Categoria: Ambiente e territorio

Un “Manifesto” per il Sud di Tonino Perna

Un “Manifesto” per il Sud di Tonino Perna

 Quando nasceva “ il Manifesto” le lotte contadine e bracciantili, che avevano caratterizzato il conflitto sociale nel Mezzogiorno, avevano da poco inviato gli ultimi segnali: il 2 dicembre del 1968 eccidio di Avola, due braccianti uccisi e 48 feriti dai carabinieri, 1969 il tentativo di occupare la fabbrica del tabacco di Battipaglia che aveva licenziato i lavoratori provoca due morti, e infine nel 1970 abbiamo i fatti di Reggio, la lotta per il capoluogo che costerà tre morti , decine di feriti, centinaia di arresti. Stragi di Stato, visibili, che provocavano rabbia e mobilitazione e si univano alle lotte operaie (soprattutto al Nord), e studentesche in tutta Italia. Ma, con i “fatti di Reggio” qualcosa era saltato nel rapporto tra lotte popolari al sud e lotte operaie al Nord, non era più visibile quel blocco sociale auspicato da Gramsci contro l’alleanza tra gli agrari del Sud e la borghesia industriale del Nord.   Con i fatti di Reggio la “questione meridionale” veniva rilanciata come questione di democrazia e lotta al neofascismo insorgente.

Il Manifesto seguirà con molta attenzione e partecipazione la grande manifestazione del 22 ottobre del 1972, indetta dai sindacati confederali a Reggio Calabria, come risposta all’emergere prepotente del neofascismo di Almirante e Ciccio Franco, il leader dei “boia chi molla” che nel 1972 al collegio del Senato a Reggio Calabria raccolse il 42% dei voti validi. Fu una straordinaria prova di coraggio e solidarietà della classe operaia italiana, metalmeccanici in testa, che dovettero affrontare le bombe sui binari, il blocco del traffico ferroviario, le pietre dei fascisti sul corteo. Una storica manifestazione di cinquantamila lavoratori che segnò anche una svolta nell’approccio alla “questione meridionale” riducendola alla fondamentale ma non esaustiva “questione democratica”. Nell’immaginario della sinistra italiana il Mezzogiorno venne visto come una sorta di Vandea, di area della controrivoluzione, della conservazione e della rinascita del fascismo. Per contrastare le forze reazionarie bisognava puntare a potenziare lo sviluppo economico e l’occupazione. In altre parole, alla deriva neofascista, che si manifestava in diverse aree del Mezzogiorno, si rispondeva in chiave economicista : la “questione meridionale” come problema politico di unificazione reale del nostro paese,come questione nazionale nell’accezione gramsciana, veniva ridotta a questione di sviluppo di un’area depressa, in forte “ritardo” rispetto al resto del paese, ignorando un bisogno fondamentale: quello dell’identità e della dignità di un popolo. E’ il periodo in cui furono realizzate le cosiddette “cattedrali nel deserto”, i grandi impianti petrolchimici e siderurgici, anche – come disse Giacomo Mancini, da segretario del Psi- per costruire una classe operaia moderna nel Mezzogiorno come soggetto politico egemone. Di contro, la Destra proponeva il potenziamento del turismo e dell’agricoltura, uno sviluppo basato sulle risorse locali ed era fortemente contraria ai grandi impianti industriali che avrebbero portato solo inquinamento. Naturalmente esprimeva gli interessi degli agrari e dei ceti medi legati alla rendita, ma visti i risultati di quel processo di industrializzazione come dargli torto oggi ?

Negli anni ’80 del secolo scorso il quadro cambiò rapidamente, a partire dall’omicidio di Pio La Torre il 30 Aprile del 1982, il leader del partito comunista siciliano che si era battuto per una legge che portava alla confisca dei beni dei mafiosi. Da quel momento la “questione meridionale” divenne progressivamente “questione criminale”, identificazione che fu suggellata dalla strage di Capaci e via d’Amelio nel 1992.   Si apriva una nuova fase di conflitto sociale e di classe nel territorio meridionale tra la borghesia mafiosa e una parte della società meridionale che si ribellava al suo strapotere. Purtroppo, la Sinistra storica ed extraparlamentare (con qualche lodevole eccezione) lesse questo conflitto come una questione di devianza sociale, mafia-camorra e ‘ndrangheta come problemi legati alla criminalità ed alla mancanza di sviluppo e modernizzazione del Mezzogiorno. Ed invece l’affermarsi nel Mezzogiorno di una borghesia mafiosa/parassitaria, che sulla violenza e la corruzione aveva fondato il processo di accumulazione del capitale, era un fenomeno sociale estremamente moderno con cui bisognava fare i conti. Un fenomeno legato alla deriva criminale del capitalismo, alla perdita di quella cultura dell’impresa di cui scrissero Sombart e Schumpeter, alla prevalenza della rendita finanziaria o immobiliare sul profitto.

Con la caduta del muro di Berlino il Mezzogiorno uscì definitivamente dalla scena nazionale. Con la globalizzazione dei mercati il territorio meridionale perdeva ogni ruolo socio-economico: non aveva più la funzione di riserva di forza-lavoro a basso prezzo, né di mercato di sbocco delle merci prodotte nel Centro-Nord che ormai viaggiavano nel grande spazio del mercato globale. Ma, allo stesso tempo, la globalizzazione capitalistica, la rapida ascesa della finanza e il suo predominio sull’economia reale, avevano permesso alla borghesia mafiosa di espandersi e radicarsi nelle aree più ricche del pianeta.

Nel nuovo secolo i grandi movimenti, ambientalista e pacifista (do you remember Comiso ?) che avevano visto anche nel Mezzogiorno una lunga fase di protagonismo, si spegnevano lentamente. Quello che cambiava lentamente, ma in profondità, è la percezione che Il Sud ha di se stesso. Innanzitutto, veniva abbandonata l’idea che bisognava seguire il modello di sviluppo che era risultato vincente nel Nord Italia. E’ questa la traduzione/esemplificazione del “pensiero meridiano” di Franco Cassano, che ha avuto un grande impatto tra gli intellettuali meridionali: il Sud che pensa se stesso, che si coglie nella sua diversità e si accetta, che cerca una sua strada. Il Sud alla ricerca di una sua identità mediterranea.

Questo cambio di paradigma ha ispirato tante iniziative in campo culturale, istituzionale ed economico, ma non è finora riuscito a incidere sui grandi numeri della disoccupazione, dell’impoverimento di una parte consistente della popolazione, dell’emigrazione di massa che ha coinvolto pesantemente le nuove generazioni (un giovane su tre è andato via dal Mezzogiorno negli ultimi dieci anni).

Un fatto è certo: il nostro Sud non è solo il luogo di problemi secolari irrisolti (dalla gestione delle risorse idriche all’efficienza della Pubblica Amministrazione), ma anche un’area di frontiera costretta a fare i conti con fenomeni estremamente moderni e sperimentare/tentare di dare delle risposte sociali e politiche inedite. Dall’accoglienza migranti (Riace docet), alla gestione dei beni confiscati alle mafie (elementi di socialismo dentro un sistema capitalistico su cui è mancata una riflessione politica), alle nuove forme di Altreconomia e di collaborazione con nord/sud (esempi virtuosi si possono cogliere nel mondo dei Gruppi d’Acquisto Solidali), c’è tutto un fermento che non viene registrato, se non occasionalmente, dai mass media e su cui “il Manifesto” potrebbe offrire (come ha fatto con alcune inchieste) un suo rilevante contributo.

Un sentiero pericoloso di Gianfranco Viesti

Un sentiero pericoloso di Gianfranco Viesti

“Sono come le zecche dei cani”. Questa la definizione data da un cittadino di Lodi, davanti alle telecamere, dei bambini stranieri che una assai controversa delibera comunale esclude da mense e trasporto scolastico. Non si tratta di un caso isolato, patologico. Le azioni di governo, a livello nazionale e locale, ispirate a principi di intolleranza se non di vero e proprio razzismo, si vanno moltiplicando; e, con esse, sembra acquistare voce e uscire allo scoperto l’Italia peggiore. Le cause del crescere del rancore e delle pulsioni egoistiche di parte dei nostri concittadini richiedono di essere analizzate con attenzione e in profondità. Le possibili risposte per invertire queste tendenze non sono certo semplici. Per far breccia anche tra chi, come quel cittadino di Lodi che plaude ai provvedimenti di stampo razzista della sua sindaca, occorre assai più che un banale coro di critiche ai recenti provvedimenti governativi. Ma di fronte a manifestazioni pubbliche di siffatta violenza non è più possibile far finta di niente, derubricandole a posizioni isolate: sono vere e proprie grida che si pongono al di fuori dei principi di convivenza civile su cui è basata la vita pubblica dell’Italia repubblicana, al di fuori dei principi della nostra Costituzione. Si tratta di pulsioni sollecitate e coltivate direttamente dalla Lega. Un partito politico che si colloca oggi all’estrema destra dello schieramento politico (come, fra gli altri, ben documentato da un recente volume del Mulino), e che ormai basa la sua ricerca di consenso su misure che si pongono esplicitamente al di fuori di tali principi. Un partito che, non a caso, cerca sponde in altri partiti e movimenti che a scala europea sostengono posizioni estreme; come accade in Polonia e in Ungheria, anche stravolgendo lo stato di diritto, le istituzioni democratiche, le libertà di stampa. Che mette in discussione sempre più apertamente non specifiche politiche europee, ma lo stesso progetto dell’integrazione continentale e i principi di libertà e eguaglianza su cui esso è fondato. Sulle posizioni della Lega c’è troppa tolleranza. Ne è prova l’atteggiamento estremamente morbido di una parte rilevante del sistema dell’informazione, che sempre più spesso derubrica tutto questo a eccessi e casi sporadici; mentre appare attenta prima d’ogni altra cosa a non inimicarsi quello che è visto come il nuovo, grande potere del Paese. Ne è prova, tra l’altro, l’atteggiamento delle organizzazioni di categoria, fino al recente endorsment da parte del presidente di Confindustria poi malamente e parzialmente ritrattato: che teorizza per la prima volta una esplicita sudditanza di un’associazione di rappresentanza nei confronti di un partito politico. Ne sono prova le estese collaborazioni su base locale e il silenzio (o spesso l’aperta complicità) di larga parte delle classi dirigenti del Nord di fronte all’accelerazione del vecchio ma attualissimo disegno leghista della “secessione dei ricchi”, con la maggiore autonomia per il Lombardo-Veneto a spese di tutti gli altri italiani. Convenienze e opportunismi sono parte del gioco politico e degli interessi. Ma devono trovare un limite, un argine invalicabile. In tutta Europa ribollono pulsioni politiche e culturali pericolose. In Germania i neonazisti manifestano per strada e la polizia fatica a contenerli; in Polonia i giudici della Corte Costituzionale vengono sostituiti; in Ungheria si assiste alla chiusura di università. Paragoni con altri Paesi e altri periodi storici richiedono grande misura e attenzione. Ma dovrebbe essere ormai ben evidente che la Lega sta, assai rapidamente, facendo intraprendere anche al nostro Paese un sentiero pericolosissimo, le cui insidie per il nostro sistema democratico sono assi difficili da prevedere ma tangibili. Fuori dalla nostra storia, dalla nostra cultura, dalla nostra collocazione europea. Di fronte a questo progetto ci sono troppi imbarazzi, omissioni, silenzi; che non fanno che alimentarlo e renderlo, giorno dopo giorno, sempre meno impraticabile.

 

Pubblicato il 15.10.2018

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Riabitare i paesi. Un “manifesto” per i borghi in abbandono e in via di spopolamento di Vito Teti

Riabitare i paesi. Un “manifesto” per i borghi in abbandono e in via di spopolamento di Vito Teti

Lo spopolamento e l’abbandono – i due termini indicano fenomeni distinti – dei piccoli paesi dell’interno è un problema di enormi dimensioni che interessa la montagna e le colline italiane. Le sue cause antiche e recenti sono molteplici, di natura sia storica (catastrofi, terremoti, alluvioni) che economica, demografica e sociale (l’emigrazione), antropologica e politica; ragioni diverse, locali e generali, che devono essere indagate caso per caso con le tante peculiarità e i diversi esiti locali (sempre in un contesto più generale).
Lo svuotamento dei luoghi interni ha conseguenze rilevanti a vario livello: antropologico, geologico, sociale, economico. Costituisce anche un vuoto di memorie, di rapporti, una desertificazione ambientale e un deserto di speranze.
Negli ultimi anni, questo fenomeno epocale, quasi ignorato e rimosso nell’epoca della modernizzazione selvaggia e dell’intasamento delle città, è al centro di interesse, attenzione, riflessioni, narrazioni da parte di soggetti diversi, di studiosi di numerose discipline, anche del mondo politico. Accanto a riflessioni attente, profonde, serie e mirate per comprendere e affrontare il fenomeno, in tempi brevi e localmente ma anche in un quadro di “lunga durata” e in contesti più vasti; accanto a iniziative concrete, economiche, sociali tendenti ad arrestare il declino, la fuga, l’abbandono o, talora, a favorire forme nuove di ritorno e di “ripopolamento”, bisogna segnalare come, di recente – al pari di quanto era successo negli anni Sessanta con il folklore e le culture popolari – non mancano operazioni “strumentali”, mediatiche, sterilmente nostalgiche e lacrimevoli, nonché interventi e piani di recupero che spesso sono più nefasti e distruttivi dello stesso abbandono.

LA CALABRIA È LA TERRA DEI PAESI, MA È A RISCHIO La Calabria è, anche per questa vicenda epocale, un luogo metafora di spopolamento e abbandono. Scuole, uffici postali, negozi, case chiudono quotidianamente e creano veri e propri deserti. L’elenco dei paesi a rischio abbandono – in questa, ma anche in altre regioni del Sud e del Nord – è davvero impressionante, interminabile. Le proiezioni di istituti demografici seri e attenti ci dicono che tra meno di vent’anni la Calabria potrebbe perdere altri cinquecentomila abitanti: un deserto che ci riporterebbe alla realtà desolata e desertificata a seguito delle grandi pestilenze e catastrofi del tardo medioevo. La regione è stata e resta – nonostante le enormi e devastanti catastrofi che ne hanno segnato paesi, popolazioni, cultura, mentalità nonché a dispetto della crisi e dell’erosione del “paese presepe” – la “terra dei paesi”. Il “vuoto” riguarda anche i grandi “centri urbani”, che hanno il carattere e la dimensione del paese, i cui centri storici versano oggi in uno stato di abbandono, desolati, cadenti, spesso a rischio crollo (Rosario Chimirri ha fatto un’attenta ricognizione della storia e della situazione attuale di tutti i “centri storici” della regione e non posso nominare qui tanti antropologi, urbanisti, storici ecc. che si occupano di queste tematiche). I Comuni della Calabria sono 404, ma chi conosce questa regione, per averla percorsa a piedi e in macchina, sa bene che alcuni di essi sono composti in realtà da decine di piccoli frazioni. C’è una teoria infinita di villaggi, piccoli borghi, raggruppamenti di case, dove a volte vivono poche famiglie, a volte un “ultimo abitante”. Questo problema va affrontato, con serietà, competenza, passione, affetto e con la consapevolezza che non è di facile soluzione. I luoghi richiedono cura, attenzione, amore, ma non meritano bugie, operazioni di facciata, retorica. I luoghi – come ben sappiamo dalla storia dell’umanità e del mondo, ma anche dai nostri paesi e città – possono anche morire. Si dovrebbero immaginare interventi, progetti, piani di recupero e di rinascita; non confondere insomma la malattia con la cura.

NON PUÒ ESISTERE UN PAESE SENZA SCUOLE Ogni paese, ogni frazione, ogni villaggio – anche quello con un solo abitante – ha il diritto all’esistenza, a essere curato, tutelato in quanto presidio geografico, culturale, mentale delle popolazioni. Le valutazioni puramente economicistiche sono insufficienti ad affrontare la natura del problema; anche se bisogna certo “razionalizzare” e strutturare gli spazi, immaginare aggregazioni di più Comuni, ipotizzare nuove comunità, stabilire legami tra “non più luoghi” all’interno e non “ancora luoghi” lungo le pianure e le marine.
Questo significa che non può esistere un paese, anche il più piccolo, senza centri culturali, luoghi di socialità, e, soprattutto, senza scuole. Le scuole – anche con pochi alunni – devono restare aperte e funzionanti. Il diritto allo studio e all’istruzione è garantito dalla Costituzione e non può essere subordinato a calcoli economici. La Costituzione ci impone di assicurare a ogni cittadino un titolo legale di studio, che gli consenta di accedere alle scuole superiori, alle Università, al mondo del lavoro e delle professioni. La Calabria e i suoi paesi non hanno bisogno di chiusure, di localismi, di retoriche, ma di aprirsi al mondo, rinnovare la pratica dell’accoglienza, inventare nuove forme di economia, socialità, convivialità. Di intraprendere la strada per creare nuove “comunità”.

