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Autonomia, il coraggio che manca al Pd.-di Gianfranco Viesti

Autonomia, il coraggio che manca al Pd.-di Gianfranco Viesti

Sono ormai molti anni che il centrosinistra italiano e il Mezzogiorno hanno divorziato. Il primo sembra non avere più interesse, capacità, di capire il Sud; di interrogarsi sulle leve possibili del suo sviluppo; di intraprendere concrete iniziative.

Tanti meridionali non hanno ceduto alle lusinghe della destra, ma hanno dato prima fiducia ai 5 Stelle e poi si sono astenuti. Fenomeni nazionali, ma al Sud assai più intensi.

Perché il Pd non parla con il Sud, non costruisce e persegue iniziative politiche? Non sembra difficile capirlo. Da un lato, la questione delle disuguaglianze ha perso da tempo centralità nella sua riflessione. Esse non sono, si è sentito spesso dire in questi anni, che il frutto del merito e dell’impegno; che siano di tipo sociale, di genere o territoriali non possono essere la stella polare della strategia politica di un partito «riformista».

Se il Sud è indietro, è prevalentemente per colpa dei suoi cittadini e delle sue classi dirigenti; destinare risorse è controproducente (Rossi, ex parlamentare Pd); o, al meglio, inutile. Dall’altro, e parallelamente, è forte la sfiducia nella centralità dell’azione pubblica: meglio lasciar funzionare il mercato e magari aggiustarne un po’ gli esiti; favorendone i meccanismi, ad esempio differenziando sempre più i salari fra Nord e Sud (Ichino, altro ex parlamentare Pd).

Non appare casuale che alcune delle scelte più antimeridionali degli ultimi anni portino la firma di parlamentari (allora) del Pd: dall’autonomia differenziata di Gian Claudio Bressa al federalismo fiscale di Luigi Marattin. E che proprio la strada dell’autonomia regionale differenziata sia stata aperta dall’intesa siglata a febbraio del 2018 dall’attuale presidente del Pd Bonaccini e dall’attuale commissario europeo Gentiloni.

Certo, il quadro è oggi un po’ diverso, quantomeno in alcuni protagonisti. La nuova segreteria apre speranze. Ma la concreta azione politica sembra ancora limitarsi ad agire di rimessa sulle iniziative del governo. Non che ne manchi ragione. Ma questo sembra insufficiente a ricreare fiducia e a rendere più tangibile un diverso esito elettorale.

Se non si sana questo divorzio entrambe le parti vanno incontro a un futuro difficile. Il Pd non può pensare di costruire uno schieramento che vinca le elezioni senza i voti del Sud. Il Mezzogiorno, lasciato alle dinamiche spontanee della demografia e dell’economia, in condizioni strutturali di evidente minorità rispetto al Centro-Nord e a gran parte dell’Europa, non può che vedere rinsaldarsi le sue «trappole del sottosviluppo».

Come farlo? Più facile dire cosa sarebbe bene evitare: dal lasciare carta bianca a presidenti di regione meridionali che da tempo ormai giocano in proprio, al tirare fuori dal cilindro iniziative estemporanee, come fatto da alcuni ministri della coesione, destinate a sfiorire rapidamente.

Per il resto, non si sfugge all’impressione che occorra una lunga e paziente ricostruzione di un pensiero politico generale, che parta proprio dalla centralità della lotta alle disuguaglianze (come suggerisce Carlo Trigilia in un bel libro recente) e delle grandi politiche pubbliche, a cominciare da sanità, istruzione e welfare; e in questo quadro occuparsi dei venti milioni di abitanti della più grande area in ritardo di sviluppo d’Europa. Come sempre nella storia, il futuro del Sud dipende molto più dalle grandi politiche generali del paese che da misure specifiche.

Una splendida occasione per allenarsi, e per fare i conti con franchezza con il proprio passato, potrebbe essere proprio quella dell’autonomia differenziata. Da contrastare non solo ed esclusivamente al Sud, come sembra stia avvenendo, per raccogliere qualche voto per le prossime europee, ma glissando sul tema nel resto del paese. Ma da leggere come grande questione politica nazionale ad opera di un grande partito nazionale.

Un progetto scellerato non perché è «contro il Sud», e quindi implicitamente «a vantaggio del Nord», che per bontà dovrebbe evitarlo. Ma perché frammenta e indebolisce le grandi politiche pubbliche nazionali e la loro capacità di costruire un paese migliore; perché lega i diritti dei cittadini ai luoghi dove essi vivono; perché esclude il Parlamento dalle scelte più importanti, oggi e in futuro (una concreta anticipazione del premierato).

Un’occasione per una riflessione sui propri principi politici di fondo applicata ad un caso concretissimo. Non facile, certamente. Ma in fin dei conti, considerare che su questo tema la Conferenza Episcopale e la stessa Banca d’Italia sono più «a sinistra» del Pd di oggi potrebbe far riflettere e dare coraggio.

da “il Manifesto” del 23 gennaio 2024

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Gentile Presidente
ho avuto modo di conoscerla e di apprezzare le sue capacità e un indubbio coraggio ad affrontare situazioni complesse (per usare un eufemismo) come quelle della sanità. Per questo sono rimasto stupito che lei non abbia protestato per la sottrazione di risorse alla nostra Regione, finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto, come ha fatto energicamente il presidente della Regione Sicilia, per altro del suo stesso partito.

Ma, questo taglio effettuato dal governo alle risorse regionali non è niente al confronto dei danni irreparabili che comporterà l’adozione della “autonomia differenziata”, che sta per essere approvata dal Parlamento. Infatti, sta per essere trasformato in legge l’esiziale progetto della Lega che spaccherà radicalmente il nostro paese. Quello che era il progetto originario di Bossi si sta realizzando dopo trent’anni. Me ne sono occupato in tempi non sospetti e ho dedicato un capitolo del volume “Lo sviluppo insostenibile “ (Liguori ed. 1994, oggi ristampato dalla casa ed. Città del sole) per quantificare i danni inflitti al Mezzogiorno dalla secessione fiscale del Nord.

Come scriveva negli anni ’80 il noto economista Paolo Sylos Labini, la spesa pubblica è il motore del Mezzogiorno, una variazione verso l’alto o il basso ha una immediata ripercussione sul reddito pro-capite, investimenti, occupazione. Non solo tra spesa pubblica e struttura socio economica del Mezzogiorno c’è una forte correlazione, ma gli effetti di una significativa variazione sono percepibili già in capo ad un triennio. Per questo possiamo prevedere l’impatto di breve e medio periodo della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero della “secessione del Nord”.

Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le sole regioni che hanno un surplus consistente tra le tasse che pagano e quello che ricevono dallo Stato, tutte le altre o sono in pareggio con piccoli scostamenti positivi (le regioni del Centro-Italia) o sono in deficit come la Liguria e tutte le regioni a Statuto Speciale, e naturalmente il Mezzogiorno con in testa la Calabria. Se la spesa per la sanità e la scuola dovesse essere regionalizzata le regioni in deficit si troverebbero nell’impossibilità di pagare gli attuali salari e stipendi e mantenere, contemporaneamente, l’occupazione in questi settori.

La coperta diventerebbe improvvisamente corta. Sicuramente ci sarebbe un blocco totale e di lungo periodo nel turn over, anzi verrà favorito il pensionamento anticipato, le tasse regionali portate al massimo, nuovi contratti con i sindacati su base regionale. Lo scontro sociale, il blocco delle attività sarebbe inevitabile e il caos regnerà sovrano. Quando l’autonomia differenziata sarà messa a regime, dopo un triennio le conseguenze sull’economia del Mezzogiorno, tenendo conto della correlazione della spesa pubblica con le altre variabili socio-economiche, possono essere così prefigurate: il reddito pro-capite subirà una caduta intorno al 12% , l tasso di disoccupazione arriverà sopra la soglia del 25%, gli investimenti subiranno un tracollo di quasi il 30%.

Possono apparire dati esagerati se non si conosce l’effetto a spirale, quello che Gunnar Myrdal, Nobel per l’economia, chiamava il principio di “causazione circolare”. Il delinking del Nord non avrà solo un impatto negativo su una gran parte del paese (non solo nel Mezzogiorno) ma porterà ad una frantumazione politica del nostro paese, ad una Unità fittizia in un territorio diviso in tanti statarelli.

Quello che meraviglia è come FdI, il partito della Nazione, possa accettare tutto questo in cambio di un presidenzialismo inseguito come un mantra dai tempi di Almirante. Diversamente Forza Italia, se non avesse la memoria corta, potrebbe rivendicare il fatto che il suo fondatore riuscì a bloccare strategicamente quella secessione del Nord che, all’inizio degli anni ’90, sembrava inarrestabile. I “patrioti” meridionali, per usare le categorie della presidente del Consiglio, debbono essere ricompensati così dopo aver dato il proprio sangue per liberare Trento e Trieste, dopo aver dato braccia e cervelli alla ricostruzione del Nord uscito a pezzi dalla seconda guerra mondiale.

Caro Presidente, Lei ha in questo momento una grande responsabilità: l’autonomia differenziata è la tomba della Calabria e segna la fine dell’Unità nazionale. Non si illuda che i Lep possano risolvere la questione, ci sono tanti modi per renderli inefficaci. Mi creda, non è una questione di appartenenza politica (anche il Pd ha il suo scheletro emiliano nell’armadio), ma di rivendicare il diritto ad una esistenza degna per le popolazioni meridionali, a partire da quella calabrese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2023

La Calabria ruminante e passiva.-di Filippo Veltri

La Calabria ruminante e passiva.-di Filippo Veltri

Ho aspettato un po’, forse troppo, per scrivere di una cosa che avevo
ascoltato in diretta sin dai primi d’agosto e che poi ho, più o meno
ritrovato identica ma su pagina scritta alcune settimane dopo: parlo
della pensata di Mimmo Cersosimo, docente dell’Unical (e non solo)
sulla Calabria.

Ho atteso perché mi sembrava (ed ancora oggi in parte mi sembra)
un quadro dipinto a tinte fosche, forse troppo fosche, con le tante
maglie nere collezionate dalla Calabria ma che poi alla fine disegna
uno sviluppo possibile.

I guai della sanità, il tasso di disoccupazione, i giovani che scelgono
di vivere e lavorare lontano dalla loro terra, la pressione della
criminalità organizzata. Una societa’ definita da
Cersosimo «ruminante, adattiva, ma soggetta ad una
modernizzazione passiva». In una parola «estrema».

Andiamo a rileggere il saggio scritto per il Mulino “Calabria, l’Italia
estrema“: Cersosimo si sofferma sui mali di una regione «dove la
somma delle patologie nazionali si raccolgono». E poi ci sono i soliti
stereotipi. La ‘ndrangheta genera altra ‘ndrangheta? «C’è una
narrazione negativa sulla Calabria: terra degli ultimi, maledetta, di
‘ndrangheta, di scansa fatiche, di illegalità, di evasione fiscale. Siamo
entrati in un meccanismo perverso dove se evadi quasi quasi ti
seguo, se tendi a sopraffare le idee altrui lo fanno anche gli altri,
quindi lo stereotipo alimenta lo stereotipo e alcune volte quando
succede la realtà si avvicina molto allo stereotipo».
Chi è, o chi sono, i colpevoli di questo inesorabile declino? «Le colpe
sono tante, soprattutto di alcune politiche. 

Il liberismo ha mortificato
e marginalizzato le aree più lontane dal centro», dice Cersosimo che
poi ammette: «anche i calabresi hanno le loro colpe, in qualche modo
si sono assuefatti adattandosi a questo status quo, c’è una sorta di
convenienza al non sviluppo, una convenienza sociale diffusa». Cosa
si può fare? «Si potrebbe fare molto, è difficile che le forze interne
riescano a risolvere e superare il problema. C’è bisogno di un
destabilizzatore esterno.Qualcuno che ha interesse a rompere questo
equilibrio, ad interrompere il sottosviluppo ma non siamo noi, deve
essere qualcuno esterno».

Ad esempio? Forse lo Stato o l’Europa, sicuramente noi non ce la
facciamo da soli». Magari gli studenti dell’Unical e delle altre
Università calabresi. «Da soli non ce la fanno, molti vanno via. I
migliori spesso tendono ad andare via, quindi c’è una sorta di exit, c’è
l’abbandono e molte energie sane – quelle che potrebbero contribuire
al cambiamento – mollano la Calabria e svanisce qualsiasi possibilità
di cambiare le cose».

La Calabria è dunque perduta? È destinata a
svuotarsi come indicano le proiezioni statistiche? Resterà lontana e
impenetrabile, nonostante la sua bellezza variopinta, che Leonida
Repaci descrisse a futura memoria? Continueremo, noi che ci
abitiamo, a ignorarne i dati e fatti crudi, a esorcizzarli, per esempio,
con il ricordo stucchevole e inattuale dell’antica scuola
pitagorica? Per quanto tempo potremo ancora sottovalutare le
storture e le risorse in ombra di questa regione? A chi gioverà
nascondere le nostre colpe, in perpetua malafede, dietro al mostro, al
mito della ’ndrangheta? Sono domande in cerca di risposte.

Alcune settimane fa di tutto ciò se ne è poi parlato all’Unical,
all’interno di un seminario proprio sul saggio di Cersosimo e
l’economista è andato ancora più giù: la Calabria ha un disperato
bisogno di «liberarsi dalle edulcorazioni retoriche: la tipicità senza
tipico, i borghi senza comunità, i paesi appesi sul mare senza acqua
nei rubinetti delle case, l’accoglienza senza ospedali umanizzati».
Conclusione: Cersosimo ha ragione nel quadro d’assieme.

