scabra, una inaspettata retorica, tarda eco della retorica nazionale. Quasi tutto quello che si legge qui della Calabria, a parte la letteratura dialettale, è rivolto in genere a magnificare una Calabria che non esiste più, e cioè le colonie greche, e Sibari, e Locri. La tendènza è al classico. Il povero bracciante fugge nell’emigrazione, e l’intellettuale fugge nel passato. La retorica si, quella è nazionale (Corrado Alvaro, Un treno nel Sud, 1958).

 

 

  1. Lo slogan fiacco e vuoto della «calabresità»

«L’identità è diventato oggi uno slogan brandito come un totem o ripetuto in maniera compulsiva come una evidenza che sembrerebbe aver risolto proprio ciò che risulta problematico: il suo contenuto, i suoi limiti, la sua stessa possibilità». Le considerazioni dell’antropologo François Laplantine (Identità e métissage, 2004) mettono in guardia dall’uso approssimativo, inadeguato, minaccioso, angusto di tale termine. Le considerazioni critiche sull’identità vanno assunte criticamente e problematicamente in una terra dove opinionisti improvvisati, incompetenti (e buoni per tutte le stagioni), «maestri pensatori», che non leggono e non studiano e però non ci risparmiano le loro verità assolute, le loro certezze indiscutibili, i loro idoli offerti alla devozione di tutti noi. Il discorso sull’identità non è superfluo o scontato dal momento che, a mio modo di vedere, molti dei mali del Sud e della Calabria – molte dati negativi che ci riguardano, certo dovuti a ragioni storiche, economiche, sociali, al rapporto Nord-Sud – dipendono anche da un malinteso senso dell’identità, dall’ossessione e dalla boria identitaria che vede avvinghiati politici e certi commentatori funzionali alla politica-politicante di tutti i colori e le trasversalità.

La rivendicazione d’identità, in realtà, in molti commentatori che oscillano tra sterile nostalgia e rivendicazionismo-revisionismo, ha un carattere estremamente vago, dissimula più di quanto non chiarisca. I discorsi sull’identità quasi sempre da noi rivendicazione sterile, costruzione astorica, formule inconcludenti, artifici per non fare i conti con se stessi. Si afferma e non si dimostra, si assume e non si argomenta. Uno dei termini più usati e più abusati, di recente invenzione, nell’affrontare questioni relative al modo di essere e di sentirsi degli abitanti della nostra regione, è «calabresità». Quel termine, a cui pochi si sottraggono, racconta una presunta diversità/superiorità più pelosa e indimostrata. Lo considero un termine, forse, inevitabile, ma anche molto ambiguo ed ingombrante. Certo poco efficace, anzi sterile, ai fini di una reale comprensione delle dinamiche e delle vicende identitarie della Calabria. Il problema è che «calabresità», termine vago e generico, dice tutto e il contrario di tutto. Viene, infatti, inventato «il calabrese» (altre volte «bruzio») idealtipico (come scriveva Augusto Placanica) che nella realtà non è mai esistito. In altre parole il termine «calabresità» finisce col dare per scontata una sorta di identità astorica, perenne, chiusa, facilmente individuabile, quasi pesabile e quantificabile. Quel termine sembra ignorare le mille Calabrie che si sono succedute nella storia, dall’antichità ai nostri giorni, distribuite e differenziate sul territorio, dislocate altrove. Occulta il sovrapporsi e il combinarsi di civiltà, di culture, di tradizioni, di lingue, le impronte e i segni lasciati in eredità da diversi dominatori. Sottovaluta che la storia della regione è segnata da contrasti, doppiezze, diversità, da luci e da ombre, che difficilmente possono essere riportate a una cifra unitaria o rinchiuse in una sorta di slogan identitario. La retorica della «calabresità», non di rado, è il risultato di un’angusta e risentita risposta alle immagini e alle negazioni esterne, che segnano la nostra regione in epoca moderna e ancora ai nostri giorni. Agli intellettuali e agli studiosi, ai calabresi in genere è stato consegnato un fardello pesante: fare sempre, qualsiasi cosa scrivono o dicono, una sorta di preambolo, una preliminare dichiarazione di intenti, una difesa d’ufficio, la confutazione di quello che altri hanno scritto o detto. Bisogna sempre dimostrare qualcosa, confutare (o osannare) qualcuno. Si passa senza soluzioni di continuità dalla lamentela di non essere riconosciuti al compiacimento di sentirsi superiori. La colpa è sempre degli altri. Sia che ci riconoscano sia che ci neghino.

Calabria 1976 (c) photo Salvatore Piermarini

Se poi i giornali, per un qualche motivo, parlano bene di noi, allora sono nel giusto, finalmente capiscono. Il paradosso di tanti pregiudizi rovesciati, combinati ad autostereotipi, è quello di alimentare delle risposte di difesa, talvolta risentite, che spesso finiscono col negare non solo le immagini esterne, ma anche gli aspetti negativi della realtà regionale. L’affermazione di una generica e imprecisata «calabresità» è portata avanti per difendersi dagli altri, per confutarne il loro punto di vista, talvolta per farsi accettare, per promuoversi, in maniera ostentata. Ne viene fuori una risposta spesso angusta, tipica di chi si sente assediato e non riesce ad elaborare autonomamente, in relazione e non in opposizione agli altri, un senso di sé e della propria storia. Inutile occultare una sorta di arroccamento identitario, che si afferma nel tempo anche come risposta a immagini e a pregiudizi esterni anticalabresi che non nascono all’indomani dell’unificazione nazionale (anche se nella seconda metà dell’Ottocento i positivisti parleranno di razza) ma risalgono almeno al Cinquecento e sono presenti in Europa e a Napoli nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento. Un fuoco di immagini negative – che vanno spiegate e distinte nei diversi periodi storici – alla fine hanno generato una psicologia degli assediati e dei dimenticati, di chi si sente sempre sotto osservazione o sempre ignorato, di chi teme, aspetta, rifiuta, incoraggia, il giudizio degli altri. Questi meccanismi accentuano introspezioni esasperate, chiusure, risentimenti, tendenze all’introspezione che finiscono col confermare gli stereotipi che si vuole negare. Finiscono col rendere i calabresi davvero patologicamente melanconici, insicuri, sfiduciati. E spesso finiscono con il diventare complici del gioco degli sguardi esterni. In tutti i casi si rivela sempre una sorta di soggezione e di dipendenza, di mancanza di autonomia, di fronte a quello che di noi è stato detto o non detto. Quella dei calabresi appare spesso una costruzione identitaria risentita, talvolta rancorosa, proprio per le negazioni esterne. In tutto quello che fanno, i calabresi è come se dovessero mostrare e dimostrare qualcosa agli altri, dovessero superare un handicap dovuto a una negazione o a riconoscimenti esterni. Lo scivolamento nell’autostereotipo è quasi automatico in tanta scrittura che dipende dalle immagini “orientaliste” e “mediterraneiste” costruite fuori dalla regione e che trova non pochi adepti a livello locale (si vedano su questi aspetti alcune riflessioni di Luigi M. Lombardi Satriani, Battista Sangineto, Francescomaria Tedesco).

 

La «calabresità» intesa come identità pura e monolitica, quasi monocromatica, ha i suoi categorici e indimostrabili presupposti, ha anche i suoi corollari, sui quali bisognerebbe soffermarsi a lungo. Una delle conseguenze della costruzione di una sorta di riserva, scampata alle contaminazioni e ai processi di modernizzazione, è il proliferare dei suoi custodi, di quelli che sanno pesare il tasso di «calabresità» dei corregionali rimasti o partiti, che consegnano una sorta di patente, che giudicano il senso di appartenenza. Il mondo dell’emigrazione, di solito, quasi paradossalmente, in quanto mondo delle contaminazioni e dei mutamenti, viene individuato come una sorta di isola dove si conserverebbe un’«identità calabrese» vera, pura, integra, monocromatica. Spesso sono gli emigrati, i calabresi che vivono fuori, gli esuli ad essere sottoposti a una sorta di dosaggio della calabresità. Quanto si è o non si è rimasto calabrese, pure vivendo fuori, come si ricorda o si dimentica la terra di origine, come se ne parla, quanta Calabria resta o appare nelle opere del tale o talaltro scrittore che vive fuori? Sono alcune delle domande che periodicamente angustiano quanti vanno alla ricerca di «glorie locali» che vivono fuori e cui viene assegnato, in maniera ingenua e insieme faticosa, il compito di nobilitare i rimasti. Come se il successo, vero o presunto, dei partiti compensasse il disagio e il malessere dei rimasti. Con i calabresi che hanno avuto successo e notorietà nel campo delle professioni, del pubblico impiego, dei mestieri, della politica la valutazione è abbastanza lineare e la considerazione alquanto semplice: «vedete come siamo bravi noi calabresi fuori della Calabria». L’universo lasciato può diventare motivo d’ispirazione, elemento di memoria, ma anche una sorta di ossessione, un dato di disagio, il luogo della nostalgia, cui ti riportano anche le immagini costruite da coloro che sono rimasti. La valutazione, da parte dei custodi di un’identità intesa in maniera granitica, talora ha toni di entusiasmo lacrimevole, altre volte di disapprovazione e di delusione. Termini e concetti come classicità, bellezza, memoria, tradizione, modernità, identità nelle regioni del Sud e in Calabria vengono adoperati ora per discorsi che ineriscono alla persuasione ora per posizioni che sfociano nella retorica. In una terra di contrasti e di dualismi, dove mancano la mediazione e la conciliazione, basta poco perché qualcosa si trasformi immediatamente nel suo contrario. E così le risorse diventano condanna e anche la «felicità» dei luoghi viene trasformata in maledizione, quasi facendo avverare una sorta di profezia razzista che hanno elaborato e inventato, come scrivevo nel 1993, i teorici della «razza maledetta».

 

  1. Calabria 1978 (c) photo Salvatore Piermarini

    Esiti paradossali delle retoriche identitarie

Il risultato è l’invenzione di un’identità chiusa, risentita, non propositiva, dipendente dalle immagini esterne, ora confutate ora riconosciute, rivendicazionista, non costruttiva e rivolta al futuro, ma lacrimevole e rivolta al passato. Un’identità astorica, angusta, inesistente, consolatoria, autoassolutoria, autoreferenziale. Un’identità retorica costruita su revisionismi storici improbabili, su mitologie del buon tempo antico mai esistito, su un idealismo utopistico del passato, su asserzioni giustificazioniste, spesso ammantate da pseudogarantismo (sempre attento alle ragioni dei potenti, dei carnefici e mai delle vittime). In maniera indimostrata si afferma, ad esempio, che la ’ndrangheta ha avuto un carattere popolare ed è stata la continuità del brigantaggio o che esiste una diversità tra una vecchia e buona ’ndrangheta e una criminale nel presente. Nulla di più falso, come storici e antropologi hanno dimostrato. Spesso la «calabresità» sfocia anche in una sorta di comprensione-giustificazione della criminalità e nell’ indifferenza dinnanzi all’inquietante onnipresenza delle mafie come ci si trovasse dinnanzi a un problema irrilevante o secondario.

La «calabresità» spinta all’estremo si trasforma così in una sorta di autorappresentazione ’ndranghetista della regione alla quale partecipano anche i ceti professionisti e intellettuali. La colpa e le responsabilità sono sempre degli altri: «noi» siamo belli, puri, incompresi sempre e comunque anche quando qualcuno compie i crimini più odiosi. Si urla sempre alla criminalizzazione della regione dall’esterno e si occulta quanto i locali si impegnino a costruire autostereotipi che accolgono e amplificano i pregiudizi esterni. Di tutto questo bisognerebbe parlare con pacatezza e con argomenti seri, anche perché su molti giornali e sui blog la tendenza è alla superficialità, alle affermazioni indimostrate, alla lamentela autoassolutoria o alla denuncia di maniera. Ogni discorso e progetto autentico «per la Calabria» – un amore profondo e veritiero per la propria terra – non può che passare attraverso la decostruzione e la demitizzazione della «calabresità».

Non esiste l’identità fatta a pesi e a pezzetti. Che cosa sono la «calabresità», la «napoletanità», la «piemontesità», la «sicilianità» se non invenzioni e costruzioni identitarie felici quando parlano di aperture e di somiglianze? E adesso non ci si accontenta della «calabresità»: si invoca e si inventa la «cosentinità», la «regginità», la «vibonesità» sempre declinate in maniera angusta e autoreferenziale. Piccole vedette della «calabresità» crescono, senza aperture, senza letture, senza viaggiare, e contribuiscono a frammentare, separare, lacerare le diverse aree della Calabria, molto di più di quanto non abbiano fatto la geografia, la storia, le catastrofi, e di recente la politica che sulle divisioni prospera e la criminalità che si divide il controllo del territorio.

