Le infrastrutture utili non sono le grandi opere care a Confindustria di Piero Bevilacqua

Le infrastrutture utili non sono le grandi opere care a Confindustria di Piero Bevilacqua

Si tratta in genere di operazioni che a fronte di cospicui guadagni delle imprese, mobilitano alcuni settori economici come quelli del cemento e di materiali di costruzione, creano un certo stock di posti di lavoro temporaneo, soprattutto di bassa qualità, e sconvolgono per sempre pezzi di habitat della penisola. Se non rientra nella logica di questo business, l’opera in Italia, non si fa.

Non a caso il raccordo ferroviario che avrebbe connesso il porto di Gioia Tauro al resto della Penisola non è stato realizzato. Ora, poiché su questo terreno il Pd rischia di entrare in conflitto con l’alleato di governo, proviamo a indicare che cosa possono essere le infrastrutture in Italia nella fase attuale.

UNA FASE, LO RICORDIAMO agli uomini di Confindustria, ai dirigenti dei partiti, agli economisti e ai giornalisti, nella quale non si può fare più economia come un tempo, quando si consumava territorio, bene comune sempre più raro e prezioso, come se fosse infinito, come se il suo consumo non avesse influenza sul clima che deciderà della nostra vita a venire su questo pianeta.

E dunque devo ritornare su un vecchio tema, reso sempre più attuale e drammatico col passare degli anni e dei mesi. Nella più completa indifferenza generale, la penisola italiana sta precipitando in uno del più gravi squilibri demografico- territoriali della sua storia. Mentre la maggiornza della popolazione si addensa, con le sue economie, i servizi, i traffici, lungo i versanti costieri, creando un caotico inurbamento, l’Italia interna si va spopolando.

L’ITALIA TUTTA, non solo quella del Sud. (Si veda il vasto affresco a più mani, con luci e ombre, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, a cura di A.De Rossi, Donzelli).

Si tratta di un paradosso grandioso per più versi. Dal punto di vista storico, perché per millenni la nostra economia preminente, quella agricolo- pastorale, si è svolta in queste aree, dal momento che le pianure erano impaludate e malariche. Dal punto di vista presente, perché lasciamo milioni di ettari di terra all’abbandono, agli incendi, alle frane, alla desertificazione mentre potrebbero costituire aree di nuova agricoltura, di economie forestali avanzate.

Senza dire che non si abbandonano solo terre, ma anche paesi interi, cittadine, patrimoni abitativi anche di pregio, con manufatti storici e archeologici talora importanti Una vastissima area del Paese in crescente abbandono mentre noi cacciamo via come criminali, abbandoniamo nelle nuove bidonville ignifughe delle periferie urbane, i giovani migranti che potrebbero riabitarle.

DAL PUNTO DI VISTA DEL FUTURO perché con l’avanzare del riscaldamento climatico i territori di altura dell’Appennino e del preappennino diventeranno preziosi per le nostre economie agricole e non solo. Ebbene, una delle ragioni alla base dello spopolamento e dell’abbandono è visibile da tempo: l’isolamento.

La distanza dai luoghi dove sono insediati i servizi, le scuole, i presidi sanitari, ecc. Le persone che vivono nell’Italia interna non lascerebbero per nulla al mondo i centri dove sono nati, ma devono farlo se manca il lavoro, l’ospedale, la scuola, i legami sociali.

Ebbene, è qui che le infrastrutture finalizzate non al mondo degli affari, alla «crescita» e al consumo di suolo, possono svolgere un ruolo strategico di riequilibrio demografico, economico e sociale dell’intera Penisola.

LA COSTRUZIONE DI UNA RETE di linee ferroviarie leggere, vere metropolitane extraurbane, capace di collegare almeno i centri più importanti, potrebbe costituire l’intelaiatura per rivitalizzare in poco tempo l’intero territorio dell’Italia interna. Essa – insieme alla diffusione della rete e al telelavoro, strumento di accorciamento degli spazi, risparmio di tempo, spostamenti, Co2- costituirebbe la base strutturale per avviare il ripopolamento e soprattutto la fioritura di economie «nuove», vale a dire di agricolture non inquinanti, artigianato e piccola industria di trasformazione, produzioni forestali, turismo, ecc.

Ma tanti nuclei urbani possono diventare sede di ricerca scientifica avanzata, valorizzando edifici storici. Tutte economie che producono nuova ricchezza e soprattutto risultano compatibili con l’imperativo inderogabile che abbiamo davanti: il riscaldamento climatico che avanza a ritmi imprevisti dagli stessi esperti.

Non possiamo applaudire Greta Thunberg, riempirci il petto di slanci ambientalisti e poi ritornare alle vecchie politiche come se nulla fosse.

Oggi la propaganda non funziona più. Non si può far finta che le scelte economiche non abbiano un effetto ambientale. All’ignoranza abissale di tutto ciò che riguarda il territorio, connotato storico dei ceti dominanti italiani, non può più essere consentito di imporre il proprio punto di vista, prigioniero di un paradigma economicistico ormai esaurito.

Di fronte all’allarme globale, che cresce di giorno in giorno, non si può più giocare alcuna partita con le vecchie carte.

 

Il Manifesto

Edizione del 20.09.2019

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