Pessimista? Semplicemente realista? Ma il punto é ragionare su
come fare: dove può andare la Calabria con tali limitazioni? Non è
giunto il momento di dirci la verità, di svecchiare ad esempio – tanto
per dirne una – i reparti amministrativi, di reclutare risorse giovani, che
sono il leitmotiv di tanta retorica politica? Non c’è bisogno, nel settore
amministrativo pubblico della Calabria, nei Comuni e altrove, di
formazione adeguata ai tempi e di una capillare verifica dei risultati?
Cambierebbero le cose? Forse ma e’ l’unica strada.

Il resto sta nei calabresi stessi, se sapranno mettere in rete le cose
buone e respingere quelle cattive. Una botta di vitalita’ in un mare di
guai e’ quello che ci vorrebbe.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2023.
Foto: Salvatore Piermarini.

Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”

Cosenza. Richiesta di vincolo paesaggistico al Mic- di “Diritto alla città”

La città di Cosenza ed il suo paesaggio sono sotto assalto da molto tempo, ma negli ultimi mesi ed anni l’attacco si è fatto più duro, forse è quello finale, quello all’ultimo metro cubo di cemento armato. Un assalto che è rivolto sia alla città antica, a monte, sia alla città otto-novecentesca, a valle. E se il Centro storico è, in teoria, ‘protetto’ da un vincolo diretto con il D.M. del 15.07.1969, poi ampliato a tutte le colline circonvicine nel 1992, la città fine ‘800-primi del ‘900 è priva, se si escludono limitate porzioni confinanti con il Centro storico, di questa dovuta tutela da parte del Ministero della Cultura.

La speculazione edilizia ha iniziato ad aggredire le aree più nobili dei quartieri vallivi con abbattimenti di edifici centenari e ricostruzioni di orribili, enormi e altissimi palazzi di cemento armato che occupano più di 2 o 3 volte la cubatura precedente, in particolare nei quartieri di Via Rivocati e di Piazza Santa Teresa.

L’attacco finale è stato, dunque, sferrato in primo luogo contro i titolari del diritto alla città: i cittadini. Noi cittadini delle Associazioni civiche cosentine-Associazione Riforma-Rivocati APS, Ri-ForMap APS, Ciroma, Civica Amica, ResponsabItaly APS, Comitato Piazza Piccola- costituitici in un Coordinamento denominato Diritto alla città abbiamo deciso di smetterla di subire. Reclamiamo il diritto alla città, rivendichiamo il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le nostre città vengono costruite e ricostruite, e iniziamo rivendicare il potere di farlo in maniera radicale.

Il Coordinamento delle Associazioni si oppone alle devastazioni del paesaggio urbano e periurbano e si oppone all’esproprio dei diritti costituzionali e civici dei cosentini. Il Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine Diritto alla città ha deciso di iniziare a rivendicare il ‘Diritto alla città’ dei cosentini ha chiesto, con urgenza, al Mic ed alla Soprintendenza Abap di Cosenza, organo periferico del suddetto Ministero, la rapida pubblicazione, prima, e la celere approvazione, poi, di una DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO ai sensi dell’ART. 136, C. 1 LETT. C, D. L. N. 42/2004 e S.M.I., per l’Ambito territoriale di seguito descritto (vedi cartina allegata).

L’area è stata – per motivazioni storiche, architettoniche, urbanistiche, ambientali e archeologiche- delimitata dai sottoscritti così come di seguito descritto.
Ad Ovest, partendo dal perimetro del vincolo paesaggistico esistente di cui al D.L. del 1969, raggiunge viale della Repubblica, comprende il settore di Via Misasi e scende lungo la Via Arabia fino a comprendere le vie Cattaneo, Mazzini e Marini. Da tale ambito sale a Nord lungo la direttrice di via XXIV Maggio- via Medaglie d’Oro, si raccorda al viale Mancini fino a raggiungere il confine con il Comune di Rende.

Da tale limite comunale scende lungo la riva sinistra del Crati fino a raccordarsi con l’area della vecchia Stazione Ferroviaria e giungere al ponte Alarico a Sud, collegandosi all’area già precedentemente vincolata dal suddetto D.L. del 1969, relativa al settore in sinistra del fiume Crati. Il citato D.M. del 15.07.1969, la cui estensione lungo il lato Est, settore in destra del fiume Crati, interessa le colline presilane, breve tratto della strada statale silana per Aprigliano, lo sviluppo della strada vicinale di Serra Caruso, il tratto del fiume Crati sino alla sua confluenza con il torrente Ispice, i limiti comunali dei Comuni di Rovito e Zumpano fino alla confluenza del canale Cannuzzo col Crati per raccordarsi al ponte di Alarico.

La nostra proposta di vincolo paesaggistico -le cui motivazioni dettagliamo di seguito- completa, pertanto, i contenuti del vincolo paesaggistico già in vigore, contribuendo significativamente alla salvaguardia delle aree oggetto di interventi così da esaltarne il significato e il valore.

DESCRIZIONE E MOTIVAZIONI STORICHE, ARCHITETTONICHE, URBANISTICHE,
ARCHEOLOGICHE E AMBIENTALI DELLA RICHIESTA DI VINCOLO

L’area sita nel comune di Cosenza, posta nell’area valliva compresa tra i due fiumi e in continuità espansiva con l’abitato storico, già sottoposto a tutela ambientale e paesaggistica ai sensi della legge 29.06.1939 n°1497 con decreto ministeriale 15.07.1969, costituisce l’insediamento lungo le rive dei fiume Crati e Busento, completando la composizione urbana, già dotata di impianti pubblici di notevole interesse monumentale, con palazzi privati che riflettono le visioni urbanistiche e architettoniche di sviluppo nella prima metà del Novecento. In tale contesto la città di Cosenza completa, nel periodo indicato, la definizione del processo insediativo urbano portato poi avanti a partire dagli anni ’60 del XX sec.

L’espansione era storicamente presente nel quartiere suburbano dei Rivocati, già in età romana. Insediamento consolidato in età medievale con funzione mercantile (Fiera della Maddalena – 15 al 30 luglio e la fiera dell’Annunciata dal 1551, con il 25 marzo di ogni anno, nella grande spianata del Carmine.
Presenti l’impianto della Riforma, ubicato in corrispondenza dell’altura dominante e derivante da impianti religiosi del XIII sec. e dei Domenicani, dal XV sec.

Tali strutture costituiscono la conferma dei nuovi indirizzi di sviluppo, legati al processo economico di trasformazione ed evoluzione dell’abitato lungo la valle del Crati.

L’asse principale risultava sempre quello costituito dalla via Consolare romana Annia-Popilia con il polo della Riforma, nel quale convergevano gli insediamenti del sistema collinare pedemontano dell’Appennino tirrenico. Era presente un sistema di fondaci nel rione Rivocati-Carmine, posti nel settore Nord appena oltre il Busento.

La presenza della popolazione nella seconda metà del XIII secolo si attestava intorno alle 3.000 unità fino alla metà del XV secolo, con incremento dal 1550 con 7.000 unità circa, sotto il dominio spagnolo, fino a registrare un incremento di circa 10.000 abitanti alla fine del secolo, mantenutosi stabile fino alla fine del ‘700. Gli incrementi demografici si osservano nel primo quarto dell’800, fino a raggiungere il numero di 13.700 nel 1853 e 16.000 con l’Unità d’Italia nel 1861 e oltre 19.000 presenze alla fine del secolo.

Le esigenze della popolazione portarono all’avvio delle opere per il rifacimento dei condotti delle acque nere e potabili, la necessità di dotarsi di strutture pubbliche per le abitazioni e gli uffici e la costruzione di servizi di uso pubblico derivanti anche dalla sistemazione degli alvei fluviali e arginature dei fiumi.

Nella seconda metà dell’800, pertanto, l’edificazione si avvia lungo la direttrice Rivocati- Riforma e in direzione Carmine (via Sertorio Quattromani), su cui si affacciava l’Ospedale Civile (XV sec.). Pertanto in tale contesto dalla fine del XIX sec. si é proceduto all’edificazione degli spazi tra l’ex convento del Carmine e i pochi edifici presenti lungo la via Provinciale (corso Mazzini), fino a giungere alla Riforma a Ovest e la via XXIV Maggio lungo la direttrice Nord della riva sinistra del fiume Crati.

Con il Piano di ampliamento comunale del 1887, predisposto dal Comune, si avvia anche la ristrutturazione dei predetti rioni Carmine e Rivocati, con l’ampliamento delle aree a Ovest e parzialmente a Nord, condotti a termine successivamente nel primo quarto del ‘900. Quartieri già attivi sin dall’età romana con funzioni mercantili, nundinae, e idonei a contribuire allo sviluppo urbano per il costante sviluppo economico, oltre che demografico.
La nuova area urbana, impostata su una viabilità a maglie regolari ortogonali, di probabile derivazione agrimensoria romana, si spinge a valle fino all’attuale Via Piave, con sviluppo lungo il lato Ovest a includere i settori della Riforma e l’attuale via Riccardo Misasi.

Iniziative continuate col Piano di Ampliamento del 1910-1912, tramite il quale si realizzano i progetti di sviluppo ed espansione dell’abitato, mediante la ristrutturazione urbanistica a fini insediativi del rione Rivocati, la costruzione di strutture pubbliche lungo il Busento e il riordino del quartiere Carmine – Annunziata.
Interventi completati nel primo quarto del ‘900 e integrati col piano del 1936, con estensione lungo il settore Nord, oltre alla formazione di piazze urbane di riferimento come direttrici di sviluppo: Piazza Francesco Crispi, Piazza Giovanni Amendola, Piazza Paolo Cappello a monte e Piazza Municipio, Piazza XI Settembre a valle, lungo la direttrice del Corso Mazzini.

L’edilizia privata riporta la composizione formale di estrazione classica rivisitata con gli apparati prospettici ancora visibili lungo il Corso Umberto, Via Trieste, Viale della Repubblica, Via Riccardo Misasi e il già citato Corso Giuseppe Mazzini. Altrettanto individuabili gli interventi privati, all’interno di tale vasto settore, con le direttrici parallele al Corso Mazzini, quali Via San Michele, Via Monte Grappa, Via Monte Santo e le traverse laterali Via Piave, Via Isonzo e Via Brenta; comprendente anche la scala interna di collegamento, proposta per ridurre la consistente differenza di quota (Scala dei due leoni), oltre alla realizzazione di edifici di interesse pubblico tra il Rione Michele Bianchi e la nuova direttrice di Viale degli Alimena.

Interventi, questi ultimi consolidatisi negli anni ’30 del XX sec., con la preliminare dotazione di servizi e completati poi nel secondo dopoguerra. In tali ambiti l’architettura varia tra visioni ottocentesche di cultura essenzialmente classica e rivisitazioni interpretative, intercalate da proiezioni moderniste di stile avanzato, che costituiscono un patrimonio urbanistico e compositivo dotati di interessante personalità, indicativa di un processo di sviluppo da salvaguardare per la complessa e notevole particolarità urbana unita alle espressioni architettoniche.

Pertanto, in tale contesto, l’area si configura come una necessaria palese estensione del centro storico di Cosenza, conservando nel tempo una sostanziale permanenza della evoluzione morfologica urbana, già presente nell’insediamento antico. A tal proposito si evidenzia che tutta l’area della riva sinistra del fiume Crati possa essere interessata da rinvenimenti archeologici perché, come dimostrato dal recentissimo ritrovamento di sepolture di epoca romana nei pressi del rondò sulla Via Popilia subito a nord del Centro commerciale. È molto probabile che in quella area, dal Centro storico verso nord, vi passasse la Via Annia-Popilia (Via ab Regio ad Capuam) costruita nella seconda metà del II secolo a.C.

Avendo le indagini archeologiche dimostrato che lungo le strade romane, soprattutto nei pressi dei centri abitati, sorgevano necropoli, colombari, steli, monumenti funebri e mausolei è del tutto necessario tutelare, rendendola inedificabile, tutta l’area che va dalla riva sinistra del Crati fino alla linea degli edifici già costruiti per arrivare fino al confine comunale a Nord.

RINVENIMENTI ARCHEOLOGICI NEL COMUNE DI COSENZA

Nel complesso il sistema edilizio appare ancora in parte conservato, seppur condizionato in termini episodici da interventi di trasformazione che ne hanno modificato la percezione compositiva.
In ragione di tale potenzialità, la tutela di tale contesto urbano discende dalla necessità di evitare attività di sostituzioni dell’edilizia privata esistente, con contenitori urbani di dimensioni consistenti, già in atto nell’area individuata e al di fuori della logica conservativa del modello di sviluppo avvenuto nel corso di un lungo processo storico insediativo, al fine di non modificare e trasformarne le qualità sostanziali.

Trattasi di ambiti e tessuti edilizi che hanno contribuito a caratterizzare lo sviluppo della città, per i quali necessita un percorso di riqualificazione edilizia in grado di esaltarne i valori, al di fuori di visioni sostitutive da considerare totalmente inidonee.

Pertanto, la perimetrazione di tali ambiti costituisce una palese continuità dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica. Tenuto conto che il vincolo comporta, in particolare, l’obbligo da parte del proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile ricadente in tale settore, di presentare ai competenti organi istituzionali per la preventiva approvazione, qualunque progetto di opere che possano modificare l’aspetto esteriore della composizione urbana e architettonica del contesto.

Tale condizione discende dal riconoscimento che la zona predetta ha notevole interesse pubblico perché essa ha come fulcro i quartieri di edificazione realizzati dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’40 del XX sec., a completamento del processo di evoluzione insediativa avviato dopo le arginature dei fiumi e in estensione delle direttrici storiche originarie sin dal XIII secolo.