Calabria 1981 (c) photo Salvatore Piermarini (2)
Calabria 1982 (c) photo Salvatore Piermarini (2)

Si scrivono ripetitivi interventi banali sul neorazzismo antimeridionale (che esiste e come) senza capire cosa sta succedendo a livello globale, senza legare quel razzismo a più generali xenofobie e si fa finta di non vedere che la Lega e il leghismo (almeno nelle versioni attuali cariche di xenofobie) ha proseliti anche al Sud e anche da noi. Al localismo leghista spesso si è risposto con un localismo di segno opposto in nome di un Sud mitizzato nel suo passato. Nel 1993 ne La razza maledetta segnalavo Il rischio che alle tendenze secessioniste del Nord, il Sud potesse rispondere, come ricordava Giovanni Russo, con miti e nostalgie filoborbonici, scendendo sul terreno «separatista» prediletto dai leghisti (I nipotini di Lombroso, 1992). Isaia Sales (Leghisti e sudisti, 1993) temeva che in Italia ci si dividesse in «leghisti» e «sudisti». A distanza di un ventennio, possiamo costatare come quei rischi fossero concreti e del tutto fondati. Alla lunga sono affiorate, al Sud, accanto a risposte serie e aperte, posizioni localistiche funzionali al sentimento antiunitario della Lega. Nel tempo, la Lega ha occultato il razzismo antimeridionale con la xenofobia anti-immigrati, che spesso ha contagiato anche il Sud. Adesso i localismi al Nord e al Sud sembrano trovare una sorta di incontro in nome di una presunta difesa dell’Occidente dalle invasioni degli stranieri. Non ci si è accorti dei discorsi razzisti che sono proliferati nelle nostre campagne e nei nostri paesi contro immigrati e stranieri. Non ci si è accorti che chiusure anguste, difese d’ufficio di un’inesistente identità granitica e incontaminata, gruppi xenofobi e localisti, organizzazione criminale e pensiero filondranghetista potrebbero trovare una convergenza di interessi concerti e di rassicurazioni e garanzie (a proposito di garantismo) nella Lega di Salvini, sempre meno interessata alla Padania, ma interprete di tutte le forme di opposizione allo straniero e agli altri inserite in una cornice nazionale, come è avvenuto per il lepenismo in Francia. E così nata come movimento politico antimeridionale e separatista, la Lega si è trasformata in movimento anti-immigrati che mette assieme i tanti localismi, le paure, le ansie, le xenofobie, le retoriche identitarie presenti ovunque in Italia e, come sappiamo, nel resto di Europa. La possibile deriva leghista anche al Sud chiama in causa i tanti commentatori che si sono rinchiusi in proclami e lamentele con le insegne logore del localismo meridionale, negazione più subdola di quella cultura meridionale illuminata, illuminista, risorgimentale, meridionalista che è quanto di più originale e innovativo e oppositivo abbiano prodotto dalla fine del Settecento ai nostri giorni le élites pensanti e critiche del Meridione o amiche del Meridione.

 

  1. Per un’identità aperta, problematica e del fare

Le identità non hanno nulla di pacificato e di definito, parlano di ricerca, apertura, scommesse, sofferenze. Le narrazioni del/sul Sud non possono essere ridotte a favolette, a leggende, a mitizzazioni edulcorate, a volte interessate. Ogni discorso sull’identità richiede un rapporto autentico e sofferto con la propria storia, con le tradizioni plurali e le vicende controverse della regione. Necessita di invenzione, fantasia, immaginazione. La costruzione dell’identità richiede la capacità di cogliere i mutamenti del passato e quelli recenti e in corso senza restare ancorati a un passato indefinito e immaginato. Occorre guardare al mondo, alla cultura critica ed esterna. Non bisogna avere paura delle novità, di camminare, viaggiare, mettersi in discussione, praticare l’arte e l’etica di un restare spaesante, inquieto, problematico. Bisogna riconoscere i lati ombrosi della propria storia collettiva ed individuale. Occorre guardare al nostro «interno» senza raccontarci favole, senza scambiare i fantasmi del passato per ombre benevole. Bisogna scrutarsi senza indulgenza, senza autolesionismi, ma senza comodi discorsi autoassolutori. Le responsabilità non sono sempre altrove, non bisogna lanciare la palla in un presunto campo avversario e fuori dagli spalti. Le responsabilità sono anche qui ed ora, anche nostre. L’autoascolto e l’autosservazione non debbono tradursi in lacrimevole rimpianto, in inutile compiacimento, ma in una capacità di fare i conti con il proprio passato per affermare una diversa presenza e una problematica soggettività. Bisogna cambiare prospettiva, guardare con altro sguardo, avere riguardo e cura anche delle proprie fragilità, senza paura di dire la verità. Vale ancora quanto raccomandava Franco Costabile un grande e sofferto poeta calabrese:

Calabria 1985 (c) photo Salvatore Piermarini

Ecco

io e te, Meridione,

dobbiamo parlarci una volta,

ragionare davvero con calma,

da soli,

senza raccontarci fantasie

sulle nostre contrade.

Noi dobbiamo deciderci

con questo cuore troppo cantastorie.

Ogni abitante del Sud si trova ancora a dover decidere, a scegliere. Si tratta di una posizione non facile, minoritaria, appartenente a una tradizione insieme illuminata e «sentimentale». In controtendenza perché a prevalere sono i fautori di un’identità angusta e risentita. Eppure non bisogna raccontarsi tante fantasie. Di recente importanti e coraggiosi intellettuali, giornalisti, studiosi che denunciano la presenza ossessiva della criminalità organizzata sono stati indicati come calunniatori della loro terra, accusati di mostrarne soltanto gli aspetti negativi. E anche autori importanti cadono nella trappola di dover dichiarare, in ogni discorso, in maniera preliminare, che la Calabria non è solo ’ndrangheta. Una giustificazione non richiesta, che mostra tutti i limiti nella capacità di rappresentarsi e raccontarsi anche con le proprie contraddizioni, con i propri limiti, le proprie responsabilità.

Salvatore Piermarini, Marchesato di Calabria 1981

«Solo in te ipso»: la soluzione sta in noi stessi e non negli altri, ricordava Olindo Malagodi a inizio secolo a quei calabresi che parlavano sempre male di loro stessi e poi davano la colpa sempre agli altri. La soluzione e la salvezza stanno in noi stessi: non è compito degli altri. Appare indispensabile condannare ogni forma di razzismo e di sopraffazione che riguardano gli altri. Non si è credibili contro i leghismi se poi ci si abbandona a una sorta di sterile sentimento di superiorità o anche ad atteggiamenti nei confronti degli altri. Occorre, certo, fare i conti con gli stereotipi che ci riguardano, ma anche, come diceva Croce, cercare di capire se non siano stati originati anche da comportamenti e rappresentazioni delle stesse popolazioni. Occorre contrastare con argomenti le immagini negative, con la consapevolezza che lo stereotipo, però, va negato con i comportamenti, con i fatti, con scelte coraggiose. Certo di fronte a separatismi che permangono, a razzismi e leghismi che nascono in Europa, i problemi non si risolvono soltanto confutando, come è giusto, immagini negative esterne e interne. Servono progetti. Serve un’identità da costruire sul «fare» e non soltanto sull’ «essere» (che da noi diventa «presunzione» di essere o apparenza). Serve però un fare eticamente orientato, con un telos, una prospettiva, un’utopia. Un’identità come pratica, come progetto, come continua costruzione, che non dimentichi il passato e la tradizione, sappia invece recuperarli come memoria e per i segni attuali che inviano, e si proietti, con fatica, nel presente e nel futuro. Soltanto allora paesaggi, bellezze, montagne, colline, coste, mare, sole, clima, varietà e mescolanza di prodotti, organizzazione degli spazi, ritualità, tradizioni culturali, religiosi e alimentari, rapporti familiari e comunitari possono essere assunti come elementi costitutivi di un’identità che non è data bella e pronta, consegnata una volta per sempre. I molteplici e colorati elementi costituitivi dell’identità potranno diventare delle risorse a condizione di saperli leggere nella loro storicità e mobilità, nella loro complessità, nella loro ambiguità. Essi possono essere la linfa di una nuova consapevolezza, i materiali con cui affrontare nuove sfide, ma anche una sorta di camicia pesante di cui è difficile liberarsi e di cui si può restare prigionieri. Paesaggi, luoghi, valori e pratiche, frutto di complesse vicende storiche, di mille incontri e scontri di popoli, di aperture e di chiusure, sono segnati da una sottile linea d’ombra. Possono costituire punti di forza o di debolezza, tratti di un’identità da rivendicare o di un’identità angusta da superare. «Persuasione», come diceva Carlo Michelstaedter (La persuasione e la rettorica, 1982), è il tentativo sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di sé stessi. Non di meno la persuasione è una via da perseguire per contrastare quanto più possibile la retorica, le ombre, le favole, i pregiudizi che occultano la «verità» e la possibilità di cambiare lo stato delle cose.

Nota. Questo scritto è il testo di una relazione (dal titolo “L’identità: tra retorica e persuasione”) presentata al seminario di studi “La Calabria che vogliamo: Istruzione, Alta formazione, Cultura e Beni Culturali” che si è svolto al Museo Archeologico in occasione dell’incontro sulle identità che si è svolto a Reggio Calabria al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, giovedì 3 ottobre alle ore 9. 30, promosso dell’Associazione ex Consiglieri Regionali della Calabria e poi pubblicato sulla rivista della stessa Associazione. Eravamo ancora lontani dall’esplosione della xenofobia antiimmigrati e anche dal successo elettorale della Lega e dei localismi al Sud e in Calabria. Proprio per questo mi sembra opportuno riproporre uno scritto datato, ma ancora attuale. Gli stereotipi e gli autostereotipi, le narrazioni “meditarreneiste” e retoriche, senza alcuna profondità storica e problematicità antropologica, sulla Calabria e su Sud purtroppo continuano a prosperare su fogli, riviste, giornali cartacei e on line.

Su queste tematiche mi sono diffusamente soffermato già a partire da inizio anni Novanta del secolo scorso. Per ulteriori riferimenti, approfondimenti e indicazioni bibliografiche mi sia consentito rinviare ai miei: La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale (Manifestolibri, 1993; n. ed. ampliata 2011) e Maledetto Sud (Einaudi, 2013).

 

 

Si ringrazia Salvatore Piermarini, autore delle foto, per la sua generosa disponibilità.

 

 

 

Economia criminale, riappropriazione delle terre e “altreconomia “ nel Mezzogiorno di Tonino Perna

Economia criminale, riappropriazione delle terre e “altreconomia “ nel Mezzogiorno di Tonino Perna

Vorrei partire da un evento : sabato 7 maggio 2016 a Reggio Calabria, storica capitale della più potente organizzazione criminale italiana- la ‘ndrangheta- è stata inaugurata una esposizione permanente, presso il Palacultura, dei 104 quadri sequestrati all’imprenditore “ndranghetista” Gioacchino Campolo. Si tratta di opere di grandi artisti : da Dalì a Fontana, da Sironi a De Chirico, da Ligabue a Carrà, ecc. per un valore di svariati milioni di euro. Potrà sembrare un fatto marginale, ma questa operazione fortemente voluta dall’assessore provinciale alla cultura Edoardo Lamberti e condivisa dalle altre istituzioni locali, ha un significato che va al di là della contingenza: una ricchezza privata, posseduta da una esponente della nuova borghesia mafiosa, viene espropriato e diventa un bene fruibile gratuitamente da tutta la collettività, un Bene Comune. Non basta. Nella stessa giornata, il direttore Umberto Postiglione dell’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata, ha consegnato al Comune di Reggio 21 immobili da utilizzare per finalità sociali, 19 unità immobiliare da destinare ad attività commerciali con i proventi dell’affitto da destinare a progetti nel campo sociale, 24 immobili da abitazione da destinare alle fasce sociali più svantaggiate.

