Mese: maggio 2018

L’Unical, una ben strana creatura  di A. Battista Sangineto

L’Unical, una ben strana creatura  di A. Battista Sangineto

Si dice che la mancanza di università determini l’emigrazione dei cervelli e che l’istituzione dell’università incida sulla formazione delle classi dirigenti locali. Quanto alle classi dirigenti, in una situazione come quella calabrese, credo che … ci si debba assicurare che l’università serva come mezzo di ricambio sociale. Il problema di fondo è il problema del trapasso dalla cultura puramente elementare a quella secondaria, in modo tale che l’accesso all’università sia consentito a tutti[1]. Queste parole, tratte dal resoconto della seduta del 5 aprile 1962 della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, sono quelle con le quali Tristano Codignola perorava, appassionatamente, la causa dell’istituzione di una università in Calabria, una delle poche regioni italiane che ancora non l’avevano. Il motivo che spingeva i socialisti, con l’appoggio non sempre entusiastico del PCI, a volere una università in Calabria era, innanzitutto, la creazione di una classe dirigente che non appartenesse a quella sempiterna, ridottissima porzione della società che poteva permettersi di mandare i figli a studiare altrove e che, come emergeva dalle statistiche del tempo, nella stragrande parte dei casi preferiva frequentare quelle facoltà che perpetuavano le differenze socio-economiche (giurisprudenza e medicina) o quel sapere umanistico (lettere e economia) che offriva l’accesso ad una comoda sistemazione statale. I socialisti ritenevano, su suggerimenti per esempio anche del grande genetista Adriano Buzzati-Traverso (fratello di Dino Buzzati), che il mancato sviluppo socio-economico della Calabria a quel tempo fosse addebitabile all’inesistente sviluppo tecnologico e scientifico ad alto livello del sud e che solo una organizzazione universitaria di tipo prevalentemente tecnologico potesse aprire la porta dell’industrializzazione e del progresso nel Mezzogiorno. Dai dibattiti parlamentari e culturali, negli anni che trascorsero fino all’istituzione, si evince con chiarezza che i socialisti insistettero per dare “all’università calabrese il carattere di sperimento di rottura dell’attuale organizzazione universitaria … determinando una effettiva rottura della società calabrese in senso moderno[2]. Un solo centro universitario fuori delle città che fosse a carattere residenziale sia per gli studenti che per i docenti, come il campus di San Diego che fu adottato da Codignola come il miglior modello possibile perché era appena stato impiantato ex novo in una delle aree più desertiche e meno sviluppate della California[3]. I democristiani avrebbero preferito, invece, salomonicamente spalmare tre università tradizionali, una su ognuna delle tre città capoluogo della Calabria.

Tristano Codignola

Il dibattito si sviluppa intorno alla natura e alla localizzazione dell’istituendo ateneo ed è sempre Codignola che, nella seduta della Camera del 11 novembre 1967, illustra una proposta di legge del PSI nella quale viene precisato che quella università debba “fabbricare sul luogo intelligenze tecniche, capaci d’inserirsi in un processo autoctono di sviluppo indotto proprio dalla formazione di nuove classi dirigenti locali …[4]. Una università, insomma, capace di formare una classe dirigente nuova, dal sapere eminentemente tecnico-scientifico, e che sia in grado di scardinare i meccanismi che avevano determinato una società immobile nel quadro secolare di rapporti di classe predeterminati. I promotori di quella legge volevano, infatti, che la preparazione di tali uomini non si limitasse “ad essere puramente tecnologica, ma la preparazione tecnica vada inserita in un più ampio contesto di preparazione socio-economica che consenta al personale superiore e dirigente del Mezzogiorno di orientare ed adattare le acquisizioni tecniche conseguite negli studi in una società concreta, la società meridionale[5].

L’università della Calabria, dunque, come “strumento di impegno meridionalista” per l’istituzione della quale, negli anni, si battono, innanzi tutti, Giacomo Mancini, prima da ministro e poi da segretario del PSI, i deputati e senatori socialisti calabresi insieme a studiosi come Giorgio Spini, Luigi Firpo, Paolo Sylos Labini, Lucio Gambi e Adriano Buzzati-Traverso [6]. A far pendere la bilancia a favore della soluzione di un’unica sede, come auspicavano i socialisti, furono, fra i democristiani, Riccardo Misasi e, sopratutti, Antonio Guarasci.

Secondo i presentatori della proposta di legge del 1967 bisognava che l’università calabrese fosse “sganciata da centri urbani che, in questo caso, non possono offrire tradizioni culturali efficienti e d’altronde, con le proprie esigenze di vita economica, politica e amministrativa, costituiscono una distrazione e possono turbare la tranquillità necessaria alla indagine e allo studio[7]. A seguito di queste considerazioni si decise di progettare l’edificazione di un campus che fosse non troppo vicino alle città per la preoccupazione, che traspare evidente dalle frasi sopra riportate, che i politici e la politica locale potessero “turbare” la vita dell’università. Le richieste di quasi tutti i sindaci di Cosenza, anche di Mancini che pure aveva partecipato all’idea del campus, di trasferire una o più facoltà nel centro antico della città, sono, alla luce delle considerazioni sopra ricordate, fuori dalla storia di questa università e, quindi, destinate a rimanere inevase fino a che rimarrà intatto quello spirito fondativo.

La scelta dell’ubicazione cadde nell’area di Cosenza perché, nella spartizione del “pacchetto Colombo” del ’70, Catanzaro sarebbe diventata il capoluogo di regione, mentre a Reggio si sarebbe impiantata un’area industriale di grandi dimensioni. Le aree proposte per l’insediamento, che secondo l’impostazione primigenia dovevano esser lontane dai centri urbani e dai loro ceti dirigenti, erano due: quella di Piano Lago, caldeggiata da Mancini, e quella di Arcavacata, appoggiata da Principe[8]. La spuntò Cecchino Principe che fece vincolare ben 700 ettari del territorio della sua Rende a finalità di edilizia scolastica.

Nel 1971 venne, finalmente, approvata la legge istitutrice e lo statuto dell’Università[9] e nello stesso tempo l’allora ministro della Pubblica Istruzione, Riccardo Misasi, nomina il comitato ordinatore dell’università e il suo presidente nella persona di Beniamino Andreatta. Quest’ultimo, reduce dalla ribollente università di Trento, introdusse la creazione dei Dipartimenti che dovevano servire a sganciare la ricerca e i ricercatori dalla logica degli Istituti, sulla quale era stata regolata fino a quel momento la strutturazione dell’attività scientifica universitaria.
Una scelta innovativa che, insieme alla preconizzata residenzialità, fu il punto di partenza per la costruzione di un “contenitore fisico” che fosse funzionale alla caratterizzazione culturale e politica impressa all’università tanto che essa venne “concepita come un complesso armonico di edifici, di laboratori e di servizi, in modo da provvedere ad ogni esigenza dell’insegnamento, dello studio e della ricerca, nonché al soddisfacimento delle esigenze di vita dei docenti e degli studenti in una comunità profondamente integrata …[10]. L’obiettivo di edificare un grande e unitario campus fu, coerentemente, perseguito per mezzo di un concorso internazionale di idee per la sede che, nel 1973, fu vinto, con un progetto dal segno architettonico ardito, da un gruppo di architetti capeggiati da Vittorio Gregotti[11].

Una creatura concepita da genitori socialisti, dunque, ma che ebbe come levatrice e nutrice, accadeva spesso a quei tempi, la Democrazia Cristiana. Una scaturigine malcerta, si dirà, ma in ogni caso fortemente voluta dalle migliori intelligenze calabresi della seconda metà del ‘900.

Con queste premesse l’Università della Calabria non poteva non essere che una strana creatura dalle multiple sembianze: estranea, per volontà dei fondatori, al tessuto sociale, culturale e politico della regione, ma nello stesso tempo frutto della terra in cui ha sede e corpo. È, per certi versi, affondata nella melma vischiosa e ammorbante della società incivile, corrotta e clientelare della Calabria e, per altri, svetta per la qualità della ricerca, per le capacità di molti dei suoi studiosi e allievi impegnati nei laboratori scientifici sparsi ai quattro angoli della terra.

L’Unical è, a quaranta anni dalla sua fondazione, una realtà viva, palpitante, persino imponente con i suoi circa 200 ettari di superficie del campus su cui insistono 6 Facoltà, 44 corsi di studio, 23 dipartimenti, 2 scuole di specializzazione, 13 centri interdipartimentali, 3 centri di servizi comuni. Conta 845 docenti e 705 amministrativi, quasi 35.000 studenti, 1300 posti mensa e più di 3000 alloggi residenziali di sua proprietà, il più grande sistema bibliotecario del Mezzogiorno (oltre 400.000 volumi), l’Orto Botanico, due teatri, un Centro sportivo, un Centro radiotelevisivo, un museo di Storia Naturale della Calabria. È, ormai, una media università normale che negli ultimi anni è stata in cima alle classifiche stilate dai maggiori quotidiani nazionali per attrattività didattica e scientifica, oltre che, secondo il MIUR, università “virtuosa”. In questo ultimo decennio chi ha guidato l’Università è riuscito a portare a termine il progetto architettonico e a tener fuori i politici, e non è stata un’operazione di poco momento, dalla gestione dell’Ateneo, in continuità con le prescrizioni dei promotori.

Bisogna ricordare che i figli della borghesia e del ceto dirigente calabrese hanno continuato studiare nelle altre università prevalentemente del centro-nord, mentre all’Unical – alla quale, per assecondare lo spirito dei fondatori, si accedeva per merito e per reddito- si iscrivevano soprattutto studenti di classe socio-economica medio-bassa. Negli anni ’90 furono rimosse le limitazioni sopradette determinando un’esplosione delle iscrizioni che passarono, nel lasso di pochi anni, da 12.000 a 34.000. Molti dei figli della classe dirigente si iscrissero a Cosenza sia perché l’università si era, ormai, “normalizzata”, sia perché i ragazzi ebbero sempre più paura di avventurarsi nel vasto mondo, sia perché i genitori preferirono tenerseli vicini, al riparo dagli eventuali pericoli che potevano correre.

Quanto alla formazione della classe dirigente si può affermare invece che, purtroppo, non è stato sufficiente impiantare un’università, per gestazione e nascita, diversa dalle altre. Le classi dirigenti autoctone hanno continuato a riprodursi negli stessi modi soprattutto perché non c’è stato alcuno sviluppo economico, né tanto meno crescita economica industriale di alto livello tecnologico, come auspicavano i padri fondatori. I detentori del sapere tecnico-scientifico appreso in loco hanno dovuto, in grandissima parte, emigrare, partecipare alla diaspora delle intelligenze e nella regione poche, o nessuna, industrie tecnologicamente avanzate, “spin off” dell’università, sono nate.

La società calabrese e la sua classe dirigente hanno, per parte loro, meticolosamente ingerito, assimilato e metabolizzato la carica “eversiva” contenuta in una siffatta università, cooptando e sottoponendo agli stessi procedimenti clientelari e tribali i suoi laureati-apostoli. Li hanno trasfusi, anch’essi, in quella melma sociale imperitura che è impermeabile a qualsivoglia ricambio sociale ed economico e che regola, da sempre, la vita della regione. Venuto meno il presupposto dell’inserimento in un tessuto economico-sociale che si sperava fosse più avanzato, quella classe dirigente tecnico-scientifica che nelle intenzioni doveva esser preparata ad adattare e orientare la società meridionale, in Calabria non ha trovato sbocchi occupazionali oppure è rimasta impigliata in quella vischiosità pre-moderna dei rapporti, peculiare di una società mai industrializzata.

A dispetto della presenza di ben tre università -nel frattempo si sono aggiunte quelle di Catanzaro e Reggio Calabria- negli ultimi decenni si è venuto, invece, a formare un ceto dirigente che si è radicato in particolar modo ai vertici dell’Amministrazione Regionale. Un ceto plasmatosi ad immagine e somiglianza di quello politico che, per mezzo di concorsi non trasparenti o chiamate dirette, l’ha creato e promosso. Un alter ego dalle dimensioni elefantiache che è lo specchio di una politica di corto respiro, fatta quasi sempre da personale inadeguato alla bisogna o, peggio, colluso con gli interessi ‘ndranghetisti. Le classi dirigenti regionali nel loro complesso, ad esclusione di lodevoli eccezioni, sono composte da incapaci, corrotti, privi di qualunque tipo di motivazione se non quella di favorire se stessi, i propri parenti ed amici e, naturalmente, i politici di riferimento. Una classe dirigente riprodottasi, come una metastasi, con questo metodo familistico, arcaico e reciprocamente ricattatorio negli Ospedali, nelle Scuole, nei Tribunali, nelle Camere di Commercio, nelle imprese private e in tutta la Pubblica Amministrazione della Calabria.

Sarebbe spettato alla classe dirigente far uscire la Calabria da questa situazione di corruttela e di arretratezza, proponendo ed attuando un progetto complessivo di sviluppo economico, sociale e culturale. Questa classe dirigente, è evidente ormai a chicchessia, sembra non esser capace di farlo, ma bisogna che i calabresi comprendano, anche, che la terribile responsabilità di far parte di una società profondamente malata non può essere solo della politica e della classe dirigente di questa regione, ma è della cosiddetta “società civile” che nulla, o troppo poco, ha fatto per scrollarsi di dosso questo giogo. È stato eletto nel corso di questi ultimi decenni un ceto dirigente che è stato, prevalentemente, impegnato a creare alleanze trasversali, un ceto che si è rivelato essere del tutto privo di pensieri forti, privo di un’idea di come possa essere il futuro di una regione, privo di un’idea di Calabria. Una società, quella calabrese, nella quale prevale l’egoismo individuale, l’individualismo disinteressato al bene comune che è reso palese dall’incapacità al vivere associato. Una società nella quale è diffusa una violenza che origina, forse, da quell’impasto di arcaicità e post-modernità di cui sono composti i rapporti sociali, familiari, economici e politici. La vita quotidiana dei calabresi, di tutti i calabresi, è intessuta di comportamenti intrinsecamente ‘ndranghetisti alimentati dal prevalere, anche fra le persone più civili, dell’egoismo, dell’individualismo disinteressato al bene comune, del quieto vivere e della paura con la quale conviviamo sin da piccoli. La ‘ndrangheta è il nostro doppio, un’ombra che ogni calabrese, più o meno consapevolmente, porta con sé. Siamo rassegnati a questo stato di cose, non siamo capaci di reagire come è accaduto, per esempio, in Sicilia; non siamo nemmeno più capaci di indignarci, ammesso che lo si sia mai stati. Ci si deve chiedere perchè il problema irrisolvibile di questa regione sembra che sia l’inesistenza della cosiddetta società civile, più che l’ormai dimostrata inettitudine della classe dirigente politica che non è altro che lo specchio di questa società, è lo specchio dei calabresi che in più di sessanta anni di governo democratico non sono stati capaci, se non forse all’inizio, di scegliersene una migliore .

Una risposta potrebbe risiedere nell’incapacità, che di sicuro affligge i calabresi, di riuscire a fidarsi dell’“altro”, un’innata diffidenza che, più o meno inconsciamente, si ha nei confronti degli “altri”. Insieme all’assenza di “senso civico”, la diffidenza mi sembra che sia una delle componenti costitutive del carattere collettivo dei calabresi. Un carattere che è – per gente vissuta per secoli al riparo dal mondo, in mezzo a montagne lontane dal mare- il lascito di una storia intessuta di dominazioni e di sopraffazioni. Una comprensibile eredità che diventa, però, un usurato pretesto quando, troppo spesso, trascolora in inadeguatezza a stare insieme, a sentirsi dalla stessa parte. Un legato storico che rende incapaci, in assenza di una identità collettiva positiva, di confrontarsi davvero con l’”altro[12]. L’esito che ne consegue è che governanti e governati di questa regione continuano, in larghissima misura, ad avere l’atteggiamento rivendicazionistico di chi si aspetta che un torto venga risarcito, da un “centro”, ad un popolo di ingiustamente perdenti in “periferia”. I calabresi sono collettivamente, invece, giustamente perdenti e non è che un illusorio auto-risarcimento di danni all’”anima” attribuire della responsabilità del sottosviluppo al Governo, ai “forestieri”, insomma agli “altri”.

No, purtroppo, l’università della Calabria non è riuscita ad innescare -non poteva farlo da sola, forse- un meccanismo virtuoso e auto-propulsivo di progresso e di sviluppo che scardinasse, ammodernandolo e riequilibrandolo, l’atavico quadro socio-economico calabrese.

 

[1] Dal resoconto della seduta della VIII Commissione parlamentare, Istruzione e belle arti, tenutasi il 5 aprile 1962, pp. 1593-1594.

[2]Dal resoconto della seduta della VIII Commissione parlamentare, Istruzione e belle arti, tenutasi il 5 aprile 1962, pp. 1597-1598,

[3]Il campus di San Diego è, ora, tra le migliori otto università pubbliche statunitensi secondo lo U.S. News & World Report. La classifica accademica delle università mondiali, redatta nel 2007 dalla Shanghai Jiao Tong University, ha inserito San Diego al dodicesimo posto negli Stati Uniti e al quattordicesimo nel mondo, considerando fattori come la qualità della ricerca scientifica e la provenienza di premi Nobel (l’università ne vanta dodici tra i suoi ex-studenti).

[4] Proposta di legge n. 4548, primo firmatario Codignola, presentata l’11 novembre 1967. pp. 2-3

[5] Proposta di legge n. 4548, primo firmatario Codignola, presentata l’11 novembre 1967, p. 5

[6] Per una sintesi delle iniziative cfr. “L’Avanti!” del 10 marzo del 1967.

[7] Proposta di legge n. 4548, primo firmatario Codignola, presentata l’11 novembre 1967, p. 7

[8] Cfr. la nota della Redazione della rivista mensile, fondata da F. Compagna, “Nord e Sud” del dicembre 1967.

[9] La G.U, del 26 febbraio 1972 pubblica il Decreto del Presidente della Repubblica del 1 dicembre 1971.

[10] Proposta di legge n. 4548, primo firmatario Codignola, presentata l’11 novembre 1967, p. 8.

[11] Di recente Gregotti su “Il Corriere della Sera” del 17 giugno.2010 ha aperto una polemica sulla cattiva, a parer suo, realizzazione del progetto.

[12] Sul legato storico e sulla assenza di una identità positiva dei calabresi cfr. A. B. Sangineto, L’anima allo specchio. Ovvero della percezione e dell’uso delle antichità calabresi”, Monteleone editore, Vibo Valentia 2006.