AMBITO DELLA DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE INTERESSE PUBBLICO,
ART. 136, C 1 LETT. C, DECRETO LEGISLATIVO N. 42/2004 E S.M.I.

Tale zona, che amplia e completa le località e gli ambiti già sottoposti a tutela ambientale e paesaggistica, ex lege 29.06.1939 n°1497, D.M. 15.07.1969 G.U. n°208 del 14.08.1969, è delimitata nel modo seguente:
Cominciando da Est ha come limite il fiume Crati in direttrice Nord. In corrispondenza della traversa di Via Cesare Marini risale su Corso Mazzini, fino all’innesto con Via Ambrogio Arabia, sulla quale ultima si inserisce fino a raggiungere la chiesa di Santa Teresa che viene lambita lungo il lato Sud, con risalita fino alla soprastante via Roma.
Da tale arteria, che percorre in direzione Nord, raggiunge Via Carlo Cattaneo e, circuendo il parco “Emilio Morrone”, risale lungo il settore Ovest fino a raccordarsi con il Viale della Repubblica.

Da tale arteria principale ritorna in direzione Sud fino a includere, con limitata area, le case popolari per Mutilati e Invalidi di guerra del 1931, per ritornare sulla medesima direttrice verso Sud fino all’incrocio con la Via Domenico Migliori. Indi, da tale confine continua lungo la SS.19 delle Calabrie – SP 241, fino all’incrocio con la Via Francesco Principe. Da tale ultima strada discende in direzione Est raccordandosi interamente al perimetro dell’area già sottoposta a tutela paesaggistica con il citato Decreto ministeriale 15.07.1969.

Relativamente al settore in Sx Crati, il perimetro interessato dalla definizione del completamento di tutela paesaggistica, per i motivi esposti, perimetra il tratto stradale del Ponte Alarico fino all’ex Stazione Ferroviaria, ora dismessa, prolungandosi lungo il lato sinistro del “Centro i Due Fiumi” fino a raggiungere Via XXIV Maggio. Prosegue lungo tale arteria in continuazione su Via Medaglie d’Oro fino all’incrocio con via Adolfo Quintieri. Da tale traversa scende fino a raggiungere Viale Giacomo Mancini proseguendo in direzione Nord fino all’intersezione del tondo con allineamento alla Via Caduti di Razzà, al confine col Comune di Rende, per continuare lungo la direttrice di Viale Crati.

Il perimetro lascia Viale Crati in corrispondenza della Via Pietro Nenni, per continuare parallelamente, e in aderenza al tratto ferroviario della linea Cosenza-Giovanni in Fiore, fino a connettersi alla Via Catanzaro, quest’ultima posizionata in intersezione con il perimetro sopra riportato. Detto perimetro contiene edifici privati, altri a destinazione sociale (case popolari), infrastrutture collettive e gli impianti pubblici riportati, la cui edificazione spazia dalla fine dell’Ottocento a metà circa del Novecento.

In sintesi, con questa proposta, si ampliano i limiti del predetto decreto dell’anno 1969, completandone e estendendone l’area di tutela e salvaguardia. All’interno di tale area si trovano edifici monumentali di interesse pubblico, costruiti a partire del primo quarto del XX sec. e completati anche nel secondo dopoguerra, in alcuni dei quali hanno prestato opera di progettazione architetti di fama nazionale quali Giovanni Battista Milani, Giorgio Calza Bini, Mario de Renzi, Vittorio Ballio Morpurgo.

La perimetrazione dell’insediamento della “città nuova” a completamento dell’abitato di Cosenza, unita al suo intorno paesaggistico, è soggetto a conservazione integrale. In essa è vietata la realizzazione di interventi, anche puntuali, che comportino il rischio di alterarne i caratteri d’identità paesistica e di continuità percettiva.

BENI IMMOBILI SOGGETTI A TUTELA MONUMENTALE

Beni immobili da tutelare

Sulla base di quanto scritto finora occorre, dunque, la conservazione integrale del sistema urbano (all’interno del perimetro in rosso della cartina in calce si evidenziano le principali emergenze monumentali e architettoniche).
I nuovi interventi edilizi non devono costituire, per forma e per volume, barriere alle visuali verso i principali elementi del sistema urbano e architettonico esistente. Conseguentemente, gli interventi di trasformazione previsti all’interno degli strumenti urbanistici e relativi piani attuativi devono prevedere assetti e composizioni formali tali da rispettare e salvaguardare le visuali compositive e architettoniche finalizzate alla conservazione dei valori esistenti.

Nelle aree ad elevato valore percettivo, deve essere mantenuta la coerenza architettonica degli interventi con il contesto, con esclusione delle opere e degli interventi in grado di alterare gli aspetti qualitativi e formali dell’apparato urbano esistente.

Sul patrimonio edilizio esistente sono ammessi gli interventi di rifacimento e riuso tali da privilegiare dal punto di vista formale l’attuale assetto compositivo, con l’eventuale impiego di materiali naturali e a basso impatto ambientale.
Sono ammessi esclusivamente gli interventi edilizi tendenti alla conservazione, alla manutenzione ed al riutilizzo, anche diverso dalla funzione originaria, con esclusione comunque delle opere di snaturamento dell’apparato formale e compositivo esistente.

Eventuali sistemazioni complementari degli spazi liberi dovranno essere concepiti in modo da non ostacolare la visibilità e l’assetto esistente, al pari del verde esistente. Il tutto nel rispetto delle visuali di fruizione proprie dei luoghi.

Coordinamento delle Associazioni civiche cosentine “Diritto alla città”

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

M. Cerzoso-A. Vanzetti, Museo dei Brettii e degli Enotri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014.
F. Burgarella, Dalle origini al Medioevo, in (a cura di F. Mazza), Cosenza. Storia, cultura, economia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1991, pp. 15-70.
E. Galli, Per la Sibaritide, studio topografico e storico con la pianta archeologica di Cosenza, Ristampa dell’opuscolo del 1907, Cosenza s.d.
Gregorio E. Rubino-Maria Adele Teti, Cosenza, Laterza, Bari 1997.
A. Battista Sangineto, Cosenza antica alla luce degli scavi degli ultimi decenni, in “Rivista dell’Istituto Nazionale d’archeologia e storia dell’arte”, 69, III, serie XXXVII, 2014 (2016), pp. 157-182.
F. Terzi, La città ripensata. Urbanistica e architettura a Cosenza tra le due guerre, Progetto 2000, Cosenza 2010.
F. Terzi, Cosenza medioevo e rinascimento, Pellegrini, Cosenza 2014.

La Banca d’Italia e l’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

La Banca d’Italia e l’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

Il Governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco ha scritto una lettera al prof Sabino Cassese sui lavori della Commissione istituita dal Ministro competente per la definizione dei Livelli effettivi di prestazione (Lep).

Come è ormai noto i Lep sono considerati un passaggio indispensabile per arrivare a decidere in materia di autonomia regionale differenziata e la lettera di Visco è un potenziale siluro alla discussione in corso al Senato sul disegno di legge di legge Calderoli. Ma a questa posizione esplicita e argomentata non è stato dato dagli organi di informazione il peso che ha. Del resto le guerre in corso hanno ormai preso il sopravvento su tutto.

Per questo vale la pena di farne comprendere l’importanza. La lettera è argomentata e richiama l’attenzione su una operazione politica che rischia di creare seri problemi per la finanza pubblica, senza che il parlamento sia stato messo in condizione di pronunciarsi sulle scelte da fare. In sostanza si rischia un furto con destrezza di denari pubblici senza alcuna decisione parlamentare, con conseguenze imprevedibili su rating e spread.

Se stiamo alla Nadef che il Governo ha fatto approvare dal parlamento non ci sono risorse previste per l’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione che prevede che vi siano interventi di riequilibrio a favore delle regioni e delle aree del nostro paese che hanno meno risorse e meno servizi, quindi che non sono in grado di garantire diritti costituzionali fondamentali agli stessi livelli di altre aree del paese che dovrebbero invece essere uniformi. La norma del Ddl Calderoli che esclude nuovi oneri per lo Stato dovrebbe portare a togliere l’aggancio alla legge di bilancio, che è palesemente finto, infatti se una legge non ha oneri (o risparmi) come può essere una legge collegata a quella di bilancio ?

Proprio questo collegamento con la legge di bilancio porta altri argomenti alle osservazioni della Banca d’Italia che infatti afferma che “le relazioni finanziarie tra Stato e regioni e gli strumenti di finanziamento delle prestazioni (debbono essere) definiti in modo trasparente, efficiente e coerente”.

Queste affermazioni chiamano in causa direttamente non solo il Ministro dell’Economia che non può continuare a fare come le 3 scimmiette e che giustamente la Commissione affari costituzionali del Senato ha convocato per avere la sua opinione ma anche l’insieme del Governo che ha lasciato Calderoli andare fin troppo avanti e che ora dovrebbe semplicemente bloccare l’esame del progetto per consentire un ripensamento di fondo. Ad esempio non è accettabile che la commissione Cassese in sostanza rinvii alla “Commissione tecnica fabbisogni standard” l’assorbimento delle funzioni di definizione, rendicontazione e verifica delle prestazioni prestate, quindi una commissione che rinvia ad un’altra commissione, con conseguenti difficoltà a controllare le spese ma anche e soprattutto i diritti che verranno effettivamente garantiti.

La lettera del Governatore entra nel merito di diversi capitoli: sicurezza del lavoro i cui Lep sono definiti spesso generici; istruzione, anche in questo caso Lep generici e viene sollevato, ad esempio, il rapporto tra Pnrr e tempo pieno, per non parlare del personale di cui viene ricordato che alcune regioni rivendicano dimensionamento ed aspetti retributivi; tutela e valorizzazione dei beni culturali da cui si evince con chiarezza che i vincoli di uniformità assoluta servono in realtà a togliere il vincolo dei Lep da rispettare; tutela della salute; ordinamento sportivo; porti e aeroporti e grandi reti di trasporto e navigazione; punti che per brevità elenco soltanto.

Quello che si comprende è che la definizione del Lep in realtà è un’operazione sostanzialmente finta, per arrivarci seriamente sarebbe necessario ben altro tempo da quello annunciato da Cassese, fine ottobre, e quindi in realtà le questioni vengono risolte o con generiche definizioni e con rinvii della definizione del merito alle Commissioni tecniche che sono una sorta di circolazione extra corporea e ed extra istituzionale. Questo per consentire alle Regioni di procedere anche in assenza di Lep o con Lep che sono tali solo nel titolo, ma non contengono vincoli reali di prestazione e poi per lasciare ai tecnici delle regioni di concordare direttamente con i tecnici del governo soldi e poteri da trasferire.

In altre parole siamo arrivati di nuovo al nodo denunciato da tempo. Ciò che interessa Calderoli è garantire comunque alle regioni (ben note) di ottenere i poteri e le funzioni, ottenendo l’assegno dello Stato per quanto le riguarda e lasciando le altre regioni nella situazione attuale, in attesa di risorse che non ci sono e non arriveranno, alla faccia del regionalismo solidale. Come si possa riuscire a dare più risorse ad alcune regioni senza sottrarle alle altre e per di più ad invarianza complessiva di spesa è un vero mistero. Anzi non lo è, è chiarissimo che alcune regioni si approprierebbero di più risorse e altre ne soffrirebbero, visto che risorse aggiuntive non ci sono.

Il Governatore offre a tutti l’occasione per comprendere la posta in gioco e di trarne le conseguenze. Del resto questo allarme viene dopo quello dell’Ufficio parlamentare di bilancio e le dimissioni di Amato, Bassanini ed altri dalla Commissione sui Lep sostanzialmente per i motivi ripresi dal Governatore.

Vale la pena di leggere la lettera del Governatore e ricavarne la conseguenza che il percorso parlamentare del Ddl Calderoli va fermato e si deve tornare ad una riflessione più di fondo ridando al parlamento il ruolo decisionale centrale che deve avere, togliendo di mezzo l’intesa tra singola regione e governo, ridando alla legge il ruolo di affidare e togliere poteri, se necessario, definendo effettivi standard nazionali di diritti che tutti i cittadini debbono avere garantiti in modo uniforme, senza subire discriminazione per il codice postale.

Inoltre siamo vicini al tempo previsto per portare in aula al Senato il disegno di legge costituzionale popolare su cui sono state raccolte 106.000 firme con l’obiettivo di fare vivere la richiesta di discutere le modifiche degli articoli 116 c.3 e 117, perché prima di pensare alla legge ordinaria, come è il Ddl Calderoli, occorre chiarire quale sarà il testo della Costituzione che come sappiamo ha bisogno di essere modificata come abbiamo indicato.

da “il Quotidiano del Sud” del 28 ottobre 2023

Gli egoismi del paese arlecchino.-Intervista a Gianfranco Viesti di Roberto Ciccarelli

Gli egoismi del paese arlecchino.-Intervista a Gianfranco Viesti di Roberto Ciccarelli

Un paese arlecchino, fondato su piccoli staterelli regionali, devastato dagli egoismi territoriali e dal nuovo fronte della guerra dei ricchi. È il probabile esito dell’«autonomia differenziata» prospettato dalle richieste di alcune regioni e che sta procedendo grazie al disegno di legge presentato dal ministro Roberto Calderoli. Il progetto è stato fatto proprio dal Consiglio dei Ministri ed incombe sul futuro del governo e della legislatura. Questo è lo scenario inquietante, ancora troppo poco considerato nel dibattito politico e culturale, denunciato da Gianfranco Viesti in un pamphlet acuminato ed energico pubblicato da Laterza: Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale (pp. 184, euro 14).