Dovremmo riflettere attentamente sul valore sociale e politico di questi ed altri dati. Come si legge in un report di Pierpaolo Romani[1], presidente di Avviso Pubblico : dal 1982 ad oggi i beni immobili confiscati alle mafie superano le 23.000 unità e 3.500 sono le aziende confiscate. Al primo posto la Sicilia con oltre 5.000 beni immobili confiscati, seguita dalla Campania, Calabria, e Lombardia dove la penetrazione delle organizzazioni criminali sta crescendo a vista d’occhio. Sono complessivamente 12.480 i beni confiscati alle mafie e restituiti alla collettività: 11.604 beni immobili e 876 imprese. Palermo è il Comune con il maggior numero di beni confiscati (1.744), seguita da Reggio Calabria (386), Napoli(233) e Milano (217). Oltre la metà dei beni immobili è utilizzato per finalità sociali. Secondo Rosy Bindi, la presidente della Commissione Parlamentare antimafia, i beni confiscati alle mafie , o meglio alla borghesia mafiosa, valgono circa 25 miliardi al momento del sequestro ( poi per le lungaggini burocratiche perdono negli anni di valore per cui una stima credibile è difficile).

 

La deriva criminale del capitalismo

Sappiamo bene che il sistema di destinazione sociale di questi beni, grazie alla Legge 109/96 voluta da Libera che raccolse all’epoca un milione di firme, è ancora poco efficiente e farraginoso, ma quello che conta è la direzione. Stiamo andando, infatti, verso una redistribuzione della ricchezza che passa dalle mani della borghesia “mafiosa”, la nuova classe sociale emergente, a quella delle cooperative di giovani che coltivano le terre confiscate, a spazi pubblici , a servizi sociali, agli enti locali. Grazie al sacrificio del mai ricordato abbastanza Pio La Torre abbiamo in Italia una legge che colpisce al cuore l’accumulazione mafiosa del capitale. Una legislazione che ci stanno copiando tanti altri paesi che sono duramente colpiti dal dominio di questa nuova borghesia che usa i proventi dei mercati illegali per controllare in misura crescente l’economia e le istituzioni di paesi piccoli (come il Montenegro) e grandi (come il Messico).

La deriva criminale del capitalismo è ormai un fatto palese che viene ancora negato dall’ideologia del libero mercato, del pensiero unico che lo riduce al rango di devianza sociale. Non vorrei essere frainteso: non esiste un capitalismo buono ed uno criminale, ma esiste una linea di demarcazione tra imprenditori ed imprese che hanno dei vincoli sociali e etici e imprenditori/imprese che agiscono “liberamente”al solo scopo di massimizzare il profitto. Per esempio le imprese multinazionali che in Centro America hanno per decenni finanziato gli squadroni della morte per tenere sotto scacco i lavoratori che si organizzavano e si ribellavano, non sono per nulla diversi da quei mafiosi che ti fanno saltare il negozio se non gli paghi il “pizzo”. Ma, l’emergente borghesia mafiosa o criminale ha un suo specifico modo di operare: da una parte controlla il territorio dove è insediata, attraverso il suo braccio armato, dall’altra opera “legalmente” nel mercato capitalistico tradizionale investendo i proventi delle attività illegali. Questa nuova borghesia è l’unica classe sociale ad essere veramente glocal: è radicata nel proprio territorio, dove trova protezione e controlla/riproduce l’esercito criminale di riserva, ed allo stesso tempo agisce a livello internazionale, sia sul piano commerciale che finanziario. Ciò che contraddistingue questa nuova borghesia è la velocità con cui riesce ad accumulare il capitale attraverso gli extraprofitti generati dai mercati illegali (droghe, armi, rifiuti tossici, ecc.), paragonabile solo alle enormi fortune accumulate dai grandi speculatori di Borsa.   Ed è spesso proprio nelle Borse di tutto il mondo, oltre che nei paradisi fiscali, che l’accumulazione criminale del capitale trova il suo sbocco, oltre che nell’acquisto di case e terreni, di preziosi e di oro, di aziende grandi e piccole, in tutto il mondo. Non a caso abbiamo ormai un intreccio inestricabile tra borghesia finanziaria e borghesia mafiosa, veri padroni dell’economia mondo.

Come scriveva il grande Fernand Braudel in “Dinamica del capitalismo”[2] il vero motore di questo sistema, che va distinto dall’economia mercantile, è l’extraprofitto, il profitto eccezionale che si può ricavare in alcuni settori e fasi del ciclo economico.  Alti rischi ed alti profitti segnano il passaggio dall’economia di mercato (quella descritta da Marx con la sequenza Merce-Denaro-Merce) al mercato capitalistico in cui l’accumulazione di capitale è il fine assoluto (la sequenza diviene Denaro-Merce-Denaro). Questo modo di produzione era destinato, secondo Marx, ad una polarizzazione sociale crescente che avrebbe creato le condizioni per una rivoluzione ed un cambio di sistema. Questa polarizzazione la stiamo vivendo e subendo, è certificata anche dal famoso saggio di Piketty[3] sulle diseguaglianze patrimoniali crescenti, ma non ha finora generato quella reazione di massa, la rivoluzione di quella maggioranza della popolazione che viene sempre più impoverita.   Quello che Marx non poteva prevedere era che la componente criminale diventasse dominante e creasse una nuova contraddizione di classe. Non solo. Abbiamo scoperto in questi ultimi decenni che anche le forme dell’accumulazione originaria[4] non appartengono solo al passato, al periodo coloniale ed a quello delle inclosures (recinzioni delle terre ed espulsione dei contadini) , ma nelle aree periferiche esiste una via criminale al capitalismo che rappresenta un’altra forma di accumulazione originaria che crea quel capitale necessario per avviare un processo di sviluppo capitalistico.   Un processo sempre più violento e distruttivo proprio nelle aree dove l’inserimento nel mercato globale e nella mercificazione onnivora è stato più veloce.

 

 

Le alternative all’economia criminale

Direi di più: il carattere distruttivo del capitalismo maturo, ben documentato da Piero Bevilacqua nel “Il grande saccheggio”[5], non riguarda solo la sfera ambientale, la distruzione degli ecosistemi, ma anche quella sociale ed economica. E qui è entrata sulla scena della storia quella reazione sociale che Karl Polanyi definiva come “autodifesa della società”. Ed è proprio il nostro paese, in cui sono state poste le basi di questa autodifesa sociale, che dovremmo guardare con estrema attenzione. L’Italia, anche in questo caso, si presenta come un laboratorio politico di prima grandezza. Siamo stati il paese che ha inventato il fascismo come forma di governo (poi imitato da tanti), quello che ha avuto il più grande partito comunista d’occidente, il sindacato più forte e conflittuale (anni ’60 e ’70), e siamo anche il paese occidentale dove più rapida e violenta è stata la penetrazione dell’economia criminale, ma altrettanto forte è stata la risposta. Innanzitutto, nel Mezzogiorno.

Val la pena qui richiamare molto brevemente la condizione sociale ed economica del nostro Sud Italia in questi anni di Lunga Recessione. Come ci dicono tutti gli indicatori economici il Mezzogiorno ha subito un impatto dalla crisi che è stato mediamente il doppio di quello che si è riscontrato nel Centro-Nord : il 16% in meno di Pil rispetto all’8% del C-N, un tasso di disoccupazione che ha raggiunto l’apice del 24% contro l’11 % del C-N, una caduta degli investimenti di oltre il 50% contro una caduta nel C-N di circa il 24%, e via dicendo.[6] In questa situazione di forte impoverimento di ceti medi e popolari, la morsa della economia criminale è diventata insostenibile. In questo scenario va letta la reazione di una parte della società al predominio delle mafie. Una reazione che ha portato in breve tempo ad una intensificazione della lotta di classe in varie aree del Mezzogiorno tra le organizzazioni criminali e imprese locali, cooperative, imprese sociali, che hanno avuto dallo Stato la gestione di beni (terreni, case, aziende) confiscate alla borghesia mafiosa. Come in passato la lotta di classe nel Mezzogiorno vedeva da una parte gli agrari e dall’altra le masse contadine impoverite, così oggi abbiamo da una parte la nuova borghesia mafiosa – che controlla non solo una buona parte dell’economia locale, ma anche una parte importante delle istituzioni locali- e dall’altra imprese individuali, cooperative sociali, movimenti anti- mafia, che si oppongono con determinazione e coraggio.

 

 

Sono soprattutto le tre regioni a più forte presenza dell’economia criminale dove si registra da anni una vera e propria guerra a bassa intensità condotta dai mafiosi-‘ndranghetisti-camorristi a cui sono stati confiscati i beni accumulati con i proventi dell’economia criminale. Migliaia di alberi tagliati (di ulivo, kiwi, melograno, ecc.), di case e terreni dati alle fiamme, di bombe a negozi ed altri beni immobili. Da Sessa Aurunca, dove la cooperativa “Al di là dei sogni” subisce da anni attacchi continui a Progetto Sud a Lamezia, una straordinaria comunità animata da Don Giacomo Panizza che è impegnata da mezzo secolo nell’inclusione di soggetti svantaggiati , alla Coop. Valle del Marno nella piana di Gioia Tauro a cui sono arrivati a tagliare in una sola notte centinaia di ulivi secolari, alle cooperative agricole di Libera in Sicilia e Calabria(Crotone), alla cooperativa “Giovani in vita” di Cittanova, al Consorzio di cooperative Goel, noto ormai in tutta Italia, che negli ultimi tre anni ha subito più di dieci attentati, a Michele Luccisano, presidente di “Calabria Solidale” che ha mandato in galera gli usurai/mafiosi, a cui hanno fatto saltare in aria più volte l’azienda di produzione di olio di oliva, ecc. ecc. Abbiamo citato solo alcuni casi di un panorama ben più vasto[7]  che mette a dura prova queste esperienze, ma anche le rafforza perché crea intorno a queste cooperative o imprese sociali una rete robusta di solidarietà, base fondamentale di una “Altreconomia”.   Ed è questo un punto fondamentale.

Da diverse ricerche sul campo emerge che i beni e le aziende confiscate all’economia criminale hanno difficoltà a sopravvivere nell’agone del mercato capitalistico che tende a distruggerle in breve tempo, dimostrando che gli imprenditori mafiosi gestiscono le aziende meglio dello Stato e delle cooperative giovanili. I motivi sono diversi. Il primo è l’isolamento sociale di cui è vittima chi va a gestire un’azienda o terreno confiscato alla borghesia mafiosa.   L’impresa mafiosa è bene embebedd nel territorio in cui è localizzata, ha una rete di acquisti e di vendita che non è facile riprodurre o riprendere in mano. Il secondo motivo è che tutte queste esperienze sono per lo più portate avanti da giovani che non hanno capitali iniziali rilevanti da investire, hanno difficoltà di accesso al credito ordinario, sono quindi ricattabili sul prezzo di vendita dei loro prodotti da parte delle grandi imprese. Questo è per altro il vero problema di tutta l’agricoltura contadina in tutta Italia, ma riguarda anche altri settori. Il piccolo produttore è strangolato dai meccanismi del mercato oligopolistico (che Scalfari definirebbe mercato democratico) e solo una rete alternativa di vendita dei propri prodotti , come quella che si basa sui principi del “commercio equo e solidale”, può permettergli di vivere e lavorare con dignità. Per fare un esempio, chiaro e diretto, le arance che i piccoli produttori della piana di Gioia Tauro vendono alla Fanta (Nestlè) vengono pagate mediamente negli ultimi anni intorno agli 8 centesimi al Kg. I produttori locali per stare nel prezzo sfruttano bestialmente i migranti africani (per lo più nigeriani) pagandoli venti euro per dieci ore di lavoro (di cui cinque euro vanno al “caporale”che li recluta) e facendoli dormire e mangiare in condizioni disumane. Da questa condizione materiale sono nati i tristemente famosi “fatti di Rosarno” del Gennaio 2010[8] . Da questa stessa condizione è nata anche l’idea che fosse possibile dare dignità al lavoro dei braccianti attraverso la vendita diretta ai G.A.S. della Toscana, Lombardia, Piemonte, ed altre regioni del Centro-Nord.   Nasce così S.O.S. Rosarno, un consorzio di piccoli produttori che pagano regolarmente e registrano i migranti grazie al fatto che i G.A.S (Gruppi d’Acquisto Solidali) pagano le arance a 35-40 centesimi al chilo, pur facendoli pagare ai propri soci/acquirenti meno di quello che pagano al supermercato. Il Consorzio Goel che ha ormai una struttura di produzione e vendita significativa vive grazie a queste reti (GAS, Commercio equo, comunità) che garantiscono un prezzo socialmente sostenibile. Infine, non va dimenticato che sul piano del credito da oltre quindici anni interviene la Banca popolare Etica, che finanzia queste esperienze anche senza le garanzie richieste dal sistema creditizio tradizionale.

