Un “Manifesto” per il Sud di Tonino Perna

Un “Manifesto” per il Sud di Tonino Perna

 Quando nasceva “ il Manifesto” le lotte contadine e bracciantili, che avevano caratterizzato il conflitto sociale nel Mezzogiorno, avevano da poco inviato gli ultimi segnali: il 2 dicembre del 1968 eccidio di Avola, due braccianti uccisi e 48 feriti dai carabinieri, 1969 il tentativo di occupare la fabbrica del tabacco di Battipaglia che aveva licenziato i lavoratori provoca due morti, e infine nel 1970 abbiamo i fatti di Reggio, la lotta per il capoluogo che costerà tre morti , decine di feriti, centinaia di arresti. Stragi di Stato, visibili, che provocavano rabbia e mobilitazione e si univano alle lotte operaie (soprattutto al Nord), e studentesche in tutta Italia. Ma, con i “fatti di Reggio” qualcosa era saltato nel rapporto tra lotte popolari al sud e lotte operaie al Nord, non era più visibile quel blocco sociale auspicato da Gramsci contro l’alleanza tra gli agrari del Sud e la borghesia industriale del Nord.   Con i fatti di Reggio la “questione meridionale” veniva rilanciata come questione di democrazia e lotta al neofascismo insorgente.

Il Manifesto seguirà con molta attenzione e partecipazione la grande manifestazione del 22 ottobre del 1972, indetta dai sindacati confederali a Reggio Calabria, come risposta all’emergere prepotente del neofascismo di Almirante e Ciccio Franco, il leader dei “boia chi molla” che nel 1972 al collegio del Senato a Reggio Calabria raccolse il 42% dei voti validi. Fu una straordinaria prova di coraggio e solidarietà della classe operaia italiana, metalmeccanici in testa, che dovettero affrontare le bombe sui binari, il blocco del traffico ferroviario, le pietre dei fascisti sul corteo. Una storica manifestazione di cinquantamila lavoratori che segnò anche una svolta nell’approccio alla “questione meridionale” riducendola alla fondamentale ma non esaustiva “questione democratica”. Nell’immaginario della sinistra italiana il Mezzogiorno venne visto come una sorta di Vandea, di area della controrivoluzione, della conservazione e della rinascita del fascismo. Per contrastare le forze reazionarie bisognava puntare a potenziare lo sviluppo economico e l’occupazione. In altre parole, alla deriva neofascista, che si manifestava in diverse aree del Mezzogiorno, si rispondeva in chiave economicista : la “questione meridionale” come problema politico di unificazione reale del nostro paese,come questione nazionale nell’accezione gramsciana, veniva ridotta a questione di sviluppo di un’area depressa, in forte “ritardo” rispetto al resto del paese, ignorando un bisogno fondamentale: quello dell’identità e della dignità di un popolo. E’ il periodo in cui furono realizzate le cosiddette “cattedrali nel deserto”, i grandi impianti petrolchimici e siderurgici, anche – come disse Giacomo Mancini, da segretario del Psi- per costruire una classe operaia moderna nel Mezzogiorno come soggetto politico egemone. Di contro, la Destra proponeva il potenziamento del turismo e dell’agricoltura, uno sviluppo basato sulle risorse locali ed era fortemente contraria ai grandi impianti industriali che avrebbero portato solo inquinamento. Naturalmente esprimeva gli interessi degli agrari e dei ceti medi legati alla rendita, ma visti i risultati di quel processo di industrializzazione come dargli torto oggi ?

Negli anni ’80 del secolo scorso il quadro cambiò rapidamente, a partire dall’omicidio di Pio La Torre il 30 Aprile del 1982, il leader del partito comunista siciliano che si era battuto per una legge che portava alla confisca dei beni dei mafiosi. Da quel momento la “questione meridionale” divenne progressivamente “questione criminale”, identificazione che fu suggellata dalla strage di Capaci e via d’Amelio nel 1992.   Si apriva una nuova fase di conflitto sociale e di classe nel territorio meridionale tra la borghesia mafiosa e una parte della società meridionale che si ribellava al suo strapotere. Purtroppo, la Sinistra storica ed extraparlamentare (con qualche lodevole eccezione) lesse questo conflitto come una questione di devianza sociale, mafia-camorra e ‘ndrangheta come problemi legati alla criminalità ed alla mancanza di sviluppo e modernizzazione del Mezzogiorno. Ed invece l’affermarsi nel Mezzogiorno di una borghesia mafiosa/parassitaria, che sulla violenza e la corruzione aveva fondato il processo di accumulazione del capitale, era un fenomeno sociale estremamente moderno con cui bisognava fare i conti. Un fenomeno legato alla deriva criminale del capitalismo, alla perdita di quella cultura dell’impresa di cui scrissero Sombart e Schumpeter, alla prevalenza della rendita finanziaria o immobiliare sul profitto.

Con la caduta del muro di Berlino il Mezzogiorno uscì definitivamente dalla scena nazionale. Con la globalizzazione dei mercati il territorio meridionale perdeva ogni ruolo socio-economico: non aveva più la funzione di riserva di forza-lavoro a basso prezzo, né di mercato di sbocco delle merci prodotte nel Centro-Nord che ormai viaggiavano nel grande spazio del mercato globale. Ma, allo stesso tempo, la globalizzazione capitalistica, la rapida ascesa della finanza e il suo predominio sull’economia reale, avevano permesso alla borghesia mafiosa di espandersi e radicarsi nelle aree più ricche del pianeta.

Nel nuovo secolo i grandi movimenti, ambientalista e pacifista (do you remember Comiso ?) che avevano visto anche nel Mezzogiorno una lunga fase di protagonismo, si spegnevano lentamente. Quello che cambiava lentamente, ma in profondità, è la percezione che Il Sud ha di se stesso. Innanzitutto, veniva abbandonata l’idea che bisognava seguire il modello di sviluppo che era risultato vincente nel Nord Italia. E’ questa la traduzione/esemplificazione del “pensiero meridiano” di Franco Cassano, che ha avuto un grande impatto tra gli intellettuali meridionali: il Sud che pensa se stesso, che si coglie nella sua diversità e si accetta, che cerca una sua strada. Il Sud alla ricerca di una sua identità mediterranea.

Questo cambio di paradigma ha ispirato tante iniziative in campo culturale, istituzionale ed economico, ma non è finora riuscito a incidere sui grandi numeri della disoccupazione, dell’impoverimento di una parte consistente della popolazione, dell’emigrazione di massa che ha coinvolto pesantemente le nuove generazioni (un giovane su tre è andato via dal Mezzogiorno negli ultimi dieci anni).

Un fatto è certo: il nostro Sud non è solo il luogo di problemi secolari irrisolti (dalla gestione delle risorse idriche all’efficienza della Pubblica Amministrazione), ma anche un’area di frontiera costretta a fare i conti con fenomeni estremamente moderni e sperimentare/tentare di dare delle risposte sociali e politiche inedite. Dall’accoglienza migranti (Riace docet), alla gestione dei beni confiscati alle mafie (elementi di socialismo dentro un sistema capitalistico su cui è mancata una riflessione politica), alle nuove forme di Altreconomia e di collaborazione con nord/sud (esempi virtuosi si possono cogliere nel mondo dei Gruppi d’Acquisto Solidali), c’è tutto un fermento che non viene registrato, se non occasionalmente, dai mass media e su cui “il Manifesto” potrebbe offrire (come ha fatto con alcune inchieste) un suo rilevante contributo.

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