Gianfranco Viesti, questo non è il primo libro che lei dedica ai problemi dell’attualità politica e sociale più stringente. Cosa implica l’impegno contro l’autonomia differenziata per un economista in una disciplina definita «una scienza triste»?
Sono un professore all’antica e credo che gli universitari abbiano tre doveri: insegnare, fare ricerca scientifica, partecipare al dibattito pubblico locale e nazionale. Abbiamo un ruolo importante di traduttori di temi complessi per i cittadini. Ruolo che, nell’Italia di oggi, è ancora più importante perché mancano sostanzialmente i partiti e le altre organizzazioni che hanno ricoperto questo ruolo in passato. I cittadini sono disinformati e smarriti. Personalmente cerco di imitare, senza riuscirci vista la loro statura, alcuni grandi maestri del passato, da Giorgio Fuà a Paolo Sylos Labini. Ci hanno insegnato che l’indispensabile rigore formale, l’attenzione ai numeri e alle fonti accademiche vanno sposate con l’interpretazione dei fenomeni sociali e politici per contribuire al dibattito pubblico.

Nella storia degli intellettuali meridionali ha avuto un peso importante l’idea della trasformazione sociale. Lei che vive e insegna all’università di Bari si sente parte di questa storia?
La carica civile e sociale di questa storia è decisiva. Alla sua base c’è un’idea: il Mezzogiorno non è altro dall’Italia, ma è un pezzo più debole dell’Italia. Oggi vanno senz’altro studiate le politiche territoriali, ma quello che conta davvero sono le grandi politiche nazionali e globali. Chi si occupa di economie regionali, non può che rivolgere la propria attenzione alle grandi questioni che influenzano tanto le diseguaglianze tra le persone quanto quelle tra i luoghi. Il libro l’ho scritto partendo da questa impostazione culturale.

Che cosa intende per «secessione dei ricchi»?
È un processo politico volto a creare regioni-stato, a partire da Lombardia e Veneto, dotate di poteri enormi sulle politiche pubbliche e con risorse finanziarie proporzionalmente maggiori rispetto ad altre regioni nel resto del paese. Ci possono essere secessioni esplicite e implicite. La strada che si sta seguendo è quella di una vera rottura del paese lasciando formalmente intatto l’involucro nazionale.

Quali sono le differenze o le analogie con i processi di decentramento in Europa?
Il caso più rilevante è quello della Spagna. La comparazione dimostra che, nel caso italiano, non stiamo discutendo di autonomia, un concetto molto positivo a mio avviso, ma di differenziazione fra le regioni. Le autonomie, nei paesi europei, hanno un significato positivo rispetto alla forma-stato all’interno del quale il potere è organizzato su più livelli. La differenziazione è tutt’altro: è un processo in cui alcuni soggetti, all’interno dello stesso paese, diventano più potenti e ricchi rispetto ad altri. A scanso di equivoci preciso che, da parte mia, non c’è alcuna nostalgia per gli stati autoritari fortemente centralizzati.

Questi processi sono emersi da una trentina d’anni almeno. Che cosa li ha generati?
La crisi in cui versa il paese da allora e, in particolare, le politiche dell’austerità dal 2008 in poi. Il consenso verso strategie di egoismo territoriale è cresciuto per le palpabili difficoltà dei cittadini, anche in Lombardia e nel Veneto, abituate a un tenore di vita e a un livello di servizi molto alto.

Cosa chiedono le élite delle regioni più determinate?
Le loro richieste sono sterminate e sostanzialmente eversive dell’Italia così come la conosciamo. Vogliono tutte le principali politiche pubbliche in mano alle regioni e, al livello statale, frammenti residuali di competenze.

Prospetta una realtà inquietante: il processo dell’autonomia differenziata è stato concepito per «tenere l’opinione pubblica il più possibile all’oscuro». Cosa sta succedendo?
C’è un pericoloso silenzio dei mezzi di informazione di massa e i cittadini ne sanno pochissimo. L’esplicita strategia è ottenere il risultato alzando cortine di fumo, ad esempio con la discussione che si sta facendo sui cosiddetti «Livelli essenziali di prestazione» (Lep): discussione poco utile in mancanza di risorse per finanziarli. Non pretendo che la si pensi come la penso io ma mi pare difficile sostenere che si tratti di questioni marginali. Sono temi della massima importanza e dovrebbero essere oggetto di un dibattito politico e parlamentare nel paese di cui non c’è traccia.

Perché?
Per due ragioni. Sin da quando si è iniziato a parlare di «autonomia differenziata» nessuna delle forze politiche ha coerentemente e sistematicamente avversato il progetto. Poi c’è il ruolo dei media che hanno sempre dedicato poco spazio alla questione, derubricandola quasi a una questione dei meridionali. Purtroppo, pensano di acquisire benemerenze nei confronti del governo non sollevando un problema che può provocare spaccature profondissime nella maggioranza.

Lei è molto duro anche con il Partito democratico e con i responsabili politici dell’Emilia Romagna. Perché?
Perché la regione Emilia-Romagna si è affiancata dal 2017 a Lombardia e Veneto, con mia grande sorpresa e dispiacere. Il governo Gentiloni ha poi aperto loro la strada nel 2018, al contrario di quel che aveva fatto Berlusconi nel 2008.

Si prospetta uno scambio tra il «presidenzialismo» sostenuto da Fratelli d’Italia e l’autonomia differenziata della Lega?
Così sembra. Personalmente sono contrario a entrambi gli ingredienti, ma noto che siamo in presenza di un governo assai approssimativo con basi culturali molto deboli. Ho l’impressione che non sappia esattamente bene quello di cui parla e metta insieme due riforme opposte.

Cosa accadrebbe se le realizzassero entrambe?
Un disastro. Un paese con meno democrazia, con fortissime concentrazioni di potere nelle mani di poche persone; un paese arlecchino e inetto, incapace di realizzare le proprie politiche. Uno scenario davvero molto preoccupante.

Che fine farebbe il servizio sanitario nazionale?
Morirebbe. La secessione dei ricchi creerebbe sistemi regionali del tutto indipendenti; con tutta probabilità con un ruolo del privato ancora maggiore rispetto ad oggi.

E la scuola, le politiche industriali e sociali?
Sulla scuola vedo un po’ più di ostacoli, ma tutto può accadere. L’intenzione è creare sistemi scolastici regionalizzati, selezionando gli insegnanti. Con gli insegnanti dipendenti dalle regioni verrebbe meno la loro tutela sindacale nazionale. Sulle politiche industriali la secessione darebbe tutti i poteri alle regioni: un percorso opposto rispetto alla necessità di disegnare una strategia nazionale nel quadro delle nuove, possibili, politiche europee.

Come si ferma tutto questo?
Dal basso, percorrendo le strade del Sud e del Nord, parlando ai cittadini. Creando al Sud problemi di consensi a Fratelli d’Italia e al Nord scuotendo l’opinione pubblica un po’ narcotizzata dalla modesta opposizione degli intellettuali e delle forze politiche di centrosinistra.

da “il Manifesto” del 18 ottobre 2023

Dissesto idrogeologico: costruire le istituzioni «custodi del territorio».-di Alberto Magnaghi

Dissesto idrogeologico: costruire le istituzioni «custodi del territorio».-di Alberto Magnaghi

L’ecocastastrofe socioambientale dell’Emilia Romagna, segna un punto di non ritorno rispetto agli effetti della crisi climatica: l’alternarsi di lunghi periodi di siccità impermeabilizzante e precipitazioni violente aggredisce il territorio in dimensioni inedite, diffuse e interconnesse fra versanti e pianure. L’ennesima riproposizione rituale di politiche emergenziali sul dissesto idrogeologico non serve più. Non serve più fare oggi ciò che non si è fatto in passato.

Ciò che serve, oltre al blocco radicale del consumo di suolo, è un sistema di progetti integrati, multisettoriali a livello di bacini e sottobacini idrografici, capaci di ridefinire globalmente le relazioni fra sistemi insediativi e ambiente, fra versanti e pianure.

Montagne (35%) e colline (41,6) costituiscono più del 70% del territorio italiano. E’ qui che i terreni induriti dalla siccità prolungata, franano e scaricano improvvise e rapide valanghe di acqua e fango in pianure a loro volta impermeabilizzate, i cui fiumi e torrenti non smaltiscono più e allagano campi e città, con tempi di ritorno dei fenomeni sempre più frequenti.

Si impone dunque la priorità strategica di trattenere a monte le acque nei periodi di precipitazioni violente e realizzare in tempo di siccità un rapporto virtuoso di deflusso controllato delle portate richieste per mantenere il minimo vitale ecologico dei fiumi.

Realizzare questo duplice obiettivo è meno semplice che costruire casse di espansione e collettori lungo i fiumi principali: oltre che politiche idrogeomorfologiche, richiede trasformazioni urbanistiche, ambientali, agroforestali, infrastrutturali, socioculturali, paesaggistiche di sistemi collinari e montani, storicamente abitati da comunità agroambientali, costellati da reti di piccole e medie città, paesi, frazioni che, nonostante i fenomeni di spopolamento, mantengono ancora le ricche strutture patrimoniali del loro territorio.

Ciò richiede progetti e politiche che riguardino, ad esempio: sistemi di trattenimento delle acque di prima pioggia (de-impermeabilizzazione dei suoli, riattivazione di cisterne storiche, nuovi sistemi di recupero e stoccaggio urbano e rurale nei piani urbanistici; reti di piccoli invasi multifunzionali e regolazione dei reflui urbani); recupero dei terrazzamenti e delle infrastrutture boschive e dei coltivi (ripiani e strade sostenuti da muri a secco, ciglioni, lunette, canali, fossi, scoline), in funzione produttiva e di regolazione del deflusso delle acque; riqualificazione delle strutture idrauliche di bacino (rii, torrenti, borri, briglie, ecc); infrastrutturazione delle attività agricole per il trattenimento delle acque e estensione del ruolo delle aziende a funzioni di produzione di servizi ecosistemici e di «custodi del territorio», in primis degli equilibri idrogeologici.

Questi progetti integrati non sono attivabili senza due condizioni fondamentali: la prima, l’avvio di un grande processo di ripopolamento dell’alta collina e della montagna, incentrato sull’’innovazione e estensione di funzioni delle attività agroforestali alla cura del territorio, che siano in grado di ricostituire capillarmente, a livello di singoli sottobacini, le condizioni di sicurezza idraulica e geomorfologica dei versanti; la seconda, la trasformazione radicale degli istituti di autogoverno locale verso forme di democrazia comunitaria, stante l’attuale incapacità dei Comuni di gestire progetti integrati e autonomi di pianificazione “dal basso”, data la dipendenza dai partiti centrali e da relative forme settoriali di intervento.

Attualmente queste due condizioni sono scarsamente promosse dalle politiche pubbliche; anche se i processi spontanei di ripopolamento della montagna attivati da “ritornanti, restanti e nuovi abitanti”, accompagnati dalla presenza capillare sul territorio di forme comunitarie di cura (ecomusei, contratti di fiume, parchi agricoli, comunità, distretti e biodistretti del cibo, cooperative di comunità, comunità energetiche, fondazioni, associazioni e imprese a finalità socioterritoriale e ambientale e cosi via), se assunti e valorizzati come riferimenti socioproduttivi, potrebbero dar luogo a una nuova civilizzazione bioregionale in grado di affrontare le due nuove urgenze strategiche di mitigazione e contrasto della crisi climatica.

da “il Manifesto” del 27 maggio 2023
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L’implosione del Mediterraneo-di Tonino Perna

L’implosione del Mediterraneo-di Tonino Perna

C’era una volta il Mediterraneo, culla di grandi civiltà, delle tre religioni monoteiste, centro dell’attività economica e commerciale del mondo conosciuto, dal tempo dei fenici-greci-romani-arabi fino alla fine del XV secolo. Poi, con la conquista dell’America, si spostano progressivamente i flussi commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico, e dal continente americano arrivano oro e argento che costituivano allora la base reale della ricchezza di un paese, e si riduce progressivamente il ruolo del Mediterraneo, ma non scompare.

Ancora negli anni ’60 del secolo scorso i paesi che si affacciano nel bacino del Mediterraneo facevano parte dei paesi a reddito medio-basso, nella sponda sud-est, e a reddito medio alto nella sponda nord. Dopo la caduta del muro di Berlino e l’apertura cinese al mercato globale, l’asse del commercio e della finanza europea si sposta nuovamente verso i paesi dell’ex Urss e verso la Cina, all’interno di una rivoluzione geopolitica ed economica che vede l’asse centrale dell’economia mondo localizzarsi in Asia. Un cambiamento epocale paragonabile solo a quello avvenuto con la conquista delle Americhe. Solo che allora ci vollero secoli per consolidare questo cambio di rotta del mercato mondiale, oggi sono bastati pochi decenni.

Il progressivo impoverimento delle popolazioni della sponda sud-est del Mediterraneo è avvenuto già negli anni ’70 del secolo scorso, con una divaricazione crescente tra la sponda Nord e Sud-es. L’Ue, nata nel cuore del Mediterraneo con il Trattato di Roma del 1957, e due anni prima con la Carta di Messina, ha lasciato da tempo il mare nostrum come area di interesse economico e politico, abbandonando nell’emarginazione e crescente povertà le popolazioni nordafricane ed arabe. Fino alla “primavera araba” media e governi occidentali avevano ignorato l’impoverimento di queste popolazioni. Improvvisamente nel 2010 si accendono i fari su masse giovanili in piazza per chiedere più libertà e giustizia sociale, contro le rapaci élite, militari e civili, che divorano le ricchezze unitamente ai rapporti di scambio ineguali con i paesi occidentali.