Da queste confische di beni/aziende può nascere un’Altreconomia, basata sui principi del fair trade e sulle reti dell’economia solidale. In poche parole: dalla putrefazione del capitalismo, di cui l’economia criminale è parte costituente, possono nascere i fiori di una nuova società più umana e vivibile.

 

[1] Vedi la rivista Altreconomia, numero di Aprile 2016 , ed. Altreconomia , Milano.

[2] Cfr. Fernand Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino ed. Bologna , 1981.

[3] Cfr. Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo , Bompiani ed. 2014

[4]   Come è noto Marx dedica un interio capitolo nel primo volume del Capitale all’analisi dell’accumulazione originaria.

[5] Cfr. Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio , Laterza ed, Roma-Bari, 2011.

[6] Per un approfondimento degli effetti economici e sociali della Lunga Recessione nel Mezzogiorno vedi T. Perna, Lo sviluppo insostenibile: la fine della Questione Meridionale e il futuro del Mezzogiorno, città del sole ed. 2016

[7] Vedi per esempio l’inchiesta di Angelo Mastrandrea sul quotidiano “il Manifesto” dell’8/7/2016.

[8] Per un approfondimento della filiera degli agrumi e dei “fatti di Rosarno”, vedi F. Mostaccio. La guerra delle arance, Rubettino ed. , Soveria Mannelli, 2012

La natura violata disvela beni comuni* Piero Bevilacqua

La natura violata disvela beni comuni* Piero Bevilacqua

La proprietà che esclude

La prospettiva fornita dall’analisi storica assume sempre di più una potenza dirompente nei confronti delle strutture del presente. Se il termine non fosse usurato , direi che essa è indispensabile per dare fondamento a una visione rivoluzionaria. Dove il termine rivoluzionario non ha il significato commerciale e di pronto uso della pubblicità o di qualche slogan effimero del ceto politico. Né coincide col vecchio e ristretto sinonimo di insurrezionale. Indica, piuttosto, lo sguardo   radicale, capace di mostrare il carattere di formazione storica delle strutture del dominio. Il presente che accettiamo come una realtà data e indiscutibile, quasi un dato di natura, è frutto di un processo storico, uno svolgimento nel tempo che ha solidificato rapporti di potere fra uomini e gruppi sociali rendendoli permanenti, trasformandoli in dati di partenza fondativi della vita sociale. E perciò accettati da tutti come   e imprescindibili e immodificabili. Una prospettiva storica, ad esempio, consente alla riflessione in corso sui beni comuni di mostrare la genealogia della proprietà privata, il processo violento della sua formazione,   le pratiche di sopraffazione attraverso cui si è affermata. Se sappiamo riandare con l’analisi alle origini di tale istituto fondamentale delle società capitalistiche , se comprendiamo il processo della sua formazione, constatiamo che esso perde l’aura di legittimità, quasi naturale e indiscutibile, con cui domina   e regola l’intero universo delle relazioni umane.

Il noto pamphlet di Ugo Mattei, pubblicato nella benemerita collana Idola di Laterza, Senza proprietà non c’è libertà”: falso,[1] ci ha offerto di recente questa opportunità, e merita di essere ripreso proprio perchè   ritorna sul tema della proprietà con una prospettiva storica di lungo periodo. Consente di guardare a tale istituto non come dato di fatto, ma come processo. Anche se il saggio di Mattei rafforza in chi lo legge la constatazione recriminatoria che del grande tema della proprietà privata, non solo in Italia, si occupano quasi solo i giuristi: pochi, eterodossi, coraggiosi studiosi del diritto[2].

Certo, è stato storicamente il diritto a fondare la proprietà privata, a trasformare un rapporto di forza e una appropriazione di ricchezza in una legge protetta dal potere dello stato. Sono stati i giuristi a dare forma normativa a un processo sociale che si è andato organizzando secondo gerarchie dettate dai rapporti di forza. E appare perciò naturale che al diritto spetti in primo luogo ritornare teoricamente   e storicamente sui propri passi. Ma non possiamo non osservare come la ricerca storica si tenga ben lontana da questo campo, cosi come la sociologia e le altre scienze sociali.

In tali ambiti la proprietà privata appare indiscutibile come il cielo azzurro o le neve bianca. Del pensiero economico, ovviamente, non è il caso di parlare. Diventata, nelle sue forme dominanti, una “tecnologia della crescita”, l’economia al potere ha cessato di pensare e si limita ad applicare dispositivi automatici finalizzati all’aumento del Prodotto Interno Lordo.[3] Deprimente prova della superficialità subalterna dei saperi sociali del nostro tempo, che non solo accettano un processo storico di appropriazione come un dato naturale e indiscutibile, ma operano per la sua perpetuazione ed espansione in più estesi domini della realtà.

Mattei rovescia la convinzione dominante secondo cui la proprietà privata fonda la libertà dei moderni, mostrando che essa nasce dalla privazione della libertà di molti ad opera di una èlite di pochi dominatori: << all’origine della proprietà sta il potere e a ogni potere corrisponde una soggezione, ossia qualcuno più debole che, non avendolo, lo subisce.Tanto più libero è il proprietario tanto meno lo è il non proprietario, sicché- anche sul piano logico – l’asservimento può essere affiancato alla proprietà esattamente quanto la libertà.>>[4] Ed egli conia un geniale sintagma, un’espressione da far diventare di uso comune, la <<proprietà privante>>, come termine che esprime l’altra faccia e la natura escludente della proprietà privata.

Com’è noto, il monumento storico-teorico cui si rifanno i critici della proprietà privata e tanti teorici dei beni comuni è il capitolo 24 del Primo libro del Capitale di Marx dedicato alla Cosiddetta accumulazione originaria.[5]Mattei lo riprende anche in questo testo, dopo averne trattato nel suo Manifesto sui beni comuni. [6]In effetti Marx, tramite una superba sintesi storica, disvela in una cinquantina di pagine finali del suo libro, l’insieme dei processi da cui nasce il moderno capitalismo nel paese in cui questo si afferma nel modo più completo. Dopo aver mostrato , tramite numerosi capitoli di analisi , che cosa esso effettivamente è, nella fabbrica e nella società britannica del suo tempo, come opera questo modo di produzione e come esso ristrutturi radicalmente la vecchia società preindustriale, Marx sente il bisogno di spiegare in che modo si è storicamente formato e affermato. Lo deve fare anche per sbaragliare le mitologie costruite sulle sue origini dagli economisti volgari del suo tempo, che anche allora, come oggi, abbondavano sulla scena pubblica.Il capitalismo, ricorda Marx, finisce col trionfare essenzialmente, grazie alla privazione dei mezzi di produzione della grande massa dei contadini inglesi(yeomen) da parte della piccola nobiltà. Ad essi viene sottratta, tramite forme varie di esproprio, il possesso della terra e la casa (cottage) venendo quindi posti in una condizione di totale illibertà, nell’impossibilità di decidere sulla propria vita. Privati dei mezzi con cui sino ad allora avevano vissuto, ad essi restavano due strade: il vagabondaggio nelle città del Regno o il lavoro nelle manifatture. Nel frattempo i vecchi e nuovi proprietari chiudevano le terre con recinti, anche quelle che erano state comuni (commons), e fondavano le aziende a salariati, cominciando con l’allevamento delle pecore merinos. I processi di espropriazione messi in atto dalla nobiltà cadetta con il movimento delle recinzioni (enclosures), a partire dal XVI secolo, non sono altro che la fondazione della proprietà privata dei pochi e l’esclusione e la perdita della libertà sostanziale dei molti. Si trattò di un processo sociale di aperta violenza, di una violenza sanguinaria descritta da Marx con impressionante ricchezza documentaria, benché distribuito in un processo secolare. Marx non a caso cita l’Utopia di Tommaso Moro, un testimone del XVI secolo, che mostra le scene miserevoli di carovane di famiglie espropriate, costrette ad abbandonare i loro villaggi e racconta, con surreale sarcasmo, dello strano << paese in cui le pecore mangiano gli uomini>>.[7] Com’è ormai noto a chi si occupa di tali questioni, questo vasto processo di confisca di terre pubbliche, ecclesiastiche e contadine, su cui si fonda la moderna azienda capitalistica, ha ricevuto una rilevante legittimazione teorica da uno dei fondatori del pensiero politico moderno, John Locke.

Nel Secondo trattato sul governo ( 1690) Locke afferma che << qualunque cosa l’uomo rimuova dallo stato in cui la natura l’ha lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende sua proprietà . Rimuovendola dallo stato comune in cui la natura l’ha posta, vi ha connesso con il suo lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini>>. [8] Immaginare nell’Inghilterra del XVII secolo un originario stato di natura, dove un solitario individuo, del tutto libero, si appropri di terre selvagge col proprio lavoro, costituisce una evidente costruzione ideologica, un racconto mitico, che serviva a legittimare il vasto movimento di espropriazione allora in corso nelle campagne. E naturalmente aveva un valore più generale soprattutto per dare dignità legale al saccheggio nelle colonie americane. Ma Locke segna una svolta rilevante nella formazione del pensiero moderno anche per un altro aspetto. Come ha osservato uno studioso tedesco, Hans Immler, in una vasta ricerca che meriterebbe una traduzione italiana, Natur in der ökonomischen Theorie, [9],Locke non solo fonda, con la sua teoria del valore-lavoro le basi giuridiche della <<proprietà privata pre-borghese>>, ma svaluta la natura << come selvaggia e sterile se è bene comune >> mentre stabilisce che è l’ << appropriazione privata che le dà valore>>[10]. La natura in sé è un bene inutile, solo il lavoro che se ne appropria, la trasforma in ricchezza. Una costruzione culturale che oggi, dopo diversi secoli di sfruttamento capitalistico, si corre il rischio di accettare come vera. Ma basta uno sguardo storico di lungo periodo per capire la sua sostanza di costrutto ideologico. In realtà, assi prima del XVII secolo, per i lunghi millenni precedenti, gli uomini sono sopravvissuti sulla terra e si sono moltiplicati in virtù della produzione spontanea della natura, delle sue abbondanti risorse, non prodotte da alcun lavoro: acqua, bacche, radici, frutta, animali.Per millenni il lavoro, così come già lo intendeva Locke – cioé come un processo di valorizzazione del “capitale” terra – non è mai esistito. Al suo posto, prima che nascesse l’agricoltura, c’era una pura e semplice attività umana di raccolta e di predazione delle risorse esistenti[11]

Come oggi ci appare evidente il saccheggio del mondo vivente, e i problemi ambientali che ne seguiranno, hanno qui la loro prima, sistematica legittimazione. Si potrebbe dire che Locke elabori i principi costituivi, la normazione teorica della predazione delle risorse naturali come processo di valorizzazione tramite un astratto e mitico lavoro umano.

Per la verità Marx – che ha uno sguardo meno eurocentrico di quanto normalmente gli si attribuisce – sa che il processo di formazione del capitalismo si svolge su scala globale, anche se ha il suo centro in Inghilterra. La proprietà privata non si fonda solo attraverso il movimento delle recinzioni e l’espulsione sistematica dei contadini dalle loro terre e da quelle comuni. L’esercito di proletari privi di risorse per vivere – e perciò necessitati a sopportare il pesante lavoro di fabbrica nell’Inghilterra del XVIII secolo – era nato anche in altro modo, per lo meno nelle colonie inglesi. Egli ricorda, ad esempio, nel capitolo di cui trattiamo, un processo oggi obliato di appropriazione privata non di terre e beni, ma addirittura di uomini, alla base della formazione del capitalismo. Grazie al trattato di pace di Utrecht con la Spagna, nel 1713, L’Inghilterra estese   lucrosamente il suo già avviato mercato di schiavi, prima praticato con l’Africa e i paesi delle Indie Occidentali. Da allora essa <<. ottenne il diritto di provvedere l’America spagnuola di 4.800 negri all’ anno, fino al 1743. In tal modo veniva anche coperto ufficialmente il contrabbando inglese. Liverpool è diventata una città grande sulla base della tratta degli schiavi che costituisce il suo metodo di accumulazione originaria >> [12]. Uno dei grandi centri urbani della rivoluzione industriale, orgoglio del capitalismo trionfante, era figlio anche di quel cristianissimo commercio con le Americhe che era la vendita di forza-lavoro in schiavitù. Giovani africani strappati ai loro villaggi e condannati a una breve vita di fatiche disumane. Il capitalismo di allora non disdegnava la “proprietà privata” degli uomini, venduti come prodotti coloniali nelle aziende schiavistiche del Sudamerica.