 

Pubblicato su

                       “Nuove Lettere Meridionali”, 2013, n. 1

                       Rivista meridionalista diretta da Cesare Marini

La battaglia per il Sud e l’Italia di S. Abruzzese

La battaglia per il Sud e l’Italia di S. Abruzzese

C’è un Sud che riceve continui attacchi politici e massmediatici. Un Sud chiamato in causa solo per la cronaca, le bandiere nere, il turismo, narrato da inviati lontani e distratti. L’immagine restituita al Paese da tv, giornali, politica, è imbarazzante quanto puntuale. È un Sud indistinto, quello attaccato dopo il referendum voluto e perso da Renzi, quando Vittorio Zucconi ha attribuito la disfatta del Pd all’elettorato “reazionario” meridionale. È accaduto ancora, dopo le elezioni appena passate, con una polemica, alimentata in primis dai commentatori televisivi, relativa al reddito minimo, e di nuovo, ultimamente, con l’eccentrico intervento di una certa Micaela Biancofiore.

A tratti è un paese bizzarro l’Italia, anche perché se pure ci fosse una parte d’Italia così disperata e ignorante, come sostengono alcuni, il problema sarebbe l’esistenza della disperazione e dell’ignoranza e non certo la denigrazione a reti unificate da parte di chi invece dovrebbe contribuire a risollevarli.

Niente paura, lo schema duale, etnocentrico, è ben collaudato, funziona sempre e ovunque, quando si ha a che fare con l’apoliticismo o la malafede.

E d’altra parte, c’è chi con la difesa a oltranza del Mezzogiorno ha restituito, a costo di semplificare e banalizzare l’intero processo storico italiano, l’ennesima visione emotiva, stereotipata e mediatica del Paese.

 

Chiunque scriva di questo Paese complesso, nel narrare con onestà credo abbia l’occasione, e forse l’onere, di contribuire a decolonizzare l’attuale immaginario meridiano.

Comincerei con la retorica della magia e della bellezza. Personalmente, mi insospettisco quando si indulge nella narrazione suggestiva del Mezzogiorno. Da meridionale che vive da tempo nel nord del Paese, provo una vena di rammarico e fastidio di fronte a tale retorica. Dietro vi riconosco assoluzioni, alibi e puerili meccanismi di rivalsa.

Altrettanta diffidenza, poi, avverto in certi tentativi neo-identitari, dove si fanno strada scorciatoie che rimandano direttamente all’Italia populista di oggi. Ricordo che sono pericolose le scorciatoie, hanno già portato le guerre, il fascismo, e lo sono maggiormente quando non si rammenta da dove si viene, e non si sa neppure dove si voglia andare. Parole come identità, radici, essenziali quando generano progresso morale, non lo sono se vengono ridotte alla replica sbiadita di vergognosi leghismi.

E nemmeno la retorica della suggestione può essere confusa col pensiero meridiano di Franco Cassano, un libro a tratti lirico, dai risvolti politici solidi e seri, con riferimenti che da Weil portano direttamente ad Alex Langer.

 

Per tornare al principio, se c’è una dicotomia di cui nel tempo ho imparato a diffidare, è proprio quella Nord/Sud tradotta in termini di Nemico/Amico. Ho avuto modo di scoprire, in qualità di ibrido mezzogiornopadano, che non esiste alcun Nord, inteso come modello di efficienza, o di alterità morale, bensì solo condizioni storiche diverse, dovute a tanti fattori, tra cui non è secondario l’afflusso delle risorse umane e dei capitali meridionali. Anche questa del Nord infallibile, superiore o inferiore che si ritenga, non è altro che l’ennesima proiezione di un alter ego nazionale inesistente.

Certo, esistono peculiarità, c’è una parte consistente d’Italia e del Sud che detiene uno stretto rapporto con quel che resta della vecchia civiltà contadina, in cui persistono forme, rapporti, usi che rimandano a un’altra e precedente concezione dell’esistenza, ma non è caratteristica esclusiva del Sud e basterebbe citare i fatti di sangue contro i migranti di Rosarno, di Ponticelli, Castel Volturno, Cerignola, per ritornare tutti brutalmente alla realtà odierna.

Allo stesso modo, non credo all’eroismo di chi rimane o di chi parte, e nemmeno a una presunta vigliaccheria: la patria è dei figli, scriveva Max Weber, a meno che non si abbiano dei padri e delle madri di cui andare orgogliosi, e noi ne abbiamo avuti pochi quanto lontani e inascoltati, allora nessuno dovrebbe mai sbandierare sedicenti primati, poiché la vita e i sacrifici degli individui, la partenza e la restanza, meritano il massimo rispetto possibile, e un’analisi seria come tutto il resto.

 

Le suddette dicotomie, va detto, sono odiose non solo perché, come ha avuto modo di ricordare Paolo Rumiz, alimentano la balcanizzazione dell’Italia, ma pure perché rendono più arduo lo smascheramento dei travestimenti: e cioè il problema dello Stato italiano, la produzione costante di margini, vuoti, periferie, isole, in cui gli individui restano soli e impotenti. È la cattiva politica locale e l’assenza di vera “politica” nazionale, sono i limiti e la corruzione delle rapaci classi dirigenti, l’assenza di coscienza storica e politica, a generare l’Italia di oggi.

 

Tra i risultati più vistosi vi è il paradosso che nelle aree iper-popolate italiane attualmente vivono, spesso nello spaesamento, i protagonisti dello spopolamento meridionale ed europeo: polacchi, slavi, albanesi, maghrebini. I più vengono da aree rurali e si arrangiano come possono nell’arnia di bellezza e smarrimento rappresentata da questo Paese.

L’altro risultato interessante è, a parte l’implosione della sinistra e la stagione incontrastata delle mafie, l’indubbia capacità della classe politica di orientare la massa inurbata italiana, attraverso il populismo fascista e xenofobo, addirittura rispolverando ottusi nazionalismi, a riversare il proprio rancore sui nuovi migranti. Così il popolo italiano, in seguito alla sua atomizzazione, è diventato il mastino dei pochi privilegi rimasti e dei dominatori, contro i nuovi dannati della terra. Chapeau!

E allora narrare il Sud e l’Italia vuol dire prima di tutto una strenua lotta per riappropriarsi della verità, e ricostruire razionalmente, con un costante esercizio di rigore, i fatti e, con essi, la debole coscienza storica del Paese. Ma il fatto è che spesso la stessa intelligenza, e l’amore per l’intelligenza fine a se stessa, forse l’unica forma sciovinistica di cui soffrano gli italiani, – scriveva Gramsci, – risulta un altro consueto gioco di prestigio a cui si è avvezzi lungo la Penisola.

L’Italia è un paese di vuoti e pieni, che ha assunto la forma di un unico, scosceso pendìo. Occorre un fronte compatto per dare alle aree marginali consapevolezza, voce e spazio, reti e occasioni: si tratta di pretendere, dall’incompiuta democrazia italiana, la totale attuazione della sua costituzione.

C’è un nome unico per questa vicenda: è democrazia.

 

Ecco cosa succede con il governo “giallo-verde” di Gianfranco Viesti

Ecco cosa succede con il governo “giallo-verde” di Gianfranco Viesti

Letta da Sud, desta enormi preoccupazioni la bozza del “Contratto per il governo del cambiamento” predisposta da Lega e 5 Stelle. Esse nascono dall’assenza, nelle 39 pagine del testo, di qualsiasi riferimento ai problemi delle disparità territoriali italiane; dall’assenza di qualsiasi indicazione di politiche per lo sviluppo delle imprese private e la ripresa degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno; dalla pericolosissima combinazione fra la flat tax – che determinerà un calo del gettito fiscale nazionale che viene stimato in circa 50 miliardi – e la forte spinta verso l’autonomia delle regioni più forti.

Si dice: ma per il Sud c’è il reddito di cittadinanza. Si tratta di uno strumento, se ben disegnato, che favorisce l’inclusione sociale e può aiutare le famiglie più deboli in tutto il paese e, molto, nel Mezzogiorno. Ma se non ci si pone nemmeno il tema dello sviluppo, il reddito di cittadinanza diviene una misura meramente compensativa. Una preoccupazione caritatevole, assistenziale, per chi non ce la fa e non ce la farà. Un strumento di acquisizione e mantenimento del consenso.

Vediamo più dettagliatamente. Come già detto il problema Sud, per Lega e 5 Stelle, non esiste. Non solo nessuno dei 29 capitoli è dedicato agli squilibri regionali, ma, cosa ancora più importante, in nessuno di essi si fa riferimento alle complesse questioni di indirizzo territoriale delle politiche settoriali. Per quanto riguarda le imprese, il punto 4 tocca l’ILVA. E’ stato letto da tutti come un preannuncio di chiusura: anche se non dice questo esplicitamente, lo fa temere. Al punto 23 si parla della Banca per gli Investimenti: una proposta interessante, di cui discutere: ad essa sono attribuiti una miriade di obiettivi, ma non quello del riequilibrio territoriale. Nulla sullo sviluppo di imprese e distretti, sull’attrazione di investimenti, sulla diffusione dell’innovazione, sulla capitalizzazione delle imprese al Sud: misure indispensabili in un quadro in cui le rilevanti risorse del programma Impresa 4.0 del governo uscente sono state intercettate quasi esclusivamente dal più forte tessuto imprenditoriale del Nord.

Nulla su dimensione e allocazione degli investimenti pubblici. Nessun riferimento alla clausola che garantisce al Mezzogiorno il 34% del totale degli investimenti delle amministrazioni pubbliche, appena reintrodotta dal governo uscente (e tutta da concretizzare); pur evocata con forza nelle scorse settimane dal Ministro del Lavoro “in pectore” dei 5 Stelle. Nulla su come impostare le prossime politiche regionali con i fondi strutturali e il Fondo Sviluppo e Coesione. Si cita il bilancio UE (punto 28) ma solo perchè “occorre ridiscutere il contributo italiano” e non perché sia necessario difendere le politiche di coesione nella fondamentale trattativa delle prossime settimane. Al punto 25 si parla di infrastrutture: si vuole che i “principali porti italiani” siano “gateway” e non “transhipment” (di arrivo a terra e non re-imbarco), ma non si dice quali; né si accenna al fatto che servono indispensabili investimenti sulla rete ferroviaria perché possano esserlo quelli del Sud. Si cita – fra i punti in rosso, ancora da definire – il “terzo valico” (alta velocità ferroviaria Genova-Milano). Ma non una parola sulla Napoli-Bari.

Ma le principali preoccupazione vengono dai punti sui servizi pubblici. Mai è nemmeno accennata la questione della enorme disparità territoriale nella loro quantità e quantità. Mai è sottolineata l’esigenza di stabilire i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) per tutti i cittadini italiani; né tantomeno nel lungo punto 20 sulla sanità è posto il problema di rendere meno diseguali i LEA (livelli essenziali di assistenza). Sull’università (punto 29) c’è qualche indicazione interessante, ad esempio sull’Agenzia di Valutazione: ma nulla sui criteri di riparto dei fondi, sul sottofinanziamento degli atenei meridionali, sulle disparità di accesso al diritto allo studio. Non si dica che sono linee generali: al punto 6 si precisa che vanno rivisti i criteri di allocazione del piccolo FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo).

Il capitolo chiave è il 19, “Riforme istituzionali, autonomia e democrazia diretta”. E’ “prioritaria” per l’azione di governo l’attribuzione della maggiore autonomia alle regioni che la richiedono, con una rapida conclusione delle trattive aperte con Lombardia, Veneto ed Emilia. Si dice che essa deve essere accompagnata “dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle competenze”. Come non essere preoccupati di tale formulazione – data anche la ricordata assenza di ogni riferimento ai LEP – visto che essa proviene da due forze politiche che hanno promosso il referendum in Lombardia con l’esplicito obiettivo (chiaramente formulato nelle mozioni approvate dal Consiglio Regionale) di trattenere la maggior parte possibile del gettito fiscale? Come non essere preoccupati dalla tendenza alla regionalizzazione dei grandi servizi pubblici, leggendo al punto 29, sulla scuola, che servono “nuovi strumenti che tengono conto del legame dei docenti con il loro territorio”?

Tutto questo, soprattutto alla luce del possibile crollo del gettito fiscale nazionale con l’applicazione della flat tax. Si potrebbe avverare il disegno promosso coerentemente da 30 anni dalla Lega: con minor gettito fiscale nazionale (e quindi meno redistribuzione fra cittadini), le regioni più ricche potranno trattenere molto più reddito e finanziare i propri servizi con il maggior gettito locale; organizzarli come meglio ritengono. I loro abitanti godranno di pieni diritti di cittadinanza. E quelle più povere? Con amarezza, si potrebbe pensare: “Si daranno finalmente da fare; ma dato che siamo generosi, ci sarà po’ di reddito di cittadinanza per i loro poveri”.

 

Della povertà nell’era dell’abbondanza: il caso del Mezzogiorno di Tonino Perna

Della povertà nell’era dell’abbondanza: il caso del Mezzogiorno di Tonino Perna

 

Secondo gli ultimi dati Istat in Italia nel 2011 l’11,1 per cento delle famiglie si trova in condizione di povertà relativa per un totale di 8,1 milioni di persone, di cui il 5.2% vivono in condizioni di “povertà assoluta” per un totale di 3,4 milioni di persone.   Ancora più grave è la situazione nel Mezzogiorno: quasi una famiglia su quattro vive in condizione di povertà relativa, di cui l’8% in condizioni di povertà assoluta. Le regioni meridionali più colpite sono la Sicilia (27,3%), la Calabria (26.2%), la Campania (25.6%).   Si conferma il fatto che le famiglie più colpite siano le famiglie numerose, con almeno tre figli, che passano in soli due anni (dal 2009 al 2011), dal 37 al 50 per cento. Vale a dire che oggi una famiglia numerosa su due che vive nel Mezzogiorno è relativamente povera!   Non si era mai arrivati a toccare una situazione così grave.

Questi i dati, ma cosa intende l’Istat per povertà assoluta e relativa e come la calcola ? La risposta è semplice : una famiglia viene definita “relativamente” povera quando il suo consumo medio pro-capite mensile è inferiore alla metà del consumo medio pro-capite delle famiglie italiane; mentre una famiglia è in una condizione di povertà assoluta quando il suo consumo medio pro-capite è meno di 1/3 del consumo medio pro-capite nazionale.   Prima di capire che cosa ha determinato la crescita della “povertà” nel Mezzogiorno val la pena soffermarsi su questa categoria.

 

  • La povertà nella/della teoria economica.

Come diceva Keynes, gli uomini del nostro tempo sono spesso schiavi delle idee di qualche economista defunto, sicuramente questo è vero nel caso della teoria maltusiana.   Infatti, a livello dei non addetti ai lavori si è spesso attribuita la povertà all’eccesso di popolazione, al fatto che le famiglie- analfabete e religiose- facessero troppi figli. Quante volte si è detto e scritto che la povertà nel Terzo Mondo, la fame che uccide migliaia di bambini ogni giorno, sia il frutto dell’eccesso di popolazione, la cosiddetta “bomba demografica”! Come è noto, questa era la tesi dell’abate Malthus , il quale riteneva, in base ai dati in suo possesso, che la popolazione stesse crescendo in ragione geometrica, mentre le risorse alimentari crescevano in ragione aritmetica. Risultato: la popolazione raddoppiava ogni venticinque anni.   Se non si fosse fermata la crescita demografica l’umanità sarebbe stata condannata al collasso o alla guerra permanente.  Per questo Malthus attaccò come pochi le leggi sui poveri che davano un sussidio alle famiglie disagiate.   Malgrado vedesse di buon occhio l’aborto e l’infanticidio (memorabili le sue pagine su questa pratica in Cina), non poteva ammetterlo ufficialmente come rappresentante del clero e quindi trovò una soluzione geniale per combattere la povertà: l’astinenza. Sposarsi il più tardi possibile e fare meno figli che si può.   “L’unico modo conforme alle leggi della morale e della religione-argomentava Malthus- per procurare ai poveri la più grande partecipazione ai beni del ricco, senza precipitare nella miseria tutta quanta la società, consiste da parte del povero nella prudenza in tutto ciò che riguarda il matrimonio e nell’economia prima di averlo contratto”[1]

Pochi decenni prima, sulla sponda francese, la scuola dei fisiocratici proponeva un altro approccio alla povertà, in particolare delle masse contadine :   <<   Le vessazioni, il basso prezzo delle derrate ed un guadagno insufficiente per stimolarli a lavorare li rendono oziosi , bracconieri , vagabondi e ladri. La povertà forzata non è dunque il mezzo per rendere laboriosi i contadini: non vi è che la proprietà ed il sicuro godimento del guadagno che possano dotarli di coraggio e di attività>> [2]

A circa vent’anni dalla pubblicazione del “Tableau” di Quesnay , esponente prestigioso della scuola fisiocratica, il padre dell’economia politica moderna riprendeva un concetto simile nella sua famosa “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni” :

<< I salari del lavoro sono l’incoraggiamento dell’operosità che, come ogni altra qualità umana, progredisce nella misura in cui riceve un incoraggiamento. Una sussistenza abbondante aumenta la forza fisica del lavoratore, e la confortante speranza di migliorare la propria posizione e di finire forse i propri giorni nell’agio e nell’abbondanza, lo incita ad esercitare al massimo questa forza. Se i salari sono alti, troveremo che gli operai sono più attivi, diligenti e svelti di quando i salari sono bassi : in Inghilterra per esempio, più che in Scozia, nei dintorni delle grandi città più che nelle zone remote della campagna>>[3]

Secondo Adam Smith per combattere la povertà e l’indigenza bisognava elevare il livello culturale della nazione (con un importante intervento dello Stato per l’istruzione pubblica primaria)[4],ma soprattutto bisognava eliminare le forme di “sfruttamento “ del lavoratore sancite dalla tradizione o dalle leggi. Il nemico fondamentale da battere era- secondo Smith- lo “Statuto dell’apprendistato”, cioè quelle norme corporative che regolavano il lavoro nelle “manifatture” e nei laboratori artigianali: << Non conosco alcuna parola greca o latina che esprima l’idea che noi associamo alla parola “apprendista”, cioè di un servo costretto a lavorare in un dato mestiere per un dato numero di anni a beneficio di un maestro, a condizioni che questo glielo insegni>>.[5]