Sappiamo come è andata a finire anche grazie all’ingerenza di potenze straniere comprese quelle europee. Libia e Siria, paesi relativamente ricchi e dove milioni di migranti del Sahel lavoravano, sono implose e vivono tuttora in uno stato di guerra permanente. Il Libano, la famosa Svizzera del Mediterraneo, è stato ridotto alla fame e il milione e mezzo di siriani che aveva ospitato sono oggi invisi e perseguitati. La Palestina è stata fatta a brandelli, ridotta ad un bantustan, dalla crescente tracotanza del governo israeliano che a sua volta attraversa una crisi democratica inedita. E adesso è arrivato il turno della Tunisia, l’unico paese a mantenere aperta una piccola luce sulla “primavera araba”, ormai entrato in una spirale autodistruttiva. E’ l’ennesimo paese dell’area mediterranea che implode

L’Unione europea si preoccupa dei suoi vicini di casa caduti nell’inferno? Pensa a sostenere economicamente e finanziariamente questi paesi, o pensa piuttosto a investire, come ha fatto con la Turchia, solo per creare un grande lager? Il governo Meloni vede nell’implosione della Tunisia un pericolo per l’Italia, con i principali mass media che ormai hanno lanciato l’allarme: l’invasione di milioni di migranti è alla porte di casa nostra!

Dopo il meeting di Barcellona del 1995, che pure aveva i suoi limiti neoliberisti, il Mediterraneo è scomparso dall’agenda europea, lasciando campo libero agli Usa, alla Russia, alla Cina e all’emergente politica espansionistica della Turchia del sultano Erdogan. In Italia, dopo decenni di convegni sul Mediterraneo, di evocazioni retoriche sull’Italia e la Sicilia centro e cuore pulsante di questo mare, abbiamo ricoperto l’importanza di alcuni di questi paesi solo adesso come fornitori di gas e petrolio. E questo, naturalmente, in linea con la transizione ecologica in salsa napoletana.

da “il Manifesto” del 14 aprile 2023

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

“Attualmente esiste in media un divario di almeno mille euro pro capite per abitante tra Mezzogiorno e Centro-Nord nella spesa pubblica”. Così i dati dell’Agenzia per la Coesione fotografano il differenziale di spesa per il finanziamento dei servizi tra le due diverse aree del Paese.

Questa fonte smentisce la vulgata del Sud inondato di risorse ma conferma, invece, il contrario. E questi dati si riflettono in una minore spesa sia in conto capitale per investimenti che in spesa corrente. Si tratta di un divario di spesa in comparti essenziali: dall’istruzione alla sanità, ai trasporti pubblici e alla spesa sociale.

Quindi, il divario Nord-Sud in termini di servizi che tutti i cittadini vivono quotidianamente è dovuto, in parte, anche a sacche di inefficienza ma prevalentemente anche al fatto che al Sud dal momento che alcuni servizi non esistono, semplicemente non esistono neppure le risorse per erogarli. È il meccanismo della spesa storica: dove non ci sono servizi non c’è neanche la spesa ed è questo che ha comportato il grande divario.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato approvato in Consiglio dei ministri con ulteriori integrazioni rispetto alle prime bozze. Adesso si conferma la necessità di definire i Lep prima di procedere al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni. Ma questo sarà un sufficiente strumento di garanzia? Questo rappresenterebbe una reale garanzia se alla definizione dei Lep facesse seguito anche un adeguato finanziamento.

Si tratta di una differenza sostanziale dal momento che la norma Calderoli ci dice che è sufficiente definire i Lep ma proprio alla luce del differenziale di servizio non basta stabilirli ma bisogna anche garantire le risorse per il loro finanziamento. Ciò vuol dire risorse aggiuntive prevalentemente per il sud, ma non solo, per erogare il servizio dove attualmente non c’è. In realtà, il problema viene aggirato e difatti rischiamo di avere una applicazione dell’autonomia anche in materie oggetto dei lep senza che i lep vengano finanziati.

Cosa potrebbe infatti avvenire nel caso in cui competenze come la sanità o la scuola venissero regionalizzate? Sono molti i rischi. In primo luogo, si rischia una frammentazione del Paese, una frammentazione delle politiche pubbliche ma c’è poi un tema di unità nazionale. Quando si impatta su materie quali l’istruzione che sono parte del nostro sentimento di unità nazionale si rischia di avere anche programmi diversi a livello territoriale. Addirittura nella proposta del Veneto si prevedeva che il personale della scuola fosse trasferito nei ruoli della Regione.

Si capisce bene che questo impatterebbe sia sulla mobilità sia sugli stipendi. Uno stesso insegnante in Veneto può guadagnare di più che in Calabria o in Campania facendo lo stesso lavoro. Oltre a ciò si indebolisce il principio di solidarietà nazionale perché con il trasferimento si bloccano le risorse e così avremo tre regioni il cui principale obiettivo è ridurre il loro contributo di solidarietà.

Restiamo in ambito scuola con un esempio. Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in una scuola della loro città. Ma mentre la bambina toscana, secondo i dati SVIMEZ, ha avuto garantita dallo stato 1226 ore di formazione; il bambino cresciuto a Napoli non ha avuto a disposizione la stessa offerta educativa, perché nel Mezzogiorno mancano infrastrutture e tempo pieno. Secondo la SVIMEZ, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del sud.

Poi ci sono i freddi numeri: secondo i dati SVIMEZ, nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale.

Ancora: per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore.

Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%).
Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

Parole e ulteriori commenti a questo punto non servono.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 febbraio 2023

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

Occorrerebbe parlare con cognizione di causa e conoscenza dei problemi. Soprattutto in materie delicate che riguardano ogni giorno la vita dei cittadini. Come la Sanità.- Non è per fare polemica pregiudiziale e “ideologica” ma davvero c’è da chiedersi perché da più parti viene detto che le prestazioni offerte dal settore privato accreditato (cioè senza oneri per il cittadino) o non accreditato (cioè a pagamento) sarebbero, così, tout court, viziate, inaccettabili, sporche, perché inquinate dal fatto che il proprietario/gestore della struttura privata ne trae un guadagno.-

Si badi, non si dice che la prestazione resa dal privato non risponde agli standard di qualità o che è il frutto di una truffa o di un accordo fraudolento. No. E’ solo che “se l’obiettivo è il rispetto del diritto le prestazioni saranno di un tipo, se invece lo scopo è il profitto, le stesse prestazioni saranno di altra specie” (Ivan Cavicchi Il Manifesto 2 febbraio 2023).-

Traduzione: se si vuol fare profitto non si può rispettare il diritto. Il che la dice lunga sul rispetto del lavoro e sul pregiudizio ottuso che semina una affermazione del genere.-

E ancora: “sulle strutture private accreditate: a loro più che offrire prestazioni con il servizio sanitario nazionale conviene offrire prestazioni a pagamento” (Milena Gabanelli, Corsera 6 febbraio 2023). Qui è chiaro che si ignora come e perché sono le Regioni che impongono tetti insuperabili (peraltro in violazione delle Leggi dello Stato) che inibiscono alle strutture private accreditate di rendere “prestazioni con il servizio sanitario nazionale”.-

Questa ostilità inspiegabile verso chi – lavorando onestamente – rende un servizio pubblico traendone un giusto e lecito profitto, non agevola affatto la discussione che dovrebbe – deve – agitarsi lucidamente intorno al tema della cosiddetta “autonomia differenziata”. Questione che in realtà ne nasconde una enormemente più importante e delicata, cioè la tutela della Costituzione e dei diritti basilari di ogni cittadino di questo Paese.-
I primi guasti enormi sono stati provocati dalla sgangherata riforma del titolo V della costituzione con la regionalizzazione – tra l’altro – del servizio sanitario.

L’esigenza, sbandierata come “politica” ,di avvicinare il modo di prestare cure ed assistenze alle concrete e peculiari necessità dei territori e dei cittadini che li abitano era uno sbaglio prima che una bugia che oggi però presenta il suo conto in termini di inadeguatezza ed insufficienza.

In realtà rispondeva alla volontà predatoria di creare nuovi e più penetranti centri di potere e di formazione/ imposizione di consenso elettorale e di formazione di enormi ed incontrollati flussi finanziari senza alcun riguardo agli interessi dei cittadini che avrebbero meritato (avendolo pagato con le tasse) un sistema sanitario – e connessi circuiti di ricerca e produzione- in grado di fronteggiare qualsiasi emergenza. Ma la politica era più attenta alla nomina di direttori generali ed agli appalti truffa più che alla implementazione di un vero servizio universale e solidaristico per tutto il paese e per cittadini uguali indipendentemente dalla regione in cui si trovano.

La riflessione ci porta ancora più indietro a considerare che la tragica inadeguatezza strutturale che oggi constatiamo è figlia della subcultura politica della classe dirigente degli ultimi venti anni . Quella dei “ nominati” ,non più legati alla selezione dei partiti ed ai cittadini elettori ma alle agenzie di rating ed alla globalizzazione . E siccome tutte le matasse hanno un bandolo è quello che occorre cercare per poter capire. Il bandolo è la sciagurata revisione dell’art 81 della costituzione che nella nuova stesura impone il pareggio di bilancio .

Spacciata nel 2012 per una norma virtuosa era, in realtà, il mezzo per dichiarare recessivi rispetto ai mercati, alla logica iperliberista e “aziendalista”, i diritti fondamentali , quelli che i costituenti avevano previsti in Costituzione e dichiarati dovuti e pretendibili dai cittadini senza “ corrispettivo” – scuola ,ambiente e sanità per intenderci – perché assicurati a tutti ,indistintamente , mediante il prelievo fiscale proporzionale e progressivo (chi ha di più paga questi servizi anche per chi ha di meno).

Diritti “costosi”, ed infatti previsti a carico dello Stato, perché i “ricavi” da essi prodotti non sono iscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto, essendo fatti di cultura, senso della comunità, conoscenze, benessere, in un ideale ma ben percepibile, bilancio istituzionale e politico.

Ma la storia e’ che il parlamento totalmente impregnato degli interessi della grande finanza mondiale ed incapace di opporre ad essa la visione di un equo stato sociale, voto’ la modifica con una maggioranza tale da rendere impraticabile anche l’eventuale referendum confermativo.

Da quella revisione costituzionale discendono i tagli al fondo sanitario, i blocchi delle assunzioni , la politica dei budget e degli “ acquisti “ di prestazioni (terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello stato, cioè di un loro diritto. La salute come azienda,appunto).

Da qui vengono i commissariamenti delle regioni in particolare al sud , oberate da debiti derivanti in parte dal fisiologico costo del servizio sanitario (ovvio, crescono le conoscenze e la tecnologia, aumenta la vita media, si scoprono e si praticano nuove cure, e dunque si incrementano i costi) ed in altra parte, la maggiore, dagli sprechi.
Ma i commissari non hanno fatto la lotta agli sprechi, neanche un centesimo è stato risparmiato in questo campo, sono stati invece imposti nuovi tagli ,nuove riduzioni di servizi e di diritti, è stata indotta l’emigrazione sanitaria a tutto beneficio delle Regioni del nord così da presentare (senza neanche riuscirci), bilanci migliori e indirizzati verso il pareggio.

Nessuno, a meno di voler essere smentito dalla esperienza diretta di ciascuno di noi ,può dire che si sia pensato ad un progetto di sistema sanitario complessivo. Si sono chiusi ospedali a casaccio ,si sono bloccate le assunzioni , non un centesimo per la prevenzione, per la medicina del territorio, per la rete emergenza/urgenza. Non ne parliamo della ricerca rimasta affidata a nicchie di volenterosi .

Noi lo scriviamo, lo diciamo, lo urliamo da anni, inascoltati, ma ora il re è nudo: il servizio sanitario non può essere regionalizzato perché la tutela della salute e’ un diritto fondamentale cui ha diritto ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri. Neppur può soggiacere ai vincoli di spesa, quella giusta, necessaria, e per fortuna, sempre maggiore se si vuole, come si deve, assicurare sempre maggiore benessere e dunque efficienza, efficacia ai cittadini che così possono produrre merci, cultura, idee formazione e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita, giusta ed equilibrata, del sistema paese.

La vera grande opera pubblica che ci serve è questa: sostenere la scuola, tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale, assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.

Gli sprechi, le truffe devono essere perseguiti con i dovuti mezzi specifici e non con i tagli lineari che falcidiano nella stessa misura spese improprie ( che vanno cancellate del tutto) ed eccellenze (che invece vanno sostenute con maggiori risorse). E men che meno con la spesa storica o con la storia dei Lep fissati dal Governo e non dal Parlamento e poi declinati in “intese” tra Regioni e Ministro. Non è così che si attua il ragionalismo costituzionale. Così si tradisce lo spirito e la lettera della Costituzione. Ripristinare semplicemente la Costituzione italiana garantendo i diritti fondamentali a tutti ed in maniera piena, è questo ciò di cui gli italiani hanno bisogno.

Roba per la Politica con la P maiuscola.

P.S.: Per fare in maniera seria questo tipo di riforme occorre una nuova assemblea costituente eletta con metodo proporzionale puro.

da “il Quotidiano del Sus” del 17 febbraio 2023

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il varo dell’autonomia differenziata, che speriamo incontri una serie di ostacoli negli step successivi, rischia di spaccare il nostro paese al di là di quello che oggi si possa immaginare. Infatti, se fosse applicata come chiedono le Regioni Lombardia, Veneto e, sia pure con qualche distinguo, l’Emila Romagna, provocherebbero in pochi anni una divaricazione salariale, prima nel settore pubblico e poi, per la caduta della domanda, nel settore privato peggiore delle gabbie salariali che c’erano negli anni ’50 del secolo scorso.