Ma Marx ci ha fornito anche altri strumenti analitici, non meno rilevanti di quelli affidati al celebre capitolo del Capitale. Anzi, sotto il profilo teorico essi appaiono oggi fondamentali per comprendere i meccanismi nascosti di autoriproduzione della ricchezza e delle forme asimmetriche della sua appropriazione. In alcuni passi dei Grundrisse egli ricorda non i processi storici del passato, ma i meccanismi profondi di formazione e di perpetuazione della proprietà sotto la forma moderna della produzione della ricchezza industriale.:<< la proprietà – il lavoro altrui, passato o oggettivato – si presenta come l’unica condizione per un ulteriore appropriazione di lavoro altrui>>.Vale a dire, per uscire dal linguaggio astratto ed “hegeliano” di Marx, le macchine, la fabbrica stessa, costruite da altri operai (lavoro altrui) non appartengono ai lavoratori, ma sono proprietà dell ‘imprenditore e si presentano agli operai stessi come la condizione obiettiva, naturale, che dà loro da vivere, tramite un ulteriore sfruttamento del loro lavoro. Il capitalismo non crea solo merci, ma riproduce e allarga i rapporti di produzione, ingigantisce cumulativamente le gerarchie di potere, rende la proprietà privata un dato di natura che si autoalimenta. << Il diritto di proprietà – continua Marx – si rovescia da una parte (quella del capitalista) nel diritto di appropriarsi del lavoro altrui, dall’altra (quella dell’operaio ) << nel dovere di rispettare il prodotto del proprio lavoro e il proprio lavoro stesso come valori che appartengono ad altri >>, cioé come proprietà privata del capitalista.[13] E’ questa asimmetria originaria di potere, su cui si fonda il rapporto capitalistico di produzione, a diffondere la proprietà privata come architettura generale della società. Essa, trasformandosi in denaro, fabbriche, palazzi, terre, centri commerciali, e dunque “cose” di un paesaggio “naturale” occulta costantemente il lavoro che li ha generati.Tale metamorfosi del lavoro trascorso trova poi la legittimazione del diritto e la difesa armata dello stato, presentandosi come una solidificazione geologica indiscutibile.

Ma occorre a questo punto una considerazione storica preliminare importante, decisiva per comprendere il successo storico del capitale. Occore infatti riconoscere che l’accettazione sociale del dominio proprietario – reso prima di tutto possibile dai rapporti asimmetric ie cumulativi tra detentori dei capitali e proletari, tra ricchi e poveri, dai nudi rapporti di forza tra queste due classi – è   risultata storicamente vittoriosa anche e forse soprattutto grazie al successo economico che essa ha conseguito rispetto ai modi di produzione precedenti. Benché una analisi storica sistematica non dovrebbe trascurare la forza di principio d’ordine sociale che la proprietà privata ha finito col rappresentare nelle società dell’Occidente, elemento di regolamentazione tra individui e classi e al tempo stesso presidio di stabilità. Una stabilità che l’elaborazione ideologica della cultura dominante ha saputo fare universalmente introiettare come esaltazione dell’interesse dei singoli individui.

Oggi dovrebbe apparire evidente che la vittoria del modello proprietario nella formazione delle società contemporanee è inscindibile dal successo produttivo del capitale. L’azienda capitalistica a salariati a un certo punto è risultata più efficiente delle singola piccola coltivazione contadina o della bottega artigiana. La piena disponibilità per il singolo capitalista di una massa di lavoratori formalmente liberi, messi al servizio di macchine sempre più efficienti, costretti per l’intera giornata a uno sforzo psicofisico sistematico, ha avuto come risultato una crescente produzione di ricchezza. La massa senza precedenti di beni che usciva dalla fabbrica capitalistica è diventata storicamente la giustificazione universale della legittimità di quella forma di appropriazione privata del lavoro altrui. Il successo generale sul piano strettamente produttivo conquistava ai capitalisti il plauso generale della società. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’assoggettamento al lavoro   della grande massa della popolazione , venivano nascosti dall’efficienza della macchina. Tanto più che la crescita della ricchezza generava altri ceti sociali esterni alla fabbrica, destinati a elaborare un nuovo immaginario , quello del progresso generale della società, che finiva coll’occultare il segreto motore dello sfruttamento operaio che ne costituiva il fondamento.

E’ qui da ricercare indubbiamente una delle basi dell’egemonia del capitale nell’epoca della sua affermazione e del suo trionfo sulla vecchia società, nel XIX secolo. L’elaborazione di un grande racconto di progresso dell’umanità, accompagnata dalle condizioni di libertà formale del lavoro, ha coperto la gigantesca privatizzazione del lavoro umano verificatesi nel corso dell’ età contemporanea.   E occorre aggiungere che i maggiori autori che hanno elaborato il racconto del progresso sono stati gli storici. Tutta, si può dire, la produzione storiografica sull’età contemporanea, anche quella di ispirazione marxista, è orientata dal teleologismo progressista. Nella narrazione della nostra epoca la freccia del tempo corre in maniera più o meno trionfante in una sola direzione: dall’arretratezza della società preindustriale ai fasti dell’odierna modernità.

Non a caso, la pagina di Marx sull’accumulazione originaria, in cui si racconta di un secolare processo di espropriazione, è stata trattata dagli storici come una premessa della cosiddetta   “rivoluzione agricola inglese”. E questo in ragione del fatto che, mentre i contadini venivano trasformati in salariati, la produzione agricola conosceva incrementi di produzione senza precedenti. Quegli storici, infatti, hanno esaltato i processi di liquidazione delle strutture feudali e hanno guardato come a un progresso generale l’avanzare del capitalismo nelle campagne.[14] Perfino un grande storico come Marc Bloch deplorava lo <<scandalo del compascuo>>, vale dire la disponibilità dei contadini di portare le proprie pecore nel fondo del barone dopo i raccolti.[15] La piena disponibilità della terra da parte del proprietario veniva infatti considerata come condizione per un suo più efficiente uso e i vecchi rapporti comunitari visti come un impaccio al pieno sviluppo delle forze produttive. Ma questo atteggiamento apologetico nei confronti dei vincitori – che sorregge tutta la storiografia   contemporanea – è figlia anche dell’ambivalenza di Marx, che deplora l’espropriazione dei contadini, ma ammira la borghesia rivoluzionaria impegnata a distruggere il vecchio mondo.Una ammirazione, tuttavia, legata alla visione teleologica delle creazione delle basi sociali di una rivoluzione prossima ventura, capace di liberare finalmente e per sempre il lavoro salariato. Marx esaltava la borghesia capitalistica perché il suo successo costituiva la base per un superiore assetto di uguaglianza e di libertà umana. Il fatto che questo non si sia realizzato ci rende oggi liberi da quel provvidenzialismo E’ ci dovrebbe consentire una visione storica nella quale il processo della modernizzazione   appaia sotto una luce diversa da quella sinora tracciata. Un nuovo racconto sia per quanto riguarda la sorte del lavoro, sia per ciò che concerne la natura, le risorse, gli equilibri degli ecosistemi, beni comuni dell’umanità, il cui saccheggio privato è stato tenuto nascosto dalla rappresentazione storica e dalla sua nascosta teleleogia.

 

La natura comune

 

Oggi, naturalmente, appare sommamente difficile, se non impossibile, scorgere nel paesaggio delle città contemporanee le tracce del lavoro che ne hanno edificato le strutture.I grattacieli, le fabbriche, i ponti e le strade, le banche, le abitazioni , le aziende agricole, i centri commerciali appaiono tutti frammenti di un paesaggio di cose, e dunque un principio di realtà indiscutibile in cui si svolge naturalmente la nostra vita. Non appare più possibile scorgere la privatizzazione del lavoro umano che le ha fatto sorgere. E mettere oggi in discussione la titolarità di questa ricchezza solidificata in forme di cose, trasformata in eredità storica, comporterebbe un tasso di violenza sociale inimmaginabile, e dunque politicamente non praticabile. D’altra parte, occorre riconoscere che la ricchezza generale prodotta dal capitalismo riscatta in parte le inique modalità storiche in cui essa è stata generata. Anche se tante, troppe generazioni di lavoratori non ne hanno goduto, le lotte operaie del XX secolo hanno reso possibile una sua ampia redistribuzione, che ha toccato i ceti popolari e vaste fasce di popolazione.

Ma oggi siamo entrati in una fase storica in cui il problema della proprietà e dei beni comuni acquista una nuova attualità, a causa di una duplice dinamica, sempre più dispiegata. Da una parte infatti, il capitalismo cerca sempre più di impossessarsi privatamente, a fini di profitto, di ambiti di realtà sinora inesplorate. Si pensi alle appropriazioni e brevettazione di piante e semi da parte delle aziende biotecnologiche negli ultimi anni.[16] Il mondo vivente è oggi un terreno di caccia in cui scovare nuove fonti di profitto. Ma è anche il caso di risorse vitali per la vita umana trasformate in merci preziose nel giro di qualche decennio. Si pensi all’acqua, oggi definito l’oro blu del nostro tempo.[17] Eppure allorché è sorto il pensiero politico moderno, quando è stata sistemata in un quadro coerente la società capitalistica al suo sorgere, l’acqua appariva priva di valore. Nella sua   Inquiry sulla Ricchezza delle nazioni, Adam Smith, poteva legittimamente affermare che <<Nulla è più utile dell’acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa, difficilmente ne può avere qualcosa in cambio. Un diamante, al contrario ha difficilmente qualche valore d’uso, ma in cambio di esso si può ottenere una grandissima quantità di altri beni>>.[18] Oggi la situazione appare quasi capovolta e una risorsa come l’acqua, inseparabile dal diritto degli individui alla sopravvivenza, appare carica di valore economico come mai in tutta la storia precedente. E diventa evidente che proprio il suo ingresso nel processo di valorizzazione del capitale, il suo divenire merce, mentre la strappa definitivamente dalla condizione di res nullius, cosa di nessuno, la   disvela agli occhi delle popolazioni come un bene comune drammaticamente scarso e perciò conteso. Siamo entrati, per dirla con le parole di uno storico americano dell’ambiente, James Moore, in una fase di << fine della natura a buon mercato>>.[19] Le risorse naturali, sempre più scarse per effetto della crescita della popolazione mondiale e dello sfruttamento sempre più vasto e sistematico, tendono ad   apparire sempre meno quali “fattori di produzione”, appartenenti a questo o a quel paese, a questa o a quella corporation privata, e sempre più quali fonti indispensabili per la sopravvivenza di tutti. La loro sempre più stringente necessità generale le restituisce all’ambito originario dei beni comuni.

L’altra dinamica, a questa indissolubilmente connessa, che fa emergere intorno a noi un paesaggio di beni comuni prima nascosto è il processo ormai dispiegato di squilibri   ambientali che colpisce non solo isolate realtà, ma l’intero pianeta. Di giorno in giorno appare sempre più evidente che la natura non sopporta un utilizzo   privato e distruttivo delle sue risorse, non regge più il saccheggio a cui il capitalismo la sottopone in forme crescenti da almeno tre secoli. Ma la specifica novità del nostro tempo è che la natura tende ad apparire sotto gli effetti squilibranti dell’azione umana, sempre meno divisibile in singole risorse sfruttabili: l’acqua, la terra, l’aria, le piante, ecc. Essa sempre più appare come una totalità indivisibile e intimamente connessa, e sempre di più, dunque, come un common globale.

Guardiamo quel che ormai da tempo avviene intorno a noi, nelle nostre città. Noi oggi scopriamo   quello che sino a qualche decennio fa non eravamo quasi capaci di scorgere: il legame sistemico tra il cielo e la città. Siamo costretti a misurare   la qualità dell’aria che in essa si respira, e a prendere atto della   sua manipolazione, insieme privata e collettiva, a scopi produttivi e di varia altra natura. Il sorgere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allarmante negli ultimi decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale irrinunciabile, un elemento naturale   da tutti ignorato per millenni in quanto illimitato e relativamente integro. L’aria oggi è diventato un common. Noi tutti respiriamo l’aria che ci circonda senza pensare ai nostri polmoni, ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la nostra vita, e certamente senza chiederci a chi giuridicamente appartiene. Ma l’apparire della scarsità di questa risorsa, la sua violazione e alterazione (che corrisponde a una appropriazione privata dei singoli) la fa emergere quale elemento naturale che rende possibile l’esistenza di tutti , illumina il suo carattere di bene collettivo e indivisibile.