L’APPROCCIO ALL’ABBANDONO (E AL RITORNO) DEVE ESSERE POLITICO Concezioni neo-romantiche, estetizzanti, tendenti all’esotismo di maniera – spesso sostenute da visitatori, artisti, poeti, scrittori, giornalisti – non possono essere demonizzate, se non altro perché hanno il merito di fare conoscere a un vasto pubblico, agli stessi abitanti dei luoghi, problemi, luoghi, storie, paesaggi ignorati, sconosciuti, considerati marginali e residuali. D’altra parte, sguardi a volte troppo frettolosi e certe attenzioni di passaggio non costituiscono una soluzione (né un tentativo di soluzione) al problema.
La soluzione, o un tentativo di contrastare lo spopolamento, comporta il rovesciamento di vecchi paradigmi, di modelli di sviluppo economicistici, del tutto indifferenti alla storia, alla cultura, alla memoria, alle persone. L’approccio all’abbandono e al ritorno, al contrario, deve essere politico, richiede interventi mirati, concreti, anche con un mutamento di prospettiva culturale, iniziative compiute con convinzione e persuasione, con attenzione e rispetto dei luoghi. Lo svuotamento delle aree interne, l’abbandono dei paesi, vanno contrastati in maniera decisa anche opponendosi a gruppi di potere, ceti dirigenti corrotti, collusi, illegali che speculano anche sulle macerie e individuano nell’abbandono e in falsi e improbabili progetti di “restaurazione” spazi per forme di economie assistite, criminali, che conducono inevitabilmente alla fine. Se ogni abbandono deve essere studiato e compreso nelle sue peculiarità, allo stesso modo ogni operazione di ritorno o rinascita dovrebbe avvenire a partire da iniziative ed esigenze locali, dalle risorse (in senso lato) presenti nel territorio, da politiche e scelte mirate, diverse a seconda delle caratteristiche e delle vocazioni dei luoghi. Nessuna soluzione e nessun intervento sono possibili, efficaci, corretti senza la presenza e la partecipazione dei locali, delle popolazioni che abitano quel luogo e lo hanno scelto per vivere e, nel caso di luoghi abbandonati, di soggetti e persone dell’area geo-antropologica entro cui ricadono le rovine o i paesi vuoti. Nessuna soluzione è possibile se non si affronta il problema demografico, se non si attuano politiche di sostegno (non di assistenzialismo, di caritatevole e interessato “pietismo” unito a forme di “lamentele” predicatorie tanto sterili quanto inefficaci) alle famiglie, a chi si sposa, ai giovani che vogliono creare economie e tornare o restare per ricostruire, tenendo conto, appunto, di vicende di nuovi esodi e dei nuovi arrivi. Sostegni concreti a cooperative, piccole imprese, giovani, famiglie debbono essere finalizzati al desiderio e a pratiche convinte di restare o di innovare. Con un nuovo atteggiamento etico e con profondo rispetto per la “legalità” e quel sentimento di Giustizia di cui hanno parlato i grandi calabresi: Gioacchino da Fiore, San Francesco, Campanella, Alvaro e anche i ceti popolari, i contadini e i braccianti, uomini e donne che occupavano e coltivavano le terre, gli emigranti che fondavano e rifondavano mondi, le donne che si sono ribellate alla prepotenza dei signori e a una tradizione patriarcale.

DAI PERCORSI DI MEMORIA ALLE PRATICHE DI ACCOGLIENZASituazioni diverse richiedono interventi differenziati – parlo in questo caso solo di interventi culturali che hanno però un valore altamente simbolico, oltre che concreto e “produttivo” – a seconda che si sia di fronte a: a. paesi abbandonati da lungo tempo, totalmente irrecuperabili, anche da un punto di vista urbanistico; b. paesi abbandonati ancora integri(almeno in parte) dove potrebbero tornare o arrivare degli abitanti; c. paesi in spopolamento e con pochi abitanti. d. paesi che soffrono una crisi demografica e di spopolamento dove però restano e resistono abitanti in un numero significativo.
Per i paesi a. si possono ipotizzare: percorsi identitari, storici, di memoria e anche turistici di cui si facciano carico i comuni entro cui le rovine insistono. D’altra parte nei paesi abbandonati, tra le rovine, si assiste a pellegrinaggi di ritorno, a feste e riti nei luoghi degli antenati e dei padri e delle memorie, a viaggi di memoria che segnalano anche insofferenza per i “non luoghi” in cui si abita e desiderio di “costruire”, comunque, nuove forme dell’abitare.
Per i paesi b. si possono tentare recuperi o forme di ripopolamento, con la consapevolezza che non è possibile ripristinare il passato, uscendo da ogni retorica di improbabili e improponibili ritorni a un buon tempo antico, nell’impossibilità di cancellare processi erosivi e sconvolgimenti irreversibili.
Per il caso c., a dispetto di ogni calcolo economicistico e di logiche produttivistiche, si devono riaffermare i diritti e i doveri di ogni abitante, anche ultimo, che è il custode di memorie.
Per il caso d. vanno avviate nuove scelte e nuove pratiche economiche, sociali, produttive in grado di arrestare il declino e di mostrare che “piccolo” è abitabile e vivibile. Si possono sperimentare pratiche di inclusione e di accoglienza. Ogni intervento richiede un piano generale di cura e risanamento del territorio, di messa in sicurezza del paesaggio, di centri storici, fiumi, abitati, scuole, di prevenzione degli effetti di possibili catastrofi in territori diventati fragili e a rischio sismico.

EVITARE NUOVE FORME DI POVERTÀAll’ordine del giorno, nelle scelte delle forze politiche, c’è la questione del “reddito di cittadinanza”, del “reddito di inclusione”, di contrasto della povertà. Sarebbe utile evitare di creare nuove forme di povertà, anche morale e culturale. Uscire dalla logica dell’assistenza gratuita e indiscriminata. I giovani e i disoccupati hanno bisogno di lavorare, di sentirsi parte attiva, viva, creativa del luogo in cui abitano. Un’antica tradizione contadina, non del tutto scomparsa, consegna immagini della fatica come riscatto e conquista di libertà e di dignità. Questo racconta anche la storia dell’emigrazione calabrese e italiana. Il “reddito” (comunque lo si voglia chiamare) deve creare economie, formare giovani generazioni attive e capaci di mettere in pratica tutta la loro capacità creativa e il loro desiderio di partecipare alla rinascita dei luoghi. Potremmo immaginare nuovi lavori, che ricordino anche antichi saperi e mestieri. I territori desertificati potrebbero accogliere giovani e famiglie impegnati come nuovi produttori e come custodi-trasmettitori di memorie. Non come guardiani inattivi e indifferenti di luoghi chiusi, ma come “custodi” di musei, beni archeologici, paesaggi, bellezze, culture immateriali con i quali attrarre visitatori, turisti, stranieri, produttori rispettosi e non speculatori.

I PAESI-MUSEO DEL TERRITORIO In una situazione di lento abbandono dei paesi, un museo può diventare (laddove esiste o è previsto) un punto di aggregazione della comunità. Naturalmente, parlando di piccoli paesi (spesso spopolati) l’organizzazione, la filosofia, le finalità del museo non possono che essere diverse da quelli dei grandi musei urbani (musei d’arte, pittura ecc.). Pur essendo possibile l’esposizione di opere d’arte “minori” (pittura, scultura ecc.) che spesso hanno una rilevanza non solo locale, penso soprattutto a musei del territorio e del mondo popolare: oggetti della cultura materiale, attrezzi di lavoro, abitazioni e spazi aperti, resti e ruderi di chiese, palazzi, abitati. Un museo in piccoli centri in genere non può che raccontare il contesto in cui nasce, la storia delle tradizioni abitative, produttive, alimentari, culturali. Il paese piccolo come museo e il museo come centro di rappresentazione, aggregazione, socialità della comunità. Immagino la raccolta, catalogazione ed esposizione di oggetti della cultura materiale, del mondo agro-pastorale, manufatti, oggetti domestici, prodotti dell’artigianato locale ecc. ed esposizioni di mappe, testimonianze orali, foto, lettere, documenti scritti, libri, interviste ad abitanti del territorio, registrazioni di voci, rumori, suoni, musiche ecc.
Attorno a un tema che potrebbe interessare un tratto storico significativo di un paese, la comunità potrebbe ricostruire in modo articolato (ovvero anche divergente) una storia e un ripensamento delle proprie vicende: il proprio passato con le tradizionali attività, il suo crollo e la faticosa marcia verso quella modernità (storie di vita, cimeli, vecchie fotografie, lettere, ecc.) che ha significato il cambiamento della vita tradizionale e il lento abbandono del territorio.
Il Museo (vivo, aperto, con biblioteche, scuole) qui può diventare luogo di rappresentazione, ma anche di socialità, di progetto. Il museo non può essere unico e uguale ovunque, ma va costruito tenendo conto delle vocazioni, della storia, delle specificità locali e avendo chiaro come costruirlo, per chi, a chi vuole parlare, come può diventare punto di accoglienza. Andrebbero incoraggiati arrivi di artisti (davvero originale e innovativo è quanto sta facendo, anche per il riconoscimento dei luoghi e dei paesi, Vinicio Capossela con lo Sponz Fest a Calitri) e soggetti che vogliono investire, raccontare, cercare nuovi modelli di vita.

NON SERVONO MOSTRE E FESTIVAL UNA TANTUM Parlo di “piccoli musei” (a volte i più Grandi e i più belli) in “piccoli paesi”. Penso, con Tomaso Montanari, che sia necessario “Diffidare degli eventi, dei festival, delle inaugurazioni, delle una tantum: la cultura ha bisogno di strutture stabili, finanziamenti continui, indipendenza dalla politica, visione lunga e disinteressata”. Non è in discussione un possibile sostegno pubblico e privato, bensì l’uso che se ne fa, il progetto che ispira l’iniziativa, il controllo della spesa, la necessità di una rendicontazione puntuale. Vale la pena di aprire e tenere aperto un piccolo Museo (pubblico, privato, familiare) anche nei più piccoli paesi, anche in quelli in abbandono, anche dove c’è solo un abitante.
Un uso oculato, parsimonioso, mirato dei fondi pubblici è doveroso, indispensabile. Non servono mostre e festival effimeri, separati dalla vita quotidiana che si svolge nel resto dell’anno. Il problema dei paesi interni è di farli vivere nei mesi invernali. Le iniziative estive, pure utili, sono effimere e inefficaci, a meno che non siano parte di un progetto e di programmi sociali e culturali inseriti nel corso dell’anno. Anche feste, sagre, momenti conviviali possono essere prodotti a basso costo, con iniziative volontarie. Come scrive Montanari, bisogna “pensare a quanti monumenti del territorio comunale sono chiusi o in pericolo, e provare a salvarne almeno uno, coinvolgendo i cittadini con una campagna di comunicazione”.

UN GRANDE MUSEO REGIONALE DELLA MEMORIA ”“Investire in ricerca: anche il più piccolo museo civico, se è abitato da un giovane ricercatore, può diventare un luogo di produzione e redistribuzione della conoscenza”. Gli “ultimi abitanti” di un luogo spesso diventano i primi abitanti di una nuova comunità inventata e costruita con persone che vengono da fuori e che avranno bisogno di conoscere flora, fauna, materiali, tecniche produttive, forme di socialità dei locali con cui vorranno interagire e mescolarsi.
I tanti piccoli musei (con biblioteche, scuole, centri di aggregazione) dovrebbero costituire un grande Museo regionale della memoria. Un grande piano di raccolta e rilevazione ad opera di 1000 giovani (due per ogni comunità), che, dopo un corso preparatorio di un anno (metodologia della ricerca, etnografia, storia dell’arte, archeologia ecc.) vengano dislocati per due anni nei paesi per raccogliere ciò che resta della produzione orale, della cultura materiale, scritta, iconografica: canti, proverbi, oggetti, lettere, musiche, ricette, pietre, reperti ecc., privilegiando le storie di anziani, emigrati, protagonisti delle lotte contadine ecc., che stanno scomparendo. Un’occasione di lavoro e di reddito che valorizzi competenze, passioni, interessi dei giovani che non vogliono fuggire e che intendono restare. Un’occasione per riconciliare le popolazioni con luoghi mortificati, marginalizzati, desertificati. Un’opera di memoria, di salvaguardia preliminare per una grande mappa delle Identità plurali e aperte anche dei più piccoli luoghi. Un altro modo di intendere la cultura, di raccontarla, promuoverla nei legami con l’ambiente in cui è “nata” ma con riferimento a vicende storiche, politiche, artistiche, religiose di territori più vasti (Sud, mediterraneo, Europa, America, mondo dell’emigrazione).

PARTENZE E RITORNI Tutta la lunga preistoria e storia dell’Homo sapiens ricorda che la partenza, il viaggio, l’esodo non sono separabili dall’esperienza del restare. Le due esperienze vanno comprese assieme. L’emigrazione è da sempre una strategia evolutiva fondamentale, sia sotto il profilo biologico che culturale. Sulla superficie instabile del nostro pianeta, tra incessanti mutamenti climatici, migrare diventa un fattore di mutamento e adattamento. È possibile parlare di migrazioni per tutte le specie animali e umane, tuttavia la metafora dell’Homo migrans può essere fuorviante: noi umani non siamo mai divenuti una specie migratoria in modo sistematico. Nel corso della storia molti individui e gruppi non hanno mai migrato e anche coloro che restavano o accoglievano hanno contribuito all’evoluzione dell’Homo sapiens. Anche un’immagine dell’uomo migrante consapevole del luogo in cui stava andando, del modo di raggiungerlo, di un piano preciso è fuorviante: spesso la fuga era (ed è) determinata dalla necessità. L’azione del migrare per l’Homo sapiens è stata sempre esercitata con diversi gradi e forme di libertà e di costrizione. Le sociologie e le geografie delle migrazioni oggi parlano di migrazione forzata dovuta a grandi mutazioni climatiche. Accade tuttavia ancora oggi a molti di non potere, sapere o volere migrare. Anche rispetto alla necessità immediata di dover fuggire per sopravvivere, singoli individui o gruppi scelsero e scelgono di restare e spesso di perire. Anche in epoche a noi vicine la scelta se migrare o restare è una scelta molto divisiva, combattuta, lacerante. Partire o restare è il dilemma che appartiene alla storia dell’umanità fin dall’antichità e, nel nostro caso, ai luoghi che hanno conosciuto calamità, terremoti, frane, spostamenti, movimenti emigratori. Insomma, stanzialità e fuga sono due volti dello stesso fenomeno. L’abbandono storico e la ricostruzione degli abitati colpiti da catastrofi in epoca moderna, come i terremoti di Seicento e Settecento o le alluvioni degli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, hanno determinato lacerazioni e una dialettica fatta di contrasti, amore e odio tra chi compie scelte diverse. Il senso dell’abbandono, questa consuetudine al continuo «reimpastare» e «reimpaginare» i luoghi, ha segnato la cultura e la mentalità delle popolazioni.

LA LIBERTÀ DI MIGRARE, IL DIRITTO DI RESTARE I recenti terremoti che hanno sconvolto tutto l’Appenino tra Lazio, Marche, Molise, Umbria hanno mostrato persone che non vogliono lasciare il proprio luogo, la chiesa, la casa, la terra, le mucche, l’orto, magari quella vita di fatica e solitudine a cui avrebbero voluto sfuggire e che invece si accorgono di amare nel momento in cui la fuga diventa espulsione, allontanamento, cacciata. Da qui rinascono nuove energie, nuove fantasie, che spingono alcuni ad accelerare il ritorno e altri a piangerne l’impossibilità. A voler restare e tornare non sono tanto i vecchi in cerca di un luogo dove morire, ma i giovani che cercano un posto dove creare nuova vita, nuova socialità. Dall’Irpinia alla Calabria, dal Salento al Cilento, dalla Sardegna alla Sicilia, dalle Alpi agli Appennini, tante persone hanno scelto e scelgono di tornare o di restare. È un movimento diffuso, spesso non coordinato, confuso ma che comincia a collegare l’Italia dell’abbandono e a creare nuove comunità. Un movimento, una pratica, una scelta di vita anche politica, nel senso che è tesa a costruire una nuova polis, un nuovo modo di abitare e organizzare spazi, economie, relazioni. Proprio la lontananza e l’erranza di chi è rimasto possono favorire oggi un nuovo modo, critico, problematico, di intendere la relazione tra sé e il mondo. Una scelta che va affermata anche in quanto nuovo diritto. Il diritto di poter restare e sopravvivere con dignità nel territorio dove si è nati, comunque si configuri la propria identità: diversamente abili, orientati politicamente, socialmente, religiosamente, sessualmente. Solo una politica lungimirante potrà contrastare le migrazioni forzate, riconoscere appieno l’esistenza dei rifugiati climatici, favorire il diritto di migrare insieme al diritto di restare dove si è nati. Promuovere la libertà di migrare ma anche quella di restare.