Cerchiamo di entrare nel merito, considerando i desiderata della Lega e ipotizzando che vengano attuati. Tra quello che le singole Regioni danno allo Stato con imposte, accise, ecc. e quello che ricevono si è creato nei decenni una divaricazione sempre più marcata. Tre Regioni, ovvero Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, hanno un budget negativo nei confronti dello Stato mentre le Regioni a Statuto Speciale- Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino A.A, Friuli V.G. fanno registrare un surplus, vale a dire che ricevono più di quello che danno. La Regioni del Centro Italia sono grosso modo in pareggio, il Piemonte ha un surplus marginale, mentre la Liguria presenta, unitamente a tutto il Mezzogiorno, un attivo considerevole.

Per la cronaca la regione che ha il surplus in percentuale maggiore è la Calabria, quanto per cambiare, che diventerebbe la regione più penalizzata dall’autonomia differenziata. Se i flussi di entrata ed uscita tra la popolazione calabrese e lo Stato andassero in pareggio il reddito pro-capite arriverebbe a perdere dopo tre anni circa il 30%. Questo comporterebbe in primo luogo una caduta dei salari reali dei dipendenti pubblici, salvo che il governo regionale, ipotesi non credibile, non riducesse drasticamente l’occupazione nella sanità, scuola, servizi sociali, ecc, per mantenere lo stesso livello dei salari reali con il Nord.

In media le regioni meridionali perderebbero tra il 15 e il 20 per cento del reddito pro-capite e di conseguenza dei livelli salariali. Come avverrebbe questo taglio ai salari? Semplicemente non adeguandoli all’inflazione nei prossimi anni, mentre nelle tre regioni del Nord più ricche si avrebbe più che un recupero dell’inflazione, rendendo nuovamente attraente l’impiego pubblico, come per altro avviene in Centro e Nord Europa.

E’ facile immaginare che, al di là delle proteste, una buona parte dei meridionali cercherebbe di trovare lavoro nelle aree più ricche del Nord, creando un problema di concorrenza nel mercato del lavoro. A questo problema la Lega Nord ci ha già pensato da tempo con varie proposte che finora erano state bocciate, ma che l’autonomia rende possibile. Per esempio, per entrare nella pubblica amministrazione di queste regioni del Nord, dalla scuola alla sanità agli enti locali, devi avere almeno cinque anni di residenza provata. Un deterrente che certamente susciterà non poche polemiche e proteste di piazza.

Dobbiamo prendere atto che l’autonomia differenziata se passasse nei termini proposti da Calderoli creerebbe una sorta di Linea Gotica che spacca il nostro paese in due. E il governatore Pd dell’Emilia Romagna ne è responsabile quanto i presidenti regionali della Lega.

Per fortuna i giochi non sono ancora fatti, ma il rischio è alto. Che fine faranno le cinque regioni a Statuto speciale che percepiscono un lauto surplus, tra entrate e uscite, da parte dello Stato? E la Liguria che rischia di perdere qualcosa come il 10 per cento del suo reddito continuerà a stare a guardare? E la Meloni, che dell’Unità d’Italia ne ha fatto sempre una bandiera, potrà tener fede al patto con la Lega, allo scambio del presidenzialismo con l’autonomia differenziata? Ma, soprattutto, i governatori del Sud, a qualunque partito appartengano, potranno permettersi di restare alla finestra guardando a questo scippo che metterebbe fine ad ogni sogno di riscatto del Mezzogiorno?

da “il Quotidiano del Sud” del 7 febbraio 2023

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

Il nostro Sud affonda nella crisi euromediterranea.-di Tonino Perna

E’ uno scenario estremamente preoccupante quello disegnato per il 2023 dal Rapporto Svimez, in particolare per il Mezzogiorno. Nella più probabile delle sue previsioni, il Centro-Nord vedrà un reddito pro-capite tra lo 0 e l’1%, mentre per tutte le regioni meridionali sarà negativo (-0,4%). Se al Sud aumenteranno le persone sotto la soglia della povertà, e un colpo fatale per 600mila famiglie verrà dal taglio del RdC, anche per il ceto medio le previsioni sono negative.

Di fronte ad un tasso di inflazione che corre al 12% il governo avrebbe dovuto prevedere un pari aumento di spesa per la sanità, la scuola, l’Università, i servizi sociali solo per mantenere i livelli attuali di prestazioni. Invece c’è un incremento di meno dell’1% per la sanità e il mantenimento dei tetti di spesa negli altri settori. Risultato: un peggioramento del welfare per tutti i cittadini italiani che colpirà ancor di più le regioni meridionali che ne hanno più bisogno. Se poi dovesse passare, anche in parte, l’autonomia fiscale differenziata l’Italia si spaccherebbe in due definitivamente. Ma, già adesso la divisione è netta e profonda.

Basti osservare i dati del Report di Italia oggi sulla qualità della vita nelle province italiane. Nella graduatoria finale, sintesi di 92 indicatori, nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro-Nord. Colpisce in particolare la voce “istruzione e formazione”, che aggrega cinque indicatori significativi: partecipazione alla scuola dell’infanzia, diploma di scuola secondaria, partecipazione a programmi di formazione continua, studenti con particolari competenze alfabetiche e numeriche. Risultato finale: nelle prime 68 province non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane (che ormai appartengono più al Centro Italia che al Sud).

Da almeno trent’anni la “questione meridionale” come questione nazionale, è morta e sepolta, ma adesso assistiamo ad un tentativo di espulsione del Mezzogiorno, di trasformazione di questo territorio in una sorta di G.R.A. (Grande Riserva per Anziani), disabili, disoccupati a basso o nullo livello di qualificazione. Siamo, infatti, di fronte ad un’altra svolta della storia, ad un terremoto geopolitico paragonabile a quella del dopo ’89.

Con la caduta del muro di Berlino la strategia europea, a trazione tedesca, ha guardato ad est, voltando le spalle al Mediterraneo, e quindi marginalizzando i paesi che si affacciano sul mare nostrum.

Dopo l’ultimo incontro euro-mediterraneo di Barcellona del ’95, nessun passo in avanti si è fatto sulla cooperazione/integrazione euromediterranea, anche quando con le Primavere arabe si era aperta una opportunità, e sarebbe stato importante sostenere i movimenti della società civile. Armi e business, nessun’altra modalità di relazione tra i governi europei e quelli della sponda sud-est del Mediterraneo che nel frattempo è diventato una polveriera: guerra in Siria, conflitto crescente in Palestina, tra governo turco e aree controllate dai kurdi, implosione del Libano (ex-Svizzera del Medio Oriente), ecc.

Oggi, con la guerra tra Russia e Ucraina, il conflitto strisciante tra Usa e Cina, si sta ridisegnando uno spazio socio-economico e politico a livello mondiale. La Ue è in fibrillazione, la subalternità alle politiche Usa ha un costo crescente, riduce gli spazi di mercato e mette in crisi l’Euro. Per sostenere la moneta europea la Bce sarà costretta ad alzare ancora i tassi d’interesse approfondendo la stagflazione in atto. Inevitabilmente ci sarà un “si salvi chi può”, con i Paesi del Nord Europa che chiederanno una nuova politica di austerity per i paesi più indebitati.

Si riproduce, ad un più alto livello, la situazione che ci ha visto retrocedere, rispetto agli altri paesi Ue, dal 2011 al 2018, con i salari reali in discesa, il peggioramento dei servizi pubblici, una forte riduzione del welfare e una relativa crescita della povertà. In questo scenario prevedibile, le regioni del Nord chiederanno a gran voce la secessione fiscale e il governo Meloni se vorrà sopravvivere dovrà mediare concedendo qualcosa e peggiorando ancora le condizioni del Mezzogiorno, ma difficilmente manterrà unito questo nostro Paese.

Anche i presidenti delle regioni meridionali mancano di un progetto comune, di una scala di priorità da porre sul tavole del governo. Anzi, c’è chi chiede l’autonomia per quanto riguarda l’energia (la Basilicata in primis), chi per i pedaggi di attraversamento, chi per altre voci di bilancio. E facilmente ritorna di grande attualità l’invettiva di Dante: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta non donna di province ma bordello».

da “il Manifesto” del 30 novembre 2022

Creare occupazione intellettuale, rinnovare lo Stato.-di Piero Bevilacqua Un milione di posti di lavoro

Creare occupazione intellettuale, rinnovare lo Stato.-di Piero Bevilacqua Un milione di posti di lavoro

Si può creare un milione di posti di lavoro con una iniziativa governativa e non è una barzelletta di Berlusconi. E senza generare nuovo debito. Lo documenta un progetto elaborato da un gruppo di studiosi dell’Università di Torino e del Piemonte Orientale: Guido Ortona, Filippo Barbera, Francesco Pallante e altri. Il meccanismo è semplice: si tratta di imporre un prelievo dell’1%, una tassa di solidarietà, sulla ricchezza finanziaria con quota esente di 300 mila € e per un periodo limitato di circa 4-5 anni.

Un prelievo, si badi, da attuarsi sui 5.000 miliardi di euro che è l’attuale ammontare della ricchezza finanziaria degli italiani. Su quest’ultimo aspetto la nostra stampa sorvola sempre e comprensibilmente, visto il ruolo che gioca in difesa dei ceti abbienti. Il nostro è un paese composto da famiglie ricche che vivono in una società sempre più povera. Una ricchezza immobile, che blocca l’Italia intera.

Da questo immenso patrimonio, col prelievo proposto, si ricaverebbero oltre 27 miliardi di euro che diventerebbero stipendi per un milione di persone assunte nella Pubblica Amministrazione. Stipendi equivalenti a quello di un professore di scuola media intorno a 1.400 € al mese. Questa trasformazione del risparmio finanziario in stipendi avrebbe uno straordinario effetto moltiplicatore sull’economia: aumentando i redditi accrescerebbe i consumi e migliorerebbe al tempo stesso il rapporto tra debito pubblico e PIL.

Ma l’aumento degli stipendiati accrescerebbe il gettito fiscale allo stato, con vantaggio per le sue capacità di investimento pubblico, innalzerebbe l’efficienza della macchina amministrativa, con beneficio per l’economia, la qualità dei servizi. Nel giro di 5 anni, è stato calcolato, i 27 miliardi prelevati ne genererebbero ben 40. E Il lieve prelievo sugli alti redditi potrebbe essere anche annullato dopo 5 anni. Questo, dunque, costituirebbe uno dei più vantaggiosi investimenti pubblici oggi realizzabili.

Ricordiamo che negli ultimi 20 anni in tanti settori, nella sanità, nella scuola, nei trasporti, nell’Università, un elevato numero di personale è andato in pensione e non è stato sostituito. E noi siamo infatti i più sguarniti nei ranghi della Pubblica Amministrazione. rispetto ai grandi paesi europei. Significativamente l’Italia crea in Europa meno laureati, ma tra questi ha il numero più elevato di disoccupati rispetto agli altri grandi partner continentali.

Il nostro Mezzogiorno conosce da anni questo fenomeno devastante: ragazzi con la laurea in tasca, spesso anche un dottorato o un master, scappano in qualche città del Nord e soprattutto all’estero in cerca di fortuna. Una parte grande del dramma dei giovani laureati meridionali e non solo meridionali ha qui la sua origine: la PA non li recluta, come accade in Francia, in Germania o nel Regno Unito e loro emigrano in Francia, in Germania e nel Regno Unito. Le nostre famiglie investono una parte rilevante del loro reddito per formare i propri figli e questi, alla fine del ciclo scolastico-universitario, mettono la propria cultura e competenza a servizio di altri Paesi.

Dunque siamo di fronte a un progetto ragionevole, assolutamente sostenibile sotto tutti i profili, anche quello organizzativo: si potrebbe svolgere ogni anno un concorso pubblico per 200 mila candidati e nel giro di 5 anni 1 milione di giovani sarebbe in organico. Meno disoccupati, meno giovani frustrati e in fuga, maggiore coesione sociale, incremento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione, crescita complessiva della ricchezza nazionale. Una possibilità che dipende esclusivamente dalla volontà politica.

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

Un nuovo partito. Come e perché.-di Piero Bevilacqua

L’aspetto più incoraggiante di questi ultimi giorni, nei quali
riflettiamo con delusione e frustrazione sui risultati elettorali di
Unione Popolare, è la volontà, espressa da tutti coloro che
intervengono coi loro commenti, di continuare la nostra avventura. Si
legge la stessa determinazione con cui abbiamo affrontato, nelle
condizioni più avverse, la sfida quasi impossibile di raccogliere, nel
cuore di una delle estati più torride del millennio, le decine di
migliaia di firme richieste per la partecipazione alla campagna
elettorale. E bisogna aggiungere che pari ostinazione hanno mostrato
migliaia di cittadini, i quali hanno affrontato in paziente fila, il
sole ustorio di agosto per potere apporre la loro firma.

Dunque volontà di continuare il nostro progetto come del resto avevamo
promesso. Ma come? In che forma, con che modalità organizzativa?
Dobbiamo fare il salto da una lista elettorale imbastita
precipitosamente – ma, bisogna riconoscere, ammirevolmente ben fatta –
a una struttura più stabile, pensata accuratamente nei suoi organismi
rappresentativi, in grado di garantire democrazia ed efficienza
operativa. Non è un obiettivo che si raggiunge in un giorno, ma
bisogna, con il concorso di tutti, gettare da subito le prime
fondamenta su cui costruire l’edificio.