Sono non pochi gli ambiti in cui le alterazioni ambientali disvelano il   carattere nascosto di bene comune delle risorse naturali, per via della loro indispensabilità alla vita di tutti. Si pensi alla terra fertile, alla stabilità del territorio, alla biodiversità naturale, ecc.[20] Oggi noi scopriamo, in maniera specificamente significativa in Italia, che il territorio delle nostre città e delle loro periferie non può più essere edificato e manomesso secondo gli interessi privati dei singoli. La sua integrità non può più essere subordinata alla piena disponibilità di chi vanta la proprietà privata di un suo singolo frammento. Oggi sappiamo, con maggiore pienezza e con più ricca esperienza di qualche anno fa, che costruire, cementificare, sottrarre aree di verde all’ecosistema territorio finisce col produrre danni generali che investono l’intera comunità. Ogni frammento di verde sottratto al territorio di una qualche zona corrisponde alla perdita di una “spugna” capace di assorbire l’acqua piovana durante le grandi piogge, rappresenta una diminuzione dell’effetto di contenimento delle polveri sottili prodotte dalle attività urbane, accresce l’instabilità del suolo e degli abitati, altera il microclima del luogo perché sostituisce natura vivente (erbe, alberi) con materia inerte che assorbe e genera calore. Ma in generale, costruire un edificio in un qualunque luogo di un paese intensamente antropizzato comporta l’alterazione evidente di interessi generali, a fronte dei quali la proprietà privata di un singolo pezzo di territorio appare sempre più priva di diritti individuali da rivendicare.

Infine, il clima, altro common finora nascosto. Lo scenario climatico che le conoscenze scientifiche del nostro tempo hanno squadernato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame sistemico tra la città, i suoi attori naturali, e il più vasto spazio planetario. Le città ci fanno sperimentare la nuova mondialità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente quali punti interconnessi di una rete a scala globale. Com’è largamente noto, è lo smog cittadino, sono gli scarichi urbani e i fumi industriali per produzioni destinate alle città a determinare una percentuale rilevante di immissione di gas serra nell’atmosfera.Tutte le città del mondo, centri energivori di varie dimensioni e potenza, consumano in maniera crescente petrolio e carbone, alterando il clima atmosferico, surriscaldando il nostro comune tetto di abitanti della Terra. Il riscaldamento globale, potremmo dire, senza forzare molto le cose, è figlio del metabolismo urbano.[21] E dunque se le attività produttive e il movimento dei singoli oggi arrivano ad intaccare gli equilibri di ciò che appariva, sino a pochi decenni fa, così incommensurabilmente lontano – l’atmosfera – un nuovo e più vasto common appare davanti a noi , destinato a condizionare la proprietà privata di tutti e il suo libero uso. Essa non più essere considerata ciò che finora è stata, la discarica res nullius dove ognuno poteva gettare i propri fumi e veleni.Il suo diventare il tetto comune dell’umanità è destinato a cambiare molte cose nella storia a venire delle nostre società.

 

*Pubblicato su << Glocale>> Rivista molisana di storia e studi sociali, Gennaio 2015

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[1]Laterza, Roma-Bari

[2] Si vedano alcuni esempi in P. Grossi, Un altro modo di possedere.L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè Milano, 1977;S. Rodotà, Il terribile diritto.Studi sulla proprietà privata, il Mulino Bologna, 1981( e varie edizioni successive); P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli Roma 2014,

[3]P.Bevilacqua, Saperi umanistici e saperi scientifici per ripensare il mondo, in P.Bevilacqua ( a cura di) A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità, Donzelli, Roma 2011,p.10 e ss.

[4]Mattei, Senza proprietà non c’è libertà,cit.

[5]K.Marx, Il Capitale , Libro primo.Traduzione di D.Cntimori.Introduzzione di M. Dobb , Editori Riuniti, Roma 1967,     pp.777-836

[6]U.Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Leterza, Roma-Bari 2011. Ma si veda anche, con più attenzione agli aspetti ambientali dell’appropriazione G.Ricoveri, Beni comuni vs. merci, Jaca Book, Milano 2010. E, per un approccio pluridisciplinare, P. Cacciari (a cura di), La societàdei beni comuni, Carta, 2010.

[7]Marx, Il capitale, I, cit.p.783

[8]J.Locke, Il secondo trattato sul governo,introduzione di T.Magri,traduzione di A.Gialluca, BUR Milano, 1998,p. 97

[9]H.Immler, Natur in der ökonomischen Theorie, vol. I,Vorklassik-Klassik-Marx, vol. II, Phisiocratic-Herrschaft der Natur,Westedeutscher Verlag, Opladen ,1985, pp. 79-87

[10]Ibidem, p.87

[11]La tendenza ad applicare le categorie dell’economia politica anche alle più remote fasi dell’umanità, a valutare il valore della natura secondo i criteri dell’economia di mercato, è stata a lungo molto diffusa. Cfr. P. Bevilacqua, Demetra e Clio.Uomini e ambiente nella storia,Donzelli ,Roma 2001, pp. 4-6 e p, 85 e ss.

 

[12] Marx, Il Capitale, cit. p.822

[13]K.Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,presentazione, traduzione e note di E.Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1970,vol.II, p. 78

[14]Ma è stato provato che la “rivoluzione agronomica” in Inghilterra, vale a dire l’associazione di cereali e leguminose con conseguente aumento delle rese produttive, era stata già praticata dai contadini sin dal XV secolo ( R.C.Allen, Le due rivoluzioni agrarie, 1450-!850, << Rivista di storia economica>>, 1989,n. 3

[15]M.Bloch, I caratteri originali della storia rurale francese, Einaudi Torino 1873

[16]   Si veda, per il processo di globalizzazione come appropriazione privata – entro una letteratura sempre più estesa- V. Shiva, Il bene comune della terra, Feltrinelli Milano,2006. Sull’appropriazione scientifica del vivente,

C.fr. M.Cini, La scienza nell’era dell’economia della conoscenza;G.Tamino, Il riduzionismo biologico tra tecnica e ideologia; E.Gagliasso Luoni, Riduzionismi:il metodo e i valori, in C.Modonesi, S.Masini,I.Verga. Il gene invadente:Riduzionismo, brevettabilità e governance dell’innovazione biotech, introduzione di M.Capanna, Baldini Castoldi Dalai ., Milano 2006; Sulle imprese biotech , M. De Carolis,La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino 2004

[17]M.Barlow e T.Clarke, La battaglia contro il furto mondiale dell’acqua:come non esserne complici, Arianna Editrice, Bologna, 2009

[18]A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano 1997, I, p. 17

[19]J.Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato. Introduzione e cura di Gennaro Avallone, Ombre corte, Verona 2015.Sul rapporto tra capitalismo e risorse della terra, sotto il profilo teorico, J.Bellamy Foster,B.Clark,R. York, The ecological rift.Capitalism war on the earth.Monthly Review Press, New York, 2010.

[20]Su quest’ultimo aspetto cfr. C.Modenesi e G. Tamino( a cura di ) Bio diversità e beni comuni,introduzione di M. Capanna, Jaca Book, Milano 2010.

[21]Sul riscaldamento globale che gode ormai di una bibliografia sconfinata, cfr essenzialmente V.Ferrara e A.Farruggia, Clima istruzioni per l’uso.I fenomeni, gli effetti,le strategie, Edizioni ambiente , Milano 2007; N.H.Stern, The economics of climate change: the Stern review, Cambridge University Press, Cambridge 2007. Per dati più aggiornati si possono consultare in rete i rapporti periodici dell’Intergovernamental Panel on Climate Change ( IPCC)

Demolizioni antistoriche a Catanzaro Di Maria Adele Teti*

Demolizioni antistoriche a Catanzaro Di Maria Adele Teti*

Venerdi 23 marzo il sindaco ha convocato alcuni rappresentati delle forze sociali e culturali della città per esporre il programma relativo ai finaziamenti Por 2013-2020 relativo all’Agenda Urbana della città, la prima ad essere presentata alla Regione . Come rappresentante di Italia Nostra sezione di Catanzaro ho apprezzato il progetto proposto dal Sindaco Abramo soprattutto per quanto riguarda la necessità di intervenire nel centro storico. Dalla lettura del documento si evince la complessità del progetto, sviluppato in un quadro esaustivo che, speriamo possa essere attuato nelle ipotesi di fondo: speriamo, in definitiva, che quadri analitici possano poi generare progetti reali e non diventino libri di sogni come molti progetti regionali e comunali elaborati in questi anni..

Periferie, mobilità sostenibile, energia, acquedotto, istruzione, social hausing, sostegno al disagio abitativo e molto altro, compone il quadro degli investimenti che dovrebbe essere attuato tramite consistenti risorse finanziarie (circa 35 milioni oltre ai finanziamenti in atto nei vari canali attivati da precedenti finanziamenti di cui non si conosce la consistenza effettiva). Per quanto riguarda il centro storico. che nell’ambito dell’Agenda Urbana occupa un posto privilegiato, devo ammettere che, finalmente, si è preso visione dei problemi presenti e si propongono azioni volte al superamento dell’attuale propensione allo spopolamento e al depauperamento del patrimonio edilizio ed economico di questa parte di città.

Si deve tuttavia porre attenzione su alcune ipotesi d’intervento, destinate a catalizzare l’attenzione delle Associazioni e cittadini nel prossimo futuro e cioè di affidare la “rigenerazione “ essenzialmente a nuove costruzioni da realizzare tramite demolizioni di alcuni manufatti storici, quali l’ospedale vecchio ex Convento di S. Agostino e la scuola Maddalena anch’esso Convento delle Donne entrambi costruiti nel corso del XVI sec.; si prevede inoltre la ricostruzione dell’area Serravalle con un nuovo fabbricato. Tutto ciò rappresentano ferite al tessuto storico della città già ampiamente mortificato da demolizioni e sostituzione improprie che hanno contribuito ad alterare l’assetto complessivo.

L’ex convento Sant’Agostino

In seguito al mio intervento, in sede di presentazione dell’Agenda, che mirava a far presente l’antistoricità di interventi di demolizione nei centri storici il sindaco ha sostenuto che il restauro costa più di una nuova costruzione, ma ciò è vero solo parzialmente se si tiene conto dei costi di demolizioni e smaltimento dei materiali di risulta che fanno levitare i costi complessivi di costruzione dei nuovi edifici. Comunque si contesta il metodo che vede i “costi” come unico parametro di valutazione rispetto al progetto complessivo che si pone come intervento di Rigenerazione Urbana e quindi volto al recupero dell’identità urbana già ampiamente mortificata. Per quanto attiene il progetto di attuare edilizia sociale (social hausing) nel patrimonio pubblico comunale e nel patrimonio privato abbandonato da acquisire da parte del comune a favore di giovani coppie, anziani, immigrati ecc al fine di attenuare il disaggo abitativo di queste categorie, si plaude a questo progetto, più volte auspicato da Italia Nostra, da considerare l’unico in grado di rivitalizzare il centro storico urbano,

Per attuare questo progetto di individuerà un “Agenzia” in grado di realizzare, per conto del comune il progetto di rigenerazione urbana. Sicuramente questo progetto è il più delicato tra tutti in quanto se il parametro costi e benefici sarà prioritario si potrà assistere alla compromissione di tutto il centro storico, con sopraelevazioni e interventi impropri in grado di alterare i valori ambientali diffusi di cui non sempre si ha contezza, visto che trattasi di edilizia minore – di tessuto connettivo -ma indispensabile a garantire la sopravvivenza del centro.storico inquanto tale.

Visto la mancanza di una legge regionale sui criteri da perseguire nella rigenerazione dei centri storici, ad esempio come quella approvata in Puglia ormai da molti anni, sarà necessario mettere a punto un decalogo e un “manuale di buone pratiche” alfine di evitare interventi impropri. Più volte, infatti, alcuni esponenti di costruttori e di associazioni costruttori hanno sottolineato, in convegni e riunioni, la necessità di demolire, sopraelevare, aumentare i volumi per rendere remunerativi gli interventi nel centro storico. Bisognerà dunque capire cosa si farà e analizzare i progetti attentamente senza delegare a scatola chiusa interventi che potrebbero giocare contro la rigenerazione effettiva del centro storico. Infine altri progetti preoccupano e non poco ; la localizzazione di un nuovo ospedale, l’area Giovino che cresce senza piano complessivo, Germaneto nell’assetto complessivo ed infine il progetto di consumo di suolo zero: ma quest’ultimo giustissinmo progetto sarà in grado di bloccare le moltissime nuove costruzioni autorizzate dalla Commissione urbanistica che ormai punteggiano e stanno compromettendo tutto il territorio di Catanzaro?.