LA RESTANZA RICHIEDE PASSIONE Restare non ha che fare con la conservazione, ma richiede la capacità di mettere in relazione passato e presente, di riscattare vie smarrite e abitabili, scartate dalla modernità, rendendole di nuovo vive e attuali. Quello che ieri era arretratezza oggi potrebbe non esserlo più. La montagna improduttiva e abbandonata oggi offre nuove risorse, nuove possibilità di vita.
Per mille ragioni anche il restare – ed il restare di chi ha viaggiato o di chi torna – condivide la fatica, la tensione, la nostalgia dell’errare. Restare non significa soltanto contare le macerie, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere e affidare ad altri nomi, soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo. Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui ed ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio. Sono i rimasti a dover dare senso alle trasformazioni, a porsi il problema di riguardare i luoghi, di proteggerli, di abitarli, renderli vivibili. I ruderi e le rovine stabiliscono collegamenti tra coloro che sono rimasti e coloro che sono partiti. Restare significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. E ancora volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie. Nostalgie, rimpianti, risentimenti attraversano le pietre, le grotte, i ruderi, le erbe che nascondono o proteggono le rovine, le piante di fico che accompagnano e provocano la caduta delle abitazioni. Le feste che si svolgono nei paesi abbandonati e diroccati svelano questi sottili e controversi legami con i ruderi.
Restare comporta, per chi lo fa con consapevolezza, un’attitudine all’inquietudine e all’interrogazione. Perché la restanza richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione. Un sentirsi in viaggio camminando, una ricerca continua del proprio luogo, sempre in atteggiamento di attesa, pronti allo spaesamento, disponibili al cambiamento e alla condivisione dei luoghi che ci sono affidati. Un avvertirsi, appunto, in esilio e stranieri nel luogo in cui si vive e che diventa il sito dove compiere, con gli altri, con i rimasti, con chi torna, con chi arriva, piccole utopie quotidiane di cambiamento. Disponibili anche allo scacco, all’insuccesso, al fallimento, al dolore. Non esiste, forse, spaesamento, sradicamento più radicale di chi vive esiliato in patria e combatte una lotta quotidiana, fatta di piccoli gesti per salvaguardare e proteggere i luoghi che potrebbero essergli sottratti non da chi arriva da fuori, ma da chi vi abita dentro come un’anima morta. Restare significa riscoprire la bellezza della “sosta”, della “lentezza”, del silenzio, del raccoglimento, dello stare insieme anche con disagio, del donare; la verità del viaggiare e del camminare. Nel mondo globale, delle false partenze, dei ritorni, delle identità aperte, dei viaggi da fermi, la nostalgia sembra essere diventata il sentimento di chi resta. Coloro che restano potenziano il senso del viaggiare e diventano approdo per quanti ritornano: forse perché viaggiare e restare, viaggiare e tornare, sono pratiche inseparabili, trovano senso l’una nell’altra. Rimasti e partiti debbono dare vita a una dialettica che parla di integrazione, d’incontro, di vite separate e di riconciliazione. Rimasti e partiti, senza enfasi e senza rancori, dovrebbero percepirsi nelle loro somiglianze e nelle loro diversità, legate a una particolare esperienza di vita, a un singolare rapporto con il luogo d’origine e con gli altri luoghi.

UTOPIA E CONCRETEZZADobbiamo riuscire a essere utopici (di utopie quotidiane, minimaliste come scrive Luigi Zaja) e concreti, ci servono nuovi pensieri per uscire da visioni localistiche. Viviamo una fase della storia dell’umanità in cui immagini apocalittiche e visioni di un futuro radioso si incontrano e si contrastano proprio perché non siamo più in grado di pensare il futuro, siamo dominati dalla fretta e da una sorta di eterno presente, che ci impedisce di guardare indietro e di andare avanti con coraggio, fantasia, lungimiranza, disposti allo stupore. Immaginare l’inimmaginabile. Prevedere l’imprevedibile.
Senza condividere in toto le posizioni di Leonardo Caffo in Fragile umanità. Il postumano contemporaneo che si interroga su quale possa essere il nuovo paradigma di vita per il postumano che l’autore presume sostituirà l’Homo sapiens, può essere interessante ipotizzare con lui (a partire dalle posizioni di Gilles Clément espresse nel “Manifesto del Terzo paesaggio”) il riempimento degli spazi lasciati vuoti o abbandonati a seguito del consumo sfrenato di risorse e di territorio. Clément sostiene che i luoghi “abbandonati dall’uomo, ma anche le riserve naturali, o le grandi aree disabitate del pianeta, e anche gli spazi più piccoli e diffusi semi-invisibili come le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie o le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico, siano risorse fondamentali per la conservazione della diversità biologica”. Caffo intravede nell’adozione di spazi vuoti o tralasciati dal capitalismo una prima realizzazione del nuovo habitat in cui la speciazione troverà il proprio luogo d’elezione.
Il “Terzo paesaggio” costituisce un territorio per le molte specie che non trovano posto altrove, per le piante che nascono nelle rovine. Per trovarlo, è necessario andare ai margini. Non sappiamo se questo sarà il postumano, ma vediamo che è una nuova forma di declinare l’umanità: vivere i margini, i limiti, riguardare il passato. Ripensare antichi saperi e sentieri. Rendere percorribili nuove vie dei canti. La grandi arterie di cemento, i ponti che crollano, le sopraelevate che tagliano i paesi, invece di unire hanno diviso, separato, creato distanze e solitudini, invece di avvicinare hanno allontanato.

LE VIE DEI CANTI Bisognerebbe riprendere, forse, le vie e le mobilità dell’asino, la figura emblematica della mobilità del mondo mediterraneo. Riaprire le antiche “vie dei canti” cancellate da colate di cemento, gallerie e sopraelevate inutili, che spesso separano più che unire i luoghi. Bisogna ristabilire un patto con la terra, gli animali, i defunti. Riconsiderare le conquiste di una modernità che era utile e non violenta, come quelle dei primi treni. Riaprire quelle stazioni vive, affollate, mobili, di cui ha parlato Alvaro in “Un treno nel Sud” (1958), che avevano alimentato tante speranze, nuovi scambi, una mobilità a dimensione umana, che avevano svolto un ruolo positivo e che, poi, nel tempo sono state trasformate in macerie, in luoghi deserti, dove nessuno passa, si ferma, scambia. Non abbiamo bisogno di chiudere scuole, ma di aprirle. Non chiudere musei e parchi archeologici, grazie a giovani e ragazze, diplomati e laureati, che vogliono un’attività produttiva e intendono fare per il bene e il patrimonio comune.
Occorrerebbero grandi investimenti per interventi mirati alla tutela, valorizzazione, cura e difesa del paesaggio, dei paesi, degli edifici; un grande progetto di rinascita e di ricostruzione, che parta dalla messa in sicurezza dei centri, delle scuole, degli edifici pubblici, delle strade, delle abitazioni. Prevenire e non intervenire a catastrofe avvenuta. Questo presuppone sguardi totalmente nuovi, amorevoli, interventi immediati e progetti di lunga durata; capacità di creare nuove forme di socialità, nuove comunità resistenti, nuove reti e nuovi tessuti sociali; di aprirsi all’esterno. Collegarsi con “reti del ritorno”, esperienza di “restanza”, “comunità resistenti e resilienti” presenti in tutte le regioni d’Italia e di Europa.

NON C’È PIÙ TEMPO DA PERDERE, ALMENO CI AVREMO PROVATO C’è da sperare, da auspicare, che le ingenti somme disponibili a livello regionale per i piccoli centri vengano spese con un’idea organica, coerente, innovativa della Calabria di domani. Ancora una volta, sottolineo l’importanza di creare legami tra passato e presente, tra paesi vuoti e isolati, tra montagne, colline e marine, tra chi è rimasto e chi è partito. Non si può sprecare una grande occasione come quella dei finanziamenti europei (per le aree interne). Sarebbe imperdonabile adoperare i fondi con intenti clientelari, a pioggia, con intenzioni elettoralistiche, senza una finalità alta, etica, civile, che abbia come obiettivo la costruzione di comunità abitabili. Non si può fare tutto in una volta, non si possono risolvere problemi atavici, abbandoni e dimenticanze secolari, non si può prescindere dalla situazione dell’intero Paese, ma è possibile invertire la logica assistenzialistica e paternalistica con cui sono stati spesi finora i fondi pubblici. Si possono almeno fornire segni, tracce, indicazioni per il futuro che ridiano speranza e fiducia a luoghi e abitanti che vivono situazioni di solitudine, sfiducia, apatia. Gli errori di oggi affosserebbero definitivamente la Calabria. La fuga e la chiusura dei paesi non sono un fatto recente, come coglievano Alvaro, Strati, Gambino e tanti altri: Franco Costabile, nel suo dolente “Il canto dei nuovi migranti” (1964), ai nomi dei paesi che fuggivano accostava nome e cognome degli uomini politici responsabili di un esodo biblico. Ecco, a poco serve il riferimento alle responsabilità di una generica Politica: diverso invece è avere la forza e il coraggio di indicare, con nomi e cognomi, politici, tecnici, professionisti, intellettuali che sarebbero responsabili di una eventuale ennesima beffa che la Calabria subirebbe senza scelte politiche mirate, chiare, ariose, “disinteressate”, operate con un’idea e una visione, il sogno, l’utopia, di una nuova Calabria. Parafrasando il grande Pasolini, noi tutti conosciamo i nomi di quanti toglierebbero questa ultima speranza di un “nuovo inizio” ai paesi della Calabria interna, della Calabria dell’anima. Non solo i Comuni, ma tutta la “società civile”, spesso assente e inesistente, ma il mondo delle professioni, quello intellettuale, la Chiesa, il sindacato, le associazioni, i gruppi di base, i Musei, le Università, le biblioteche, i centri culturali, le scuole, le prefetture, dovrebbero essere coinvolti, direttamente, attivamente in questa opera di rifondazione urbana, civile, culturale della Calabria collegandosi alle esperienze positive di altre regioni del Sud e di quelle aree interne e montane dell’Appennino e delle Alpi.
Non c’è più tempo da perdere. È già tardi, troppo tardi. Forse non ce la faremo, ma ci avremo provato. Sarà difficile, ma avremo fatto la nostra parte, non avremo nascosto la polvere sotto il tappeto. Non saremo stati indifferenti a chi chiede ascolto e “vuole parlare” ed “essere parlato” e ascoltato (come diceva Alvaro). Nel nome dei nostri vecchi, che hanno faticato con dignità, e per le generazioni che verranno e che non ci perdoneranno di avere consegnato loro un deserto, mentre avevamo a disposizione un Paradiso da riconoscere e da assumerci, perché i Paradisi non ci vengono mai dati in maniera gratuita e una volta per sempre.

N.B. Questo memorandum, in forma di “manifesto”, riprende concetti e posizioni che ho affrontato nei miei libri e, soprattutto, in riviste specialistiche (“Dialoghi Mediterranei”, “Sentieri Urbani”, Urbantracks, periodici di studiosi che si occupano della montagna, dei luoghi, del ritorno) ecc.) che si occupano di spopolamento e di “ritorno” delle aree interne. Rappresenta anche una breve sintesi di un volume che pubblicherò con Tomaso Montanari e di un libro sugli “ultimi abitanti” a cui lavoro con Antonella Tarpino. Con Donzelli è in uscita un lavoro a più voci (antropologi, territorialisti, geografi, storici, urbanisti, economisti ecc.) dal titolo “Riabitare l’Italia”. La casa editrice Rubbettino ha in corso di pubblicazione un libro sulla montagna calabrese. La letteratura sull’argomento è vasta e non è possibile farvi riferimento sistematico in questa sede. Segnalo, tra le tante iniziative che si svolgeranno in varie parti d’Italia (a L’Aquila, Pistoia, Paraloup, in diverse aree del Piemonte, delle Marche, del Molise, della Calabria, della Basilicata, della Puglia, della Toscana, della Sardegna, della Campania) un importante Convegno Internazionale “Un paese ci vuole. Studi e prospettive per i centri abbandonati e in via di spopolamento”, 7-9 novembre 2018, Università Mediterranea di Reggio Calabria (Dipartimento PAU Laboratorio Cross. Centro studi storici per l’architettura, la città, l’ambiente)www.unpaesecivuole.unirc.it.

Dovrei ricordare e ringraziare tante persone (anche molti miei studenti che si sono laureati con monografie sui paesi abbandonati). Lo farò, ma in questa sede ringrazio, in particolare, Isabella Cecchi, Pietro Clemente, Tomaso Montanari, Salvatore Piermarini (tutte le foto qui pubblicate sono sue). Antonella Tarpino.

Svimez, Mezzogiorno alla deriva di Gianfranco Viesti

Svimez, Mezzogiorno alla deriva di Gianfranco Viesti

Le preoccupanti condizioni e prospettive del Mezzogiorno dipendono in parte da una storia lunga, da vicende di ieri e dell’altro ieri. Ma dipendono in misura rilevante anche da vicende recenti, dalle decisioni politiche e di politica economica che si prendono oggi e si prenderanno nell’immediato futuro. Delle prime si parla tanto; delle seconde pochissimo. E invece su queste ultime è bene concentrare l’attenzione e la discussione; anche sulla base di alcuni degli elementi di analisi presentati dalla Svimez, è possibile rendersene conto, sollevando interrogativi di grande attualità.

L’Italia ha drasticamente ridotto i suoi investimenti pubblici (dal 3% al 2% del PIL), con la crisi; tale riduzione permane. Nella passata legislatura gli spazi per azioni di finanza pubblica sono stati orientati più ai consumi che agli investimenti: il principale provvedimento sono stati gli 80 euro, che valgono circa 9 miliardi all’anno; e che, incidentalmente, sono andati a vantaggio più del Nord che del Sud. Le previsioni disponibili confermano questa tendenza: un vero e proprio nuovo “regime di politica economica” con bassi investimenti. Si tratta di una scelta pericolosa per le prospettive di lungo termine dell’intero paese, che non ammoderna le sue reti e le sue città. Ma si tratta una scelta particolarmente negativa per il Mezzogiorno: dove le esigenze di potenziamento di infrastrutture materiali e immateriali sono assai acute; e l’impatto di una stagione di nuovi investimenti pubblici potrebbero essere particolarmente forte. Sia per l’effetto immediato (con un alto “moltiplicatore” sull’economia e un significativo traino di domanda anche nel Centro-Nord), sia per aumentare la competitività delle imprese e dei territori, creando così nuovo lavoro. C’è da recuperare gap cresciuti negli ultimi anni; l’Italia ha realizzato un’opera molto importante, e di grande rilevanza, com’è l’alta velocità; ma essa tocca solo marginalmente il Sud: nei primi 15 anni di questo secolo le Ferrovie hanno investito 44 miliardi al Nord e 14 al Sud (110 contro meno di 50 espressi pro-capite). La Svimez calcola che se nel 2019 gli investimenti pubblici al Sud fossero sui livelli (non esaltanti) del 2010 la sua crescita raddoppierebbe, rispetto al misero 0,7% previsto. E dunque: abbiamo ascoltato interessanti dichiarazioni del nuovo vertice delle Ferrovie sull’importanza delle reti pendolari, ma ben poco sulla priorità delle opere nel Mezzogiorno; abbiamo ascoltato l’intenzione di autorevoli Ministri di varare un programma di rilancio degli investimenti pubblici, ma come conciliarlo – date le persistenti difficoltà di finanza pubblica –  con i cavalli di battaglia del nuovo governo: il reddito di cittadinanza  e la flat tax (che, incidentalmente andrebbe molto ma molto più a vantaggio del Nord)? Quel che succede al Sud non dipende dalla storia dell’Ottocento o da un destino cinico e baro: ma dalle scelte che oggi si compiono.