A mio avviso sarebbe molto utile organizzare intorno a metà ottobre
quella Assemblea costituente di due, tre giorni che De Magistris aveva
proposto prima che dovessimo affrontare le elezioni anticipate.
Sarebbe innanzitutto um modo di reincontrarci o di conoscerci per la
prima volta. I compagni e le compagne sentono anche un gran bisogno di
raccontarsi, di narrare le loro esperienze, esprimere le loro
critiche, suggerimenti, proposte. La volontà militante – che
purtroppo, di questi tempi, non è una virtù civile diffusa – si
rafforza se tutti si sentono protagonisti di un progetto, se hanno
diritto di parola, alla pari con gli altri.

Naturalmente occorre arrivare all’appuntamento con qualche idea
organizzativa. L’appuntamento deve essere in parte una festa ma deve
concludersi con indicazioni operative ben chiare, perchè tutte e tutti
tornino a casa sapendo come proseguire. Provo perciò a buttare giù
delle idee da prendere come contributo sperimentale alla discussione
che seguirà. E la prima cosa che mi sento di dire è che – con tutte le
variazioni, declinazioni originali che possiamo immaginare –io non
vedo organizzazione più efficiente, capace di tenere insieme
pluralismo delle idee e capacità di azione, del partito.

Il partito, non dimentichiamolo, è “l’organizzazione della volontà collettiva”
(Gramsci) è una grande conquista della modernità, ha sottratto gli
individui al loro isolamento molecolare e ne ha fatto una comunità di
lotta, un protagonista di prima grandezza dell’età contemporanea in
tutto il mondo. Anche se adesso i partiti non sono, almeno in Italia,
che agenzie di marketing elettorale, noi dobbiamo tentare questo
modello, sapendo che abbiamo intorno altre forze di sinistra con cui
dobbiamo dialogare e un arcipelago vastissimo di associazioni,
circoli, gruppi che non faranno mai parte di un partito, ma che
saranno i nostri compagni esterni nelle varie battaglie e mobilitazioni
che condurremo.

Un partito necessita di un portavoce e noi l’abbiamo.Chi ha seguito De
Magistris anche nelle poche apparizioni televisive ha potuto
constatare la sua capacità di rappresentarci e di dare calore
comunicativo ai punti del nostro programma. Questo al netto della sua
esperienza politico-amministrativa che nessuno di noi possiede.
Naturalmente, come ho sempre sostenuto, se il suo ruolo e la sua
figura nel nostro collettivo, sono naturaliter preminenti, dobbiamo
evitare di imboccare la strada del partito del leader.

Questa tendenza, ormai dominante dappertutto, va contrastata come effetto
dello svuotamento di democrazia che i partiti hanno subito negli
ultimi decenni, soprattutto in Italia. In concomitanza, del resto, con
la torsione autoritaria che ha investito l’intera società, a
cominciare dai sistemi elettorali. Il neoliberismo non ha liberato
nessuno, ha creato nuovi vincoli e nuove servitù. Mentre la società
dello spettacolo tende a rappresentare la politica come un gioco di
società tra leader facendo scomparire tutti gli altri.

Quindi il portavoce deve avere attorno un gruppo
dirigenterappresentativo delle varie anime di UP, che al momento sono
i dirigenti delle forze politiche che la compongono. Potremmo
chiamarla Segreteriao Direttivo, si vedrà. Naturalmente in seguito
bisognerà inventare procedure elettive che garantiscano un
funzionamento pienamente democratico. E va da sé che occorrerà
elaborare uno statuto. Potrebbe essere il caso di convolgere un gruppo
di saggi – personaggi di prestigio esterni a UP – che ci aiutino in
questo compito di selezione e fondazione delle regole di democrazia
interna.

Un altro organismo che al momento io vedo necessario, per un primo
assetto organizzativo, è un Comitato territoriale, vale a dire un
organo in cui siano presenti i rappresentanti di tutti i territori,
che si riunisce con una periodicità da stabilire. Si dovrà poi capire
se una rappresentanza di dimensione regionale sia la misura più giusta
e meglio gestibile.

Scendendo al livello organizzativo di base, cioé alla necessità di
creare delle unità organizzative che possiamo chiamare
circoli,sezioni, presidi , case del popolo o in altro modo, si pongono
dei problemi politici rilevanti, anzi, il problema politico principale
per la costruzione di un partito. Vale a dire il passaggio di
Rifondazione Comunista, Potere al Popolo, Dema e tutte le formazioni
minori alla nuova creatura chiamata Unione Popolare.

Voglio premettere che io sono uno storico e per giunta un vecchio militante e posso
capire forse più di altri l’attaccamento quasi carnale di tanti
compagni alle proprie bandiere. So che in quel legame c’è un pezzo di
storia della propria vita, battaglie, sacrifici personali, marce e
nottate. Per questo ho il massimo rispetto per tali sentimenti di
fedeltà, che davvero splendono di nobiltà di fronte alle giravolte dei
voltagabbana della nostra scena parlamentare e partitica.

Ma la politica, specie quella che ha l’ambizione di cambiare il mondo, è
consapevolezza del proprio tempo e coscienza della propria storia. E
la nostra, non dimentichiamolo, negli ultimi decenni è stata una
storia di divisioni e lacerazioni. Dobbiamo essere consapevoli che se
non vogliamo limitarci a fare opera di testimonianza, ma abbiamo
l’ambizione di ottenere largo consenso dagli italiani, diventare forti
per aiutare chi è stato emarginato, noi non possiamo presentarci come
i resti di un esercito sconfitto.Diciamo la verità: Rifondazione,
Potere al Popolo, Dema appaiono agli osservatori esterni come la
testimonianza della sempiterna divisione della sinistra. Aggiungo qui
un’altra considerazione: è il nostro vasto e disperso popolo di
militanti e semplici elettori, deluso e scoraggiato, che vive come un
dramma le nostre divisioni. Ne ho avuto ulteriori, molteplici prove
durante la campagna elettorale. E il fatto di non accorgercene è la
nostra maggiore colpa e una delle causa della nostra perdurante
marginalità.

Dunque l’Unione Popolare è un passo in avanti, una conquista a cui
occorre guardare con fiducia e generosità, puntando a rendere
tendenzialmente ancora più vasto il campo dell’ unità con le altre
forze anticapitalistiche che esistono in Italia. Ricordo che
Melanchon, Iglesias, Corbin, Ken Loach, non avrebbero espresso il loro
autorevole appoggio alle singole forze se esse non si fossero
presentate sotto il simbolo unitario dell’Unione.

Passando perciò ai più terrestri problemi organizzativi io credo
necessario,con tempi di maturazione che varieranno da situazione a
situazione, che occorre creare dovunque sia possibile circoli,
sezioni, case del popolo, ecc , con l’insegna di Unione Popolare,
magari unificando le poche forze che abbiamo anche in uno stesso
locale. Bisogna imparare a vivere insieme: anche questa è intelligenza
politica, lavoro di costruzione del partito. Quanto più realizziamo ed
esprimiamo spirito unitario tanto più diventiamo e appariamo forti e
credibili.

E qui vorrei concludere con tre osservazioni e proposte. Dobbiamo
trasmettere ai cittadini il senso della nostra utilità sociale. Oggi,
fondatamente, la maggioranza degli italiani – come testimonia anche il
crescente astensionismo – considera gli esponenti dei partiti come un
ceto sociale parassitario. Vendono propaganda elettorale e in cambio
ricevono i nostri voti: cioé soldi, potere, privilegi, visibilità
mediatica in cambio di nulla. Quando non compiono scelte
antipopolari…

Noi siamo diversi, abbiamo programmi alternativi, ma
non abbiamo ancora fatto niente, come Unione Popolare,per convincere i
cittadini che siamo diversi e che potremmo realizzarli.Molto
opportunamente, De Magistris ha cercato di smarcarsi da questa
immagine, di rendersi credibile nel grande frastuono pubblicitario
della campagna elettorale, ricordardo la propria esperienza di
sindaco.Ma noi siamo agli inizi e dunque dico che i nostri presidi nel
territorio devono assomigliare a sedi di volontariato.

I cittadini del quartiere devono vedere in esse non soltanto il luogo dove si discute
di politica, ma dove si insegna un po’ di italiano agli immigrati, si
organizzano i GAS per portare le cassette di cibo a casa degli
anziani, si aiutano le persone inesperte a risolvere al computer i
loro problemi amministrativi. Attenzione a quest’ultimo aspetto:
l’anafabetsimo informatico di tanti cittadini costituisce oggi una
limitazione dei loro diritti. E’ come l’analfabetismo totale degli anni
’50. Ma questi nostri centri dovrebbero essere in grado, con altre
forze, di organizzare campagne ambientaliste con i giovani, i quali
oggi sembrano interessati solo a questa forma di militanza. Quindi
giornate dedicate alla pulizia dei giardini pubblici, delle spiagge,
per la piantumazioni di alberi in città, ecc.

Ma c’è un altro aspetto su cui voglio richiamare la vostra
attenzione:noi dobbiamo distinguerci nel linguaggio, parlare davvero
ai sentimenti delle persone, scambiare esperienze umane anche senza
volontà di coinvolgimento politico.L’ideologia neoliberistica ha
ridotto la società a una giungla competitiva e noi dobbiamo
combatterla a partire dal nostro comportamento, dalle nostre parole.

I cittadini non hanno solo bisogno di vedere abbassate le bollette e
aumentati i salari, vorrebbero sentire risuonare di nuovo le parole
dell’amicizia, della solidarietà, della fratellanza e della
sorellanza. Prendiamone atto: un Grande Inverno ha inaridito i
sentimenti che avevano tenuto insieme milioni di persone, unite dalle
stesse speranze e dagli stessi sogni.Le nostre città sono aggregati di
solitudini frettolose: perciò occorre creare momenti di pausa, di
fermo, di incontri senza fini utili, di festa, di bighellonaggio, di
sberleffi alla società agonistica, spietata e stupida della corsa al
danaro.

Organizziamo giornate di rivolta civile spese per strada e
nelle piazze a chiacchierare con gli amici, giocare con nostri figli e
nipoti, coi nostri animali.Rendiamo consapevoli le persone di essere
incalzate dal potere in ogni momento della loro vita, insegniamo loro
a liberarsi. Al tempo stesso dobbiamo esprimere un atteggiamento di
cura verso l’altro perché oggi lo dobbiamo avere anche per la natura,
ferita dal nostro saccheggio. Noi saremo davvero il nuovo mondo
possibile se riusciremo a legare insieme la fratellanza fra di noi con
quella per tutte le altre creture viventi oggi in pericolo.Il rapporto
con il mondo cattolico sensibile al messaggio di papa Francesco, ma
anche con le compagne e i compagni che si raccolgono nella Società
della cura, con tanti movimenti ambientalisti, i ragazzi di Fridays
for Future, ecc. diventa in questo modo possibile.

Infine una proposta che ho già avanzato e che ripeto.Io ho i rapporti
personali necessari per poter organizzare una Scuola di cultura
politica e ambientale online, capace di diventare, con una lezione da
remoto ogni settimana, un nostro marchio culturale e al tempo stesso
uno strumento di formazione, di allargamento della nostra influenza,
di arricchimento e unificazione della soggettività politica di tanti
italiani, di dialogo con le altre forze di sinistra.Ogni settimana uno
studioso terrà una lezione su un tema di sua competenza, che gli verrà
richiesto secondo un calendario da costruirsi, così che centinaia di
migliaia di persone possano ascoltarla in ogni angolo d’Italia.

Ma per fare questo occorre una grande piattaforma informatica.Lo strumento,
tra l’altro, che ci può consentire l’informazione alternativa alla
manipolazione sistematica della TV capitalistica. Questione non solo
tecnica, ma anche politica. Occorre che le mailing list di Dema,
Rifondazione, Potere al Popolo e delle altre formazioni si fondano.
Ancora una volta dunque occorre un altro salto verso l’unificazione di
Unione Popolare.

Considerazioni sul voto del 25 settembre.-di Piero Bevilacqua

Considerazioni sul voto del 25 settembre.-di Piero Bevilacqua

Le note che seguono non sono un’analisi del risultato elettorale – per
la quale ci vorranno più dati e più tempo – ma un insieme di
considerazioni che spero utili in un momento di delusione e amarezza.
I dati sono al di sotto delle nostre aspettative e si inscrivono
peraltro in un contesto di grave arretramento del quadro politico
generale.Il successo elettorale di un esponente della destra
ex-fascista, candidata addirittura a diventare presidente del
Consiglio è l’ultimo segnale del grave processo di declino non solo
politico, ma anche culturale e direi di civiltà del nostro Paese.

Ma su questo torneremo. In questo momento l’errore che noi di Unione
Popolare non dobbiamo commettere è di andare a caccia dei nostri
errori. L’unica cosa che possiamo rimproverarci è che avremmo potuto
anticipare di qualche mese la nostra uscita pubblica e forse avremmo
avuto qualche punto in più.Ma per il resto , se siamo intelligenti e
realisti, dobbiamo interpretare la nostra campagna elettorale come un
episodio di eroismo civile, un impegno generoso e senza risparmio di
migliaia di compagne e compagni che hanno lottato contro il tempo, il
caldo, la burocrazia, la mancanza di soldi, la latitanza spudorata dei
media, la malafede di giornalisti e politici che hanno cercato di
cancellarci. La mia campagna elettorale, tra Roma e Catanzaro – ma
posso parlare anche a nome di altri candidati – è stata una delle più
belle esperienze politiche della mia vita , per il calore umano,
l’altruismo, la generosità da cui sono stato circondato in questi due
mesi.