*presidente Italia Nostra sezione di Catanzaro

La cicala e la formica di Piero Bevilacqua

La cicala e la formica di Piero Bevilacqua

Nata per scongiurare i nazionalismi che avevano devastato il Vecchio Continente e il mondo nella prima metà del ‘900, l’UE ritorna sui suoi passi. Torna ad alimentarli con rinnovato vigore. E lo fa per iniziativa del paese che avviò, ogni volta, la carneficina: la Germania. Oggi il nuovo nazionalismo egemonico tedesco possiede tutti i presupposti per durare ed espandersi. L’Unione tutte le condizioni materiali e politiche per disintegrarsi. Come tutti i vedenti han potuto osservare, la vicenda greca l’ha mostrato in maniera esemplare. Alla base dell’egoismo nazionalistico tedesco, ben orchestrata dai media, opera infatti una narrazione ideologica potente: la leggenda che la Germania, seria e laboriosa, stia a svenarsi per sostenere una vasta platea di popoli debosciati. Sappiamo che l’opinione pubblica tedesca è una delle più colte, se non la più colta, d’Europa. Ma nella patria di Lutero il messaggio di una nazione del Nord, laboriosa e risparmiatrice, che si contrappone ai popoli del Sud, oziosi e dissipatori ha una capacità di presa difficilmente resistibile. Tanto più che in soccorso di tale convinzione viene una serie di stereotipi lunga diversi decenni, una Grande Retorica, che divide il Nord ed il Sud in due sfere separate dello spirito umano. E a rendere materia di senso comune tale divisione contribuisce anche il linguaggio popolare, che separa i popoli in cicale e formiche. Antica metafora del regno animale nobilitata dalla letteratura del mondo classico.Chi non conosce la favola di Esopo, tradotta da Fedro nel suo elegante e musicale latino? << Olim cicada in frondosa silva canebat/ laboriosa formica autem assidue laborabat>>. Non è necessario tradurre. Ora, questa favola, comprensibile in un’epoca che doveva ancora costruire la sua etica del lavoro, si fonda su una serie interessante di errate conoscenze. E soprattutto condensa oggi la metafora di un capitalismo che ha smarrito ogni senso e progetto e corre verso la propria autodistruzione. Già a suo tempo Gianni Rodari, poeta di genio, non aveva ceduto all’autorità degli antichi:<< Chiedo scusa alla favola antica/se non mi piace l’avara formica./Io sto dalla parte della cicala/che il più bel canto non vende, regala.>> Ma oggi noi possiamo aggiungere che la favola non è più proponibile innanzi tutto sul piano biologico. Le operose formiche, e soprattutto le operaie e i maschi fecondatori, vivono pochi mesi. Le cicale hanno un ciclo più complesso e possono vivere 4-5 anni, nel terreno, allo stato di larve, prima di mettere le ali. La cicala nord americana – ci informano gli entomologi – può superare i 15 anni di vita. Anni passati sugli alberi, non a raccattare cibo da accumulare nelle tane come accade alle formiche. I maschi e le operaie, i lavoratori alla base della piramide del formicaio, non godono gran che dei beni accumulati durante i lavori dell’estate. Proprio come tanti operai poveri delle società avanzate di oggi. Tanto lavoro, poco reddito. D’inverno, in genere, muoiono. Occorre aggiungere che le formiche, impegnate tutto il tempo della loro breve esistenza in lavori faticosissimi, sono inquadrate in una società gerarchica e castale, una caserma piena di soldati, sempre alla ricerca di beni e di prede, una monarchia assoluta in cui comanda una dispotica regina. Le cicale, all’ombra di ulivi o di pini – i loro alberi preferiti – riempiono del loro incanto il cielo dell’estate, per il puro piacere del cantare, senza alcuna finalità utilitaria. Offrono gratuitamente, a tutti gli altri viventi e perfino agli uomini, il dono della loro musica che nasce da luoghi invisibili, fanno sentire anche noi partecipi, se sappiamo ascoltare, della misteriosa ventura che è la vita sulla Terra. Perché dovremmo preferire la formica alla cicala? Il senso della favola antica va rovesciato. Il male non tanto oscuro del capitalismo dei nostri anni è che esso vuole imporre a tutte le società il modello sociale del formicaio, quando abbiamo risorse per vivere, tutti, da cicale. Il modello di vita più avanzato, carico di futuro, è quello di questo insetto cantore, che lavora sempre meno, è libero di esercitare i suoi talenti creativi, non è divorato dalla febbre usuraia dell’accumulazione e del risparmio. Queste virtù del capitalismo delle origini, così ben interpretate dall’ordoliberismo tedesco, sono adatte per una società che guarda al passato, ancora prigioniera di paure di un mondo di scarsità che non c’è più, che non ha più nulla di affascinante da proporre alle generazioni venture.

Catanzaro, una città dimezzata di Maria Adele Teti

Catanzaro, una città dimezzata di Maria Adele Teti

Indignazione, irritazione, sconcerto,  queste le razioni prevalenti dei cittadini di Catanzaro alla notizia degli scandali che hanno investito di recente  alcuni amministratori comunali: corruzione ai danni  del territorio, con il contorno di intercettazioni telefoniche a sfondo sessuale ed escort di turno. Il sindaco  di centrodestra, che amministra la città da più mandati, nel commentare l’accaduto, in una nota trasmissione televisiva, si è indignato di tanto scalpore da parte dell’opinione pubblica, visto che “i giornali sono pieni di questi fatti”. Si parla di una piccola città del sud (86.000 abitanti) che, a causa  di una dissennata politica comunale,  va perdendo popolazione  e funzioni  oltre alla   struttura originaria,  arroccata su tre colli, senza assumere nuovi assetti insediativi rispondenti alle funzioni di capoluogo regionale. In realtà, un capoluogo contrastato e dimezzato, visto che la sede del Consiglio regionale è a Reggio Calabria. Una storia  che si delinea chiaramente all’indomani dei noti fatti “del boia chi molla” di Reggio Calabria, la quale ha avviato nelle polemiche, la nascita dell’ente regionale nel 1972 e la designazione del capoluogo regionale.  Una indeterminatezza che si è protratta negli anni, quella del capoluogo regionale,  originata da fatti storici ben precisi, risalenti almeno all’ antica  partizione amministrativa borbonica che, dopo la Restaurazione, sancisce la divisione in tre provincie. “Le Calabrie” – come ancora oggi, talora, viene indicata la regione –  sono  caratterizzate  da dialetti, usi e costumi  ben differenziati e da un assetto insediativo composto da centri di contenute dimensioni,  che ben rispecchiano la debolezza economica e territoriale nel suo complesso. Le città maggiori, di modesta  taglia demografica, hanno pertanto sviluppato funzioni  amministrative di base,  senza tuttavia consolidare servizi del terziario avanzato, propri delle città di rango superiore. Catanzaro vantava un tempo una preminenza nel campo militare e, soprattutto,  giudiziario, per la presenza della Corte d’Appello: una prerogativa che aveva fatto sì che si sviluppasse una società fortemente rappresentata dal ceto forense e giudiziario, che ha alimentato, fino agli anni ’70, la cultura locale.  Questa presunta supremazia, tuttavia, non è stata sufficiente ad arginare una deriva sociale e culturale dovuta, tra le altre concause, all’ingresso in scena di un nuovo ceto politico provinciale, desideroso di potere e alle nuove lobby politico-amministrative. In assenza di una moderna borghesia produttiva, si fanno strada gruppi che vedono nel territorio e nelle sua edificabilità, la via rapida e  più agevole dell’arricchimento personale e del controllo politico. Nella fase del boom economico, anni ’60 e ’80, Catanzaro si espande  fuori il perimetro storico e dilaga nel territorio circostante. Il PRG allora vigente, redatto da Plinio Marconi, approvato prima del  decreto ministeriale relativo alla dotazione di standards edilizi (DM 1444/’68),   va  consolidando una città priva di servizi,  che si sviluppa per nuclei  sparsi verso le colline piuttosto che verso il mare: proiezione  meccanica degli interessi immobiliari consolidati sul territorio. Sulle pendici collinari, geologicamente instabili, si  sviluppano “palazzi” a elevate densità edilizie, che snaturano il sito originario e le aree poste a corona del centro storico. Il profilo storico della città viene letteralmente sfigurato.  Negli anni ’70,  il  piano regolatore generale, redatto da Marcello Vittorini, tenta di dare un ordine al territorio e a delineare un nuovo centro direzionale a sud della città, con l’intento di porre le condizioni di una maggiore apertura verso il mare, verso i comuni limitrofi e Lamezia Terme. Ma la difficoltà di ricomporre i nuovi interessi pongono serie ipoteche sul nuovo Piano che non verrà approvato. In seguito, i ricorsi al Tar, prese di posizione  di gruppi politici,  rendono sempre più difficile,  anche quando la città si doterà di nuovi Piani urbanistici,  porre  regole  minime di governo dell’ habitat urbano .   Intanto il territorio si depaupera  e si sviluppa secondo procedure  e regole  tipiche di tante città meridionali, dove pochi gruppi  politico-imprenditoriali,  mossi dalla ricerca del guadagno immediato, dettano le regole  dello sviluppo. Il tessuto produttivo si va progressivamente assottigliando, soprattutto nel settore primario e turistico-balneare –  che avevano avuto un ruolo non secondario nell’economia della città – in favore del settore terziario-amministrativo, legato alla spesa pubblica. Tra le varie vicende, che hanno caratterizzato la vita cittadina è utile dunque approfondire tre punti, in grado di delineare   meglio l’attuale fase storica: la localizzazione della Giunta regionale e dell’Università, la perdita della forma urbana e le periferie, il declino del centro storico.

Tra i tanti problemi presenti oggi nella città di Catanzaro, son da porre al centro  le carenze strutturali e la difficile accessibilità territoriale, che hanno determinato a lungo una scarsa mobilità  di uomini e merci. Un problema vitale per la città,  situata a circa trenta chilometri dai maggiori nodi infrastrutturali della Calabria centrale, dall’autostrada e dall’aeroporto. I dati Svimez  collocano Catanzaro tra quei centri  medio/piccoli  che si trovano al primo stadio di sviluppo, di agglomerazione intorno al nucleo originario, caratterizzata da contenuti processi di suburbanizzazione esterni all’area comunale. La localizzazione della Giunta regionale  e dell’Università,  del mercato agro-alimentare, della nuova stazione ferroviaria e altre attrezzature produttive, realizzate o in corso di realizzazione nella valle del Corace, sita ad ovest della città consolidata, impongono una  revisione dell’intero sistema urbano e della mobilità.  Questa scelta localizzativa, che prende corpo negli anni ’90, in seguito agli interessi di una nuova classe politica desiderosa di guadagno su aree ancora agricole, ha manifestato, nel corso dell’ultimo ventennio, non poche difficoltà nella sua realizzazione: sia a causa della  mancanza di una visione sovra comunale da parte dei governi cittadini, sia per i freni   posti  dai  privati, che volevano continuare a lucrare sui numerosi immobili affittati all’Ente Regione. Il “partito degli affitti”, come è stato denominato, e più in generale l’insieme dei soggetti che intercettano le maggiori occasioni economiche e finanziarie, costituito in parte da politici  legati  ai mandati regionali (e, spesso, contestualmente, a quelli comunali o provinciali), e da settori delle professioni, hanno formato un blocco sociale  che  ha depotenziato  la città e  posto pesanti ipoteche sull’azione  regionale nel suo complesso.

