La battaglia per il Sud e l’Italia di S. Abruzzese

La battaglia per il Sud e l’Italia di S. Abruzzese

C’è un Sud che riceve continui attacchi politici e massmediatici. Un Sud chiamato in causa solo per la cronaca, le bandiere nere, il turismo, narrato da inviati lontani e distratti. L’immagine restituita al Paese da tv, giornali, politica, è imbarazzante quanto puntuale. È un Sud indistinto, quello attaccato dopo il referendum voluto e perso da Renzi, quando Vittorio Zucconi ha attribuito la disfatta del Pd all’elettorato “reazionario” meridionale. È accaduto ancora, dopo le elezioni appena passate, con una polemica, alimentata in primis dai commentatori televisivi, relativa al reddito minimo, e di nuovo, ultimamente, con l’eccentrico intervento di una certa Micaela Biancofiore.

A tratti è un paese bizzarro l’Italia, anche perché se pure ci fosse una parte d’Italia così disperata e ignorante, come sostengono alcuni, il problema sarebbe l’esistenza della disperazione e dell’ignoranza e non certo la denigrazione a reti unificate da parte di chi invece dovrebbe contribuire a risollevarli.

Niente paura, lo schema duale, etnocentrico, è ben collaudato, funziona sempre e ovunque, quando si ha a che fare con l’apoliticismo o la malafede.

E d’altra parte, c’è chi con la difesa a oltranza del Mezzogiorno ha restituito, a costo di semplificare e banalizzare l’intero processo storico italiano, l’ennesima visione emotiva, stereotipata e mediatica del Paese.

 

Chiunque scriva di questo Paese complesso, nel narrare con onestà credo abbia l’occasione, e forse l’onere, di contribuire a decolonizzare l’attuale immaginario meridiano.

Comincerei con la retorica della magia e della bellezza. Personalmente, mi insospettisco quando si indulge nella narrazione suggestiva del Mezzogiorno. Da meridionale che vive da tempo nel nord del Paese, provo una vena di rammarico e fastidio di fronte a tale retorica. Dietro vi riconosco assoluzioni, alibi e puerili meccanismi di rivalsa.

Altrettanta diffidenza, poi, avverto in certi tentativi neo-identitari, dove si fanno strada scorciatoie che rimandano direttamente all’Italia populista di oggi. Ricordo che sono pericolose le scorciatoie, hanno già portato le guerre, il fascismo, e lo sono maggiormente quando non si rammenta da dove si viene, e non si sa neppure dove si voglia andare. Parole come identità, radici, essenziali quando generano progresso morale, non lo sono se vengono ridotte alla replica sbiadita di vergognosi leghismi.

E nemmeno la retorica della suggestione può essere confusa col pensiero meridiano di Franco Cassano, un libro a tratti lirico, dai risvolti politici solidi e seri, con riferimenti che da Weil portano direttamente ad Alex Langer.

 

Per tornare al principio, se c’è una dicotomia di cui nel tempo ho imparato a diffidare, è proprio quella Nord/Sud tradotta in termini di Nemico/Amico. Ho avuto modo di scoprire, in qualità di ibrido mezzogiornopadano, che non esiste alcun Nord, inteso come modello di efficienza, o di alterità morale, bensì solo condizioni storiche diverse, dovute a tanti fattori, tra cui non è secondario l’afflusso delle risorse umane e dei capitali meridionali. Anche questa del Nord infallibile, superiore o inferiore che si ritenga, non è altro che l’ennesima proiezione di un alter ego nazionale inesistente.

Certo, esistono peculiarità, c’è una parte consistente d’Italia e del Sud che detiene uno stretto rapporto con quel che resta della vecchia civiltà contadina, in cui persistono forme, rapporti, usi che rimandano a un’altra e precedente concezione dell’esistenza, ma non è caratteristica esclusiva del Sud e basterebbe citare i fatti di sangue contro i migranti di Rosarno, di Ponticelli, Castel Volturno, Cerignola, per ritornare tutti brutalmente alla realtà odierna.

Allo stesso modo, non credo all’eroismo di chi rimane o di chi parte, e nemmeno a una presunta vigliaccheria: la patria è dei figli, scriveva Max Weber, a meno che non si abbiano dei padri e delle madri di cui andare orgogliosi, e noi ne abbiamo avuti pochi quanto lontani e inascoltati, allora nessuno dovrebbe mai sbandierare sedicenti primati, poiché la vita e i sacrifici degli individui, la partenza e la restanza, meritano il massimo rispetto possibile, e un’analisi seria come tutto il resto.

 

Le suddette dicotomie, va detto, sono odiose non solo perché, come ha avuto modo di ricordare Paolo Rumiz, alimentano la balcanizzazione dell’Italia, ma pure perché rendono più arduo lo smascheramento dei travestimenti: e cioè il problema dello Stato italiano, la produzione costante di margini, vuoti, periferie, isole, in cui gli individui restano soli e impotenti. È la cattiva politica locale e l’assenza di vera “politica” nazionale, sono i limiti e la corruzione delle rapaci classi dirigenti, l’assenza di coscienza storica e politica, a generare l’Italia di oggi.

 

Tra i risultati più vistosi vi è il paradosso che nelle aree iper-popolate italiane attualmente vivono, spesso nello spaesamento, i protagonisti dello spopolamento meridionale ed europeo: polacchi, slavi, albanesi, maghrebini. I più vengono da aree rurali e si arrangiano come possono nell’arnia di bellezza e smarrimento rappresentata da questo Paese.

L’altro risultato interessante è, a parte l’implosione della sinistra e la stagione incontrastata delle mafie, l’indubbia capacità della classe politica di orientare la massa inurbata italiana, attraverso il populismo fascista e xenofobo, addirittura rispolverando ottusi nazionalismi, a riversare il proprio rancore sui nuovi migranti. Così il popolo italiano, in seguito alla sua atomizzazione, è diventato il mastino dei pochi privilegi rimasti e dei dominatori, contro i nuovi dannati della terra. Chapeau!

E allora narrare il Sud e l’Italia vuol dire prima di tutto una strenua lotta per riappropriarsi della verità, e ricostruire razionalmente, con un costante esercizio di rigore, i fatti e, con essi, la debole coscienza storica del Paese. Ma il fatto è che spesso la stessa intelligenza, e l’amore per l’intelligenza fine a se stessa, forse l’unica forma sciovinistica di cui soffrano gli italiani, – scriveva Gramsci, – risulta un altro consueto gioco di prestigio a cui si è avvezzi lungo la Penisola.

L’Italia è un paese di vuoti e pieni, che ha assunto la forma di un unico, scosceso pendìo. Occorre un fronte compatto per dare alle aree marginali consapevolezza, voce e spazio, reti e occasioni: si tratta di pretendere, dall’incompiuta democrazia italiana, la totale attuazione della sua costituzione.

C’è un nome unico per questa vicenda: è democrazia.

 

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