L’Italia ha avviato e mantenuto politiche di austerità nella spesa pubblica, su cui molto si discute ed è giusto discutere. Ma un elemento, sottolineato dalla Svimez, viene quasi sempre ignorato: l’austerità è stato molto selettiva territorialmente, a danno del Mezzogiorno. La spesa pubblica corrente, fra il 2008 e il 2017, è scesa del 7% al Sud mentre è rimasta costante nel resto del paese. Questo si è tradotto in meno servizi, per le persone e le imprese. Il sistema universitario del Sud (del Centro-Sud) è stato oggetto di una pesante politica di marginalizzazione e de-finanziamento. Il sistema sanitario costretto all’esclusivo risanamento dei conti, riducendo qualità e quantità dell’offerta, con un aumento del numero di famiglie impoverite dalla spesa sanitaria privata e un forte incremento della mobilità interregionale dei pazienti (che provoca un peggioramento dei conti, con un evidente circolo vizioso). L’offerta di trasporto pubblico locale fra il 2008 e il 2015 è cresciuta del 13% a Milano, dove tocca i 16.200 posti/chilometro, un valore tre volte e mezzo superiore alla media nazionale; ma è scesa del 24% a Roma (a 6820), del 36% a Napoli (a 2400), del 52% a Catania (a 2300). Il 4,7% dei bambini meridionali fra zero e due anni può usufruire di servizi per l’infanzia, contro il 16% (un valore comunque basso) di quelli del Nord. Tutto ciò non dipende dalla storia o dal caso, ma dalle scelte politiche fatte. Prima fra tutte la circostanza che dal 2001 nessun governo ha ritenuto di stabilire i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti a tutti i cittadini italiani, come previsto dall’articolo 117.2.m della nostra Costituzione; e poi dal lavorio, oscuro ma molto importante, compiuto in questi anni nel ridisegnare i criteri di finanziamento dei servizi quasi sempre a danno delle regioni più deboli. Ma, ed eccoci all’oggi, tutto questo può notevolmente peggiorare, e la condizione del Sud aggravarsi. La Regione Veneto incontra il Ministro e richiede vastissime competenze nelle politiche pubbliche, e suggerisce che siano finanziate tenendo conto del gettito fiscale; la Lombardia segue a ruota, ispirata dalla sua mozione del novembre scorso che, sostanzialmente, chiede una spesa pubblica di oltre 10 miliardi maggiore (e altrettanto minore, ovviamente, nelle altre regioni italiane). La politica nazionale accompagna questo processo con un clamoroso silenzio. E il governo che farà? Che posizione prenderanno i 5 Stelle – finora anch’essi silenti – di fronte a questa offensiva leghista? Si andrà verso minori divari o si punterà a farli aumentare? Lo sviluppo del Sud dipende, molto ma molto più di quanto si voglia comunemente ammettere, dalle grandi scelte politiche dell’oggi: quali diritti di cittadinanza garantire a tutti gli italiani?

La questione meridionale da tempo è seppellita nell’indifferenza. Un’indifferenza molto comoda: perché affrontarla significa porsi domande di fondo sugli indirizzi e sulle scelte per il paese, e discuterne a fondo, pubblicamente; significa tornare a parlare di politica, nel senso più alto del termine.

Gianfranco Viesti

Per il Sud lo Stato è ancora fondamentale di Luigi Pandolfi

Per il Sud lo Stato è ancora fondamentale di Luigi Pandolfi

L’ultimo Rapporto della Svimez ha offerto un quadro meno catastrofico sulle prospettive economiche del Mezzogiorno. I ritardi e i problemi rimangono, ma qualche spiraglio di luce incomincia a intravedersi, sembra voler suggerire il documento. Tutto a posto, allora? Neanche per sogno.

A dieci anni dagli eventi americani che hanno innescato la più grave crisi economica mondiale dopo quella del 29′, anche il Sud “aggancia” la ripresa, facendo registrare nel 2016 una crescita addirittura maggiore rispetto al resto del paese (Campania sul podio con un +2,2%). Dietro questa performance c’è una leggera crescita dei consumi e degli investimenti, ma soprattutto la ripartenza dell’export. Il segnale, tuttavia, è stato molto più vistoso che altrove perché negli anni che vanno dal 2008 al 2014 la caduta della domanda interna, sia pubblica che privata, e dei livelli occupazionali, al Sud era stata più marcata, più rovinosa.

Ma poi, quale sud? Ci sono regioni come la Puglia e la Campania che presentano maggiori segni di ripresa e regioni come la Calabria e la Sicilia, per fare degli esempi, che continuano ad arrancare, per la debolezza delle loro strutture produttive, per lo sfascio delle amministrazioni pubbliche.

Parlare di “consolidamento” della ripresa sarebbe pertanto azzardato: già nel 2017 si è assistito ad un rallentamento della stessa e questo farà sì, come la stessa Svimez riconosce, che il Mezzogiorno (forse) recupererà i livelli pre-crisi soltanto nel 2028, dieci anni dopo il Centro-nord. Livelli pre-crisi, beninteso, quelli che facevano del Sud, comunque, un’area economica periferica e a ritardo di sviluppo. Valgano a tal riguardo i dati, molto indicativi, che afferiscono al mercato del lavoro. Il tasso di occupazione (numero di occupati in rapporto alla popolazione) in Italia si attesta al 58,1% (undici punti in meno rispetto alla media europea), nel Mezzogiorno al 46% (dodici punti in meno rispetto alla media italiana). Intanto, l’emorragia di giovani – per studio e lavoro – continua, interi territori e borghi interni rischiano spopolamento ed estinzione, bassa rimane la qualità dei servizi pubblici essenziali e delle infrastrutture di base. Niente di nuovo, potremmo dire, ricordando che il divario nord-sud non è un prodotto dell’ultima crisi.

Imputabili alla crisi, e alla sua gestione (austerità, nuove norme sul lavoro, riduzione di tutele e diritti), sono invece i mutamenti intervenuti nella struttura e nella qualità dell’occupazione. Si è accentuato il divario generazionale e, soprattutto, è cresciuto il lavoro precario. In percentuale, dall’inizio della crisi, la contrazione del tempo pieno e del tempo indeterminato è stata più marcata al Sud che nel Centro-nord. Più contratti part-time, più lavoro a chiamata, più sfruttamento, meno reddito. È anche per questo che la piccola ripresa, e lo stesso miglioramento del dato occupazionale, non hanno inciso significativamente su alcune emergenze sociali, a cominciare dalla povertà. Anzi: ancora nel 2016, circa il 10% dei meridionali era in condizione di povertà assoluta, contro il 6% dei cittadini del Centro-Nord (nel 2007 erano rispettivamente il 5 e il 2,4%). Percentuale che schizza al 46% se si considerano tutti quelli che rischiano di scivolare nella povertà assoluta.

Aumenta complessivamente la ricchezza (crescita del Pil), insomma, e al tempo stesso la povertà e l’esclusione sociale. Sono i segni di un modello di sviluppo strutturalmente imperniato sulle disuguaglianze: bassi salari e precarietà da un lato, competitività e massimizzazione del profitto dall’altro. Il contributo del Sud alla bilancia commerciale italiana è stato importante nell’ultimo periodo, per intenderci, ma i meridionali non ne hanno beneficiato. In verità, anche per i cittadini del Nord il dividendo è stato magro, ma al Sud questo ha significato accumulare altro ritardo.

Un modello insostenibile, per il paese e per il Mezzogiorno.

Si può parlare ancora di “questione meridionale”? Non nei termini in cui se n’è parlato in passato (la crisi ha modificato anche il paesaggio sociale e, in parte, l’economia del Nord), ma, in linea generale, certamente sì. Intanto, perché la forbice tra Nord e Sud non si è ridotta, ma, addirittura, si è allargata in questi anni, complice anche la crisi. Dagli indici di povertà e di esclusione sociale, dai livelli occupazionali e di reddito pro-capite, fino alla qualità dei servizi (sanità, scuola, trasporti), in tutti i rapporti più recenti continuano a emergere (almeno) due tipi di Italia. Poi, perché quella del Sud continua ad essere una gigantesca questione nazionale: fino a quando non ci sarà un sostanziale, apprezzabile, riequilibro tra Nord e Sud in termini economici, a risentirne sarà l’economia nazionale nel suo complesso.

Ma che fare?

Negli ultimi anni, gran parte del mondo accademico e della politica, economisti, storici, giornalisti, si sono detti d’accordo sull’improponibilità di una strategia improntata allo spirito del vecchio “intervento straordinario”. Eppure, la straordinarietà della situazione del Mezzogiorno, richiederebbe, ancora, interventi mirati e aggiuntivi rispetto a quelli ordinari (E’ questo che si propone il nuovo Ministero del Sud?). Di più. Nonostante il fallimento (il divario non è stato colmato), almeno su grande scala, delle strategie e degli interventi posti in essere fino agli inizi degli anni Novanta, alcune intuizioni contenute nell’ultima legislazione in materia andrebbero addirittura riprese e rilanciate. Tra queste, il concetto di “programmazione partecipata”, richiamato nella legge n. 64 del 1986, per una nuova politica industriale e di coesione. Un nuovo protagonismo dello Stato e dei territori, dei cittadini. Anche perché l’alternativa allo sviluppo calato dall’alto non può essere l’abbandono a se stessa della parte più debole del paese, spacciando tutto questo per “sviluppo autocentrato” (viene in mente la retorica speciosa sugli “imprenditori di se stessi”).

Programmazione e partecipazione degli attori locali ai processi decisionali, dunque. A maggior ragione oggi, questa sembra l’unica via perseguibile per invertire la rotta nel Mezzogiorno e far tesoro delle esperienze positive che si riscontrano nei vari territori. Cambiando radicalmente l’agenda degli ultimi trent’anni (privatizzazioni), il Mezzogiorno dovrebbe diventare il laboratorio di un nuovo intervento pubblico in economia, che non escluderebbe, insieme al sostegno verso iniziative autonome, la creazione d’industrie statali in settori innovativi e ad alto valore aggiunto (es: robotica, software, componentistica), capaci di reggere la concorrenza internazionale. Un piano industriale, senza giri di parole.

Parallelamente, coinvolgendo gli attori locali, si dovrebbe puntare sulle filiere produttive legate alla natura, al paesaggio, all’ambiente e alla cultura, incrociando, valorizzando, potenziando le esperienze già attive e di successo sviluppatesi in questi ambiti. Rigenerazione urbana, recupero del degrado ambientale e del dissesto idrogeologico, agricoltura di qualità, turismo sostenibile, accoglienza, solo per citarne qualcuna, coniugando sostenibilità ambientale delle attività poste in essere e sostenibilità economica dei percorsi d’intrapresa, grazie alla mano pubblica. Inutile ricordare, poi, che il sostegno alla domanda interna e la creazione di nuova occupazione nel Mezzogiorno avrebbero effetti positivi sull’intera economia nazionale, rendendo stabile e duratura la ripresa, trainando, ben oltre l’export, l’industria del Nord, imperniata sul capitale privato. Un tema da sviluppare.

Si potrebbe obiettare: ma questo è incompatibile con i vincoli di finanza pubblica imposti dall’Europa e, probabilmente, anche con le regole a tutela della concorrenza nel mercato unico! Sì, ma proprio qui sta la sfida. È ormai evidente che la disciplina del Patto di bilancio europeo e l’intera architettura pro-mercato dell’Unione sono in contrasto con la nostra Costituzione, che invece subordina l’iniziativa privata al principio della “utilità sociale” e impegna lo Stato a perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale dei cittadini. Applicare la Costituzione significa mettere in mora i Trattati. O viceversa. E questo vale anche per la “questione Sud”.

 

Il Mezzogiorno, la Calabria e la Grande Recessione: una occasione perduta di Tonino Perna

Il Mezzogiorno, la Calabria e la Grande Recessione: una occasione perduta di Tonino Perna

   La Grande Recessione ha trasformato il divario storico tra Nord e Sud Italia in un baratro da cui il Mezzogiorno non sembra più riuscire a riprendersi.   La paventata uscita di Draghi dalla BCE e la fine del Quantitative Easing che teneva lontana la speculazione finanziaria sui nostri titoli di Stato, ci fa pensare seriamente che dal prossimo autunno le cose si potrebbero mettere male per tutto il nostro paese e, come avviene sempre in questi casi, soprattutto per le aree e le fasce sociali più deboli.  

Dallo scoppio che della Grande Recessione nel 2008 sono passati dieci anni e in questo lasso non breve di tempo abbiamo perso un’occasione per cambiare modello di società e di economia, per capire che una storia era finita, un ciclo storico, iniziato negli anni ’50 del secolo scorso, aveva esaurito la sua spinta vitale.

Qui di seguito vi riproponiamo un editoriale uscito sul Quotidiano del Sud otto anni fa e che, a mio modesto avviso, ci pone ancora oggi delle domande a cui non sembra che la classe politica al potere sia in grado di rispondere.

Malgrado le rassicurazioni di rito di esperti e governanti l’Occidente si trova di fronte alla Grande Recessione, la più grave crisi –economica, sociale e politica- dal tempo della Rivoluzione Industriale. Molto più grave di quella del ’29, che si protrasse fino al 1933 e poi sfociò nella seconda guerra mondiale. La grande novità sta nel fatto che questa volta non si tratta di una crisi globale, ma specificamente occidentale. Infatti, in Asia, Africa ed America Latina molti paesi continuano a crescere a tassi sostenuti (dal 6% dei paesi sub sahariani al 10% della Cina, solo per fare degli esempi), mentre in Occidente la “crescita del Pil” è finita, con la sola eccezione della Germania che, stando agli ultimi dati, si sta spegnendo. In breve, se ci va bene Usa ed UE si stanno omologando al modello giapponese, un paese che non cresce più dal 1990 e mantiene un buono standard di vita grazie ad un poderoso indebitamento, il più grande del mondo : rapporto Debito/Pil pari al 200 per cento. Ma, oggi la strada dell’indebitamento infinito, che ha consentito alla popolazione giapponese di sopravvivere al disastro finanziario, non è sostenibile per gli Usa e la UE, semplicemente per il fatto che i paesi creditori (a cominciare dalla Cina) non sono più disponibili a continuare a comprare i titoli di stato dei paesi occidentali.

Da questo schematico scenario emerge una semplice verità: siamo di fronte ad una redistribuzione di ricchezza e potere tra l’Occidente ed il resto del mondo, in particolare a favore delle nuove potenze emergenti, i cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina). La Cina, in particolare, è diventata la prima potenza industriale del mondo, il paese con il più grande surplus nella bilancia commerciale, ed il più grande mercato al mondo per i prodotti industriali (dall’auto agli elettrodomestici ai mezzi di comunicazione, ecc.).

Purtroppo, noi occidentali non siamo preparati ad affrontare questa nuova situazione. Siamo nati e pasciuti con l’idea della <<crescita infinita del Pil>> che stentiamo a guardare con lucidità a quello che ci sta accadendo. Non vogliamo arrenderci al fatto che una più equilibrata distribuzione della ricchezza a livello planetario sia giusta e necessaria, e continuiamo ad illuderci con le vecchie ricette ed il linguaggio del secolo scorso.   Abbiamo per trent’anni <<drogato>> l’economia reale con un immissione sconsiderata di dollari –grazie alla funzione di banca mondiale della Fed- abbiamo moltiplicato i nostri debiti – di imprese, famiglie e Stati- portandoli mediamente a tre volte il Pil, continuando a consumare ed inquinare senza ritegno. Ed adesso, il crac delle Borse, la sfiducia che colpisce i nostri titoli azionari, ci sbatte in faccia il nostro fallimento.

Di fronte al crac finanziario dell’autunno 2008 gli Stati occidentali hanno cercato di salvare Banche ed Istituti finanziari dal fallimento aumentando ancora il Debito Pubblico, convinti che col tempo tutto si sarebbe messo a posto. Invece, le Borse occidentali sono tornate a crollare questa estate e il panico ha colpito consumatori, imprenditori e risparmiatori. I governi occidentali, Usa ed UE, stanno cercando di rispondere al crac con una drastica riduzione del welfare e con la compressione dei salari, a partire dai dipendenti pubblici. E queste scelte di politica economica non potranno che fa aumentare la recessione. Ma, le popolazioni europee ( e domani nordamericane) non ci stanno: non capiscono perché debbono essere i lavoratori dipendenti o i pensionati a pagare i costi del fallimento finanziario. Da qui il moltiplicarsi di lotte sociali, rivolte anche violente e crisi di governi che erano all’apice del consenso (come nel caso di Zapatero e non solo).