Come spiegare il risultato deludente? Non pretendo di rispondere
esaurientemente, ma svolgo un paio di considerazioni. Siamo onesti.
Noi, Unione Popolare, presentandoci alle elezioni, non abbiamo fatto
altro che ripetere quello che la sinistra radicale non fa che tentare
da 20 anni. Sonnecchia per 4, 5 anni e si desta ogni volta al momento
delle elezioni con un nome sempre nuovo, Arcobaleno, Alba, ecc.
Bisogna averlo chiare in testa: nella situazione che si è determinata
nel nostro Paese non è possibile conseguire un risultato soddisfacente
se ci si fa vivi solo per chiedere il voto.In una parola per domandare
al cittadino elettore di darci la possibilità di entrare in Parlamento
in cambio delle nostre promesse elettorali. Vale a dire senza prima
aver conosciuto quel cittadino negli anni precedenti, aveva ascoltato
i suoi bisogni, averlo incontrato in quartiere o davanti al luogo di
lavoro.

Ai compagni che dicono: “non abbiamo saputo comunicare il nostro
messaggio”, dico che non è così. Questa volta avevamo un comunicatore
eccellente come Luigi De Magistris e non ha funzionato lo stesso. Non
si tratta di capacità comunicativa. L’elettore non si limita a
giudicare la qualità della proposta politica, valuta anche la forza e
la capacità di realizzarla effettivamente. Se chi formula il messaggio
è debole non viene creduto, pure nel caso che l’elettore apprezzi la
qualità intrinseca delle proposte. Bisogna che tutti capiamo una cosa
fondamentale: la sinistra radicale è intrappolata in un circolo
vizioso: si presenta alle elezioni sempre debole, piccola e
minoritaria e non viene creduta nonostante la nobiltà dei suoi
programmi, anche perché in Italia sulle elezioni domina sempre la
logica del voto utile.

Dunque, nessun errore di linea, di proposta, di progetto.Non
autoflagelliamoci, non è qui il punto. La nostra brevissima vita di
soggetto politico ha patito moltissimo la grave faziosità dei media e
soprattutto della TV. Un uomo come Calenda, un senza partito, senza
storia, con quattro idee in testa è stato tutti i giorni nelle nostre
case e ha avuto il risultato di un partito (insieme al suo degno
compare). Quello della TV e dell’informazione è una grave questione
nazionale.

Noi abbiamo assistito per giorni e giorni alle pompose
cerimonie dei funerali della regina Elisabetta, senza che si levasse
una sola voce che gridasse al carattere culturalmente e politicamente
oltraggioso di quella ossessionante esibizione. Chi era Elisabetta?
Era,forse, Einstein, Picasso, Fleming, Touring, Marcel Proust? Quale contributo
ha dato all’umanità? Era stata solo il simbolo sopravvissuto al
medioevo di un ex impero coloniale, che aveva sfruttato per quasi
quattro secoli gran parte del globo terraqueo. Quelle parate
televisive sono state un indegno inno al potere più assoluto, quello
ereditato, un relitto del passato che suona come un’onta alla
democrazia del ‘900.

E’ riflettendo sul ruolo della TV e dei grandi giornali che si
comprende anche il successo della Meloni. Questi media per anni hanno
accreditato il PD come La Sinistra e hanno finito così con lo
screditare perfino la parola, dal momento che quel partito e i suoi
satelliti hanno di fatto condotto una politica antipopolare, che ha
creato marginalità e povertà in tanti strati, finendo così col
mostrare nella destra estrema l’alternativa illusoria di un possibile
cambiamento.

Non so cosa possiamo fare contro questa TV. Ne parleremo. Ma è certo
che dovremo al più presto dotarci di uno strumento alternativo di
comunicazione. Dobbiamo screditare la TV come luogo di menzogne
pubblicitarie, creare un canale di informazione e di circolazione
delle nostre elaborazioni che giunga a centinaia di migliaia di
persone.

Care campagne e compagni, non scherzavamo quando dichiaravamo che le
elezioni erano solo un inizio. Plaudo all’incoraggiamento di Maurizio
Acerbo a nome di Rifondazione Comunista che ci esorta a continuare. Ci
aspetta un lavoro di lunga lena. Io personalmente sono pronto con
tanti altri studiosi ad avviare una Scuola di cultura politica e
ambientale on line per parlare alle migliaia di giovani che cercano
una parola di orientamento in una fase di gravissima quanto
sottovalutata crisi ambientale.Attendo che qualcuno realizzi una
piattaforma unitaria per tutta l’Unione.

Ma termino dicendo che tutti e tutte sentono l’esigenza di
confrontarsi, di scambiarsi le esperienze di questi due mesi, le
critiche, le proposte sul da farsi. Perciò inviterei Luigi de Magistris a prendere
al più presto l’iniziativa di una “Assemblea costituente”, come lui
l’immaginava prima che la situazione precipitasse con la caduta del
governo.

Una prospettiva agricola per il Sud.-di Piero Bevilacqua

Una prospettiva agricola per il Sud.-di Piero Bevilacqua

A me è accaduto , alcuni anni fa di chiedere in più occasioni, in vari bar della città di
Catanzaro, una spremuta di arancia e di sentirmi rispondere con una
domanda:”Fanta?”. Spero che voi cogliate la gravità un po’ ridicola di tale risposta.
Noi lasciamo marcire sul campo le nostre arance e vendiamo nei bar il prodotto
industriale di una multinazionale.

E’ un esempio, piccolo certamente, ma significativo
di un quadro generale drammatico della nostra economia, della sua dipendenza
“coloniale” anche per i beni derivati dall’agricoltura. Noi non riusciamo a produrre
ricchezza dalle nostre terre, con il nostro vantaggiosissimo clima, con i nostri saperi
agronomici, le nostre tradizioni artigianali e culinarie, e veniamo colonizzati dai
prodotti fabbricati in altre parti del mondo.

Nel gesto di consumare un’aranciata Fanta, così come le pesche da agricoltura
industriale dell’Emilia, sono condensate varie conseguenze di ordine economico,
culturale, salutistico. E’ ovvio che se compriamo frutta o sue trasformazioni
provenienti da fuori, noi diamo il nostro denaro ad altre economie e impoveriamo il
nostro territorio. Ma in questo modo noi rinunciamo a un prodotto sano, coltivato in
loco, fresco, preferendo un bene non solo scadente, ma potenzialmente dannoso per
la salute.

Sapete perché le pesche che giungono nel nostro mercato hanno un bel
colore e risultano tutte uguali, ma sanno di niente? Perché sono pesche “agli ormoni”.
In natura non accade che i frutti maturino sulla pianta tutti insieme e poiché nelle
aziende agricole industriali, dove la raccolta delle pesche è meccanizzata, occorre
che la macchina raccoglitrice trovi i frutti nello stesso grado di maturazione. Per
ottenere tale risultato gli imprenditori, spruzzano sulle piante dei preparati con
ormoni vegetali (auxine), così che i frutti maturino tutti insieme.
Credete che la perdita dei nostri frutti, verdure, legumi, cereali tradizionali e dei piatti
collegati con questo nostro patrimonio di beni e di cultura, sia senza conseguenze per
la nostra salute?

Una sola, autorevolissima testimonianza, relativa a tutto il nostro
Sud, che negli ultimi anni ha perso tanta agricoltura e cucina tradizionale. Nel 2006 un
rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità relativo alla diffusione dei tumori in Italia
scriveva: “A mano a mano che abbiamo abbandonato le nostre agricolture tradizionali,la nostra
antica alimentazione, acquisendo gli standard dei consumi industriali, ci siamo
sempre più esposti alle malattie degenerative”.

Un polo agricolo e scientifico.

E’ possibile invertire questa tendenza, che ovviamente riguarda tutte le nostre
campagne?Un declino che spopola paesi, impoverisce famiglie, distrugge la
biodiversità, desertifica territori? Oltre che necessario, credo che sia possibile e che
anzi il rovesciamento di tale tendenza possa costituire un progetto in grado di
appassionare i nostri giovani più intraprendenti. Occorre guardare al territorio non
più come una realtà inerte, in attesa di essere “valorizzato” con la costruzione di case
e centri commerciali (veri centri di raccolta dei nostri soldi che vengono portati
altrove) ma come luoghi fertili, potenziali produttori di beni e di ricchezza.

A Catanzaro, nella località di Giovino, potrebbe nascere un Parco delle Varietà
Frutticole Mediterranee, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e
centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono
presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo
amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano
aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà.

Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo
hanno costituito anni fa il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia
di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori
per la loro fioritura spettacolare. Ma l’esempio più importante che io conosca sono i cosiddetti Giardini
di Pomona, realizzati nelle campagne di Cisternino, in Puglia. Qui, un solitario
amatore è riuscito a piantare circa mille piante da frutto, di cui oltre 400 varietà di
fichi.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà
vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura
fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro,
dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel
resto del Sud. Giovino dovrebbe diventare il modello e il centro d’irradiazione di una
nuova arboricoltura di qualità, fondata sulla ricchezza della varietà. E’ ovvio che la
riscoperta delle varietà antiche e la messa in produzione dovrebbe riguardare anche
le nostre piante orticole, i legumi, le erbe officinali, aromatiche, ecc.

Ma ciò che bisogna sottolineare è una novità storica importante. La nuova agricoltura
non è un settore economico arretrato e residuale, ma un ambito avanzato e di
avanguardia dell’economia del nostro tempo. Essa non si limita più a produrre carote
o patate, ma crea beni molteplici e svolge, come già accade in Italia e in tante regioni
d’Europa, numerose funzioni. Nei frutteti, ad esempio, è possibile allevare a terra i
volatili (polli, oche, anatre, tacchini) col risultato di contenere le erbe spontanee,
fertilizzare costantemente il terreno senza dover ricorrere a concimi, aggiungere al
reddito della frutta anche quello della vendita delle uova, dei pulcini, della carne. Ma
in ogni azienda agricola non industriale, accanto alla produzione normale oggi si fa
trasformazione dei prodotti ( vino, conserve, marmellate, miele, frutti essiccati,ecc),
ristorazione, talora accoglienza turistica, didattica per le scuole, agricoltura sociale per
i portatori di handicap, ecc.

L’azienda agricola è inoltre un presidio territoriale, fa vivere gli abitati e i villaggi vicini,
protegge il suolo dall’abbandono e dall’erosione,
conserva e rinnova il paesaggio, tutela la bellezza dei nostri territori e un ambiente
sano. Ai piccoli contadini oggi l’UE dovrebbe fornire un reddito di base per il prezioso
lavoro che svolgono di custodi e manutentori del territorio. E questa è una battaglia in
corso.

A tutte queste novità occorre aggiungere alcune importanti informazioni, decisive per
far comprendere che le nostre campagne costituiscono un potenziale economico
straordinario. Negli ultimi anni, grazie a un decisivo mutamento culturale, è esplosa
una nuova domanda di prodotti salutistici, che riguardano sia la cosmesi sia,
soprattutto, l’alimentazione. Sempre di più vengono richiesti prodotti cosmetici non
industriali, che non danneggiano la pelle, composti da materiali naturali e non
chimici.

Il successo straordinario che sta avendo in questi anni l’aloe rappresenta
l’esempio più evidente. Ma in espansione è tutto il vasto campo degli integratori
alimentari e dell’alimentazione macrobiotica, soprattutto i semi, ma anche gli oli
essenziali, i succhi, le tisane,ecc. che incrementano la domanda di lino, canapa,
sesamo, malva, melagrane, ecc. Per le nostre terre, grazie alla mitezza del nostro
clima, alla ricchezza della nostra biodiversità naturale, si aprono prospettive di grande
interesse, che indicano nell’agricoltura, soprattutto ai nostri giovani, non un ingrato
esilio di fatica e miseria, ma un campo di continue scoperte e innovazioni e di
possibilità di occupazione e di reddito.

Naturalmente, fondamentale è associare alla produzione agricola la trasformazione
artigianale dei prodotti. Questo significa non soltanto accrescere il valore dei beni
cavati dalla terra, ma ambire anche a un mercato più vasto, di scala internazionale.
Trasformare la cipolla di Tropea in una pasta racchiusa in un vaso, o perfino in un
tubetto, utilizzabile nei ristoranti, com’è stato fatto, significa farne un prodotto
mondiale, con un valore simbolico che esalta un intero territorio.

Perciò a Giovino occorre progettare e incoraggiare la nascita di piccole imprese di trasformazione,
in modo da formare un vero e proprio distretto agro-industriale, come ne esistono
anche di dinamici e fiorenti nella nostra Calabria. Occorre uscire da una subalternità
culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. Vi ricordo che la Sicilia, il
giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice di agrumi nel mondo, non
ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la
Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. Basta la Fanta.

Infine. Se l’agricoltura non significa più coltivare patate e cipolle, se è un ambito
complesso di attività in continua evoluzione, è evidente che occorre un contributo
della ricerca scientifica per sorreggerla. A tal fine un completamento dell’intero
progetto sarebbe la creazione di un Istituto per la studio della biodiversità agricola e
delle piante della regione mediterranea. Un centro di ricerca, che potrebbe
connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di
studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche
il miglioramento varietale, le patologie, ecc. Un progetto ambizioso, in grado di
attirare tante giovani intelligenze, che potrebbe essere finanziato dall’UE e che
intensificherebbe anche i rapporti di collaborazione scientifica con i Paesi che si
affacciano sull’altra sponda del Mediterraneo.