I bassi salari, la povertà, la miseria hanno comunque per Smith una matrice sociale. La Natura non ha colpa se un uomo è povero o muore di fame. Ma, la sua visione della povertà, così come la sua visione del ruolo dello Stato nel settore dell’istruzione e della lotta ai contratti di lavoro “iniqui”, venne emarginata dal pensiero maltusiano che divenne un forte punto di riferimento di tutto il pensiero dei classici dell’economia politica.   Da Ricardo a Stuart Mill l’idea che la povertà fosse dovuta essenzialmente all’imprevidenza dei poveri, ai loro matrimoni precoci, alla troppa prole che producevano, alla scarsa capacità di fare economia, cioè di risparmiare.   David Ricardo non aveva dubbi in proposito : <<la perniciosa tendenza della legge sui poveri non è mistero, perché è stata pienamente delineata dalla mano esperta del signor Malthus; ed ogni amico dei poveri deve desiderare ardentemente la loro abolizione(…).   Queste leggi hanno reso superfluo ogni freno ed incoraggiato l’imprevidenza, offrendo ad essa una parte dei salari propri della previdenza e dell’operosità>>. [6]   Qualunque tipo di soccorso è abrogato: il dole è un cancro che colpisce l’economia alla radice. Qualunque “vincolo “ deve essere rimosso per il pieno funzionamento del mercato del lavoro: << Come tutti gli altri contratti, i salari dovranno essere lasciati alla determinazione della libera concorrenza del mercato, ed il legislatore non dovrebbe mai interferire>>.[7]

“Può l’economia politica – si domandava J. Stuart Mill – non fare nulla, muovere soltanto obiezioni, e dimostrare che non si può fare niente per combattere la povertà? “ E proponeva una serie di misure quali: a) l’istruzione di massa,; b) l’emigrazione verso le colonie ; c) privatizzare le “terre comuni” per creare una massa di piccoli proprietari. Ma, concludeva, tutte queste misure sarebbero state insufficienti se non fosse intervenuto un radicale mutamento culturale[8].  Ed è su questo terreno che J. Stuart Mill scaglia le sue invettive più virulente contro la religione, la morale e la politica che “hanno gareggiato nell’incitare al matrimonio ed alla moltiplicazione della specie, purché col vincolo matrimoniale…Finché il generare numerosa prole non sarà considerato allo stesso modo con cui si considera l’ubriachezza o qualunque altro eccesso fisico, pochi miglioramenti si possono aspettare …”[9]

In breve, anche per le menti più illuminate, la causa della povertà sono i poveri, con la loro dissipatezza, lo scarso senso del risparmio e della previdenza, il loro cedere ad istinti bestiali (procreazione). Sembra di sentire le sentenze della troika (BCE,FMI, Commissione Ue) rispetto ai paesi indebitati del sud Europa. I mass media occidentali hanno dipinto il popolo greco, durante questi anni di crisi finanziaria, come un popolo di fannulloni, che ha dissipato le risorse comunitari, che non ha saputo risparmiare, e –come ha sostenuto più volte la Merkel e C. – gli aiuti alla Grecia fanno solo del male, aggravano la loro situazione, mentre una bella punizione può riportarli ad atteggiamenti virtuosi.  Ieri come oggi, la colpa è sempre dei poveri, che si tratti di eccesso di popolazione o di debito pubblico il capro espiatorio è sempre lo stesso.

Come è noto, a questa visione del mondo si oppose chiaramente e lucidamente il pensiero di Karl Marx. << Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia>> (p.82). Con queste lapidarie parole Marx stronca l’approccio degli economisti classici e affronta la questione della povertà all’interno delle dinamiche del modo di produzione capitalistico.  Innanzitutto, Marx distingue tra “pauperismo” e “povertà”.    Il primo, il pauperismo, viene analizzato all’interno della “legge generale dell’accumulazione capitalistica” e definito come “ il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa”, composto da tre categorie:

  1. persone capaci di lavorare ma espulse dal processo produttivo (quelli che oggi potrebbero essere i “cassaintegrati”) . La sua massa s’ingrossa ad ogni crisi e diminuisce ad ogni ripresa degli affari;
  2. orfani e figli di poveri ; sono i candidati dell’esercito industriale di riserva che , in epoche di grande slancio (per es. il 1860) vendono arruolati in massa nell’esercito operaio attivo;
  3. gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare. Si tratta specialmente di individui che sono mandati in rovina dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro, individui che superano l’età normale di un operaio, infine le vittime dell’industria, il cui numero cresce col crescere del macchinario pericoloso.[10]

Se il “pauperismo” costituisce una fascia dell’esercito industriale di riserva , la “povertà” è in Marx una categoria più ampia che va oltre il livello del salario ed il tenore di vita.   “Il concetto di lavoratore libero implica già che egli è povero”. Pertanto, sostiene Marx nei Grundrisse, tutti i lavoratori sono “potenzialmente “poveri”: sia che essi siano esclusi dal processo produttivo, sia che vendano la propria forza-lavoro, essi non hanno i mezzi per “autodeterminare” la soddisfazione dei propri bisogni, essi non possono che vivere in funzione del processo di “auto valorizzazione del capitale” [11])

Questo non significa che i lavoratori siano rimasti a guardare, a piangersi addosso. Le loro lotte hanno, a partire dalla prima metà dell’800, determinato una serie di interventi dello Stato a tutela dei loro diritti, a sostegno dei più poveri, handicappati, svantaggiati e disoccupati. La nascita del Welfare State è il frutto di queste lotte che hanno attraversato due secoli e che oggi sono messe seriamente in discussione, tentando di riportare indietro le lancette della storia.

  • La gestione della povertà: poveri buoni, falsi poveri e disoccupati

Nella prima metà del XIX secolo i governi europei reagirono in maniera estremamente articolata rispetto al fenomeno del “pauperismo” . In alcuni paesi prevalsero le politiche maltusiane: in Baviera, ad esempio, le persone che non possedevano un reddito adeguato non potevano sposarsi senza il permesso dell’Amministrazione dei poveri, come a Berna dove i poveri “assistiti” dovevano avere il permesso del Municipio.   Nei paesi scandinavi prevalse il ruolo del “volontariato” regolato ed incentivato dallo Stato con alcuni eccessi che suscitarono il malcontento delle classi agiate. In Olanda e Danimarca venne riconosciuto il “diritto al soccorso” e si sviluppò un primo embrione di legislazione sociale ed un ricco dibattito politico.

Bisogna riconoscere che i primitivi “sistemi assistenziali” funzionarono decentemente solo in quelle aree dove esisteva una consolidata tradizione di solidarietà sociale unitamente ad una, fortemente interiorizzata, ideologia del lavoro come dovere sociale.   Ma, l’obiettivo di fondo delle politiche contro il pauperismo non era l’eliminazione delle diseguaglianze sociali, non sottendeva un progetto di società più “giusta” e più “garantista”, bensì era il controllo di quel “ potenziale sovversivo” presente nella miseria di massa.   Come ha notato acutamente G. Procacci[12], il pauperismo faceva paura per le sue caratteristiche sociali : il pauperismo è mobilità, vale a dire disordine, vagabondaggio, ecc; il pauperismo è indipendenza, cioè trasgressione di un codice di comportamento dettato dalle leggi di mercato; il pauperismo è dissipazione, cioè rifiuto a trasformarsi in “consumatore razionale” che sa ripartire il proprio reddito tra consumi immediati e consumi dilazionati nel tempo; infine il pauperismo è ignoranza ed insubordinazione , che si possono leggere anche come ozio, immoralità, sporcizia ecc.

L’insieme delle misure adottate dai vari paesi europei nel corso del XIX° secolo rispondevano ad una esigenza prioritaria per il potere: sterilizzare il potenziale sovversivo contenuto nel fenomeno. D’altra parte, la stessa Speenhamland Law del 1795[13] – la legge che riconosceva il diritto al minimo vitale ! – può essere letta come una sorta di <<assicurazione contro la rivoluzione>>, essendo stata fortemente condizionata dalla paura della rivoluzione francese del 1789. Solo quando questo timore venne meno si poté passare in Inghilterra alla gestione della povertà – con la Legge dei poveri del 1834 ed il conseguente ritorno delle workhouses– più corrispondente ai bisogni di accumulazione del capitale ed alle leggi del mercato capitalistico.   E qui sta il nodo cruciale del dibattito economico e politico sul “pauperismo”: come controllare e gestire “i poveri” in modo tale da non influire negativamente sui meccanismi dello sviluppo.

La storia degli ultimi due secoli ci insegna che tutte le conquiste sociali, dalle otto ore di lavoro fino al più avanzato Welfare State, sono state ottenute quando era forte e combattivo il movimento dei lavoratori e, soprattutto, il potere aveva paura della “rivoluzione”.   Quando questo timore scomparve –definitivamente dopo la caduta del muro di Berlino- allora è stato possibile, in tutto l’Occidente, passare alle controriforme, smantellare il Welfare State.   Ma, per un lungo periodo si trattò di gestire la povertà e la miseria di massa. Su questo piano un contributo fondamentale, sul piano della politica economica, lo dette Alfred Marshall. Il noto economista inglese intervenne più volte nel dibattito su quale forma di assistenza dovesse essere offerta dallo Stato che non intaccasse le fondamenta del mercato del lavoro capitalistico. La scelta su cui si incentrerà il dibattito, fino alla crisi degli anni ’30, verteva essenzialmente su due forme di assistenza: quella “interna” (vale a dire internamento dei poveri, handicappati, disadattati, ecc.) e quella “a domicilio”. << La prima –notava Marshall- è impopolare; assomiglia alla prigionia e appare una sorte troppo dura per coloro che non hanno colpa della loro miseria. Quando uno finisce nella “workhouse “ la sua casa si sfascia, così non è facile lasciare la “workhouse” e riprendere una nuova vita. L’assistenza esterna è preferibile …ma anche fonte di vari mali …Essa spesso finisce nelle mani del pigro, dell’imprevidente, del furbo e dell’ipocrita(…). Nel complesso si è riscontrato che, ovunque l’assistenza esterna è stata erogata con liberalità, gran parte della popolazione è divenuta pigra, scialacquatrice e disonesta: in una parola pauperizzata>>[14] . Bisogna, pertanto, trovare un criterio per distinguere tra poveri “buoni” e falsi poveri, ed evitare che l’intervento assistenziale generi abusi ed una tendenza all’ozio che distruggerebbe le basi di quella che Pigou, allievo di Marshall, chiamerà “Economia del Benessere”.   Dentro questo nuovo paradigma la “povertà” verrà vista in base al principio che ogni “trasferimento di reddito” in favore dei meno abbienti è positivo solo se non incentiva all’ozio ed allo spreco e , soprattutto, non produca una contrazione del “dividendo nazionale”, quello che noi oggi chiamiamo Pil.

L’economia del Benessere di Pigou e “l’ottimizzazione paretiana” fu l’ultima parola della scienza economica occidentale, prima che la crisi del 1929 sconvolgesse tutto il quadro sociale e politico. Negli anni successivi al crollo di Wall Street, molte potenze occidentali tremarono per la paura che la massa dei lavoratori disoccupati ( un quarto dei lavoratori statunitensi, un terzo dei lavoratori europei) potesse impossessarsi del potere, scatenare una rivoluzione. Come sostenne una volta Hungthinton “le riforme sono un antidodo alla rivoluzione”, e gli anni ’30 del secolo scorso lo confermano. Alcuni paesi, come l’Italia, Germania, Spagna e Portogallo, furono travolti dalle rivoluzioni nazionalsocialiste o fasciste, altri come gli Usa, la Francia, l’Inghilterra ed i paesi scandinavi vararono importanti riforme sociali. In tutti i paesi occidentali la lotta alla disoccupazione divenne una priorità, sia nella versione nazionalsocialista (Hitler riuscì a creare in sette anni quasi 6 milioni di posti di lavoro!) sia in quella socialdemocratica (Roosevelt ne creò oltre 10 milioni nella seconda metà degli anni ’30).

Come è noto, è stato Keynes che ha influito decisamente su questo approccio, dimostrando che esisteva un fenomeno di “disoccupazione involontaria” che non era concepibile nella teoria economica ortodossa.   In sostanza, per gli economisti classici e neoclassici bastava fare funzionare il mercato che le cose si sarebbero messe a posto in quanto- in base alla legge di Say – l’offerta crea la domanda e non vi può essere una disoccupazione che non fosse volontaria.    Keynes dimostrò che il sistema macroeconomico raggiungeva l’equilibrio senza utilizzare tutte le risorse disponibili, a partire dal lavoro, e nessun aggiustamento automatico del mercato era possibile. Era necessario, pertanto, l’intervento dello Stato, il deficit spending, per sostenere la domanda aggregata e salvare il capitalismo, come lui stesso affermò senza infingimenti.

Ma, con Keynes cambia anche l’approccio alla povertà che viene identificata con la disoccupazione. Era in gran parte vero nel periodo in cui lui scriveva, ma non lo è stato più a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. In quel decennio emerge, per poi consolidarsi successivamente, la figura del “working poor” del lavoratore povero o impoverito. Un fenomeno che oggi è sempre più diffuso, per cui pensare di combattere la povertà solo con più posti di lavoro è falso, se non si precisa di quale lavoro e salario stiamo parlando.  E’ questo un equivoco che coinvolge anche chi guarda al Mezzogiorno senza conoscerlo.

 

  • Le diverse facce della povertà nel Mezzogiorno oggi.

Si possono stimare in circa 800.000 i giovani del Mezzogiorno che possiamo inserire nella categoria degli “Workings poor”. Lavorano nelle piccole imprese locali,nel commercio,nelle imprese subappaltatrici, ma anche in catene nazionali di supermercati dove firmano buste paga regolari e ne incassano la metà. Se si sposano e fanno due figli cadono sotto la soglia della povertà,se la moglie non lavora scendono della categoria della “povertà assoluta”.   Naturalmente, la loro condizione è diversa se vivono in un piccolo centro, in casa di proprietà e con un orto ed animali da governare.   In molte aree interne del Mezzogiorno, le forme di autoproduzione e di dono/reciprocità hanno ancora un loro peso [15] che contribuisce all’integrazione del basso reddito.   Ma, la maggior parte dei giovani meridionali vive in centri urbani con scarsa possibilità di trovare forme integrative di reddito, di vivere fuori dal mercato.

La maggioranza dei giovani meridionali sono diventati “formalmente liberi” di vendere la loro forza –lavoro, ma non sanno più a chi venderla.   Come Marx aveva intuito e denunciato, nel mercato del lavoro capitalistico la condizione più disperante è quella di chi non riesce a farsi sfruttare. Ed è questa la condizione dei giovani meridionali. Chiusa la macchina della spesa pubblica, ridotte le attività produttive, i giovani non hanno altra via che quella dell’emigrazione. Gli appartenenti ai ceti medi, partono per studiare nelle più prestigiose Università del Centro-Nord : Roma, Bologna,Forlì, Milano, sono le mete più ambite e frequentate. Non perché nel Sud non ci siano delle Università, qualcuna anche ben funzionante, ma perché sperano di inserirsi in un circuito migliore, di conseguire lauree più prestigiose e che, in ogni caso, vengono valutate di più. La maggioranza degli studenti universitari parte dopo la Triennale, sia perché le Specialistiche sono carenti nelle Università del Mezzogiorno, sia per i motivi soprarichiamati. Insomma, si tratta di un pre-inserimento nel mercato del lavoro, di mettersi nelle condizioni migliori per entrare nel mondo del lavoro. Gli appartenenti al ceto medio-alto ed alle elite vanno a studiare o a specializzarsi all’estero (Inghilterra, Usa , Germania, Francia), mentre i figli dei ceti popolari si iscrivono nelle Università meridionali senza molta convinzione, ma solo per la necessità di trovare un “parcheggio”.

Complessivamente, per motivi di studio o di lavoro tra i giovani nati nel Mezzogiorno e che si collocano nella classe di età tra i 20 ed i 35 anni, oltre il 60 per cento vive fuori dal territorio meridionale anche se, in gran parte, conservano la residenza nei luoghi di origine. Per questo i dati sull’emigrazione meridionale enunciati dall’Istat o dalla Svimez sono decisamente sottostimati. C’è un grande flusso di giovani che vanno e vengono dal Sud al Nord ed in senso inverso, che tentano di trovare un lavoro, spesso falliscono o trovano solo lavoretti sottopagati nel settore privato. Infatti, il taglio della spesa pubblica, anche nel Nord, impedisce di trovare quei lavori precari nella Pubblica Amministrazione a cui era possibile accedere in passato: una supplenza nelle scuole, un trimestre alle Poste, ecc.   Paradossalmente, la gran parte dei giovani emigrati nel Centro-Nord –per motivi di studio o di lavoro- sono mantenuti dai genitori e nonni.  Ovvio per gli studenti, molto meno per chi lavora. Il problema è che si tratta in gran parte di lavori sottopagati che non riescono a coprire gli alti costi (casa, trasporti, ecc.) della nuova residenza.   Non era mai successo in passato! La grande emigrazione degli anni ’50 e ’60 aveva una matrice inversa : erano gli emigranti che mandavano i soldi a casa per sostenere le famiglie. Sono stati i nostri emigranti all’estero che, attraverso le rimesse, hanno sostenuto la lira negli anni difficili precedenti la prima guerra mondiale e successivamente nel periodo 1946-1958.   Oggi, invece sono le famiglie meridionali che mantengono, in parte, questa forza-lavoro emigrata nel Centro-Nord. Si tratta di una forza-lavoro che rientra in quello che Marx definiva come “sovrapopolazione stagnante” : << La terza categoria della sovrapopolazione relativa, quella stagnante, costituisce una parte dell’esercito operaio attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. (…) Le sue caratteristiche sono: massimo tempo di lavoro e minimo di salario>>.  Questa “sovrappopolazione stagnante”oggi, oltre ad essere composta da extracomunitari, è composta da giovani meridionali , sostenuti dalle famiglie di provenienza per resistere allo sfruttamento selvaggio, scommettendo su un futuro migliore.