Come è facilmente comprensibile, la Grande Recessione in Europa non colpisce tutti allo stesso modo. Sono in particolare i paesi del sud Europa quelli che stanno pagando di più questa crisi e dove più forti sono state finora le lotte/rivolte sociali.   E naturalmente, tra i paesi del sud Europa sono le aree marginali quelle che pagheranno ancora di più.   Sono le aree come il Mezzogiorno d’Italia che non hanno approfittato del tempo delle vacche grasse quelle che oggi si trovano nella più grande disperazione. Il caso calabrese è emblematico. L’aver mal utilizzato o non utilizzato i <<fondi strutturali europei >> per creare una struttura produttiva solida e diffusa ci porta oggi dritti al disastro sociale. L’aver permesso che la ricchezza regionale dipendesse per il 65% dalla spesa pubblica e dai “trasferimenti netti” dello Stato, ci pone oggi in una condizione di estrema debolezza di fronte al taglio drastico della spesa pubblica ed ai costi del federalismo fiscale .   Molti enti locali sono a rischio di fallimento , a cominciare dai Comuni, piccoli e grandi, con tutto quello che ne consegue in termini di servizi sociali e quindi di “qualità della vita”.

Cosa fare di fronte ad uno scenario realisticamente a tinte fosche ? Credo che la prima cosa è capire che nessuno si salva da solo. Cominciando dal livello macro : i governi dei paesi del sud Europa dovrebbe riunirsi per affrontare insieme la crisi del Debito Pubblico e fare fronte comune rispetto a Bruxelles. Se non sono capaci i governi perché i sindacati dei lavoratori non lo fanno, non propongono un grande incontro dell’Europa mediterranea per trovare una strada comune per rispondere ai tagli del welfare e dei diritti dei lavoratori ?   Ed anche a livello micro : perché le regioni del Mezzogiorno, al di là dei differenti colori politici, non si uniscono per trovare una piattaforma comune da presentare al governo ?   Se non lo fa la politica dovrebbero essere i rappresentanti dei lavoratori a prendere l’iniziativa, a riunire tutte le forze sociali ed istituzionali per tagliare gli sprechi, i privilegi, e valorizzare chi lavora e produce bene e servizi utili alla comunità.   Una grande, anche dura e dolorosa, opera di pulizia morale ed istituzionale, insieme alla promozione delle risorse intellettuali che sono ancora presenti su questa terra, ad un grande piano energetico ed ambientale, ad accordi di cooperazione con i consumatori del nord Italia per dare un “prezzo equo” ai nostri prodotti agricoli (come stanno facendo i Gruppi d’Acquisto Solidale ed la CTM di Bolzano), alla costruzione complessiva di una economia sostenibile sul piano sociale ed ambientale. Diciamolo con chiarezza: più che inseguire la chimera di Grandi Opere –spesso inquinanti e inutili- bisogna adoperarsi per un Grande Piano di piccole opere di recupero diffuse su tutto il territorio. L’edilizia bioenergetica, la messa in sicurezza delle nostre colline, la rete idrica da risanare, lo straordinario patrimonio archeologico da salvaguardare, ecc. costituiscono la base della ricostruzione di un “patrimonio comune” che è fondamentale per assicurare un futuro alle nuove generazioni. Il settore edile, rinnovato e ripensato, può rappresentare uno dei motori di questo processo.

Il collasso di questo modello di sviluppo lascia sul campo molte macerie: sul piano economico (imprese che chiudono), sociale (fine del welfare state), sul piano ambientale (dai rifiuti tossici alla cementificazione delle coste, ecc.).   Bisognerebbe ritrovare lo spirito che animò gli italiani dopo la fine della seconda guerra mondiale. Dovremmo trovare quella voglia di ricostruire un paese “in macerie”, sul piano morale innanzitutto, con una rinnovata spinta positiva   verso una società più equa, più rispettosa della natura, meno stressata dalla corsa alla massimizzazione dei profitti, più forte sul piano della solidarietà e della cooperazione sociale.

Della povertà nell’era dell’abbondanza: il caso del Mezzogiorno di Tonino Perna

Della povertà nell’era dell’abbondanza: il caso del Mezzogiorno di Tonino Perna

 

Secondo gli ultimi dati Istat in Italia nel 2011 l’11,1 per cento delle famiglie si trova in condizione di povertà relativa per un totale di 8,1 milioni di persone, di cui il 5.2% vivono in condizioni di “povertà assoluta” per un totale di 3,4 milioni di persone.   Ancora più grave è la situazione nel Mezzogiorno: quasi una famiglia su quattro vive in condizione di povertà relativa, di cui l’8% in condizioni di povertà assoluta. Le regioni meridionali più colpite sono la Sicilia (27,3%), la Calabria (26.2%), la Campania (25.6%).   Si conferma il fatto che le famiglie più colpite siano le famiglie numerose, con almeno tre figli, che passano in soli due anni (dal 2009 al 2011), dal 37 al 50 per cento. Vale a dire che oggi una famiglia numerosa su due che vive nel Mezzogiorno è relativamente povera!   Non si era mai arrivati a toccare una situazione così grave.

Questi i dati, ma cosa intende l’Istat per povertà assoluta e relativa e come la calcola ? La risposta è semplice : una famiglia viene definita “relativamente” povera quando il suo consumo medio pro-capite mensile è inferiore alla metà del consumo medio pro-capite delle famiglie italiane; mentre una famiglia è in una condizione di povertà assoluta quando il suo consumo medio pro-capite è meno di 1/3 del consumo medio pro-capite nazionale.   Prima di capire che cosa ha determinato la crescita della “povertà” nel Mezzogiorno val la pena soffermarsi su questa categoria.

 

  • La povertà nella/della teoria economica.

Come diceva Keynes, gli uomini del nostro tempo sono spesso schiavi delle idee di qualche economista defunto, sicuramente questo è vero nel caso della teoria maltusiana.   Infatti, a livello dei non addetti ai lavori si è spesso attribuita la povertà all’eccesso di popolazione, al fatto che le famiglie- analfabete e religiose- facessero troppi figli. Quante volte si è detto e scritto che la povertà nel Terzo Mondo, la fame che uccide migliaia di bambini ogni giorno, sia il frutto dell’eccesso di popolazione, la cosiddetta “bomba demografica”! Come è noto, questa era la tesi dell’abate Malthus , il quale riteneva, in base ai dati in suo possesso, che la popolazione stesse crescendo in ragione geometrica, mentre le risorse alimentari crescevano in ragione aritmetica. Risultato: la popolazione raddoppiava ogni venticinque anni.   Se non si fosse fermata la crescita demografica l’umanità sarebbe stata condannata al collasso o alla guerra permanente.  Per questo Malthus attaccò come pochi le leggi sui poveri che davano un sussidio alle famiglie disagiate.   Malgrado vedesse di buon occhio l’aborto e l’infanticidio (memorabili le sue pagine su questa pratica in Cina), non poteva ammetterlo ufficialmente come rappresentante del clero e quindi trovò una soluzione geniale per combattere la povertà: l’astinenza. Sposarsi il più tardi possibile e fare meno figli che si può.   “L’unico modo conforme alle leggi della morale e della religione-argomentava Malthus- per procurare ai poveri la più grande partecipazione ai beni del ricco, senza precipitare nella miseria tutta quanta la società, consiste da parte del povero nella prudenza in tutto ciò che riguarda il matrimonio e nell’economia prima di averlo contratto”[1]

Pochi decenni prima, sulla sponda francese, la scuola dei fisiocratici proponeva un altro approccio alla povertà, in particolare delle masse contadine :   <<   Le vessazioni, il basso prezzo delle derrate ed un guadagno insufficiente per stimolarli a lavorare li rendono oziosi , bracconieri , vagabondi e ladri. La povertà forzata non è dunque il mezzo per rendere laboriosi i contadini: non vi è che la proprietà ed il sicuro godimento del guadagno che possano dotarli di coraggio e di attività>> [2]

A circa vent’anni dalla pubblicazione del “Tableau” di Quesnay , esponente prestigioso della scuola fisiocratica, il padre dell’economia politica moderna riprendeva un concetto simile nella sua famosa “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni” :

<< I salari del lavoro sono l’incoraggiamento dell’operosità che, come ogni altra qualità umana, progredisce nella misura in cui riceve un incoraggiamento. Una sussistenza abbondante aumenta la forza fisica del lavoratore, e la confortante speranza di migliorare la propria posizione e di finire forse i propri giorni nell’agio e nell’abbondanza, lo incita ad esercitare al massimo questa forza. Se i salari sono alti, troveremo che gli operai sono più attivi, diligenti e svelti di quando i salari sono bassi : in Inghilterra per esempio, più che in Scozia, nei dintorni delle grandi città più che nelle zone remote della campagna>>[3]

Secondo Adam Smith per combattere la povertà e l’indigenza bisognava elevare il livello culturale della nazione (con un importante intervento dello Stato per l’istruzione pubblica primaria)[4],ma soprattutto bisognava eliminare le forme di “sfruttamento “ del lavoratore sancite dalla tradizione o dalle leggi. Il nemico fondamentale da battere era- secondo Smith- lo “Statuto dell’apprendistato”, cioè quelle norme corporative che regolavano il lavoro nelle “manifatture” e nei laboratori artigianali: << Non conosco alcuna parola greca o latina che esprima l’idea che noi associamo alla parola “apprendista”, cioè di un servo costretto a lavorare in un dato mestiere per un dato numero di anni a beneficio di un maestro, a condizioni che questo glielo insegni>>.[5]

I bassi salari, la povertà, la miseria hanno comunque per Smith una matrice sociale. La Natura non ha colpa se un uomo è povero o muore di fame. Ma, la sua visione della povertà, così come la sua visione del ruolo dello Stato nel settore dell’istruzione e della lotta ai contratti di lavoro “iniqui”, venne emarginata dal pensiero maltusiano che divenne un forte punto di riferimento di tutto il pensiero dei classici dell’economia politica.   Da Ricardo a Stuart Mill l’idea che la povertà fosse dovuta essenzialmente all’imprevidenza dei poveri, ai loro matrimoni precoci, alla troppa prole che producevano, alla scarsa capacità di fare economia, cioè di risparmiare.   David Ricardo non aveva dubbi in proposito : <<la perniciosa tendenza della legge sui poveri non è mistero, perché è stata pienamente delineata dalla mano esperta del signor Malthus; ed ogni amico dei poveri deve desiderare ardentemente la loro abolizione(…).   Queste leggi hanno reso superfluo ogni freno ed incoraggiato l’imprevidenza, offrendo ad essa una parte dei salari propri della previdenza e dell’operosità>>. [6]   Qualunque tipo di soccorso è abrogato: il dole è un cancro che colpisce l’economia alla radice. Qualunque “vincolo “ deve essere rimosso per il pieno funzionamento del mercato del lavoro: << Come tutti gli altri contratti, i salari dovranno essere lasciati alla determinazione della libera concorrenza del mercato, ed il legislatore non dovrebbe mai interferire>>.[7]

“Può l’economia politica – si domandava J. Stuart Mill – non fare nulla, muovere soltanto obiezioni, e dimostrare che non si può fare niente per combattere la povertà? “ E proponeva una serie di misure quali: a) l’istruzione di massa,; b) l’emigrazione verso le colonie ; c) privatizzare le “terre comuni” per creare una massa di piccoli proprietari. Ma, concludeva, tutte queste misure sarebbero state insufficienti se non fosse intervenuto un radicale mutamento culturale[8].  Ed è su questo terreno che J. Stuart Mill scaglia le sue invettive più virulente contro la religione, la morale e la politica che “hanno gareggiato nell’incitare al matrimonio ed alla moltiplicazione della specie, purché col vincolo matrimoniale…Finché il generare numerosa prole non sarà considerato allo stesso modo con cui si considera l’ubriachezza o qualunque altro eccesso fisico, pochi miglioramenti si possono aspettare …”[9]

In breve, anche per le menti più illuminate, la causa della povertà sono i poveri, con la loro dissipatezza, lo scarso senso del risparmio e della previdenza, il loro cedere ad istinti bestiali (procreazione). Sembra di sentire le sentenze della troika (BCE,FMI, Commissione Ue) rispetto ai paesi indebitati del sud Europa. I mass media occidentali hanno dipinto il popolo greco, durante questi anni di crisi finanziaria, come un popolo di fannulloni, che ha dissipato le risorse comunitari, che non ha saputo risparmiare, e –come ha sostenuto più volte la Merkel e C. – gli aiuti alla Grecia fanno solo del male, aggravano la loro situazione, mentre una bella punizione può riportarli ad atteggiamenti virtuosi.  Ieri come oggi, la colpa è sempre dei poveri, che si tratti di eccesso di popolazione o di debito pubblico il capro espiatorio è sempre lo stesso.

Come è noto, a questa visione del mondo si oppose chiaramente e lucidamente il pensiero di Karl Marx. << Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia>> (p.82). Con queste lapidarie parole Marx stronca l’approccio degli economisti classici e affronta la questione della povertà all’interno delle dinamiche del modo di produzione capitalistico.  Innanzitutto, Marx distingue tra “pauperismo” e “povertà”.    Il primo, il pauperismo, viene analizzato all’interno della “legge generale dell’accumulazione capitalistica” e definito come “ il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa”, composto da tre categorie:

  1. persone capaci di lavorare ma espulse dal processo produttivo (quelli che oggi potrebbero essere i “cassaintegrati”) . La sua massa s’ingrossa ad ogni crisi e diminuisce ad ogni ripresa degli affari;
  2. orfani e figli di poveri ; sono i candidati dell’esercito industriale di riserva che , in epoche di grande slancio (per es. il 1860) vendono arruolati in massa nell’esercito operaio attivo;
  3. gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare. Si tratta specialmente di individui che sono mandati in rovina dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro, individui che superano l’età normale di un operaio, infine le vittime dell’industria, il cui numero cresce col crescere del macchinario pericoloso.[10]

Se il “pauperismo” costituisce una fascia dell’esercito industriale di riserva , la “povertà” è in Marx una categoria più ampia che va oltre il livello del salario ed il tenore di vita.   “Il concetto di lavoratore libero implica già che egli è povero”. Pertanto, sostiene Marx nei Grundrisse, tutti i lavoratori sono “potenzialmente “poveri”: sia che essi siano esclusi dal processo produttivo, sia che vendano la propria forza-lavoro, essi non hanno i mezzi per “autodeterminare” la soddisfazione dei propri bisogni, essi non possono che vivere in funzione del processo di “auto valorizzazione del capitale” [11])

Questo non significa che i lavoratori siano rimasti a guardare, a piangersi addosso. Le loro lotte hanno, a partire dalla prima metà dell’800, determinato una serie di interventi dello Stato a tutela dei loro diritti, a sostegno dei più poveri, handicappati, svantaggiati e disoccupati. La nascita del Welfare State è il frutto di queste lotte che hanno attraversato due secoli e che oggi sono messe seriamente in discussione, tentando di riportare indietro le lancette della storia.

  • La gestione della povertà: poveri buoni, falsi poveri e disoccupati

Nella prima metà del XIX secolo i governi europei reagirono in maniera estremamente articolata rispetto al fenomeno del “pauperismo” . In alcuni paesi prevalsero le politiche maltusiane: in Baviera, ad esempio, le persone che non possedevano un reddito adeguato non potevano sposarsi senza il permesso dell’Amministrazione dei poveri, come a Berna dove i poveri “assistiti” dovevano avere il permesso del Municipio.   Nei paesi scandinavi prevalse il ruolo del “volontariato” regolato ed incentivato dallo Stato con alcuni eccessi che suscitarono il malcontento delle classi agiate. In Olanda e Danimarca venne riconosciuto il “diritto al soccorso” e si sviluppò un primo embrione di legislazione sociale ed un ricco dibattito politico.