Le problematiche più rilevanti sono, tuttavia quelle attinenti alla città consolidata,  delle periferie urbane che si sviluppano, attraverso aggregazioni demografiche e insediative sparse,  nelle tre vallate  (Fiumarella,  asse storico, nord-sud,  Castace ad est, Corace ad ovest): strutture che caratterizzano fortemente la morfologia urbana, e  costituiscono i temi centrali d’intervento, assieme alla salvaguardia del paesaggio e delle consistenti aree agricole,  fortemente interconnesse con l’edificato. Il disordine urbanistico e la mancanza di un disegno di città coerente, assieme alle recenti realizzazioni di una moltitudine di centri commerciali disseminati da nord a sud, è da considerarsi elemento da cui partire per ricomporre un tessuto urbano  e ridisegnare la città.  Catanzaro Lido, che chiude verso il mare la vallata della Fiumarella, da modesto villaggio di pescatori, nel secondo dopoguerra, si è lentamente trasformata in un ambito urbano in gran parte autosufficiente, aggredito dalla speculazione: mentre  il mare,  avvicinato  minacciosamente all’abitato  e dalla contemporanea azione  azione erosiva del moto ondoso,  ha cancellato gran parte  dell’arenile.  Oggi le attenzioni speculative si attestano su Giovino,  un ambito territoriale litoraneo ancora in parte integro, oggetto delle recenti indagini della magistratura,   che rappresenta l‘ultima possibilità di valorizzazione del waterfront cittadino.

Il settore urbano più problematico è tuttavia  il centro storico  il quale, benché  degradato  e alterato da demolizioni e ricostruzioni  incompatibili con il tessuto storico, è da ritenersi la struttura  significante della città. Il nucleo storico, si  va spopolando perché depotenziato dal trasferimento delle attività terziarie, di difficile accesso perché privo di aree di parcheggio e di un efficiente sistema di mobilità urbana e perché assediato da centri commerciali che hanno marginalizzato il tessuto commerciale esistente.  La ristrettezza della trama viaria, la modestia delle strutture edilizie  e la scarsa cura  degli immobili e delle cose, le consistenti demolizioni e le perniciose ricostruzioni, fanno temere per la sua sopravvivenza.  Malgrado ciò, quel che rimane del centro storico, oggetto, ancora oggi, di nuovi progetti  di ricostruzione e  trasformazione incompatibili col tessuto storico esistente, che insistono sull’asse centrale, il corso Mazzini, è la parte che merita di essere salvata dell’intera città. Un aggregato cresciuto senza nessun ordine e piano,  che divora  e stringe la  campagna, sopravvissuta in forma di relitto, in un continuum urbanizzato,  di cui non si identificano i margini.

                 

La città futura tra concentrazione e dispersione urbana. Il centro è periferia di Maria Adele Teti

La città futura tra concentrazione e dispersione urbana. Il centro è periferia di Maria Adele Teti

La parte di città che tradizionalmente riconosciamo come “storica”, si identifica non solo nel nucleo storico, ma nel complesso prodotto della sua evoluzione, che l’ha resa di volta in volta contemporanea ai suoi abitanti.

Questa capacità di trasformazione delle strutture richiede un continuo aggiornamento di significato dei contesti urbani e dei nuovi valori che essi esprimono.

I centri storici, mediterranei e europei, in particolare, costituiscono luoghi dove la contrapposizione storica tra identità culturale, sociale ed economica si è sedimentata in forme urbane complesse, la cui dinamica formativa si è evoluta nel tempo.

L’assetto della città storica contemporanea si configura, pertanto, come la risultante di molteplici modelli di crescita, sotto il profilo demografico, architettonico e urbanistico; se osservato attraverso l’apparato concettuale classico e le lenti fornite da concetti come popolazione, città/campagna e centro/periferia, la struttura di questo organismo urbano sfugge alla comprensione, malgrado mantenga alcuni caratteri di riconoscibilità.

D’altra parte, se lo sviluppo industriale del XVIII secolo ha ridefinito gli spazi della città in unità funzionali separate (lo zoning), l’economia della conoscenza ha trasformato la città in un magnete che attira risorse composite dalle aree circostanti, mettendo così in questione la concezione monolitica che perfettamente si adattava alla società industriale passata.

La città storica, sotto la spinta di nuove mutazioni, funzionali e dimensionali, si è dilatata, mentre la politica tradizionale, fondata sull’identificazione del perimetro storico, si dimostra sempre più insufficiente ad affrontare i problemi più generali della sostenibilità, dalle nuove economie e da quelli posti dalla “nuova architettura”.

Guardando al panorama internazionale possiamo dire che solo in pochi casi le amministrazioni locali sono state in grado di mantenere un equilibrio tra sviluppo e salvaguardia dei valori storico-culturali e del paesaggio.

Poche città sono riuscite a declinare le complesse necessità della città contemporanea, proiettata in una dimensione metropolitana secondo un modello policentrico, con le problematiche di tutela e valorizzazione della città storica; ciò comporta la necessità di valutare un universo di categorie d’analisi ben più vasto di quello tradizionalmente considerato.

Le politiche urbane più avanzate, in molte città italiane ed europee, tendono oggi ad invertire la tendenza di considerare il centro storico come parte significante di tutto il contesto urbano e in molte città l’attenzione si è spostata sui valori ambientali diffusi e sulle aree periferiche. Gli interventi connessi alla policentralità spingono infatti verso la riqualificazione delle periferie, la realizzazione di strutture di servizio e al decentramento di funzioni: università, cultura, ricettività commerciale e residenze che si attestano all’interno delle nuove centralità.

 

La città si estende così verso la campagna, vista non solo come riserva agricola ma come parte integrante della stessa.

La pervasività dell’architettura moderna, che si esprime con forme sempre più inattese e sorprendenti, risveglia tuttavia i timori sulla possibilità di tutela e integrità dei “tessuti urbani” e sulla conservazione della memoria storica. Questo nuovo protagonismo è, tuttavia, anche un segnale della vivacità della cultura urbana e della capacità di negoziare tra le culture tradizionali e le esigenze della cultura globale.

Recentemente le nuove centralità urbane- i non luoghi o superluoghi secondo la citatissima definizione di March Augè- contendono ai centri storici alcune funzioni tradizionali: del tempo libero, di svago e dei luoghi del commercio, iai servizi inducendo così nuove problematiche di sopravvivenza dei nuclei storici.

D’altra parte, il processo di recupero dei centri storici a partire dagli anni ’70 del XX secolo è stato lento e incerto negli esiti generali. In molte città storiche italiane, infatti, la sola componente turistica ha portato alla formazione di un’immagine stereotipata della storia, attraverso la banalizzazione dell’immagine, la ricostruzione nostalgica della memoria, la disneificazione dell’arredo urbano. Il dibattito pare si sia fermato agli anni Ottanta, al termine delle esperienze di recupero legate al Piano decennale e alla Legge 457 del 1978 che introdusse il Piano di Recupero. Finiti i finanziamenti statali, i centri storici e il loro recupero hanno progressivamente perso di interesse.

Il centro storico ha, di conseguenza, perso la sua caratteristica principale: la centralità che, nei processi di espansione, si è delocalizzata nelle nuove centralità.

Come raccontare, come descrivere, come progettare uno spazio urbano che tende a scomporsi in mille reticoli. come ritrovare un nuovo ordine territoriale che affonda le radici in una memoria storica rivisitata ?. Risulta evidente, che il baricentro di riferimento non potrà essere più la città storica, consolidata nel corso del XX secolo, ma l’intero contesto ambientale, visto nella rete di relazioni e nei suoi valori storici e fisici, ecologici e morfologici.

Il centro storico appare ora come una porzione di città per alcuni aspetti progressivamente svuotata di parte delle sue funzioni, per alcuni aspetti inaccessibile a parte della popolazione e contestualmente rifiutato come luogo della residenza e infine assegnato ad un ruolo di spazio destinato al tempo libero da politiche pubbliche, a sostegno delle attività turistiche. La città storica sembra ora al centro di pratiche lontane tra loro e apparentemente inconciliabili, per provenienza geografica, per cultura e per riferimento ai tempi della quotidianità.

Resta, comunque difficile definire le problematiche che ruotano intorno alle varie realtà che legano il centro alle periferie. E’ un legame di dipendenza reciproca anche se, in alcuni periodi, si è manifestata in forma contrapposta.

In realtà si è visto come le utopie della città moderna fatta di grands ensebles, di unité di habitation immerse nel verde, si sono trasformati negli incubi dei superblocks e del nulla del fuori città. In contrapposizione a queste strutture urbane, negli anni sessanta i centri storici sono stati rivalutati e sono diventati oggetto di restauro; in essi si è riconosciuto un vero “effetto” città oltre che un inestimabile patrimonio monumentale. La tabula rasa cui il movimento moderno in architettura voleva ridurre le città storiche, proposta nell’efficace immagine del Plan Voisin di Le Corbusier (1925), è stata realizzata in modo difforme e distorto, nelle periferie, divenute in alcuni casi luoghi desolati, minacciose aree di conflitti. Tuttavia, nei corsi e ricorsi della storia, oggi le periferie costituiscono, con la presenza di un

tessuto ancora labile, il luogo propizio per i nuovi scenari dell’architettura, dove è possibile operare con metodologie nuove e sperimentare nuovi assetti urbani.

Oggi, la periferia minaccia la città storica, con i centri commerciali, le multisale cinematografiche, le stazioni metropolitane, gli aeroporti, oppure è il centro che ha “voglia di periferia”? A Torino, si teorizza la costruzione di “un grattacielo a misura della città storica” e a Milano i progetti dei nuovi grattacieli modificheranno profondamente lo scy liner della città storica.

Ci chiediamo “l’architettura fa ancora bene alla città? Josef Rykwert, individua la carenza dell’architettura nell’incapacità di produrre simboli condivisi e nell’aver ridotto il sistema simbolico del mondo costruito a un grado elementare che spesso si riduce nella costruzione di un grattacielo.

L’architettura, quale professione di pensiero sulla città che si colloca in intimo contatto con la sua storia, potrebbe ancora avere una straordinaria funzione democratica, potrebbe essere il luogo d’incontro di coloro che tentano di costruire la città più giusta.”Perché l’umanità- sostiene ancora Rykwert – ha saputo creare città … facendo una semplice opera di assemblaggio di elementi?. Interrogativi forse troppo espliciti, nella loro semplicità, che tuttavia danno la misura di come l’architettura, pur moltiplicando i simboli di un nuovo linguaggio formale, che si pongono come elementi unici, avulsi dai contesti, abbiano smarrito “l’arte di fare la città” che si presenta, pertanto frammentata e come risultante di singoli elementi poco dialoganti tra loro.

In realtà- sempre secondo Rykwert “ tutto ciò ha poco a che fare con le questioni in gioco, con le faccende serie dell’invivibilità delle città, di esaurimento delle risorse, di surriscaldamento del pianeta”. In altre parole, con la sostenibilità, architettonica e sociale .

La morte lenta del middle class cittadina, l’ascesa dell’architettura come strumento di puro marketingh, tutto ciò ha contribuito a restringere gli obiettivi di natura sociale dell’architettura, in un momento in cui stava incominciando a penetrare nell’immaginario di un pubblico più ampio.

Questo ha influito non poco nel modo materiale di fare architettura: non è un caso che siamo tempestati da sempre nuove superfici, interventi, progetti : dal grattacielo di Renzo Piano a New York, all’edificio per la casa di moda Versace a Tokio di Fuksas, dalle opere di Calatrava, Jarn Nouvel, Koolhaas ecc,. in un caledoscopio che muta velocemente.

In questo quadro multiforme dove tutto si muove ed è sostituibile è rassicurante pensare che – come sostenuto da Marco Romano- “la città lievitata in Europa negli ultimi mille anni possa legittimamente considerarsi un’opera d’arte, dal momento che i suoi manufatti sono stati immaginati in se stessi come tali e che la loro reciproca disposizione è stata a sua volta pensata proprio con quella intenzione”.

C’è da sperare che dalle forze sviluppate dal modello della città dell’economia globale si sviluppi una tendenza uguale e contraria in grado di proporre città e quartieri ecosostenibili, infrastrutture che riconnettano aree sottratte ai cicli naturali: procedure urbanistiche che vanno oltre la pianificazione tradizionale, verso una nozione più inclusiva del territorio. Soluzioni che devono misurarsi con i valori diffusi nel territorio, con i processi insediativi incalzanti e con il complesso delle politiche urbane, al fine di limitare il consumo di suolo, di sviluppare insediamenti a bilancio energetico, a contenere la frammentazione del territorio aperto. Si opera sempre più nella consapevolezza che, nei vari contesti urbani, sia necessario chiarire il ruolo progettuale che le diverse parti della “città storica” possono giocare nella proposta di assetto complessivo, contribuendo in maniera determinante alla “composizione” del progetto urbanistico per la città, alla diffusione della sostenibilità ambientale del territorio nel suo insieme.

 

 

Bibliografia

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