Il Mezzogiorno, anche per questa via- oltre quella più nota del “risparmio”[16]– ha accresciuto il trasferimento di risorse nel Centro-Nord, continuando ad impoverirsi.  Un meccanismo micidiale che accentua decisamente il divario Nord-Sud e che produce una “triste” condizione esistenziale per i giovani meridionali. Infatti, la domanda è: chi non parte che fa? Non abbiamo dati precisi, ma solo qualche inchiesta sul campo condotta in questi anni in Sicilia e Calabria. Va detto, che c’è una piccola parte di giovani che rimangono nel Sud perché ereditano una qualche “rendita professionale”. Sono i figli dei professionisti affermati (avvocati, ingegneri, commercialisti,notai, ecc.) o di ricchi commercianti o i rampolli della nuova borghesia mafiosa che con i proventi dei mercati illegali aprono ipermercati, resort, grandi alberghi, centri benessere, ecc. Ma, la maggioranza dei giovani che restano nel Mezzogiorno lo fa non per scelta, ma per mancanza di alternative, per mancanza di risorse o poco spirito di intrapresa, più spesso dopo aver tentato la via dell’emigrazione uscendone con le ossa rotte. E’ quella parte della forza-lavoro, che Marx collocherebbe oggi nella sfera del “pauperismo”, ed esattamente nella terza categoria del pauperismo che abbiamo prima richiamato : <<gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare>>.   Ma, con una grande differenza rispetto al passato. Questi giovani che non studiano, non lavorano, né cercano più il lavoro vivono in una condizione esistenziale inedita. Sono i cosiddetti NEET ( Not in Education, Employment or Training) che Bankitalia stima in 2,2 milioni in Italia, e che nel Mezzogiorno sono più del 30% dei giovani.  Non muoiono di fame e di stenti, come avveniva in passato in condizioni simili, ma muoiono lentamente sul piano della vita civile, si ritirano in sé stessi ed in una cerchia ristretti di amici, per lo più in condizioni simili.  Non praticano il “volontariato” che, come sappiamo, è positivamente correlato all’attività, per cui ci troviamo in una situazione, apparentemente paradossale, che si trovano più facilmente “volontari” nelle aree a più alta occupazione e ricchezza che in quelle a basso reddito ed alti livelli di disoccupazione. Questi giovani, specie quelli che vivono in piccoli centri urbani, hanno a disposizione due risorse rare nella società dei consumi: lo spazio ed il tempo. Due risorse fondamentali per la vita, che gli abitanti delle metropoli inseguono disperatamente, e che questi giovani hanno in abbondanza ma non sanno che farsene.

 

  • Giovani, povertà e Mezzogiorno: che fare ?

Tutte le forze politiche, o quasi, denunciano da anni la gravità della disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno, con una retorica stucchevole, senza indicare soluzioni, nella maggioranza dei casi.   Ogni possibilità di dare un futuro alle nuove generazioni, di contrastare la disoccupazione/ emigrazione di massa, viene ricondotto ad una formula magica: la crescita.   Peccato che la “crescita”, la ripresa, o come la si vuole chiamare viene rimandata di anno in anno. E’ come uno studente bocciato un anno dopo l’altro che non desiste.   Certo, a furia di crolli e cadute il Pil potrà un giorno lontano anche segnare un piccolo segno positivo, ma il trend di fondo è segnato.   Ci siamo incamminati in quella fase che già gli economisti classici avevano previsto – la lunga stagnazione- e che il ricco, e tecnologicamente avanzato, Giappone sta sperimentando da vent’anni. Il tema è dunque il seguente: come creare lavoro che abbia un senso- sul piano sociale ed ambientale- in una fase storica di <<lunga stagnazione>>.

Non vi è, ovviamente, una formula magica o un’unica ricetta.   Quello che deve essere chiaro è che non vi può essere nessuna risposta che non preveda un cambiamento nelle politiche nazionali, in quello che si chiama “modello di sviluppo”.   Non vi è certamente alcuna risposta dentro le attuali politiche di austerità, di taglio indiscriminato della spesa pubblica, nella presunzione di pagare un “debito pubblico” che è insostenibile e dovrà essere, insieme agli altri paesi europei, rinegoziato.   E’ questo un nodo centrale che nei limiti di queste note non possiamo approfondire, ma non possiamo ignorare.

Ammesso e non concesso, che la ragione prevarrà e usciremo fuori dal ricatto dello “spread” , resta il fatto che la Nuova Divisione Internazionale del Lavoro ci offre pochi spazi per pensare di puntare ancora sull’aumento delle esportazioni, mentre dovremmo pensare a ridurre alcune importazioni che hanno a che fare con la nostra “sovranità energetica ed alimentare”. [17]   Questo significa che abbiamo bisogno di promuovere il risparmio energetico e le energie rinnovabili, per ridurre l’importazione di combustibili fossili, migliorare la nostra bilancia commerciale e renderci meno dipendenti dalle montagne russe del prezzo del gas e del petrolio. Ugualmente, nei prossimi anni, la speculazione finanziaria ed il mutamento climatico, renderanno sempre più preziosa la produzione agricola e zootecnica di qualità ed il ruolo imprescindibile dell’agricoltura contadina, come ha sostenuto recentemente il presidente della Commissione Europea.   E’ evidente che nel campo delle energie rinnovabili e dell’agricoltura biologica il Mezzogiorno ha un grande ruolo da giocare, che si può tradurre in migliaia di nuovi posti di lavoro con una evidente utilità sociale ed ambientale.   Gli ultimi dati Istat ci dicono che il solo settore dove è cresciuta l’occupazione è il settore primario, ma potrebbe crescere molto di più solo se cambiasse il modo in cui funziona il mercato agro-alimentare e si utilizzassero le terre incolte (nell’ osso del Mezzogiorno ormai siamo vicini al 30%).   Ancora grandi spazi di manovra ci offrono gli investimenti in campo culturale, nella valorizzazione del patrimonio archeologico, storico, ecc. , nella ricerca applicata alle energie rinnovabili, alla bio-agricoltura, ai nuovi materiali ecologici, al risparmio di materie prime, ecc.

Questa è la riconversione ecologica del nostro modello che non è più un’idea astratta di ambientalisti utopisti, ma è diventata una necessità. Ma, questo cambiamento potrà avvenire solo nel medio-lungo periodo, mentre i giovani, soprattutto nel Mezzogiorno, hanno bisogno di una risposta hic et nunc. Per questo , in maniera schematica, formuliamo alcune proposte per il breve periodo:

a ) l’introduzione di un reddito di cittadinanza per tutti i giovani dai 18 ai 32 anni che non studiano, né lavorano;

  1. b) distribuzione, anche in comodato d’uso ventennale, delle terre incolte, degli immobili non utilizzati o confiscati alle mafie, a cooperative, imprese individuali, ecc. costituite preferibilmente da giovani meridionali ed immigrati extracomunitari (in particolare, indiani, pachistani, eritrei, etiopi, ecc.)[18]
  2. c) introduzione a livello di enti territoriali di una moneta locale complementare. Si tratta di una moneta di scopo che serve a ridare fiato all’economia locale-dato che può circolare solo in un ambito territoriale ristretto- e permettere agli enti locali (in primis i Comuni) di occupare i giovani in varie attività sociali e culturali di interesse comunitario.

 

Non abbiamo qui lo spazio per approfondire queste proposte. Possiamo solo dire che il reddito di cittadinanza per i giovani è una misura urgente per bloccare la fuga di massa dal Mezzogiorno, mettendo ovviamente dei vincoli di godibilità. Potrebbe essere agganciata a Lavori Ecologicamente Necessari ed essere prevista all’inizio solo per il Mezzogiorno, nella misura in cui non si ripetono gli errori fatti in passato per gli LSU ed LPU.   E questo può essere fatto solo con i “contratti di responsabilità territoriale” , che il sottoscritto –nella qualità di presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte- ha potuto implementare e dimostrarne l’efficacia nella lotta agli incendi e nella raccolta dei rifiuti. [19] Dove trovare le risorse finanziarie? E’ la solita obiezione a cui si può rispondere facilmente: attraverso una tassazione adeguata della rendita finanziaria, immobiliare, e dei redditi alti.

Sull’uso delle terre incolte, nonché sul sostegno alla piccola e media proprietà contadina sta diventando sempre più importante l’estensione delle reti di economia solidale, di cui i Gruppi di Acquisto Solidale sono una delle espressioni più importanti e conosciute. L’ente locale può favorire questi processi, come sta già avvenendo in alcuni Comuni della Lombardia, Toscana, Emilia, ecc. Si tratta di trovare le forme alternativa al mercato attuale gestito dalla grande distribuzione che fa il bello ed il cattivo tempo, imponendo ai produttori prezzi iniqui ed insostenibili, che generano ribellioni e tensioni sociali, che si scaricano spesso sull’anello più debole dello sfruttamento: gli immigrati. [20]

Infine, sulle monete locali complementari, questa misura –che si sta sperimentando in varie parti del mondo – fa parte di quel processo di recupero di una parte della “sovranità monetaria” che abbiamo perso.   Il fenomeno è ormai esploso in importanti città come Londra o Monaco ed è presente in varie forme anche in Italia, ma ancora allo stato embrionale e, purtroppo, senza l’intervento di una autorità pubblica, la sola che può dare valore ad una nuova moneta.[21]

Vorrei concludere dicendo che se non si interviene immediatamente per bloccare la fuga di massa dei giovani dal Mezzogiorno, qualunque intervento futuro sarà inutile perché mancheranno i soggetti sociali che possono produrre il cambiamento necessario. Non c’è più tempo.

[1] Cfr. T.R.. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, Utet, Torino, 1965, pag 323

[2] Vedi F. Quesnay, Il “Tableau économique” ed altri scritti di economia, Isedi, Milano, 1973, p. 37

[3] Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973 (ed. or.

[4] <<Con una spesa molto piccola lo Stato può facilitare, incoraggiare ed anche imporre a quasi tutta la massa del popolo la necessità di apprendere le parti più essenziali dell’educazione>> , A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973, p. 772

[5] Ibidem, p. 122

[6] Cfr   D. Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione, Isedi, Milano, 1976, pp. 70-71

[7] Ibidem pag. 70

[8] Cfr. J. Stuart Mill, Principi di economia politica, Utet, Torino, 1953, pp.350-52

[9] Ibidem pag. 355

[10] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro primo3, cap. XXIII°, Ed. Riuniti, Roma, 1956, pp 94-95

[11] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II° p. 268

[12] Vedi Giovanna Procacci, L’economia sociale ed il governo della miseria, in Aut-Aut, n° 167/68, La Nuova Italia, Firenze, 1978. Nello stesso numero della rivista vedi anche l’articolo di Manuel Castel, “La guerra alla povertà negli Stati Uniti e lo statuto della miseria nella società dell’abbondanza”.

[13] Sull’importanza e gli effetti di questa legge, nonché in vivacissimo dibattito politico e teorico, vedi K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1980, in particolare il capitolo settimo.

[14] Cfr. Alfred Marshal e M.P. Marshall, Economia della produzione, Isedi, Milano, 1975, pp. 48-49

[15] Sull’autoconsumo ed il dono come forme di integrazione del reddito abbiamo condotto un’indagine sul campo, nel 2001 nei paesi collinari e montani della provincia di Reggio Calabria, vedi “Aspromonte. I parchi nazionali nello sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino 2002

[16] A partire dagli anni ’60 del secolo scorso il rapporto “risparmio/impieghi” degli istituti bancari ha visto un continuo deficit a sfavore del Mezzogiorno ed a vantaggio del Nord. Vale a dire: una parte consistente del “risparmio delle famiglie meridionali” è stato utilizzato ed investito fuori dal territorio meridionale.

[17] Sulla necessità per tutti i paesi di riprendersi la sovranità energetica ed alimentare, come risposta alle “fluttuazioni giganti” della Borsa ed al mutamento climatico, vedi T. Perna, Eventi Estremi. Come salvare il pianeta e noi stessi dalle tempeste climatiche e finanziarie, Altreconomia Ed., Milano, 2011.

[18] Nella nostra esperienza sul campo, a partire dal noto progetto di Badolato e Riace, abbiamo potuto verificare gli extracomunitari, provenienti dai paesi sovra citati , sono i soggetti più adatti a coltivare le terre incolte e renderle produttive, fermo restando che abbisognano di una filiera virtuosa come quella dei Gruppi di Acquisto Solidale

[19] Vedi su queste esperienze e sul “contratto di responsabilità territoriale” T. Perna, Aspromonte…., op. cit.

[20] Vedi il caso della rivolta di Rosarno del gennaio 2010, oggi approfondito all’interno della filiera agrumicola nel saggio di F. Mostaccio, La guerra delle arance, Rubettino ed. Soveria Mannelli, 2012

[21] Sul piano teorico, vedi il saggio di Bernard Lietaer, The Future of Money . Creating New Wealth, Work, and a Wiser World, Random House Group, London, 2001.

Beni confiscati: opportunità o rovina per l’economia calabrese ? di Tonino Perna

Beni confiscati: opportunità o rovina per l’economia calabrese ? di Tonino Perna

 

Grazie alla legge Rognoni- La Torre ( n.646/1982) che ha permesso il sequestro e la confisca dei beni ai clan mafiosi, e all’impegno di Libera che nel 1996 raccolse oltre un milione di firme perché i beni confiscati avessero una destinazione di utilità sociale, abbiamo in Italia uno strumento di contrasto alle mafie che è stato studiato e, alle volte copiato, in altre aree del mondo. Uno strumento fondamentale di redistribuzione della ricchezza accumulata illegalmente che oggi è un punto di riferimento a livello internazionale per tutti coloro che, a vario titolo, tentano di opporsi alla criminalità organizzata.

Dopo oltre trent’anni dall’approvazione della legge Rognoni-La Torre è necessario fare alcune considerazioni. 27.000 i beni confiscati dal 1982 ad aprile 2017 ( di cui solo 13.000 restituiti alla società civile e alle istituzioni), per un valore complessivo che si aggira secondo le stime più attendibili a più di venti miliardi. In non pochi casi, è stato lungo e complesso l’iter che porta alla assegnazione dei beni immobili e/o delle imprese a fini sociali, ma non di rado è stata fallimentare la gestione di “imprese confiscate” da parte dei consulenti nominati dal Tribunale. Per diverse ragioni. La prima è che spesso questi consulenti, pur essendo validi professionisti (avvocati, commercialisti, ecc.) non sono imprenditori e quindi non hanno le capacità per gestire un’impresa. In secondo luogo l’impresa mafiosa ha una serie di rapporti e legami sociali che le consentono spesso di avere canali privilegiati di sbocco per le sue merci e/o servizi. Risultato: sono pochi i casi in cui le “imprese confiscate” sono sopravvissute a questo passaggio di gestione, e quando è successo è stato grazie ad una rete di economia solidale che ha sostenuto questa “rinascita” legale dell’impresa. Infatti, è molto difficile anche per un bravo imprenditore rimettere in piedi un’impresa confiscata, dopo mesi di chiusura e di perdita di rapporti e relazioni sociali, perché il mercato capitalistico è spietato e non ti sta ad aspettare. Inoltre, nella maggior parte dei casi la piccola impresa ha oggi difficoltà di sopravvivere, specie nell’agroindustria, se non trova un mercato di sbocco che gli consente di ottenere un “prezzo equo” che la grande distribuzione normalmente non le garantisce (anzi!… ti paga male e in ritardo).   I dati non lasciano scampo: secondo l’ANBSC (Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati) su 876 imprese “confiscate” ben 813 sono andate in liquidazione (sic!), 59 sono state vendute e solo 3 date in affitto.

Morale della favola: nella maggior parte dei casi le imprese confiscate vanno in liquidazione e poi falliscono e i lavoratori rimangono fregati. Sono migliaia i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro perché l’impresa mafiosa per cui lavoravano è stata confiscata e poi è fallita. Basti pensare che nel solo 2016 le imprese confiscate contavano 2.973 addetti. Questa conseguenza o “effetto collaterale”- ovviamente non voluta né dal legislatore, né dai magistrati- comporta una perdita di fiducia nelle istituzioni e nelle forze che lottano contro le organizzazioni mafiose. In tutto il territorio meridionale si sta perdendo quel consenso alla lotta contro la borghesia mafiosa e al suo braccio armato, che aveva coinvolto anche le nuove generazioni. E’ un dato di fatto che dovrebbe preoccupare tutti coloro che hanno a cuore il futuro di questa terra.

In secondo luogo, da quando la magistratura sta attaccando duramente i beni appartenenti ai clan, i capitali mafiosi non vengono investiti più nel territorio meridionale. Pertanto, dato che in un sistema capitalistico sono gli investimenti che determinano il tasso di crescita economica e di occupazione, molte aree del Mezzogiorno, e particolarmente la Calabria, si sono andate impoverendo in questi ultimi anni, ben al di là degli effetti della recessione a livello nazionale. In sostanza assistiamo a una beffa: prima le mafie hanno desertificato con la violenza il tessuto produttivo del Sud, poi, appena lo Stato e le sue istituzioni hanno cominciato a combatterle seriamente, hanno portato fuori i capitali e dismesso gli investimenti che avevano fatto grazie all’accumulazione proveniente dai mercati illegali.

Che fare? dunque. La risposta non è semplice né univoca, ma uno sforzo bisognerebbe farlo. Anche se va detto che nel marzo di quest’anno il Consiglio dei Ministri ha adottato un provvedimento legislativo in favore dei dipendenti delle imprese confiscate e delle agevolazioni finanziarie per la gestione di queste imprese, la traduzione nella pratica stenta a emergere e, in ogni caso, si tratta di un provvedimento utile ma insufficiente. Innanzitutto, ci vorrebbe una ricerca seria su questi oltre venti anni di imprese “mafiose” confiscate: studiare la loro vita, spesso breve, e far emergere anche i casi di successo che servano da modello per costruire una risposta adeguata. Non si parte da zero perché esiste già qualche ricerca significativa, come quella condotta da Federica Cabras e Ilaria Meli, ma sono poco conosciute e andrebbero ampliate e approfondite. Inoltre, occorre uno sforzo di tutte le forze sociali e culturali che sono impegnate a trovare una alternativa a questo modello di “inviluppo” per far pressione sull’ANBSC perché velocizzi le procedure e migliori la gestione di questi beni, soprattutto, lo ribadisco, delle imprese confiscate. Se un bene immobile confiscato rimane inutilizzato per molti anni rappresenta certamente un danno economico, ma se si tratta di una impresa confiscata il danno è ben maggiore e colpisce direttamente i lavoratori dipendenti che già soffrono nel nostro Sud per le attuali pessime condizioni del mercato del lavoro.

 

Quotidiano del Sud  10.5.2018

Gli effetti dell’austerità sul Sud Europa di Gianfranco Viesti

Gli effetti dell’austerità sul Sud Europa di Gianfranco Viesti

La proposta per il bilancio 2021-2027 dell’Unione Europea appena presentata dalla Commissione, che prevede tra l’altro un taglio di circa il 10% in termini reali delle politiche di coesione regionale, appare miope e pericolosa. Essa non va solo contro gli interessi del nostro paese; ma anche contro quelli, di lungo periodo, dell’intero continente.

L’Unione Europea è stata per decenni uno straordinario successo. Non ha garantito solo la pacifica convivenza; ma anche, attraverso l’integrazione dei suoi stati membri e delle loro regioni, una forte crescita economica, un miglioramento costante del benessere di tutti i suoi cittadini. Non a caso, il consenso degli europei per l’Unione è sempre stato fortissimo; essa ha rappresentato il faro del complesso e radicale processo di trasformazione dell’Europa Orientale dopo il comunismo.