Bisogna riconoscere che i primitivi “sistemi assistenziali” funzionarono decentemente solo in quelle aree dove esisteva una consolidata tradizione di solidarietà sociale unitamente ad una, fortemente interiorizzata, ideologia del lavoro come dovere sociale.   Ma, l’obiettivo di fondo delle politiche contro il pauperismo non era l’eliminazione delle diseguaglianze sociali, non sottendeva un progetto di società più “giusta” e più “garantista”, bensì era il controllo di quel “ potenziale sovversivo” presente nella miseria di massa.   Come ha notato acutamente G. Procacci[12], il pauperismo faceva paura per le sue caratteristiche sociali : il pauperismo è mobilità, vale a dire disordine, vagabondaggio, ecc; il pauperismo è indipendenza, cioè trasgressione di un codice di comportamento dettato dalle leggi di mercato; il pauperismo è dissipazione, cioè rifiuto a trasformarsi in “consumatore razionale” che sa ripartire il proprio reddito tra consumi immediati e consumi dilazionati nel tempo; infine il pauperismo è ignoranza ed insubordinazione , che si possono leggere anche come ozio, immoralità, sporcizia ecc.

L’insieme delle misure adottate dai vari paesi europei nel corso del XIX° secolo rispondevano ad una esigenza prioritaria per il potere: sterilizzare il potenziale sovversivo contenuto nel fenomeno. D’altra parte, la stessa Speenhamland Law del 1795[13] – la legge che riconosceva il diritto al minimo vitale ! – può essere letta come una sorta di <<assicurazione contro la rivoluzione>>, essendo stata fortemente condizionata dalla paura della rivoluzione francese del 1789. Solo quando questo timore venne meno si poté passare in Inghilterra alla gestione della povertà – con la Legge dei poveri del 1834 ed il conseguente ritorno delle workhouses– più corrispondente ai bisogni di accumulazione del capitale ed alle leggi del mercato capitalistico.   E qui sta il nodo cruciale del dibattito economico e politico sul “pauperismo”: come controllare e gestire “i poveri” in modo tale da non influire negativamente sui meccanismi dello sviluppo.

La storia degli ultimi due secoli ci insegna che tutte le conquiste sociali, dalle otto ore di lavoro fino al più avanzato Welfare State, sono state ottenute quando era forte e combattivo il movimento dei lavoratori e, soprattutto, il potere aveva paura della “rivoluzione”.   Quando questo timore scomparve –definitivamente dopo la caduta del muro di Berlino- allora è stato possibile, in tutto l’Occidente, passare alle controriforme, smantellare il Welfare State.   Ma, per un lungo periodo si trattò di gestire la povertà e la miseria di massa. Su questo piano un contributo fondamentale, sul piano della politica economica, lo dette Alfred Marshall. Il noto economista inglese intervenne più volte nel dibattito su quale forma di assistenza dovesse essere offerta dallo Stato che non intaccasse le fondamenta del mercato del lavoro capitalistico. La scelta su cui si incentrerà il dibattito, fino alla crisi degli anni ’30, verteva essenzialmente su due forme di assistenza: quella “interna” (vale a dire internamento dei poveri, handicappati, disadattati, ecc.) e quella “a domicilio”. << La prima –notava Marshall- è impopolare; assomiglia alla prigionia e appare una sorte troppo dura per coloro che non hanno colpa della loro miseria. Quando uno finisce nella “workhouse “ la sua casa si sfascia, così non è facile lasciare la “workhouse” e riprendere una nuova vita. L’assistenza esterna è preferibile …ma anche fonte di vari mali …Essa spesso finisce nelle mani del pigro, dell’imprevidente, del furbo e dell’ipocrita(…). Nel complesso si è riscontrato che, ovunque l’assistenza esterna è stata erogata con liberalità, gran parte della popolazione è divenuta pigra, scialacquatrice e disonesta: in una parola pauperizzata>>[14] . Bisogna, pertanto, trovare un criterio per distinguere tra poveri “buoni” e falsi poveri, ed evitare che l’intervento assistenziale generi abusi ed una tendenza all’ozio che distruggerebbe le basi di quella che Pigou, allievo di Marshall, chiamerà “Economia del Benessere”.   Dentro questo nuovo paradigma la “povertà” verrà vista in base al principio che ogni “trasferimento di reddito” in favore dei meno abbienti è positivo solo se non incentiva all’ozio ed allo spreco e , soprattutto, non produca una contrazione del “dividendo nazionale”, quello che noi oggi chiamiamo Pil.

L’economia del Benessere di Pigou e “l’ottimizzazione paretiana” fu l’ultima parola della scienza economica occidentale, prima che la crisi del 1929 sconvolgesse tutto il quadro sociale e politico. Negli anni successivi al crollo di Wall Street, molte potenze occidentali tremarono per la paura che la massa dei lavoratori disoccupati ( un quarto dei lavoratori statunitensi, un terzo dei lavoratori europei) potesse impossessarsi del potere, scatenare una rivoluzione. Come sostenne una volta Hungthinton “le riforme sono un antidodo alla rivoluzione”, e gli anni ’30 del secolo scorso lo confermano. Alcuni paesi, come l’Italia, Germania, Spagna e Portogallo, furono travolti dalle rivoluzioni nazionalsocialiste o fasciste, altri come gli Usa, la Francia, l’Inghilterra ed i paesi scandinavi vararono importanti riforme sociali. In tutti i paesi occidentali la lotta alla disoccupazione divenne una priorità, sia nella versione nazionalsocialista (Hitler riuscì a creare in sette anni quasi 6 milioni di posti di lavoro!) sia in quella socialdemocratica (Roosevelt ne creò oltre 10 milioni nella seconda metà degli anni ’30).

Come è noto, è stato Keynes che ha influito decisamente su questo approccio, dimostrando che esisteva un fenomeno di “disoccupazione involontaria” che non era concepibile nella teoria economica ortodossa.   In sostanza, per gli economisti classici e neoclassici bastava fare funzionare il mercato che le cose si sarebbero messe a posto in quanto- in base alla legge di Say – l’offerta crea la domanda e non vi può essere una disoccupazione che non fosse volontaria.    Keynes dimostrò che il sistema macroeconomico raggiungeva l’equilibrio senza utilizzare tutte le risorse disponibili, a partire dal lavoro, e nessun aggiustamento automatico del mercato era possibile. Era necessario, pertanto, l’intervento dello Stato, il deficit spending, per sostenere la domanda aggregata e salvare il capitalismo, come lui stesso affermò senza infingimenti.

Ma, con Keynes cambia anche l’approccio alla povertà che viene identificata con la disoccupazione. Era in gran parte vero nel periodo in cui lui scriveva, ma non lo è stato più a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. In quel decennio emerge, per poi consolidarsi successivamente, la figura del “working poor” del lavoratore povero o impoverito. Un fenomeno che oggi è sempre più diffuso, per cui pensare di combattere la povertà solo con più posti di lavoro è falso, se non si precisa di quale lavoro e salario stiamo parlando.  E’ questo un equivoco che coinvolge anche chi guarda al Mezzogiorno senza conoscerlo.

 

  • Le diverse facce della povertà nel Mezzogiorno oggi.

Si possono stimare in circa 800.000 i giovani del Mezzogiorno che possiamo inserire nella categoria degli “Workings poor”. Lavorano nelle piccole imprese locali,nel commercio,nelle imprese subappaltatrici, ma anche in catene nazionali di supermercati dove firmano buste paga regolari e ne incassano la metà. Se si sposano e fanno due figli cadono sotto la soglia della povertà,se la moglie non lavora scendono della categoria della “povertà assoluta”.   Naturalmente, la loro condizione è diversa se vivono in un piccolo centro, in casa di proprietà e con un orto ed animali da governare.   In molte aree interne del Mezzogiorno, le forme di autoproduzione e di dono/reciprocità hanno ancora un loro peso [15] che contribuisce all’integrazione del basso reddito.   Ma, la maggior parte dei giovani meridionali vive in centri urbani con scarsa possibilità di trovare forme integrative di reddito, di vivere fuori dal mercato.

La maggioranza dei giovani meridionali sono diventati “formalmente liberi” di vendere la loro forza –lavoro, ma non sanno più a chi venderla.   Come Marx aveva intuito e denunciato, nel mercato del lavoro capitalistico la condizione più disperante è quella di chi non riesce a farsi sfruttare. Ed è questa la condizione dei giovani meridionali. Chiusa la macchina della spesa pubblica, ridotte le attività produttive, i giovani non hanno altra via che quella dell’emigrazione. Gli appartenenti ai ceti medi, partono per studiare nelle più prestigiose Università del Centro-Nord : Roma, Bologna,Forlì, Milano, sono le mete più ambite e frequentate. Non perché nel Sud non ci siano delle Università, qualcuna anche ben funzionante, ma perché sperano di inserirsi in un circuito migliore, di conseguire lauree più prestigiose e che, in ogni caso, vengono valutate di più. La maggioranza degli studenti universitari parte dopo la Triennale, sia perché le Specialistiche sono carenti nelle Università del Mezzogiorno, sia per i motivi soprarichiamati. Insomma, si tratta di un pre-inserimento nel mercato del lavoro, di mettersi nelle condizioni migliori per entrare nel mondo del lavoro. Gli appartenenti al ceto medio-alto ed alle elite vanno a studiare o a specializzarsi all’estero (Inghilterra, Usa , Germania, Francia), mentre i figli dei ceti popolari si iscrivono nelle Università meridionali senza molta convinzione, ma solo per la necessità di trovare un “parcheggio”.

Complessivamente, per motivi di studio o di lavoro tra i giovani nati nel Mezzogiorno e che si collocano nella classe di età tra i 20 ed i 35 anni, oltre il 60 per cento vive fuori dal territorio meridionale anche se, in gran parte, conservano la residenza nei luoghi di origine. Per questo i dati sull’emigrazione meridionale enunciati dall’Istat o dalla Svimez sono decisamente sottostimati. C’è un grande flusso di giovani che vanno e vengono dal Sud al Nord ed in senso inverso, che tentano di trovare un lavoro, spesso falliscono o trovano solo lavoretti sottopagati nel settore privato. Infatti, il taglio della spesa pubblica, anche nel Nord, impedisce di trovare quei lavori precari nella Pubblica Amministrazione a cui era possibile accedere in passato: una supplenza nelle scuole, un trimestre alle Poste, ecc.   Paradossalmente, la gran parte dei giovani emigrati nel Centro-Nord –per motivi di studio o di lavoro- sono mantenuti dai genitori e nonni.  Ovvio per gli studenti, molto meno per chi lavora. Il problema è che si tratta in gran parte di lavori sottopagati che non riescono a coprire gli alti costi (casa, trasporti, ecc.) della nuova residenza.   Non era mai successo in passato! La grande emigrazione degli anni ’50 e ’60 aveva una matrice inversa : erano gli emigranti che mandavano i soldi a casa per sostenere le famiglie. Sono stati i nostri emigranti all’estero che, attraverso le rimesse, hanno sostenuto la lira negli anni difficili precedenti la prima guerra mondiale e successivamente nel periodo 1946-1958.   Oggi, invece sono le famiglie meridionali che mantengono, in parte, questa forza-lavoro emigrata nel Centro-Nord. Si tratta di una forza-lavoro che rientra in quello che Marx definiva come “sovrapopolazione stagnante” : << La terza categoria della sovrapopolazione relativa, quella stagnante, costituisce una parte dell’esercito operaio attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. (…) Le sue caratteristiche sono: massimo tempo di lavoro e minimo di salario>>.  Questa “sovrappopolazione stagnante”oggi, oltre ad essere composta da extracomunitari, è composta da giovani meridionali , sostenuti dalle famiglie di provenienza per resistere allo sfruttamento selvaggio, scommettendo su un futuro migliore.

Il Mezzogiorno, anche per questa via- oltre quella più nota del “risparmio”[16]– ha accresciuto il trasferimento di risorse nel Centro-Nord, continuando ad impoverirsi.  Un meccanismo micidiale che accentua decisamente il divario Nord-Sud e che produce una “triste” condizione esistenziale per i giovani meridionali. Infatti, la domanda è: chi non parte che fa? Non abbiamo dati precisi, ma solo qualche inchiesta sul campo condotta in questi anni in Sicilia e Calabria. Va detto, che c’è una piccola parte di giovani che rimangono nel Sud perché ereditano una qualche “rendita professionale”. Sono i figli dei professionisti affermati (avvocati, ingegneri, commercialisti,notai, ecc.) o di ricchi commercianti o i rampolli della nuova borghesia mafiosa che con i proventi dei mercati illegali aprono ipermercati, resort, grandi alberghi, centri benessere, ecc. Ma, la maggioranza dei giovani che restano nel Mezzogiorno lo fa non per scelta, ma per mancanza di alternative, per mancanza di risorse o poco spirito di intrapresa, più spesso dopo aver tentato la via dell’emigrazione uscendone con le ossa rotte. E’ quella parte della forza-lavoro, che Marx collocherebbe oggi nella sfera del “pauperismo”, ed esattamente nella terza categoria del pauperismo che abbiamo prima richiamato : <<gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare>>.   Ma, con una grande differenza rispetto al passato. Questi giovani che non studiano, non lavorano, né cercano più il lavoro vivono in una condizione esistenziale inedita. Sono i cosiddetti NEET ( Not in Education, Employment or Training) che Bankitalia stima in 2,2 milioni in Italia, e che nel Mezzogiorno sono più del 30% dei giovani.  Non muoiono di fame e di stenti, come avveniva in passato in condizioni simili, ma muoiono lentamente sul piano della vita civile, si ritirano in sé stessi ed in una cerchia ristretti di amici, per lo più in condizioni simili.  Non praticano il “volontariato” che, come sappiamo, è positivamente correlato all’attività, per cui ci troviamo in una situazione, apparentemente paradossale, che si trovano più facilmente “volontari” nelle aree a più alta occupazione e ricchezza che in quelle a basso reddito ed alti livelli di disoccupazione. Questi giovani, specie quelli che vivono in piccoli centri urbani, hanno a disposizione due risorse rare nella società dei consumi: lo spazio ed il tempo. Due risorse fondamentali per la vita, che gli abitanti delle metropoli inseguono disperatamente, e che questi giovani hanno in abbondanza ma non sanno che farsene.

 

  • Giovani, povertà e Mezzogiorno: che fare ?

Tutte le forze politiche, o quasi, denunciano da anni la gravità della disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno, con una retorica stucchevole, senza indicare soluzioni, nella maggioranza dei casi.   Ogni possibilità di dare un futuro alle nuove generazioni, di contrastare la disoccupazione/ emigrazione di massa, viene ricondotto ad una formula magica: la crescita.   Peccato che la “crescita”, la ripresa, o come la si vuole chiamare viene rimandata di anno in anno. E’ come uno studente bocciato un anno dopo l’altro che non desiste.   Certo, a furia di crolli e cadute il Pil potrà un giorno lontano anche segnare un piccolo segno positivo, ma il trend di fondo è segnato.   Ci siamo incamminati in quella fase che già gli economisti classici avevano previsto – la lunga stagnazione- e che il ricco, e tecnologicamente avanzato, Giappone sta sperimentando da vent’anni. Il tema è dunque il seguente: come creare lavoro che abbia un senso- sul piano sociale ed ambientale- in una fase storica di <<lunga stagnazione>>.

Non vi è, ovviamente, una formula magica o un’unica ricetta.   Quello che deve essere chiaro è che non vi può essere nessuna risposta che non preveda un cambiamento nelle politiche nazionali, in quello che si chiama “modello di sviluppo”.   Non vi è certamente alcuna risposta dentro le attuali politiche di austerità, di taglio indiscriminato della spesa pubblica, nella presunzione di pagare un “debito pubblico” che è insostenibile e dovrà essere, insieme agli altri paesi europei, rinegoziato.   E’ questo un nodo centrale che nei limiti di queste note non possiamo approfondire, ma non possiamo ignorare.

Ammesso e non concesso, che la ragione prevarrà e usciremo fuori dal ricatto dello “spread” , resta il fatto che la Nuova Divisione Internazionale del Lavoro ci offre pochi spazi per pensare di puntare ancora sull’aumento delle esportazioni, mentre dovremmo pensare a ridurre alcune importazioni che hanno a che fare con la nostra “sovranità energetica ed alimentare”. [17]   Questo significa che abbiamo bisogno di promuovere il risparmio energetico e le energie rinnovabili, per ridurre l’importazione di combustibili fossili, migliorare la nostra bilancia commerciale e renderci meno dipendenti dalle montagne russe del prezzo del gas e del petrolio. Ugualmente, nei prossimi anni, la speculazione finanziaria ed il mutamento climatico, renderanno sempre più preziosa la produzione agricola e zootecnica di qualità ed il ruolo imprescindibile dell’agricoltura contadina, come ha sostenuto recentemente il presidente della Commissione Europea.   E’ evidente che nel campo delle energie rinnovabili e dell’agricoltura biologica il Mezzogiorno ha un grande ruolo da giocare, che si può tradurre in migliaia di nuovi posti di lavoro con una evidente utilità sociale ed ambientale.   Gli ultimi dati Istat ci dicono che il solo settore dove è cresciuta l’occupazione è il settore primario, ma potrebbe crescere molto di più solo se cambiasse il modo in cui funziona il mercato agro-alimentare e si utilizzassero le terre incolte (nell’ osso del Mezzogiorno ormai siamo vicini al 30%).   Ancora grandi spazi di manovra ci offrono gli investimenti in campo culturale, nella valorizzazione del patrimonio archeologico, storico, ecc. , nella ricerca applicata alle energie rinnovabili, alla bio-agricoltura, ai nuovi materiali ecologici, al risparmio di materie prime, ecc.

Questa è la riconversione ecologica del nostro modello che non è più un’idea astratta di ambientalisti utopisti, ma è diventata una necessità. Ma, questo cambiamento potrà avvenire solo nel medio-lungo periodo, mentre i giovani, soprattutto nel Mezzogiorno, hanno bisogno di una risposta hic et nunc. Per questo , in maniera schematica, formuliamo alcune proposte per il breve periodo:

a ) l’introduzione di un reddito di cittadinanza per tutti i giovani dai 18 ai 32 anni che non studiano, né lavorano;

  1. b) distribuzione, anche in comodato d’uso ventennale, delle terre incolte, degli immobili non utilizzati o confiscati alle mafie, a cooperative, imprese individuali, ecc. costituite preferibilmente da giovani meridionali ed immigrati extracomunitari (in particolare, indiani, pachistani, eritrei, etiopi, ecc.)[18]
  2. c) introduzione a livello di enti territoriali di una moneta locale complementare. Si tratta di una moneta di scopo che serve a ridare fiato all’economia locale-dato che può circolare solo in un ambito territoriale ristretto- e permettere agli enti locali (in primis i Comuni) di occupare i giovani in varie attività sociali e culturali di interesse comunitario.

 

Non abbiamo qui lo spazio per approfondire queste proposte. Possiamo solo dire che il reddito di cittadinanza per i giovani è una misura urgente per bloccare la fuga di massa dal Mezzogiorno, mettendo ovviamente dei vincoli di godibilità. Potrebbe essere agganciata a Lavori Ecologicamente Necessari ed essere prevista all’inizio solo per il Mezzogiorno, nella misura in cui non si ripetono gli errori fatti in passato per gli LSU ed LPU.   E questo può essere fatto solo con i “contratti di responsabilità territoriale” , che il sottoscritto –nella qualità di presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte- ha potuto implementare e dimostrarne l’efficacia nella lotta agli incendi e nella raccolta dei rifiuti. [19] Dove trovare le risorse finanziarie? E’ la solita obiezione a cui si può rispondere facilmente: attraverso una tassazione adeguata della rendita finanziaria, immobiliare, e dei redditi alti.

Sull’uso delle terre incolte, nonché sul sostegno alla piccola e media proprietà contadina sta diventando sempre più importante l’estensione delle reti di economia solidale, di cui i Gruppi di Acquisto Solidale sono una delle espressioni più importanti e conosciute. L’ente locale può favorire questi processi, come sta già avvenendo in alcuni Comuni della Lombardia, Toscana, Emilia, ecc. Si tratta di trovare le forme alternativa al mercato attuale gestito dalla grande distribuzione che fa il bello ed il cattivo tempo, imponendo ai produttori prezzi iniqui ed insostenibili, che generano ribellioni e tensioni sociali, che si scaricano spesso sull’anello più debole dello sfruttamento: gli immigrati. [20]

Infine, sulle monete locali complementari, questa misura –che si sta sperimentando in varie parti del mondo – fa parte di quel processo di recupero di una parte della “sovranità monetaria” che abbiamo perso.   Il fenomeno è ormai esploso in importanti città come Londra o Monaco ed è presente in varie forme anche in Italia, ma ancora allo stato embrionale e, purtroppo, senza l’intervento di una autorità pubblica, la sola che può dare valore ad una nuova moneta.[21]

Vorrei concludere dicendo che se non si interviene immediatamente per bloccare la fuga di massa dei giovani dal Mezzogiorno, qualunque intervento futuro sarà inutile perché mancheranno i soggetti sociali che possono produrre il cambiamento necessario. Non c’è più tempo.

[1] Cfr. T.R.. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, Utet, Torino, 1965, pag 323

[2] Vedi F. Quesnay, Il “Tableau économique” ed altri scritti di economia, Isedi, Milano, 1973, p. 37

[3] Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973 (ed. or.

[4] <<Con una spesa molto piccola lo Stato può facilitare, incoraggiare ed anche imporre a quasi tutta la massa del popolo la necessità di apprendere le parti più essenziali dell’educazione>> , A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973, p. 772

[5] Ibidem, p. 122

[6] Cfr   D. Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione, Isedi, Milano, 1976, pp. 70-71

[7] Ibidem pag. 70

[8] Cfr. J. Stuart Mill, Principi di economia politica, Utet, Torino, 1953, pp.350-52

[9] Ibidem pag. 355

[10] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro primo3, cap. XXIII°, Ed. Riuniti, Roma, 1956, pp 94-95

[11] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II° p. 268

[12] Vedi Giovanna Procacci, L’economia sociale ed il governo della miseria, in Aut-Aut, n° 167/68, La Nuova Italia, Firenze, 1978. Nello stesso numero della rivista vedi anche l’articolo di Manuel Castel, “La guerra alla povertà negli Stati Uniti e lo statuto della miseria nella società dell’abbondanza”.

[13] Sull’importanza e gli effetti di questa legge, nonché in vivacissimo dibattito politico e teorico, vedi K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1980, in particolare il capitolo settimo.

[14] Cfr. Alfred Marshal e M.P. Marshall, Economia della produzione, Isedi, Milano, 1975, pp. 48-49

[15] Sull’autoconsumo ed il dono come forme di integrazione del reddito abbiamo condotto un’indagine sul campo, nel 2001 nei paesi collinari e montani della provincia di Reggio Calabria, vedi “Aspromonte. I parchi nazionali nello sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino 2002

[16] A partire dagli anni ’60 del secolo scorso il rapporto “risparmio/impieghi” degli istituti bancari ha visto un continuo deficit a sfavore del Mezzogiorno ed a vantaggio del Nord. Vale a dire: una parte consistente del “risparmio delle famiglie meridionali” è stato utilizzato ed investito fuori dal territorio meridionale.

[17] Sulla necessità per tutti i paesi di riprendersi la sovranità energetica ed alimentare, come risposta alle “fluttuazioni giganti” della Borsa ed al mutamento climatico, vedi T. Perna, Eventi Estremi. Come salvare il pianeta e noi stessi dalle tempeste climatiche e finanziarie, Altreconomia Ed., Milano, 2011.

[18] Nella nostra esperienza sul campo, a partire dal noto progetto di Badolato e Riace, abbiamo potuto verificare gli extracomunitari, provenienti dai paesi sovra citati , sono i soggetti più adatti a coltivare le terre incolte e renderle produttive, fermo restando che abbisognano di una filiera virtuosa come quella dei Gruppi di Acquisto Solidale

[19] Vedi su queste esperienze e sul “contratto di responsabilità territoriale” T. Perna, Aspromonte…., op. cit.

[20] Vedi il caso della rivolta di Rosarno del gennaio 2010, oggi approfondito all’interno della filiera agrumicola nel saggio di F. Mostaccio, La guerra delle arance, Rubettino ed. Soveria Mannelli, 2012

[21] Sul piano teorico, vedi il saggio di Bernard Lietaer, The Future of Money . Creating New Wealth, Work, and a Wiser World, Random House Group, London, 2001.

Per la Calabria. Contro la “calabresità” e i “calabresismi” di Vito Teti

Per la Calabria. Contro la “calabresità” e i “calabresismi” di Vito Teti

Intanto, i giornali locali parlano della «grande dimenticata», della «grande silenziosa», cioè la Calabria. Dicono sempre che in questa terra, poiché era ricca di vitelli, nacque il nome d’Italia, e ne rivendicano la proprietà letteraria. Prospera qui, non si sa come, in una contrada semplice, vera, scabra, una inaspettata retorica, tarda eco della retorica nazionale. Quasi tutto quello che si legge qui della Calabria, a parte la letteratura dialettale, è rivolto in genere a magnificare una Calabria che non esiste più, e cioè le colonie greche, e Sibari, e Locri. La tendènza è al classico. Il povero bracciante fugge nell’emigrazione, e l’intellettuale fugge nel passato. La retorica si, quella è nazionale (Corrado Alvaro, Un treno nel Sud, 1958).

 

 

  1. Lo slogan fiacco e vuoto della «calabresità»

«L’identità è diventato oggi uno slogan brandito come un totem o ripetuto in maniera compulsiva come una evidenza che sembrerebbe aver risolto proprio ciò che risulta problematico: il suo contenuto, i suoi limiti, la sua stessa possibilità». Le considerazioni dell’antropologo François Laplantine (Identità e métissage, 2004) mettono in guardia dall’uso approssimativo, inadeguato, minaccioso, angusto di tale termine. Le considerazioni critiche sull’identità vanno assunte criticamente e problematicamente in una terra dove opinionisti improvvisati, incompetenti (e buoni per tutte le stagioni), «maestri pensatori», che non leggono e non studiano e però non ci risparmiano le loro verità assolute, le loro certezze indiscutibili, i loro idoli offerti alla devozione di tutti noi. Il discorso sull’identità non è superfluo o scontato dal momento che, a mio modo di vedere, molti dei mali del Sud e della Calabria – molte dati negativi che ci riguardano, certo dovuti a ragioni storiche, economiche, sociali, al rapporto Nord-Sud – dipendono anche da un malinteso senso dell’identità, dall’ossessione e dalla boria identitaria che vede avvinghiati politici e certi commentatori funzionali alla politica-politicante di tutti i colori e le trasversalità.

La rivendicazione d’identità, in realtà, in molti commentatori che oscillano tra sterile nostalgia e rivendicazionismo-revisionismo, ha un carattere estremamente vago, dissimula più di quanto non chiarisca. I discorsi sull’identità quasi sempre da noi rivendicazione sterile, costruzione astorica, formule inconcludenti, artifici per non fare i conti con se stessi. Si afferma e non si dimostra, si assume e non si argomenta. Uno dei termini più usati e più abusati, di recente invenzione, nell’affrontare questioni relative al modo di essere e di sentirsi degli abitanti della nostra regione, è «calabresità». Quel termine, a cui pochi si sottraggono, racconta una presunta diversità/superiorità più pelosa e indimostrata. Lo considero un termine, forse, inevitabile, ma anche molto ambiguo ed ingombrante. Certo poco efficace, anzi sterile, ai fini di una reale comprensione delle dinamiche e delle vicende identitarie della Calabria. Il problema è che «calabresità», termine vago e generico, dice tutto e il contrario di tutto. Viene, infatti, inventato «il calabrese» (altre volte «bruzio») idealtipico (come scriveva Augusto Placanica) che nella realtà non è mai esistito. In altre parole il termine «calabresità» finisce col dare per scontata una sorta di identità astorica, perenne, chiusa, facilmente individuabile, quasi pesabile e quantificabile. Quel termine sembra ignorare le mille Calabrie che si sono succedute nella storia, dall’antichità ai nostri giorni, distribuite e differenziate sul territorio, dislocate altrove. Occulta il sovrapporsi e il combinarsi di civiltà, di culture, di tradizioni, di lingue, le impronte e i segni lasciati in eredità da diversi dominatori. Sottovaluta che la storia della regione è segnata da contrasti, doppiezze, diversità, da luci e da ombre, che difficilmente possono essere riportate a una cifra unitaria o rinchiuse in una sorta di slogan identitario. La retorica della «calabresità», non di rado, è il risultato di un’angusta e risentita risposta alle immagini e alle negazioni esterne, che segnano la nostra regione in epoca moderna e ancora ai nostri giorni. Agli intellettuali e agli studiosi, ai calabresi in genere è stato consegnato un fardello pesante: fare sempre, qualsiasi cosa scrivono o dicono, una sorta di preambolo, una preliminare dichiarazione di intenti, una difesa d’ufficio, la confutazione di quello che altri hanno scritto o detto. Bisogna sempre dimostrare qualcosa, confutare (o osannare) qualcuno. Si passa senza soluzioni di continuità dalla lamentela di non essere riconosciuti al compiacimento di sentirsi superiori. La colpa è sempre degli altri. Sia che ci riconoscano sia che ci neghino.

Calabria 1976 (c) photo Salvatore Piermarini

Se poi i giornali, per un qualche motivo, parlano bene di noi, allora sono nel giusto, finalmente capiscono. Il paradosso di tanti pregiudizi rovesciati, combinati ad autostereotipi, è quello di alimentare delle risposte di difesa, talvolta risentite, che spesso finiscono col negare non solo le immagini esterne, ma anche gli aspetti negativi della realtà regionale. L’affermazione di una generica e imprecisata «calabresità» è portata avanti per difendersi dagli altri, per confutarne il loro punto di vista, talvolta per farsi accettare, per promuoversi, in maniera ostentata. Ne viene fuori una risposta spesso angusta, tipica di chi si sente assediato e non riesce ad elaborare autonomamente, in relazione e non in opposizione agli altri, un senso di sé e della propria storia. Inutile occultare una sorta di arroccamento identitario, che si afferma nel tempo anche come risposta a immagini e a pregiudizi esterni anticalabresi che non nascono all’indomani dell’unificazione nazionale (anche se nella seconda metà dell’Ottocento i positivisti parleranno di razza) ma risalgono almeno al Cinquecento e sono presenti in Europa e a Napoli nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento. Un fuoco di immagini negative – che vanno spiegate e distinte nei diversi periodi storici – alla fine hanno generato una psicologia degli assediati e dei dimenticati, di chi si sente sempre sotto osservazione o sempre ignorato, di chi teme, aspetta, rifiuta, incoraggia, il giudizio degli altri. Questi meccanismi accentuano introspezioni esasperate, chiusure, risentimenti, tendenze all’introspezione che finiscono col confermare gli stereotipi che si vuole negare. Finiscono col rendere i calabresi davvero patologicamente melanconici, insicuri, sfiduciati. E spesso finiscono con il diventare complici del gioco degli sguardi esterni. In tutti i casi si rivela sempre una sorta di soggezione e di dipendenza, di mancanza di autonomia, di fronte a quello che di noi è stato detto o non detto. Quella dei calabresi appare spesso una costruzione identitaria risentita, talvolta rancorosa, proprio per le negazioni esterne. In tutto quello che fanno, i calabresi è come se dovessero mostrare e dimostrare qualcosa agli altri, dovessero superare un handicap dovuto a una negazione o a riconoscimenti esterni. Lo scivolamento nell’autostereotipo è quasi automatico in tanta scrittura che dipende dalle immagini “orientaliste” e “mediterraneiste” costruite fuori dalla regione e che trova non pochi adepti a livello locale (si vedano su questi aspetti alcune riflessioni di Luigi M. Lombardi Satriani, Battista Sangineto, Francescomaria Tedesco).