Ma da un decennio non è più così. La crisi del debito sovrano, aggravata dall’estremismo delle norme dell’austeritá definite da Bruxelles, ha colpito duramente il Sud Europa. Lo sappiamo bene in Italia: siamo ancora lontani dal reddito di dieci anni fa; il calo degli investimenti pubblici e delle spese per ricerca e istruzione rende più difficile il recupero di produttività e sviluppo, mentre la debolezza delle politiche di inclusione approfondisce le disparità sociali. Ma tutta l’Europa è attraversata da nuove disuguaglianze di benessere, e di prospettive di benessere futuro: l’ascesa dei paesi emergenti e la riorganizzazione dell’industria nell’Europa centrale, intorno alla Germania, producono una polarizzazione geografica della crescita. Vaste aree ai confini orientali dell’Unione soffrono povertà e emigrazione; antiche regioni industriali in Belgio, nel Nord-Est della Francia, nel Nord della Spagna scivolano indietro; ci sono scricchiolii nello stesso Nord della Germania. La digitalizzazione dell’economia favorisce le aree urbane, concentrando imprese, capitali e giovani talenti nelle città più forti, aggravando cumulativamente le disparità con le aree rurali. Ma nelle stesse aree urbane si creano e si approfondiscono disuguaglianze sociali.

In sostanza, l’Europa non produce più benessere e speranza nel futuro per tutti i suoi cittadini, ma solo per alcuni di essi. Una parte crescente di europei vede, anche in conseguenza di questo, l’Unione più come il problema che come la soluzione. Rinascono pericolosissimi nazionalismi, particolarismi. Gli elettori delle regioni perdenti, “che non contano”, votano per movimenti e partiti antieuropei.

Le politiche di coesione sono il principale strumento che l’Unione ha per contrastare questi fenomeni, per far crescere benessere e inclusione in tutte le sue regioni, per convincere gli scettici degli enormi vantaggi dello stare insieme, e dei rischi gravissimi dell’indebolimento della nostra casa comune. Le politiche di coesione sono il principale strumento comunitario per la crescita di tutte le regioni. Agendo in modo parzialmente decentrato e differenziato, essendo  “piace-based” cioè tarate sulle diverse caratteristiche dei territori, possono intervenire proprio sui fattori alla base dell’insufficiente sviluppo, e dell’incompleta inclusione sociale delle diverse aree. Anche questo sappiamo bene in Italia. Sono molto importanti al Centro-Nord (cui è destinato circa un terzo delle risorse per l’Italia), specie per sostenere ricerca, innovazione, istruzione, formazione. Sono decisive nel Mezzogiorno. Con il tracollo degli investimenti nazionali ordinari, e la quasi scomparsa delle politiche nazionali di sviluppo territoriale (Fondi Sviluppo e Coesione), i fondi regionali europei sono l’unico strumento per potenziare l’ancora assai carente infrastrutturazione materiale e immateriale, rafforzare le sue imprese, dare prospettive e speranze ai suoi cittadini più deboli. Contrastare gli evidenti, gravissimi, rischi di involuzione economico-sociale del Mezzogiorno.

La proposta della Commissione è solo il primo passo della trattativa, sempre lunga e complessa, che porterà al bilancio. Anche se assai indebolito dalle circostanze elettorali, il nostro paese deve essere allora capace di sviluppare in queste settimane una forte azione politica; sulla quale non è fortunatamente impossibile trovare ampie convergenze fra gli schieramenti. Deve giocare un ruolo centrale nella discussione, con la forza e l’orgoglio di un grande paese fondatore. Una possibile agenda potrebbe ruotare intorno a quattro grandi obiettivi: 1) rivedere le poste di bilancio e 2) assicurarsi che i parametri per l’allocazione territoriale dei fondi disponibili (che sono in corso di revisione e saranno resi noti a fine mese) non penalizzino le regioni italiane. Poi, 3) rivedere alcune regole, affinché la Commissione sia più attenta alla concreta efficacia degli interventi che agli aspetti formali, che sia assicurata trasparenza e coinvolgimento dei cittadini. Infine, 4) eliminare le “condizionalitá macroeconomiche” e in genere le norme che vorrebbero legare queste politiche al “Semestre europeo”, e cioè alle “riforme strutturali” uguali per tutti propugnate dai rigoristi a oltranza; al contrario, chiedere a gran voce che finalmente questi investimenti non siano presi in considerazione nel calcolo del deficit pubblico: quella “regola d’oro” indispensabile perchè la stabilità si possa sposare davvero con la crescita. Poi occorrerá ripensare a fondo, dopo l’occasione buttata al vento nel 2014, come utilizzare al meglio queste risorse nel nostro paese, e particolarmente al Sud.

Un programma ambizioso. Ma forse un tema adatto per provare a spingere, giá da oggi, la politica italiana ad non occuparsi solo di se stessa ma anche del futuro dei cittadini.

 

Gianfranco Viesti

 

IL MESSAGGERO – IL MATTINO

 

4 MAGGIO 2018

 

Perché è necessario il reddito di cittadinanza di Piero Bevilacqua

Perché è necessario il reddito di cittadinanza di Piero Bevilacqua

E’ il capitalismo, bellezza!

Ci tengo a rammentare in via preliminare che chi scrive è andato in giro per l’Italia a perorare la causa del reddito di cittadinanza (meglio chiamarlo forse di dignità, ma ritornerà nel merito) qualche anno prima che nascesse il movimento 5 Stelle.Non è una rivendicazione personale, ma una precisazione storica.

In Italia, per disinformazione o per debolezza di memoria, si tende a dare la primogenitura di questa proposta, anzi a identificare quello che da tempo è un vero e proprio movimento rivendicativo, con la formazione politica fondata da Beppe Grillo. E’ dalla fine del passato decennio che in Italia opera, con molteplici iniziative e pubblicazioni, il Basic Income Network Italia (BIN -Italia), collegata a una rete mondiale unificata dallo stesso fine.

Non considero tale rivendicazione un obiettivo rivoluzionario, ma una passaggio obbligato di medio periodo delle società industrializzate. D’altra parte, com’è largamente noto, in alcuni paesi europei governati da un un ceto politico meno inetto e corrotto del nostro, tale forma di welfare vige ormai da anni in diverse forme e versioni. Personalmente, considero la riforma più auspicabile nelle società capitalistiche, atta a creare nuovi posti di lavoro e distribuire più equamente il reddito, la riduzione della durata della giornata lavorativa.In coerenza con quanto è avvenuto nell’ormai secolare storia delle società industriali.Lavorare meno, lavorare tutti, secondo il felice slogan italiano, conosciuto anche all’estero, dovrebbe essere lo sbocco naturale nella situazione presente. Secondo quanto prevedeva e auspicava il maggiore economista del XX secolo, Keynes, nelle Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930). Anche Marx prospettava una drastica riduzione del tempo di lavoro destinato ad attività produttive, ma quale esito del superamento della società divisa in classi.

Ebbene il nostro tempo assiste al più paradossale capovolgimento di un corso storico secolare. Nonostante la crescita costante della produttività del lavoro degli ultimi decenni, la durata della giornata di lavoro, anziché diminuire, è aumentata. Hanno cominciato , come sempre gli USA, dove negli anni ’90 i lavoratori erano occupati in media 350 ore in più all’anno rispetto ai lavoratori europei. (J. B.Schor, Overworked American. The Unespected decline of Leisure, 1993; P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, 2011).Mentre era in corso una celebratissina crescita economica, la giornata lavorativa si allungava anziché accorciarsi. Tale orientamento ormai da anni va estendendosi anche ad altri paesi e all’Europa. E’ una tendenza che si manifesta attraverso la crescita degli straordinari tra i lavoratori stabilmente occupati, ma che investe anche il dilagante esercito dei lavoratori precari, i quali spesso non godono neppure di una “giornata lavorativa” in senso proprio .(R. Staglianò, Lavoretti, 2018; R.Ciccarelli, Forza lavoro, 2018). E’ questo peraltro un ambito in cui la precarietà e frammentarietà delle prestazioni maschera la disoccupazione dilagante. D’altra parte l’espansione del tempo di lavoro investe non solo la produzione ma anche la distribuzione. Centri commerciali, supermercati, piccole botteghe aperte anche la domenica a Pasqua e a Natale e anche il Primo Maggio.

Mi sono dilungato su questo aspetto per sottolineare il carattere dirompente di un evento storico i cui effetti sulle strategie del capitalismo vengono di solito trascurate. Il crollo dell’URSS, la crisi generale del movimento comunista internazionale, il declino o la trasformazione in senso moderato delle socialdemocrazie e dei sindacati, in Europa e in USA, hanno fornito al capitalismo un rapporto di dominio sulla forza lavoro quale forse aveva solo agli esordi della Rivoluzione industriale. Al mutato scenario politico, che ha privato il movimento operaio dei suoi tradizionali punti di forza, che ha perfino annichilito il suo immaginario simbolico, il patrimonio delle sue speranze, si è aggiunto, per il capitale, l’inedito, schiacciante vantaggio della possibilità di delocalizzare le imprese. E’ stata questa gigantesca opportunità il vero motore della cosiddetta globalizzazione: la libertà e la possibilità materiale – grazie alla rivoluzione informatica – di trasferire una fabbrica là dove i salari operai son più bassi, le condizioni fiscali e normative più favorevoli al capitale. Il potere di un imprenditore di dislocare in un altro paese la propria azienda, di fronte alla richiesta delle maestranze di migliori condizioni di lavoro, o solo davanti alla semplice richiesta di conservare il lavoro,instaura un rapporto così drammaticamente asimmetrico tra capitale e lavoratori da spazzare via, dalle fondamenta, la possibilità stessa del conflitto. Il capitale acquista un tale dominio sulla controparte, una tale forza politica – essendo il centro erogatore del reddito della grande massa dei cittadini mentre lo stato è sempre meno autorizzato a investire – che a lungo andare, se nulla cambia, minerà le istituzioni democratiche. Del resto si tratta di un processo già in atto.Da alcuni anni si è preso a parlare di postdemocrazia (C.Crouch, Postdemocrazia, 2009)

Dunque, il primo aspetto da considerare è squisitamente politico. Si leggono tante analisi sulla situazione economica e sembra che i processi esaminati siano tutti politicamente neutri, spogliati da interessi di classe, quasi meccanismi naturali.E invece i processi economici sono mossi da interessi spesso feroci, il capitalismo – come dovrebbe essere noto a chi non ha una posizione agiografica di fronte ai fenomeni in corso – sta conducendo e vincendo una vasta e multilaterale battaglia di classe.(L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, 2012) I gruppi economici dominanti hanno un vivo interesse a far mancare il lavoro: in questo modo hanno a disposizione una vasta platea di forza lavoro docile, disponibile, flessibile. E’ davvero la situazione ideale per combattere la competizione intercapitalistica su scala globale. Ma non c’è solo uno specifico interesse politico delle imprese a militare contro una politica keynesiana di piena occupazione. E’ la natura del capitalismo che è profondamente cambiata: un modo di produzione che assorbe sempre meno lavoro. E’ da anni che alcuni osservatori hanno cominciato a parlare di jobless grouth, di crescita senza occupazione. Poi la crisi del 2008 ha portato la devastazione che è nota e quindi, anche a distanza di 10 anni, si pensa, soprattutto in Italia, che sia solo questione di “uscire dalla crisi” di superare una congiuntura sfavorevole e che tutto riprenderà come prima. Ma non è così.Esemplare quello che sta accadendo negli Stati Uniti, che dalla crisi (da essi stessi provocata) sono usciti da un pezzo:

<< L’effetto occupazionale della crescita del PIL è oggi più blando di quanto non accadeva anni fa.Il caso americano insegna: nonostante l’economia segni da anni un andamento positivo, il tasso di occupazione degli USA rimane ai minimi storici (addirittura paragonabile a quello della grande depressione).I bassi tassi di disoccupazione non devono ingannare: molti americani semplicemente hanno smesso di cercare lavoro.Il problema è che l’aumento del PIL è connesso principalmente ai settori più innovativi ed efficienti (spesso legati alla domanda estera).Così crescono profitti, investimenti e produttività; ma solo in misura modesta l’occupazione >> ( M. Magatti,Vantaggi e svantaggi della total job society, << Vita e Pensiero>> dicembre 2017)

Se, dunque, la più potente economia del pianeta, pur in pieno sviluppo economico, non riesce a garantire non dirò piena occupazione, ma neppure un lavoro dignitoso e ben remunerato, come può l’indebitata Italia, con i suoi indici di incremento del PIL di “uno vergola qualcosa”, garantire alcunché a chi è in cerca di un lavoro, mentre per imposizione dogmatica e per interessi germanici viene impedito allo stato di fare grandi investimenti? Cosa accadrà nel nostro Mezzogiorno, che in alcuni ambiti è tornato indietro di qualche decennio? I giubili propagandistici di ripresa economica che abbiamo sentito sulla bocca dei presidenti del Consiglio e degli uomini degli ultimi due governi sono, dal punto di vista dell’occupazione, delle blandizie o – se vogliamo concedere la buona fede – delle pure illusioni. E’ un modo di osservare i processi secondo un vecchio meccanismo mentale: pensare che il futuro torni a replicare quel che già è accaduto in passato. E dunque si inneggia alla ripresa, all’Italia che è “ripartita”. Comprensibile slogan elettorale, dal momento che i partiti sono in immersi in una sempiterna campagna elettorale. Quale Italia è ripartita? L’analfabetismo analitico, la coazione a ripetere, l’incapacità di associare alle parole un brandello di pensiero, impedisce a quasi tutto il ceto politico italiano di vedere che è ripartito il processo di accumulazione del capitale, ma non lo sviluppo della società. Non ci sarà ripresa significativa dell’occupazione con questi ritmi di crescita. Crescita, del resto, non tutta auspicabile se deve avvenire a spese degli equilibri territoriali e ambientali. Ma non ci sarà soprattutto perché non la futura, ma la prossima crescita economica sarà sempre più segnata dalla sostituzione del lavoro umano con macchine, con dispositivi elettronici.Nei prossimi anni avremo l’avvento della cosiddetta industria 4.0, caratterizzata dall’uso capillare dei robot, l’internet delle cose industriali, l’integrazione orizzontale delle macchine che si relazionano tra loro, la stampante 3D, ecc. E, novità assoluta, l’automazione digitale si applicherà non solo alle operazioni manuali , ma anche alle attività cognitive.Nei prossimi anni nelle società industriali, si prevede, la sparizione di milioni di posti di lavoro.( M.Ford, The Ligths in the tunnel.Automation, accelerating technology and the economy of the future, 2009; E. Brynjolfsson e A. McAfee, La nuova rivoluzione delle macchine.Lavoro e prosperità nell’epoca della tecnologia trionfante, , 2015) Andiamo dunque incontro a una società insostenibile e paradossale: un incremento senza precedenti della ricchezza in termini di prodotti e di servizi, con sempre meno occupazione. E tale scarsità di lavoro è destinata a produrre docilità soggettiva delle nuove generazioni, scoraggiamento sociale e politico e dunque impossibilità di un antagonismo che costringa il capitale nell’unica direzione che sarebbe vantaggiosa per tutti: una equa distribuzione del poco lavoro necessario e del reddito disponibile.

Spezzare il circolo vizioso

Per spezzare questo nefasto circolo vizioso non abbiamo altro mezzo, oggi, che imporre il reddito di dignità, dare alle persone, ai nostri giovani, un minimo di sicurezza materiale perché incomincino ad essere autonomi nelle proprie scelte di vita. Nel Sud ormai milioni di persone non sono politicamente e civilmente più libere, perché costrette a uniformarsi alle influenze di chi promette loro una occasione di lavoro! Chi teme l’assistenzialismo e la “passivizzazione” degli individui, per un reddito ricevuto senza merito, dovrebbe ricordarsi di questa attuale, drammatica situazione di dipendenza. Ma dovrebbe soprattutto capire che il mondo è profondamente cambiato, è mutata la natura del capitalismo ed è comprensibile, ma sbagliato, valutare le condizioni del nostro tempo con la vecchia etica del lavoro. Non è necessario lavorare una giornata al fine di produrre merci a servizio di qualche privato o a sbrigare pratiche in un ufficio pubblico per poter pretendere un salario. Certo, fornisce un’intima soddisfazione morale essere retribuiti per un compito dignitosamente svolto. Ma se tali compiti scarseggiano non si può andare a cercare qualunque lavoro per ricevere un reddito.D’altra parte, viviamo ormai tutti immersi in una società panlavoristica. Ognuno di noi, anche il disoccupato, contribuisce per la sua parte alla valorizzazione del capitale, alla produzione della ricchezza sociale. Lo fa mentre telefona a qualunque ora del giorno e della notte, naviga su internet, si sposta da un ufficio all’altro in cerca di lavoro, consuma pubblicità televisiva o sui siti, svolge lavoretti, va in giro a fare acquisti, ecc. E’ mutata e continua a mutare la natura della ricchezza, ma cambiano, diventano diffusi, sotterranei, capillari e invisibili, i modi in cui essa viene prodotta all’interno di un capitalismo pervasivo che succhia profitti da tutto ciò che si muove.

Che tipo di reddito?

Che cosa intendiamo per reddito di dignità ?Pur non essendo nostra competenza entrare nel merito tecnico della sua misura ed applicazione, non ci sottraiamo all’obbligo di una definizione essenziale.

Esso dovrebbe essere un reddito di base universale e incondizionato, per tutti coloro che fonti di reddito non possiedono. Crediamo non siano auspicabili le tante forme di workfare attive da tempo in Europa, che subordinano l’erogazione del sussidio a obblighi di lavoro e di addestramento destinati a schiavizzare gli individui. Il film di Ken Loach, Io, Daniel Blake (2016) ci ha dato una testimonianza esemplare e indimenticabile di come il reddito minimo applicato nel Regno Unito assoggetti i subalterni a meccanismi implacabili e perfino persecutori di subordinazione.

Possiamo provare a immaginare quali dinamiche sociali potrebbe innescare una sifatta elargizione?Pensiamo ai nostri giovani giovani laureati che vorrebbero continuare le proprie ricerche e studi.Essi non scapperebbero magari a fare i camerieri a Londra, dopo mesi e mesi di ricerca di un posto di lavoro in Calabria o in Sicilia. Avrebbero l’agio di continuare i loro studi e anche quel minimo di sicurezza per tentare insieme ad altri giovani di avviare qualche impresa, iniziative culturali, centri di ricerca, ecc. Anche il padre di famiglia disoccupato non resterebbe certo inerte a fruire del modesto reddito pubblico. Chi ha attitudine al lavoro produttivo e comunque all’intrapresa, avrebbe vari campi in cui applicare i suoi talenti per integrare il proprio reddito di base: dall’agricoltura all’allevamento animale, dall’enogastronomia al turismo, dall’edilizia di restauro, al piccolo commercio, ai trasporti, al volantariato, ecc.

Occorre precisare che non intendiamo suggerire qui l’idea di una società abitata da un popolo di oziosi. Viene meno il lavoro e tramonta l’etica del lavoro, ma non l’attitudine umana all’operosità. L’intelligenza e l’energia delle persone si può applicare a un vasto campo di ambiti.Il << vecchio Adamo che è in noi >>, come Keynes definiva quell’innato bisogno dell’uomo a operare, può essere soddisfatto non solo con le attività produttive, che ovviamente non spariranno e non saranno tutte automatizzabili, ma con tante attività di cura. Cura dell’ambiente, del territorio, del paesaggio, accoglienza e lavoro di mediazione culturale con gli immigrati, assistenza agli anziani, creazione di welfare locale, ecc.

Naturalmente perché questi processi si sviluppino occorre ridare centralità al potere pubblico. Soprattutto i comuni devono essere messi in condizione di investire in infrastrutture, in cura delle città e dei manufatti urbani, in restauro del territorio, cura dell’ambiente, gestione dei servizi, dall’acqua alla sanità, alla scuola, ecc. E occorre perciò rovesciare la funesta ideologia che ha trovato così tanti proseliti negli ultimi 30 anni, secondo cui funziona solo ciò che è promosso dall’iniziativa privata. Occorre rimettere al centro il pubblico, cioé noi, la collettività dei cittadini, accrescendo la trasparenza degli atti e dei procedimenti amministrativi e incrementando così efficienza, democrazia e partecipazione collettiva. In una società resa operosa dall’iniziativa pubblica e da una cultura diffusa del bene comune ci sarà poco posto per l’inerte passività del singolo.

Infine, una risposta all’obiezione più sostanziale e rilevante all’introduzione del reddito di dignità. Un’obiezione da affrontare con serietà ma che consente di svolgere una riflessione politica oggi assolutamente necessaria. L’obiezione, com’è noto, è quella della scarsità delle risorse finanziarie disponibili. Ora non c’è dubbio che un Paese con il nostro debito pubblico non è nelle migliori condizioni per affrontare questa spesa rilevante. Ma su tale punto occorre premettere una riflessione generale. Dobbiamo porci la domanda radicale: una forza politica che rappresenti davvero la parte più debole della società deve farsi carico della sostenibilità finanziaria delle proprie rivendicazioni? Certo, non può pretendere di avere la Luna, perché nessuno gliela può dare. Ma della sostenibilità finanziaria si deve fare carico il governo, non una forza di opposizione che sia veramente tale, che rappresenti realmente gli interessi dei ceti più deboli e svantaggiati. E questo per una ragione molto semplice: il bilancio dello stato, specie dello stato di un paese ricco come il nostro, non è la pura somma aritmetica di entrate e uscite, ma è un vero “campo di forze”. La sua composizione è il risultato degli antagonismi dei più forti che si spartiscono la torta, è un bilancio di classe che dà a chi è in posizione di preminenza e toglie a chi non ha voce. Come si spiegherebbe altrimenti l’enormità del fatto che, annualmente, vanno alle nostre forze armate bel 25 miliardi di euro, 5 dei quali solo per armamenti? Cinque miliardi per uccidere esseri umani e distruggere territori in qualche parte del mondo in violazione all’articolo 11 della nostra Costituzione. Come si spiegherebbe altrimenti – stando ai bollettini annuali della Banca d’Italia – che al 30% delle famiglie più povere va appena l’1% della ricchezza nazionale, mentre il 30% delle più ricche ne detiene ben il 75% ? Il bilancio dello stato si compone non solo di uscite- ad esempio di esborsi pubblici, che in tutti questi anni sono andati alle imprese nel tentativo di accrescere l’occupazione – ma anche di una gerarchia fiscale non progressiva. Si accresce la ricchezza privata di chi è già ricco, mentre lo stato non accresce i propri introiti fiscali come dovrebbe se in Italia esistesse una forza politica di opposizione.

Dunque, questo farsi carico della sostenibilità finanziaria del reddito di dignità è un problema politico, non economico, una questione sociale e di classe, non di quantità. Tale rispetto delle compatibilità è solo il riflesso e la testimonianza della capitolazione delle forze politiche che erano state di sinistra. Esse, diventate forze di governo, hanno finito col guardare all’economia con la stessa cultura dell’avversario, come un insieme di leggi naturali e immodificabili, senza più scorgere i meccanismi classisti che la muovono e orientano.Il linguaggio dominante riflette in maniera fedele l’abbandono dell’analisi radicale della realtà e l’accettazione del punto di vista dell’avversario: scompaiono, dal lessico corrente, parole come capitale, capitalistico, profitto, processo di accumulazione e godono invece di esclusiva circolazione – quale unica moneta valida – impresa, imprenditore, sviluppo, mercato, crescita. Tutti termini neutri e positivi, lemmi di una semantica che illustra il dominio assoluto del punto di vista del capitale nel nostro tempo.

Perciò la battaglia per il reddito di dignità può anche essere la leva politica e culturale in grado di ridare alla sinistra una visione non subalterna del capitalismo attuale, e una prospettiva di lotta realmente egalitaria.

“C’era una volta il Sud… e c’è ancora…”. di Tonino Perna

“C’era una volta il Sud… e c’è ancora…”. di Tonino Perna

Nella primavera del 1972 (io c’ero!)…al Circolo Salvemini di Vibo Valentia introducendo un dibattito sulle elezioni politiche che si tenevano quell’anno, Valentino Parlato disse : << La questione meridionale è come quei fiumi carsici che compaiono e dopo un po’ scompaiono dalla vista per apparire più tardi >>.

Questa immagine c’è utile ancora oggi per guardare al nostro Sud attraverso la “longue durée” di braudeliana memoria, le onde lunghe della storia ci insegnano molto di più che l’inseguire la tachicardia del presente.

Quando si teneva questo dibattito affollatissimo al Circo Salvemini, eravamo in un momento in cui le lotte popolari nel Mezzogiorno, anche quelle strumentalizzate dai fascisti come la famosa rivolta di Reggio Calabria del 1970 (l’ultima grande rivolta popolare del nostro Sud) si imponevano sulla scena nazionale. C’era stato un ciclo di lotte – Avola, Battipaglia e la stessa Reggio Calabria per citare solo quelle più conosciute- in cui si intrecciavano rivolte bracciantili con quelle operaie e con istanze popolari molteplici che mettevano in difficoltà i governi democristiani e di centro sinistra che corsero ai ripari con una serie di Riforme sociali. Vorrei qui ricordare che la legge n.300 del 20 maggio del 1970, detta anche Statuto dei lavoratori, venne varata da un governo che certamente non si poteva dire di sinistra, con un partito comunista totalmente all’opposizione, ma venne varata perché , come sostenne Hunghtinton in un noto articolo “Le riforme sono il surrogato della rivoluzione e la corruzione è l’alternativa alle riforme”.

Come è avvenuto per le più importanti misure che riguardano i diritti sociali e il welfare si sono registrate quando il potere aveva paura della rivoluzione di stampo sovietico, aveva paura dei comunisti. Dopo l’89 il mercato capitalistico diventa globale e per le imprese del Nord il mercato meridionale diventa marginale sia sul lato dell’offerta (decentramento produttivo, vedi Gioiosa Jonica ad esempio che entra in crisi alla fine degli anni ’90 quando Benetton e C. spostano le loro commesse a façon in Romania e poi in Cina) che da quello della domanda (si è calcolato che solo un punto in più di Pil in Germania vale più di 10 punti di crescita al Sud sul lato della domanda).

Dunque, negli anni ’90 si è inaugurato un lungo periodo che verrà ricordato come la Contro-Riforma capitalistica su scala mondiale, come fu nel XVI secolo quella cattolica , come reazione alla Riforma di Martin Lutero.

Da quel momento la Q.M. esce di scena e nasce in Italia la Lega Nord e la Q.S. Tutto l’interesse dei media venne catturato dall’emergere di un malessere settentrionale. Vorrei qui ad esempio ricordare le piazze di Santoro, ma soprattutto la trasmissione Profondo Nord di Gad Lerner. Addirittura il Pds con Fassino pensò seriamente di trasferire a Milano la segreteria del partito e tutti i dibattiti si concentrarono sulla Q.S.

Di fronte a questo capovolgimento di fronte, a questa cancellazione della Q.M. le popolazioni del Sud rimasero silenti. Come dimostra la ricerca coordinata da Stefano Cristante non solo crolla l’interesse per il Mezzogiorno, ma sul piano mediatico la QM tende a indentificarsi con la questione criminale. A partire della strage di Capaci e poi di via D’Amelio è la mafia siciliana prima, poi la Camorra e infine nel nuovo secolo la ‘ndrangheta che prende la scena quando si parla di Mezzogiorno.

L’impatto della Crisi sul Mezzogiorno 2007-2014

  • Il doppio dell’impatto sul piano economico. Reddito, consumo, tasso di disoccupazione. I tagli lineari della PA colpiscono due volte nel Mezzogiorno rispetto al Nord perché la spesa pubblica ha un peso nella formazione della ricchezza che è il doppio . Aveva ragione Paolo Sylos Labini quando scriveva negli anni ’80 che il motore della crescita al Sud è la spesa pubblica.
  • A differenza di altre fasi della storia contemporanea, questo divario tra Nord e Sud d’Italia, che si è allargato in maniera rilevante, fa parte di un processo generale che caratterizza questa crisi: crescono in tutti paesi del mondo, con poche eccezioni, le diseguaglianze territoriali, tra regioni ricche e quelle più povere, quanto quelle sociali tra la classe medio-alta e il resto della popolazione.

 

Conseguenza più disastrosa è la fuga dal Sud dei giovani come non si era mai vista. I dati Istat sono sottostimati perché tengono conto solo del cambio di residenza ma, come dimostrano i Censimenti, c’è uno scarto crescente tra popoplazione residente e presente.   Pertanto, noi possiamo oggi affermare che dal 2007 a oggi hanno lasciato il Mezzogiorno 2 giovani su 3 almeno una volta per motivi di studio o ricerca del lavoro. Ci troviamo di fronte ad una situazione drammatica che Carlo Levi aveva descritto per un piccolo paese lucano e che oggi si può estendere a quasi tutto Il Mezzogiorno (eccetto Pescara-Teramo-Chieti, il barese e il leccese, e pochi altri siti).

Tutti i giovani di qualche valore e quelli appena capaci di fare la propria strada , lasciano il paese. I più avventurati vanno in America , come i cafoni, gli altri a Napoli o a Roma; e in paese non tornano più. In paese invece ci restano gli scarti , coloro che non sanno far nulla, i difettosi nel corpo, gli inetti, gli oziosi: la noia e l’avidità li rendono malvagi. Questa classe degenerata deve, per vivere, poter dominare i contadini, e assicurarsi, in paesi i posti remunerati di maestro , farmacista, prete, maresciallo dei carabinieri, e così via….Da qui la lotta continua per arraffre il potere , essere noi o i nostri parenti o compari ai posti di comando. (pp 33-34)

E torniamo ad oggi chiedendoci cosa è cambiato rispetto a quel mondo descritto da Carlo Levi.   Sinteticamente possiamo dire:

  1. Le campagne si sono completamente spopolate come le zone interne che hanno perso dal 1951 a oggi, mediamente, quasi l’80 per cento della popolazione.
  2. Sul piano culturale le nuove generazioni del Sud hanno modi di vivere e costumi molto simili ai loro coetanei del Nord, (Report Cavalli) così come a livello di istituzioni come la famiglia le differenze sono ormai minime (leggere i tassi di divorzi e separazioni)
  3. Sul piano dell’economia illegale il paese è stato unificato, sia per quanto riguarda la corruzione , il lavoro nero e infine per quanto riguarda le organizzazioni criminali: ‘ndrangheta, camorra e mafia si sono divise ampie zone del Centro/Nord
  4. Infine sul piano politico la crisi economica, con i relativi tagli dei trasferimenti netti dello Stato, hanno tagliato le gambe allo storico clientelismo meridionale e lasciato una libertà di voto come dimostrano i risultati elettorali nelle elezioni comunali degli ultimi anni e sicuramente il successo recente del M5S.
  5. Intatti, il successo clamoroso dei M5S al Sud va innanzitutto letto in quest’ottica: la fine della capacità di ricatto e consenso della vecchia classe politica. Ma, allo stesso tempo non rappresenta una rottura rispetto al passato : nel 2014 il Pd alle Europee aveva preso nel Mezzogiorno quasi il 36% , meno che nel CN ma sicuramente quasi il doppio del M5S che aveva preso il 22%.   Perché non ci siamo chiesti il perché di questa massa di voti al Pd di Renzi ? In gran parte aveva la stessa motivazione: la ricerca di un cambiamento radicale che dia una risposta all’impoverimento di questa parte del paese.

Che fare ?   Bisogna che lo Stato italiano riprenda il suo ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. Sarebbe ancora più corretto e coerente se la Ue che ha assunto il ruolo con la BCE di prestatore monetario di ultima istanza (una volta affidato alle singole banche nazionali) assumesse anche il ruolo di datore di lavoro di ultima istanza. Il che significherebbe che una parte dei fondi europei che vanno alla “crescita economica” , e più spesso alle rendite parassitarie e alla corruzione, venissero usati per aumentare direttamente l’occupazione in servizi essenziali quali : la sanità, la scuola, i servizi sociali. Ma, anche la ricerca scientifica e le Università dovrebbero essere finanziate per garantire uno standard europeo indipendentemente dal luogo dove sono ubicate.

In ogni caso, in tempi brevi, la battaglia va fatta nei confronti dei governi nazionali che tagliano l’occupazione nella P.A. per dare incentivi crescenti e inutili alle imprese.

 

“La Calabria senza diritti e senza rappresentanza” di Enzo Paolini

“La Calabria senza diritti e senza rappresentanza” di Enzo Paolini

La questione che apriamo, in generale è quella della ricerca della vita a sinistra e nel sud, in chiave attuale di una questione meridionale che, lungi dall’essere risolta è più che mai presente.

Anzi è aggravata, resa ficcante e decisiva nello svolgimento sia delle dinamiche politiche che della vita quotidiana e personale di ciascuno di noi. Non siamo stati capiti.

Abbiamo ceduto al ceto politico tutti i nostri diritti.

Non quasi tutti. Tutti.

Faccio un esempio. Il meno evidente ma il più assoluto che riguarda tutto il Sud e con la drammatica pregnanza che in Calabria, che è la sanità.

Negli anni 70 abbiamo fatto due grandissime, rivoluzionarie conquiste di democrazia lo statuto dei lavoratori ed il servizio sanitario, universale e solidaristico. La l. 833/78. Tutte le cure sono dovute a tutti e sono pagate dallo Stato attraverso il prelievo fiscale che – secondo il principio costituzionale – aveva, in parte ancora ha, una scansione proporzionalmente progressiva.

Una applicazione egregia di socialismo reale, pensata negli anni del centrosinistra dai ministri socialisti Mariotti, Tremelloni, Mancini e poi emersa nell’anno drammatico il ‘78 in cui nel paese si sviluppò la violenza di Stato contro il pericolo comunista che portò all’omicidio di Moro. Non credo che vi sia oggi persona – di buon senso ed oggettiva – che non abbia ben chiaro cosa è avvenuto in Italia al fine della conservazione del potere da parte di un ceto che sin da allora si autoriproduceva.

La legge sul servizio sanitario ha avuto aggiustamenti nel corso degli anni e sino ad un certo punto non ha dato fastidio perché le risorse ancora erano sufficienti, la ricerca e l’innovazione ancora non così costose tanto che si consentiva ancora di tenere il piede in due staffe, come icasticamente celebrarono Zampa e Sordi nel medico della mutua.

Poi si pensò all’aziendalizzazione ed all’incompatibilità per iniziare a controllare i flussi di denaro. Operazione condivisibile – siamo nel 92 con Amato e Bindi – ed in grado, in teoria, di morigerare ed efficientare il settore.

Tralascio tutti i commenti tecnici e vado al nocciolo quello dei diritti (o del diritto) dei meridionali.-

Quando qui è imploso il sistema, depredato e devastato da corruzione ed imbrogli, connivenze con la ‘ndrangheta e altro, si è giunti al Commissariamento.

Misura che – come tutte quelle prodotte sulla scorta di emozioni, urgenze, suggestioni, emergenze politiche, può – deve – essere transitoria e limitata altrimenti cancella la democrazia e con essa la libertà ed i diritti.

Il nostro servizio sanitario che – secondo la riforma costituzionale – dovrebbe essere regolato e gestito dalla Regione, dalle sue rappresentanze democratiche è affidato da un Commissario dal 2010.

Otto anni, durante i quali ci siamo assuefatti a questa cessione totale di sovranità.

Ed i risultati si vedono. La forbice dei diritti si è allargata. Chi può andarsi a curare in costose cliniche private lo fa, chi ha malattie particolari e può viaggiare, pagare un albergo per i propri familiari viaggia, chi è fortunato ed ha amici che fanno saltare liste d’attesa ne approfitta. Gli altri si arrangiano e approdano al girone infernale dei pronto soccorso dove medici eroici e grandi professionisti non ce la fanno ad impedire la morte per disorganizzazione sanitaria. Nel frattempo la finanziaria dice che le strutture del nord possono accogliere senza limiti i casi di alta complessità, mentre i calabresi con l’ernia inguinale devono restare qui o pagare.

E la ricchezza delle aziende lombarde aumenta e il turismo sanitario aumenta e le aziende calabresi falliscono ed i cittadini calabresi rimangono qui, senza diritti, pur avendo subito il prelievo fiscale contenente la quota per l’assistenza sanitaria pubblica.-

Da cosa dipende tutto ciò? Dal sistema di rappresentanza sul quale abbiamo incondizionatamente ceduto.

Si è interrotto il circuito della rappresentanza nel momento in cui agli interessi del territorio e dei cittadini come motore, serbatoio di idee, motivazione per gli eletti nelle istituzioni si sono sostituiti i desiderata di un capo.

Pensiamoci un attimo, per quale motivo un ceto politico autoreferenziale in maniera assoluta dovrebbe avere riguardo a cosa pensano i cittadini costretti a sostare su una barella in corridoio o ad emigrare in Emilia per una TAC o per una cataratta? Perché – evidentemente – quei cittadini potranno premiarlo o punirlo nelle prossime elezioni con il loro voto. Ma se questo non è consentito, se l’eletto avrà riguardo solo a compiacere un capo che potrà rimetterlo o non rimetterlo in lista, non farà mai sentire neanche un pigolio rispetto allo sfacelo della sua regione, governata da otto anni attraverso un sistema antidemocratico finalizzato solo a mettere nelle mani di uno non la gestione ma il controllo della spesa.

E la spesa va al nord, va nella direzione di interessi più o meno leciti, va, comunque in direzione di chi, attraverso la spesa, controlla il consenso.

E’ questa è una questione meridionale? Io penso di si. Si sono persi diritti? Io penso di si? Si sono azzerate le rappresentanze? Io penso di si. E’ il famoso enunciato di Rodotà per il quale l’abdicazione più simbolicamente eversiva alla quale sono stati costretti gli italiani è il diritto di avere diritti.-

Ed io aggiungo che questo fenomeno aggrava e fa diventare putrida la questione meridionale, fino a trasformare questa tragedia nella farsa di due mestieranti che litigano sulle reti nazionali sui vitalizi dei consiglieri regionali, apparentemente in un disaccordo (demagogico quanto mai) ma in realtà ambedue con l’unico obiettivo di difendere, la casta, l’uno presentandola come un ceto pieno di errori ma, alla fine dignitoso, l’altro come il moralizzatore dell’ultima ora, quelli che a Milano dopo le cinque giornate chiamavano gli eroi della sesta giornata.

Ambedue avvinghiati al potere e tanto indifferenti alle sorti ed anche alle parole degli altri che censurando le lentezze e le negligenze, le colpe per l’aggiustamento di un ponte, durato dodici anni, non si rendevano conto che in questi dodici anni il governo erano loro.

Insomma il taglio del cordone ombelicale tra eletti ed elettori che in regioni e situazioni dove i cittadini possono, in qualche modo sfuggire o pensare di sfuggire o fare a meno di esercitare diritti riconosciuti dalla Costituzione perché la loro costituzione materiale glieli può assicurare comunque (ad alcuni) qui nelle Murge o in Aspromonte o a Corso Telesio si presenta come il passaggio tra un sistema democratico ed un regime.

Noi abbiamo plaudito e combattuto in momenti e da postazioni diverse, al pacchetto Colombo e Gioia Tauro, a Saline Joniche, abbiamo pensato che autostrade e università fossero solo apparentemente risposte politiche ma assecondavano logiche commerciali ed – alla fine – scelte di potere.

Ne abbiamo visto i vantaggi e ne abbiamo scontato miseria e obliquità quanto speculazioni ed arricchimenti personali frutto di spregiudicati comportamenti sul limite ed oltre i reati.

E ciò per il semplice fatto che quelle era lotta politica, confronto aspro, siamo giunti fin dentro la lotta armata, attraverso la quale, lo ricordiamo in tutte le salse in questi giorni, si cercava il riconoscimento politico, la legittimazione.

Ma mai la sinistra aveva prodotto e pagato in termini così alti questa caduta di legittimazione.

L’analisi più acuta di questo fenomeno – l’ha ricordato anche D’Alema in un recente pezzo sul Manifesto – sta in una riflessione di Alfredo Reichlin che Luciana Castellina mi ha dato, il giorno del suo saluto, per pubblicarlo tra le carte del Premio Sila. Dice Reichlin che “non sarà una logica oligarchica a salvare l’Italia. E’ il popolo che dirà la parola decisiva. La sinistra rischia di restare sotto le macerie. Non possiamo consentirlo. Non si tratta di un interesse di parte ma della tenuta del sistema democratico e della possibilità che questo resti aperto e agibile dalle nuove generazioni. Quando parlai del PD come di un “Partito della nazione” intendevo proprio questo, ma le mie parole sono state piegate nel loro contrario: il “Partito della nazione” è diventato uno strumento per l’occupazione del potere, un ombrello per trasformismi di ogni genere. Derubato del significato di ciò che dicevo, ho preferito tacere”.

Il risultato, da noi, è stato devastante ed i figuranti che ci dovrebbero rappresentare gli Oliverio, i Crocetta, i De Luca, i Pittella suonano come sul Titanic solo che i musicanti del transatlantico erano eroi consapevoli della loro sorte, i sedicenti politici di oggi sono satrapi che si ritengono inaffondabili.

Ed invece sono già affondati tirandoci giù.

Ecco i risultati – nudi e crudi: in Italia il centrosinistra complessivamente prende il 22.95% (il PD il 18.7) in Calabria il 17.11 (il PD il 13.1) e così via-

Dunque dal mio punto di vista la Calabria è ora una terra senza rappresentanza e senza diritti e ciò è stato determinato dallo scassinamento della Costituzione nei suoi articoli fondamentali, quelli della prima parte. Tutti i primi 11 articoli della Costituzione sono clamorosamente inattivati. Basta leggerli per rendersene conto. E’ da qui che dobbiamo ripartire. Dall’attuazione della Costituzione come programma politico. E deve partire dal Sud.

*

E ciò è stato consentito dalla introduzione di una legge elettorale, quella fatta da un odontotecnico di Varese, che per inventarsi un tecnicismo che consentiva alla lega di avere rappresentanze cospicue al Senato ha costituito un Parlamento totalmente autonominante che si è livellato talmente in basso e con un tale grado di dipendenza dei nominati che nessuno ovviamente ha avuto – ed avrà – la forza di modificare.

Agli incolti ed incompetenti che hanno provocato questo disastro politico approvando un ultima legge palesemente incostituzionale dovremmo richiamare lo spirito della Costituzione e quali siano i diritti Costituzionali, in maniera da tentare di far capire loro – ove lo vogliano – in che modo si possono adottare (senza voti di fiducia) leggi elettorali conformi alla Costituzione e rendersi conto una volta per sempre che la (vera) democrazia rappresentativa non tollera un Parlamento infarcito – come ancora quello attuale – di nominati ed impresentabili.

L’auspicio è che comunque, come in altri tempi, gli intellettuali contaminino le più alte istituzioni come la Corte Costituzionale la quale nel determinare l’illegittimità della attuale legge elettorale indichi al Parlamento un percorso legislativo a maglie strette – e può farlo – che consenta di riallacciare la connessione (non solo sentimentale) ma anche elettorale tra i cittadini e le Istituzioni perché solo su questa corrente il nostro osservatorio potrà fare sentire la sua energia.

 

 

“Il Sud nella crisi della democrazia rappresentativa. Analisi e riflessioni dopo il voto del 4 marzo”

“Il Sud nella crisi della democrazia rappresentativa. Analisi e riflessioni dopo il voto del 4 marzo”

E’ stata ufficialmente presentata nel corso di una partecipata iniziativa che si è svolta il 20 aprile scorso nei locali della Camera del lavoro di Cosenza, una nuova associazione culturale nata su impulso dello storico Piero Bevilacqua, che ne è anche il presidente. L’associazione “Osservatorio del Sud” è stata creata con l’intenzione di porre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nazionale i gravi problemi dell’Italia meridionale di oggi senza le retoriche recriminazioni del passato, ma con un grande sforzo di verità,  con analisi circostanziate, che traggano il Sud fuori dalla coltre degli stereotipi che lo deformano, mostrandolo così come: piagato da tanti mali – disuguaglianze estreme, fuga delle intelligenze, devastazione del territorio e del paesaggio, infiltrazioni criminali, nuove povertà – ma anche ricco di forze di contrasto, di imprenditoria sana e dinamica, di nuove correnti culturali, di passione politica e civile, di generosi amministratori, di figure straordinarie che progettano e perseguono un nuovo mondo possibile.

“L’Osservatorio – spiega Piero Bevilacqua – costituisce anche uno sforzo di raccordare e mettere in rete le intelligenze meridionali disperse nel territorio della Penisola e in Europa. Vuole dunque essere uno sguardo vigile sui problemi e i fermenti di una parte rilevante del nostro Paese. Ma ha anche l’ambizione di elaborare idee, progetti e proposte, che aiutino le forze migliori a trovare la strada di un impegno corale di trasformazione sociale e di emancipazione civile”.

La nuova associazione è stata presentata al pubblico nel corso di un convegno dal titolo “Il Sud nella crisi della democrazia rappresentativa. Analisi e riflessioni dopo il voto del 4 marzo”.

Dopo i rituali saluti del segretario della Cgil Cosenza, Umberto Calabrone, e una breve presentazione del professore Battista Sangineto, che è anche il vicepresidente dell’associazione, la relazione introduttiva affidata all’economista e sociologo calabrese, Tonino Perna: “C’era una volta il Sud… e c’è ancora…”.

Il segretario generale Cgil Calabria, Angelo Sposato, nel suo intervento ha posto l’accento sul tema dell’occupazione: “Nel mondo del lavoro calabrese ci sono ancora moltissime vertenze aperte. Viviamo in un territorio che ancora soffre di un pesante divario con il resto del Paese a causa di un elevatissimo tasso di disoccupazione, presenza della criminalità organizzata e mancanza di riforme istituzionali, economiche e politiche. Ciò ha determinato una frattura decisa tra la classe dirigente e il mondo del lavoro che ha prodotto il risultato elettorale del 4 marzo”.

Sono poi seguite le relazioni dell’avvocato Enzo Paolini “La Calabria senza diritti e senza rappresentanza” e la conclusione affidata allo storico Piero Bevilacqua: “Perché il reddito di cittadinanza è necessario”.

Terminati gli interventi programmati, si è aperto un vivace dibattito animato da una lunga serie di interventi dal pubblico: non solo soci dell’associazione ma anche semplici cittadini stimolati dalle riflessioni dei relatori. Ne è nato un confronto teso e sentito sulle nuove dinamiche del lavoro, su tecnologia e capitale, sui conflitti di classe, sulla funzione politica di una nuova sinistra, sull’ambiente e gli spazi comuni e sull’importanza di imporre nel dibattito pubblico nazionale una nuova questione meridionale su basi radicalmente nuove.

20 aprile 2018

Dal sud, per il sud, per il paese di Massimo Veltri

Dal sud, per il sud, per il paese di Massimo Veltri

L’uscita del saggio di Francescomaria Tedesco, Mediterraneismo, è un’ occasione, fra le tante, per tornare a parlare di Sud e della Calabria, in giorni in cui il paese a due mesi dal voto che ha visto la netta affermazione del centrodestra e dei Cinquestelle, il tonfo del centrosinistra nonché la marginalità della sinistra di LeU è ancora senza governo. E’ un’occasione anche, in previsione, come commenta Gianfranco Viesti, degli effetti dell’austerità sul sud dell’Europa che deriverebbero dal “taglio del dieci per cento in termini reali delle politiche di coesione regionale”. Anche se, come si legge a ranghi sciolti da parte di osservatori di diversa estrazione, le risorse finanziarie di provenienza comunitaria non dovrebbero costituire elemento di per sé salvifico non c’è dubbio alcuno che i capitali di Bruxelles sono interventi che se spesi e ben spesi possono fare la differenza. E nell’ultimo numero della rivista Italianieuropei Onofrio Romano, implacabile, chiosa: È finita un’epoca, come s’usa dire. Si è chiusa per il Sud la stagione della speranza nella possibilità di trovare un posto tutto suo nel grande gioco dell’economia europea e globale, grazie a quel rimbocchiamoci le maniche che ha funzionato da motto-architrave per l’immaginario di sviluppo degli ultimi trent’anni – ormai quasi quaranta, per la verità – e che ha avuto il centrosinistra come principale interprete. Il lamento sulla scomparsa del Sud dall’agenda politica nazionale, in questa medesima stagione, scivola via come una lacrima di coccodrillo: se l’idea cardine coincide con l’auto-attivazione, ogni politica per il Sud decade in automatico o si trasforma in puro lubrificante delle traiettorie intraprese dai singoli attori e dai singoli territori. Il leghismo non ne è la causa, ne è solo un altro effetto. Il grottesco è che i primi a lamentarsene oggi (della scomparsa) sono proprio coloro che negli anni passati non hanno predicato altro che la buona novella dell’auto-attivazione. E i meridionali ci hanno creduto. Hanno applicato la ricetta con diligenza ed entusiasmo senza pari. Le ritornanti litanie sull’inadeguatezza antropologica dei cittadini del Sud alla modernità sono l’alibi con cui i profeti (più o meno consapevoli) dell’ordoliberismo coprono il fallimento dei loro modelli.”
Serve attardarsi in analisi del voto per capire le ragioni del divorzio del sud verso l’ortodossia governativa, in specie considerando che tutte le Regioni del mezzogiorno, nessuna esclusa, erano al momento del voto, e lo sono tutt’ora, governate da maggioranze di centrosinistra a guida Pd: qualcosa di specifico, più di un qualcosa, non ha funzionato, è sotto gli occhi di tutti. A cominciare dal non essersi ‘federate’, le regioni meridionali e fatto sì che si parlasse una sola lingua verso il governo e, congiuntamente, si procedesse a ipotesi e progetti di stampo unitario. Ma, oltre alle analisi, contemporaneamente, serve pure e certamente di più ragionare sul che fare, tanto per quanto riguarda la sfera più squisitamente politica che con riferimento alla cultura che deve sottostare alla fase pragmatica.
Il pensiero meridiano di Cassano, a voler rappresentare, e augurarsi, un sud diverso, nei tanti mezzogiorni di Cersosimo e Donzelli, i localismi eletti a valore aggiunto, il deficit di coesione sociale, gli stereotipi innervati nell’indolenza da una parte, nella nostalgia delle Duesicilie dall’altra, le tentazioni lombrosiane-da rimandare al mittente-così come le autoesaltazioni del passato glorioso-da rimettere nel cassetto-possono costituire, molto sommariamente, i vertici di un poligono dentro il quale si è articolata nel corso degli ultimi anni una discussione sul sud, sui sud. Grazie a Giuseppe Galasso, allo stesso Viesti, a Piero Bevilacqua, a storici ed economisti napoletani e siciliani quali Isaia Sales, Salvatore Lupo, Francesco Barbagallo, Emanuele Felice, fino all’Osservatorio del Sud che di recente abbiamo fatto nascere con l’intento di far funzionare in maniera permanente una lente sui processi in corso, catalizzandone le dinamiche verso esiti virtuosi, e senza trascurare le numerosissime e diffuse su tutto il territorio esperienze di cittadinanza attiva, contraddistinte sovente di iniziative di spessore e valore oltre che contingente e localistico. Emanuele Felice, in particolare, rende giustizia analiticamente e scientificamente a coloro i quali-nel primo periodo, quello d’oro, del meridionalismo-argomentavano sulla centralità delle classi dirigenti e della loro inadeguatezza, allora come oggi. E rilancia con forza, Felice, insieme alla scuola di pensiero che si attesta intorno a lui, come qualsiasi dinamica volta al rivendicazionismo così come, parimenti, indirizzata alla non progettualità sia destinata al fallimento. E d’altronde le grida di dolore originate in attenti studiosi fra i quali Vito Teti e Tonino Perna dai dati statistici che proiettano nell’immediato futuro una desertificazione vera e propria non solo giovanile delle regioni meridionali di per sé dovrebbe costituire elemento non soltanto di riflessione ma di azione politica, d’emergenza, di vero e proprio new deal. Non si avverte, invece, non si percepisce affatto né allarme né consapevolezza, tant’è che si prosegue lungo lo stanco e stucchevole tran tran di riproposizione di autocandidature e gestione (men che) ordinaria dell’amministrazione delle cose correnti, senza slancio, senza prospettive.
Non è dato sapere, al momento, se la mistura ossimorica del governo Salvini-Di Maio si sostanzierà sotto forma di governo: se così sarà, e grazie anche, in misura considerevole, agli elettori del sud, assisteremo, è esercizio di facile profezia annunciarlo, al riaffermarsi e alla prevalenza schiacciante della questione settentrionale. Così che, come accadde agli inizi degli anni novanta con l’avanzare del pensiero di Miglio e delle azioni di Bossi, il mezzogiorno cadrà sotto un cono d’ombra dal quale uscire grazie alle politiche nazionali sarà sempre più difficile, a cominciare da quelle più urgenti: permanenza, lavoro, crescita strutturale.
E’ forse il momento perché le intelligenze vive delle regioni del sud, le passioni civili che in tante si agitano da noi, le agenzie a vario titolo operanti sul territorio, i corpi intermedi dell’articolazione istituzionale si pongano a fianco di chi detiene poteri e leve costituzionalmente proprie e avviino un ragionamento che affermi dignità e coscienza riconosciute a una parte del paese che non può essere messo fra parentesi.

Osservatorio del Sud: fissare orizzonte, direzione, finalità, obiettivi. Perseguirli con intelligente eccletismo di Mimmo Rizzuti

Osservatorio del Sud: fissare orizzonte, direzione, finalità, obiettivi. Perseguirli con intelligente eccletismo di Mimmo Rizzuti

L’iniziativa del 2 Dicembre scorso a Lamezia per la costruzione dell’Osservatorio, fortemente voluta da Piero Bevilacqua e materialmente organizzata da Gianni Speranza e Giacomo Panizza, parte dalla constatazione di una condizione del Mezzogiorno connotata da una sequenza di negatività che hanno portato all’oscuramento di quella che una volta era la questione nazionale per eccellenza.

Con tutti gli indicatori politici, economici , sociali , culturali, istituzionali in scivolamento costante verso il basso, ancorchè a macchia di leopardo, a testimonianza dell’articolazione della realtà meridionale, il Sud è progressivamente scomparso dalla scena .

Una recente, interessante ricerca curata da Daniele Petrosino e Onofrio Romano con prefazione di Franco Cassano, di cui è coautore Tonino Perna, si intitola emblematicamente “ BUONANOTTE Mezzogiorno”

Una ricerca, come sottolinea Cassano nella prefazione, che in maniera analitica registra l’oscuramento e l’impasse in cui si trova il Mezzogiorno da cui, nello scenario dato, non si riesce a trovare una via di fuga.

Per uscire da questo cono d’ombra occorre avere ben chiari i fenomeni che l’hanno generato e che purtroppo tendono a stabilizzarlo.

Dominante appare in ogni manifestazione o tentativo di riprendere un discorso sul Sud, un senso di RASSEGNAZIONE, di ACCETTAZIONE COME INEVITABILE DELLA CONDIZIONE DATA,DEI PARADIGMI E DELLA VISIONE DOMINANTE.

Una condizione che pervade le classi dirigenti tutte, politiche in primo luogo.

Da cosa deriva questo stato?

Piero, nelle ragioni in cui motiva questa iniziativa e nella sua introduzione, individua e indica nella “grave trasformazione e degenerazione della vita pubblica nazionale degli ultimi 70 anni.” il fenomeno che ha determinato questo stato di cose .

Registra come “quelli che erano stati i grandi partiti popolari, gli “organizzatori della volontà collettiva”, come li chiamava Gramsci,  i produttori di indagine e di cultura sociale finalizzati alla modernizzazione del Paese, si siano “trasformati in raggruppamenti di comitati elettorali.

Come gli stessi si siano dissolti in ceto politico, un corpo frantumato e dominato dall’individualismo competitivo  

, che opera al fine sempre più esclusivo e assorbente della vittoria elettorale. Vale a dire  l’ingresso alla gestione del potere.

A tale scopo, che non è quello della trasformazione del Paese secondo i suoi emergenti bisogni collettivi, l’indagine sociale e la conoscenza non servono. Servono i sondaggi”.

Come siamo arrivati a questo stato di cose?

Sulla scia della sua introduzione, credo sia opportuno sottolineare come questa condizione si sia determinata a conclusione di due momenti distinti della storia del nostro Paese : dal dopoguerra a tutti gli anni 70 del 900 e dagli anni 80 ad oggi.

Due periodi in cui il problema degli squilibri Nord –Sud del Paese sono stati declinati ed affrontati con due diversi paradigmi.

Nel primo periodo “ La questione Meridionale”, come problema politico nazionale resta oggetto dell’intervento dello stato centrale, attraverso l’intervento straordinario(CASMEZ) che sarebbe dovuto essere un intervento aggiuntivo volto a colmare gli squilibri storici delle due aree del Paese registrati al momento della unificazione (1860) ed accentuatesi successivamente , con una certa attenuazione nei gloriosi anni 30 del dopo seconda guerra mondiale, in cui il Sud ( anni 60 /70 del 900) aveva attenuato il divario.

In ogni caso il Sud, in tutto questo arco storico, è stato uno dei pistoni di maggiore spinta dello sviluppo del NORD (fornitore risorse umane preziose e mercato di sbocco per le sue imprese).

Forse sarebbe il caso che nel dare – avere conteggiato dalle classi dirigenti del Nord di questo periodo di crisi profonda dello Stato, che puntano a trattenere le tasse che si pagano nei propri territori, fossero conteggiati anche questi enormi credi ti del Sud.

La questione meridionale ha mantenuto una sua centralità fino a quando il quadro sociale si è organizzato intorno allo stato-nazione.

 

Entrato in crisi l’assetto Stato centrico (O Connor 73-97 ) il Mezzogiorno è progressivamente uscito di scena e negli ultimi decenni la questione meridionale( nel nuovo assetto della globalizzazione neoliberista) ha assunto un inedito protagonismo la questione settentrionale.

Caduto il muro di Berlino nell’89 modificatosi l’assetto geopolitico , e perduto il ruolo dell’Italia di “confine” il senso ed il tessuto della solidarietà nazionale si è vieppiù lacerato.

Agli inizi del secolo presente Cassano , Zolo, Amoroso, Bevilacqua, Alcaro, Barcellona, Perna, con varie accentuazioni pongono il tema del recupero di uno specifico ruolo centrale del Mezzogiorno nel nuovo scenario del Mediterraneo.

Siamo in una fase, a metà degli anni 90 in cui prende piede nell’ Unione , dopo il trattato Di Maastricht (1992),il processo di Barcellona ( 1995), per dare vita al Partenariato Euro Mediterraneo, cioè ad una strategia comune europea per la regione mediterranea, interessata a quell’epoca( 1993) dall’avvio del processo di pace israelo palestinese che dava vita all’incontro di Oslo, con protagonisti Arafat e Rabin e Clinton.

Iniziative di breve vita che però avevano suscitato grandi speranze ed acceso entusiasmi.

Sono del 2006/ 2007 due volumi collettanei fondamentali di questo tentato tentativo di porre come scenario per l’Europa la questione Mediterranea in cui il Sud Italia acquista piena centralità.( E’ Il paradigma dell’Autonomia). Il primo del 2006, la Frontiera Mediterranea, curato da Pietro Barcellona e Fabio Ciaramelli.

Il secondo del 2007 è Il volume curato da Franco Cassano e Danilo Zolo cui segue nel 2009 un altro libro di Cassano “Tre modi di vedere il Sud” in cui definisce il paradigma che connoterà la lettura e orienterà gli interventi nel Mezzogiorno come Localismo Virtuoso.

Un intervento bottom up ( dal basso) che nella logica della modernizzazione punta tutto sulle risorse endogene . E comunque su questo paradigma si dispiegano nell’arco del primo decennio di questo secolo, quasi tutte le energie intellettuali pur con diversità di accenti e tematiche affrontate, impegnate sul tema da Trigilia 93 a Magnaghi, Cersosimo, Donzelli, Donolo, Viesti, Barca che , da Agenda 2000 ad oggi, con incarichi dirigenziali ed istituzionali, Ministro delle politiche della coesione sociale e territoriale nel governo Monti, ne è stato l’attore principale sia sul versante della programmazione che su quello della gestione.

Ed è di questa fase il lavoro interessante delle Riviste MERIDIANA , diretta all’epoca da Piero Bevilacqua, Città Futura di Antonio Pioletti a Catania e Ora Locale diretta dal mai abbastanza compianto Mario Alcaro, fautore più di altri del paradigma dell’Autonomia , nel sostenere come alcune caratteristiche dell’identità meridionale, quali ad esempio la socievolezza ed il familismo, possano essere fatte valere come carte vincenti da giocare nella partita dello sviluppo e della competitività, dentro un’identità mediterranea di cui il parametro fondamentale è costituito dalla natura dove “ la visione del cosmo e il modo di rapportarsi al naturale danno vita a un naturalismo immaginifico e potente, di cui la modernità ha smarrito il senso”.

Temi che in altro contesto e scenario aleggiano nel recente volume di Riccardo Petrella “ nel nome dell’Umanità “ un patto sociale mondiale tra tutti gli abitanti della Terra” e che impattano frontalmente i temi dell’ambiente, della natura umana ed dei sistemi che la dominano.

Ma , anche in questa visione, il sud non è decollato. Restano gli squilibri di cui conosciamo fin troppo i numeri e le ricadute sulle popolazioni del mezzogiorno.

Anzi il Mezzogiorno è scomparso tout court dalla scena anche mediatica.

La ricerca PRIN “ Il sud e la Crisi” pubblicata nel libro“BUONANOTTE MEZZOGIORNO” economia, immaginario e classi dirigenti nel Sud della Crisi, curato da Romano e Petrosino, edito recentemente da Carocci , fornisce un’immagine inequivocabile dell’eclissi in cui è sprofondato il sud nella crisi su cui si è abbattuta la lunga recessione, analizzata nella ricerca da Tonino Perna e Fabio Mostaccio.

Anche se annotano gli autori nella introduzione, qualche debole segnale, peraltro non scontato, di esistenza , emergono dagli ultimi due rapporti Svimez.

Se diamo anche una fugace occhiata alla narrazione del Mezzogiorno, in termini quantitativi e qualitativi nel trentennio che va dal 1980 al 2010 al TG1 e ai due maggiori quotidiani italiani, e pur nella strutturale diversità ai siti web e alle pagine facebook, abbiamo la certificazione della scomparsa della questione.

Alcuni numeri:

Sul totale dei servizi esaminati nel periodo indicato il 91% non fa riferimento alcuno al Sud( 1678 ) contro il 9% riferiferiti al Sud (166). Se ancora si guarda il totale dei servizi dal 2000 al 2010 cambiano i numeri , 1433 a 150 ma le percentuali restano immutate. 91% e 9% .

E così possiamo continuare con rapporti analoghi sul numero delle edizioni in cui il sud è menzionato nei due periodi .Se poi andiamo a vedere le parole chiave in valore assoluto usate dai sevizi televisivi sul sud in testa la cronaca (53) , di cui quella nera rappresenta il 93% , seguita a ruota da Criminalità 42 ,seguite con distacco dal meteo 25 ( alluvioni e disastri) e dal welfare (sanità 63%.

Lo stesso andamento lo troviamo su Repubblica e Corriere della Sera, i due quotidiani esaminati

In totale su Repubblica su 2417 articoli articoli , 2005 coprono il periodo 1980 -1999. 412 il 2000-2010.

Nel corriere su 1251 articoli 941 coprono l’ultimo ventennio del 900 e 225 il primo decennio del 2000.

Le parole chiave sono criminalità 46% cronaca 18% Politica 13% Welfare 7% cultura 5% , Migranti 1% economia 2% ambiente 2% Lavoro 3% Società 3% meteo 0%

L’immagine che ne viene fuori non ha bisogno di illustrazioni.

La ricerca poi si pone il problema di esaminare l’immaginario delle classi dirigenti e con un campione composto da industriali , professori ordinari, politici e nuove leve .

Ne esce un quadro di sfiducia   e rassegnazione e comunque una volontà di trascinarsi dentro l’attuale modello di localismo e di modernizzazione progressista , nonostante gli esiti.

L’indice più alto di sfiducia e rassegnazione si registra in Calabria. Il più basso in Puglia.

In una situazione del genere diventa difficile imbarcarsi su sentieri nuovi di cui non si intravedono, segnali, dopo la chiusura della fase dell’intervento straordinario ancorata al Paradigma del Sud Questione Nazionale, nel solco dell’art. 3 della Costituzione e dell’impegno a rimuovere <<Gli ostacoli di ordine economico e sociale che ostacolano limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini>> e il quasi fallimento della mobilitazione dal basso della società Civile, paradigma del localismo virtuoso sostenuto dalle programmazioni dei fondi comunitari da Agenda 2000 a quelli della programmazione 14/20 in atto, che puntava molto sul recupero e rivitalizzazione delle zone interne.

Senza una visione catalizzante ed attrattiva come lo sono state in condizioni diverse le due precedenti, è comunque, possibile rimettere in moto un qualche processo?

Credo che la questione richiede un approfondimento.

Entrambi questi paradigmi, ci ricorda Cassano, scontano il fatto di trascurare gli elementi strutturali che nel contesto più vasto e generale regolano i rapporti tra centro e periferia e che potrebbe essere positivo, senza aspettare super paradigmi interpretativi, riconoscere ognuno la propria parzialità, e provare a dar vita, dialogando a formulare teorie più eclettiche, per cercare di arrestare l’effetto S. Matteo suggerito da R. Merton richiamando quel versetto dell’evangelista che recita <<a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha>>.

E allora bisogna vedere come si inverte la logica di questo versetto in una situazione dominata dalla logica di entità economico finanziarie astratte, che detengono in mano poteri illimitati.

Considerato anche che l’altro paradigma importante, quello dell’autonomia e dell’Alternativa Mediterranea diventa sempre più problematico considerato il Caos regnante nell’area che va dal sud del Mediterraneo, al Sahel, alla Penisola Arabica e dal Corno d’Africa all’Hindu Kush .

Ma noi siamo chiamati a misurarci con questa situazione e con i problemi che ci pone innanzi.

E allora forse l’indicazione di Cassano di ricorrere ad un eclettismo non banale tra i diversi paradigmi può consentirci un rapporto più laico con la realtà e smuovere una situazione stagnante in cui migliaia di persone hanno bisogno di risposte irrinviabili per la propria esistenza.

Azzardiamo:

La globalizzazione liberista ha generato , ormai in maniera conclamata , quello che Bruno Amoroso, già nel 2000 definiva un sistema di Aparthaid globale .

Un sistema in cui , se è vero che alcune aree e realtà sono uscite da condizioni di assoluta sopravvivenza ( questo, è anche vero che lo stesso ha prodotto una condizione di esclusione e povertà drammatica nel mondo.

Basti pensare che oggi , 8 miliardari possiedono nel mondo la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone.

Questo sistema di cui è parte fondamentale una politica , ormai struttura servente dell’economia e della finanza, ha gettato nel Caos l’intero medio oriente e tagliato fuori da una vita accettabile un intero continente : l’Africa.

In questa vasta area , definita da Limes Caoslandia, si incrociano alla perfezione i 4 fattori strutturali delle migrazioni: : demografia, economia, clima e geopolitica.

La geopolitica ha scatenato in quell’area un condizione di guerra permanente di posizionamento geostrategico delle potenze mondiali e regionali che , in tanta parte, agiscono per procura delle prime.

Tutto ciò dà vita ad un fenonome migratorio destinato a non arrestarsi, e ai fenomeni che inondano in maniera enfatica i telegiornali e generano il clima che percepiamo ad ogni angolo: paura, odio, violenza ottusità mentale.

Tenendo presente che in queste condizioni nessuno potrà fermare questi flussi migratori che peraltro stanno nei limiti della normalità e rientrano in quella che è la normale storia dell’umanità,

il governo di questo fenomeno può divenire un elemento costitutivo di un nuovo paradigma che riprende in parte quello sull’autonomia e l’Alternativa Mediterranea , partendo non da impossibili, oggi, accordi intergovernativi o processi di partenariato simili a quello di Barcellona 95 e lo coniuga con i bisogni e gli interessi di un continente, L’Europa , in progressivo rapido invecchiamento e decadimento che ha bisogno di ricambi generazionali per l’insieme dei sistemi sociali , produttivi e territoriali dei Paesi della sua Unione?

E noi Mezzogiorno e Calabria, possiamo muoverci , sulla scorta di esempi di accoglienza e inserimento paradigmatici ( Riace in primis , ma non solo) per intrecciare a livello di Comunità Locali (istituzionali e associative ) gli interventi della programmazione comunitaria 14/20 con gli interventi di stato per l’accoglienza e l’inserimento dignitoso ed umano di chi scappa dall’inferno?

Potremmo, ad esempio, in un momento di impasse, degli stati nazionali riaprire le vie di un rapporto con l’Africa , a cominciare da quella a noi attaccata per provare, in una rete di scambi autonomi con le comunità locali di provenienza dei migranti, a costruire un rapporto che si richiami idealmente a quelli rilanciati e rimodulati, parecchio dopo il crollo dell’impero romano, dalle prestigiose repubbliche marinare dall’XI/a tutto il XIV secolo e oltre.Con Genova che inventava il capitalismo moderno (1407), mentre in parallelo e in concorrenza Venezia, si muoveva già, attraverso il mediterraneo Orientale lungo le vie dall’Asia al Mediterraneo , che oggi riprende, XI Jinping, in ottica di globalismo sino centrico, sotto il nome di nuove via della seta.?

Fu quella delle repubbliche marinare una presenza ed una influenza durata secoli che faceva registrare ancora tra fine ottocento e inizi 900 in circa un milione gli italiani in diaspora tra Marocco e Anatolia.

L’italiano fino a quell’epoca era una sorta di lingua franca degli scambi commerciali, diffuso dall’Egitto al Mar Nero, usato anche per la redazione di trattati internazionali.

Il velleitarismo geopolitico dell’Italietta di Giolitti prima , ripreso con particolare violenza e virulenza da Mussolini poi, distrusse in pochi anni la nostra rete mediterranea , fondamentale per i rapporti con l’ISLAM.”

A me sembra che sarebbe necessario, pur nella piena consapevolezza delle difficoltà, provare a mettere insieme, per il Mezzogiorno e la Calabria, un paradigma capace di tenere uniti alcuni aspetti del paradigma Mezzogiorno come questione nazionale, con quelli che recuperano le parti vitali e fresche del paradigma noto come Localismo Virtuoso, dentro gli aspetti praticabili di quello dell’Autonomia e dell’Alternativa Mediterranea.

A me sembra che una posizione del genere ci consentirebbe di mettere a frutto la nostra posizione di perno geografico del Mediterraneo, capendo che non è più il Mare Nostrum “ il sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in una unità originale” che ci proponeva 30 anni fa Fernad Braudel, ma “è sempre più un nastro trasportatore che, in senso est-ovest, solletica le ambizioni egemoniche della Cina, già largamente presente in Africa” . E poi ci sono gli altri .

In questo scenario mutato Noi , partendo dall’impatto dei movimenti migratori e dal ruolo nevralgico che assumono le comunità locali all’interno di una adeguata strategia di accoglienza/integrazione /assimilazione possiamo recuperare in parte la visione Braudeliana e rilanciare il ruolo del nostro Paese nell’Europa.

In questa ottica, determinante diventa una convergenza di politiche nazionali, comunitarie e locali .

Perciò credo che l’osservatorio che propone Piero dovrebbe essere articolato per sezioni per monitorare i vari aspetti della politica a cominciare da quella dell’accoglienza dei migranti.

Per la Calabria penso che dovrebbe lavorare con altri soggetti già operanti sul territorio alla costruzione di :

  1. un percorso che sfoci in un incontro annuale di conoscenza e scambio, UN MERCATO MEDITERRANEO, tra le nostre comunità di accoglienza e quelle di provenienza dei migranti;
  2. una struttura di coordinamento formazione, servizio per tutte le nostre comunità interessate, finalizzata al potenziamento della cooperazione decentrata, e al massimo e migliore utilizzo dei fondi comunitari ad esse attribuiti.

Mi piace ricordare concludendo che proprio a Lamezia il 23 Maggio del 2008 si tenne un importante attivo nazionale della SEM presieduto dal caro compagno Gianni Lucchino,

L’attivo fu concluso nel ridotto del teatro Grandinetti, con una tavola rotonda coordinata da Matteo Cosenza , direttore del Quotidiano della Calabria e con la partecipazione del sindaco di Lamezia di Gianni Speranza, che dava il via al primo atto concreto per la costruzione di un “Cantiere per l’area del Mediterraneo” con la presentazione del VII rapporto sul Mediterraneo, curato da Bruno Amoroso , Nino Lisi e Gianfranco Nicolais, edito da Rubbettino che si sviluppava sul tema culture ed economie del mediterraneo e, con un approccio tipicamente braudeliano, guardava al Mediterraneo come una Mesoregione in evoluzione , luogo di confronto, incontro e conflitto tra culture ed interessi geopolitici e geoeconomici.

Nel dibattito che ne seguì emersero , anche con differenza di toni, i temi intorno ai quali il rapporto si era sviluppato: dalle culture mediterranee e dalla modernità europea , alle culture e società civili presenti nell’intera area del bacino, alla politica estera e cooperazione economica, alla nuova centralità del Mediterraneo e alla logistica che lo interessa, agli obiettivi ed alle metodologie della cooperazione per un benessere condiviso fra le Regioni dell’Europa Meridionale ed i Paesi della Sponda Sud del mare , indagando le divergenze e cercando le convergenze possibili.

Mimmo Rizzuti