 

La «calabresità» intesa come identità pura e monolitica, quasi monocromatica, ha i suoi categorici e indimostrabili presupposti, ha anche i suoi corollari, sui quali bisognerebbe soffermarsi a lungo. Una delle conseguenze della costruzione di una sorta di riserva, scampata alle contaminazioni e ai processi di modernizzazione, è il proliferare dei suoi custodi, di quelli che sanno pesare il tasso di «calabresità» dei corregionali rimasti o partiti, che consegnano una sorta di patente, che giudicano il senso di appartenenza. Il mondo dell’emigrazione, di solito, quasi paradossalmente, in quanto mondo delle contaminazioni e dei mutamenti, viene individuato come una sorta di isola dove si conserverebbe un’«identità calabrese» vera, pura, integra, monocromatica. Spesso sono gli emigrati, i calabresi che vivono fuori, gli esuli ad essere sottoposti a una sorta di dosaggio della calabresità. Quanto si è o non si è rimasto calabrese, pure vivendo fuori, come si ricorda o si dimentica la terra di origine, come se ne parla, quanta Calabria resta o appare nelle opere del tale o talaltro scrittore che vive fuori? Sono alcune delle domande che periodicamente angustiano quanti vanno alla ricerca di «glorie locali» che vivono fuori e cui viene assegnato, in maniera ingenua e insieme faticosa, il compito di nobilitare i rimasti. Come se il successo, vero o presunto, dei partiti compensasse il disagio e il malessere dei rimasti. Con i calabresi che hanno avuto successo e notorietà nel campo delle professioni, del pubblico impiego, dei mestieri, della politica la valutazione è abbastanza lineare e la considerazione alquanto semplice: «vedete come siamo bravi noi calabresi fuori della Calabria». L’universo lasciato può diventare motivo d’ispirazione, elemento di memoria, ma anche una sorta di ossessione, un dato di disagio, il luogo della nostalgia, cui ti riportano anche le immagini costruite da coloro che sono rimasti. La valutazione, da parte dei custodi di un’identità intesa in maniera granitica, talora ha toni di entusiasmo lacrimevole, altre volte di disapprovazione e di delusione. Termini e concetti come classicità, bellezza, memoria, tradizione, modernità, identità nelle regioni del Sud e in Calabria vengono adoperati ora per discorsi che ineriscono alla persuasione ora per posizioni che sfociano nella retorica. In una terra di contrasti e di dualismi, dove mancano la mediazione e la conciliazione, basta poco perché qualcosa si trasformi immediatamente nel suo contrario. E così le risorse diventano condanna e anche la «felicità» dei luoghi viene trasformata in maledizione, quasi facendo avverare una sorta di profezia razzista che hanno elaborato e inventato, come scrivevo nel 1993, i teorici della «razza maledetta».

 

  1. Calabria 1978 (c) photo Salvatore Piermarini

    Esiti paradossali delle retoriche identitarie

Il risultato è l’invenzione di un’identità chiusa, risentita, non propositiva, dipendente dalle immagini esterne, ora confutate ora riconosciute, rivendicazionista, non costruttiva e rivolta al futuro, ma lacrimevole e rivolta al passato. Un’identità astorica, angusta, inesistente, consolatoria, autoassolutoria, autoreferenziale. Un’identità retorica costruita su revisionismi storici improbabili, su mitologie del buon tempo antico mai esistito, su un idealismo utopistico del passato, su asserzioni giustificazioniste, spesso ammantate da pseudogarantismo (sempre attento alle ragioni dei potenti, dei carnefici e mai delle vittime). In maniera indimostrata si afferma, ad esempio, che la ’ndrangheta ha avuto un carattere popolare ed è stata la continuità del brigantaggio o che esiste una diversità tra una vecchia e buona ’ndrangheta e una criminale nel presente. Nulla di più falso, come storici e antropologi hanno dimostrato. Spesso la «calabresità» sfocia anche in una sorta di comprensione-giustificazione della criminalità e nell’ indifferenza dinnanzi all’inquietante onnipresenza delle mafie come ci si trovasse dinnanzi a un problema irrilevante o secondario.

La «calabresità» spinta all’estremo si trasforma così in una sorta di autorappresentazione ’ndranghetista della regione alla quale partecipano anche i ceti professionisti e intellettuali. La colpa e le responsabilità sono sempre degli altri: «noi» siamo belli, puri, incompresi sempre e comunque anche quando qualcuno compie i crimini più odiosi. Si urla sempre alla criminalizzazione della regione dall’esterno e si occulta quanto i locali si impegnino a costruire autostereotipi che accolgono e amplificano i pregiudizi esterni. Di tutto questo bisognerebbe parlare con pacatezza e con argomenti seri, anche perché su molti giornali e sui blog la tendenza è alla superficialità, alle affermazioni indimostrate, alla lamentela autoassolutoria o alla denuncia di maniera. Ogni discorso e progetto autentico «per la Calabria» – un amore profondo e veritiero per la propria terra – non può che passare attraverso la decostruzione e la demitizzazione della «calabresità».

Non esiste l’identità fatta a pesi e a pezzetti. Che cosa sono la «calabresità», la «napoletanità», la «piemontesità», la «sicilianità» se non invenzioni e costruzioni identitarie felici quando parlano di aperture e di somiglianze? E adesso non ci si accontenta della «calabresità»: si invoca e si inventa la «cosentinità», la «regginità», la «vibonesità» sempre declinate in maniera angusta e autoreferenziale. Piccole vedette della «calabresità» crescono, senza aperture, senza letture, senza viaggiare, e contribuiscono a frammentare, separare, lacerare le diverse aree della Calabria, molto di più di quanto non abbiano fatto la geografia, la storia, le catastrofi, e di recente la politica che sulle divisioni prospera e la criminalità che si divide il controllo del territorio.

Calabria 1981 (c) photo Salvatore Piermarini (2)
Calabria 1982 (c) photo Salvatore Piermarini (2)

Si scrivono ripetitivi interventi banali sul neorazzismo antimeridionale (che esiste e come) senza capire cosa sta succedendo a livello globale, senza legare quel razzismo a più generali xenofobie e si fa finta di non vedere che la Lega e il leghismo (almeno nelle versioni attuali cariche di xenofobie) ha proseliti anche al Sud e anche da noi. Al localismo leghista spesso si è risposto con un localismo di segno opposto in nome di un Sud mitizzato nel suo passato. Nel 1993 ne La razza maledetta segnalavo Il rischio che alle tendenze secessioniste del Nord, il Sud potesse rispondere, come ricordava Giovanni Russo, con miti e nostalgie filoborbonici, scendendo sul terreno «separatista» prediletto dai leghisti (I nipotini di Lombroso, 1992). Isaia Sales (Leghisti e sudisti, 1993) temeva che in Italia ci si dividesse in «leghisti» e «sudisti». A distanza di un ventennio, possiamo costatare come quei rischi fossero concreti e del tutto fondati. Alla lunga sono affiorate, al Sud, accanto a risposte serie e aperte, posizioni localistiche funzionali al sentimento antiunitario della Lega. Nel tempo, la Lega ha occultato il razzismo antimeridionale con la xenofobia anti-immigrati, che spesso ha contagiato anche il Sud. Adesso i localismi al Nord e al Sud sembrano trovare una sorta di incontro in nome di una presunta difesa dell’Occidente dalle invasioni degli stranieri. Non ci si è accorti dei discorsi razzisti che sono proliferati nelle nostre campagne e nei nostri paesi contro immigrati e stranieri. Non ci si è accorti che chiusure anguste, difese d’ufficio di un’inesistente identità granitica e incontaminata, gruppi xenofobi e localisti, organizzazione criminale e pensiero filondranghetista potrebbero trovare una convergenza di interessi concerti e di rassicurazioni e garanzie (a proposito di garantismo) nella Lega di Salvini, sempre meno interessata alla Padania, ma interprete di tutte le forme di opposizione allo straniero e agli altri inserite in una cornice nazionale, come è avvenuto per il lepenismo in Francia. E così nata come movimento politico antimeridionale e separatista, la Lega si è trasformata in movimento anti-immigrati che mette assieme i tanti localismi, le paure, le ansie, le xenofobie, le retoriche identitarie presenti ovunque in Italia e, come sappiamo, nel resto di Europa. La possibile deriva leghista anche al Sud chiama in causa i tanti commentatori che si sono rinchiusi in proclami e lamentele con le insegne logore del localismo meridionale, negazione più subdola di quella cultura meridionale illuminata, illuminista, risorgimentale, meridionalista che è quanto di più originale e innovativo e oppositivo abbiano prodotto dalla fine del Settecento ai nostri giorni le élites pensanti e critiche del Meridione o amiche del Meridione.

 

  1. Per un’identità aperta, problematica e del fare

Le identità non hanno nulla di pacificato e di definito, parlano di ricerca, apertura, scommesse, sofferenze. Le narrazioni del/sul Sud non possono essere ridotte a favolette, a leggende, a mitizzazioni edulcorate, a volte interessate. Ogni discorso sull’identità richiede un rapporto autentico e sofferto con la propria storia, con le tradizioni plurali e le vicende controverse della regione. Necessita di invenzione, fantasia, immaginazione. La costruzione dell’identità richiede la capacità di cogliere i mutamenti del passato e quelli recenti e in corso senza restare ancorati a un passato indefinito e immaginato. Occorre guardare al mondo, alla cultura critica ed esterna. Non bisogna avere paura delle novità, di camminare, viaggiare, mettersi in discussione, praticare l’arte e l’etica di un restare spaesante, inquieto, problematico. Bisogna riconoscere i lati ombrosi della propria storia collettiva ed individuale. Occorre guardare al nostro «interno» senza raccontarci favole, senza scambiare i fantasmi del passato per ombre benevole. Bisogna scrutarsi senza indulgenza, senza autolesionismi, ma senza comodi discorsi autoassolutori. Le responsabilità non sono sempre altrove, non bisogna lanciare la palla in un presunto campo avversario e fuori dagli spalti. Le responsabilità sono anche qui ed ora, anche nostre. L’autoascolto e l’autosservazione non debbono tradursi in lacrimevole rimpianto, in inutile compiacimento, ma in una capacità di fare i conti con il proprio passato per affermare una diversa presenza e una problematica soggettività. Bisogna cambiare prospettiva, guardare con altro sguardo, avere riguardo e cura anche delle proprie fragilità, senza paura di dire la verità. Vale ancora quanto raccomandava Franco Costabile un grande e sofferto poeta calabrese:

Calabria 1985 (c) photo Salvatore Piermarini

Ecco

io e te, Meridione,

dobbiamo parlarci una volta,

ragionare davvero con calma,

da soli,

senza raccontarci fantasie

sulle nostre contrade.

Noi dobbiamo deciderci

con questo cuore troppo cantastorie.

Ogni abitante del Sud si trova ancora a dover decidere, a scegliere. Si tratta di una posizione non facile, minoritaria, appartenente a una tradizione insieme illuminata e «sentimentale». In controtendenza perché a prevalere sono i fautori di un’identità angusta e risentita. Eppure non bisogna raccontarsi tante fantasie. Di recente importanti e coraggiosi intellettuali, giornalisti, studiosi che denunciano la presenza ossessiva della criminalità organizzata sono stati indicati come calunniatori della loro terra, accusati di mostrarne soltanto gli aspetti negativi. E anche autori importanti cadono nella trappola di dover dichiarare, in ogni discorso, in maniera preliminare, che la Calabria non è solo ’ndrangheta. Una giustificazione non richiesta, che mostra tutti i limiti nella capacità di rappresentarsi e raccontarsi anche con le proprie contraddizioni, con i propri limiti, le proprie responsabilità.

Salvatore Piermarini, Marchesato di Calabria 1981

«Solo in te ipso»: la soluzione sta in noi stessi e non negli altri, ricordava Olindo Malagodi a inizio secolo a quei calabresi che parlavano sempre male di loro stessi e poi davano la colpa sempre agli altri. La soluzione e la salvezza stanno in noi stessi: non è compito degli altri. Appare indispensabile condannare ogni forma di razzismo e di sopraffazione che riguardano gli altri. Non si è credibili contro i leghismi se poi ci si abbandona a una sorta di sterile sentimento di superiorità o anche ad atteggiamenti nei confronti degli altri. Occorre, certo, fare i conti con gli stereotipi che ci riguardano, ma anche, come diceva Croce, cercare di capire se non siano stati originati anche da comportamenti e rappresentazioni delle stesse popolazioni. Occorre contrastare con argomenti le immagini negative, con la consapevolezza che lo stereotipo, però, va negato con i comportamenti, con i fatti, con scelte coraggiose. Certo di fronte a separatismi che permangono, a razzismi e leghismi che nascono in Europa, i problemi non si risolvono soltanto confutando, come è giusto, immagini negative esterne e interne. Servono progetti. Serve un’identità da costruire sul «fare» e non soltanto sull’ «essere» (che da noi diventa «presunzione» di essere o apparenza). Serve però un fare eticamente orientato, con un telos, una prospettiva, un’utopia. Un’identità come pratica, come progetto, come continua costruzione, che non dimentichi il passato e la tradizione, sappia invece recuperarli come memoria e per i segni attuali che inviano, e si proietti, con fatica, nel presente e nel futuro. Soltanto allora paesaggi, bellezze, montagne, colline, coste, mare, sole, clima, varietà e mescolanza di prodotti, organizzazione degli spazi, ritualità, tradizioni culturali, religiosi e alimentari, rapporti familiari e comunitari possono essere assunti come elementi costitutivi di un’identità che non è data bella e pronta, consegnata una volta per sempre. I molteplici e colorati elementi costituitivi dell’identità potranno diventare delle risorse a condizione di saperli leggere nella loro storicità e mobilità, nella loro complessità, nella loro ambiguità. Essi possono essere la linfa di una nuova consapevolezza, i materiali con cui affrontare nuove sfide, ma anche una sorta di camicia pesante di cui è difficile liberarsi e di cui si può restare prigionieri. Paesaggi, luoghi, valori e pratiche, frutto di complesse vicende storiche, di mille incontri e scontri di popoli, di aperture e di chiusure, sono segnati da una sottile linea d’ombra. Possono costituire punti di forza o di debolezza, tratti di un’identità da rivendicare o di un’identità angusta da superare. «Persuasione», come diceva Carlo Michelstaedter (La persuasione e la rettorica, 1982), è il tentativo sempre vanificato dalla manchevolezza irriducibile della vita, di giungere al possesso di sé stessi. Non di meno la persuasione è una via da perseguire per contrastare quanto più possibile la retorica, le ombre, le favole, i pregiudizi che occultano la «verità» e la possibilità di cambiare lo stato delle cose.

Nota. Questo scritto è il testo di una relazione (dal titolo “L’identità: tra retorica e persuasione”) presentata al seminario di studi “La Calabria che vogliamo: Istruzione, Alta formazione, Cultura e Beni Culturali” che si è svolto al Museo Archeologico in occasione dell’incontro sulle identità che si è svolto a Reggio Calabria al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, giovedì 3 ottobre alle ore 9. 30, promosso dell’Associazione ex Consiglieri Regionali della Calabria e poi pubblicato sulla rivista della stessa Associazione. Eravamo ancora lontani dall’esplosione della xenofobia antiimmigrati e anche dal successo elettorale della Lega e dei localismi al Sud e in Calabria. Proprio per questo mi sembra opportuno riproporre uno scritto datato, ma ancora attuale. Gli stereotipi e gli autostereotipi, le narrazioni “meditarreneiste” e retoriche, senza alcuna profondità storica e problematicità antropologica, sulla Calabria e su Sud purtroppo continuano a prosperare su fogli, riviste, giornali cartacei e on line.

Su queste tematiche mi sono diffusamente soffermato già a partire da inizio anni Novanta del secolo scorso. Per ulteriori riferimenti, approfondimenti e indicazioni bibliografiche mi sia consentito rinviare ai miei: La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale (Manifestolibri, 1993; n. ed. ampliata 2011) e Maledetto Sud (Einaudi, 2013).

 

 

Si ringrazia Salvatore Piermarini, autore delle foto, per la sua generosa disponibilità.

 

 

 

Economia criminale, riappropriazione delle terre e “altreconomia “ nel Mezzogiorno di Tonino Perna

Economia criminale, riappropriazione delle terre e “altreconomia “ nel Mezzogiorno di Tonino Perna

Vorrei partire da un evento : sabato 7 maggio 2016 a Reggio Calabria, storica capitale della più potente organizzazione criminale italiana- la ‘ndrangheta- è stata inaugurata una esposizione permanente, presso il Palacultura, dei 104 quadri sequestrati all’imprenditore “ndranghetista” Gioacchino Campolo. Si tratta di opere di grandi artisti : da Dalì a Fontana, da Sironi a De Chirico, da Ligabue a Carrà, ecc. per un valore di svariati milioni di euro. Potrà sembrare un fatto marginale, ma questa operazione fortemente voluta dall’assessore provinciale alla cultura Edoardo Lamberti e condivisa dalle altre istituzioni locali, ha un significato che va al di là della contingenza: una ricchezza privata, posseduta da una esponente della nuova borghesia mafiosa, viene espropriato e diventa un bene fruibile gratuitamente da tutta la collettività, un Bene Comune. Non basta. Nella stessa giornata, il direttore Umberto Postiglione dell’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla Criminalità Organizzata, ha consegnato al Comune di Reggio 21 immobili da utilizzare per finalità sociali, 19 unità immobiliare da destinare ad attività commerciali con i proventi dell’affitto da destinare a progetti nel campo sociale, 24 immobili da abitazione da destinare alle fasce sociali più svantaggiate.

Dovremmo riflettere attentamente sul valore sociale e politico di questi ed altri dati. Come si legge in un report di Pierpaolo Romani[1], presidente di Avviso Pubblico : dal 1982 ad oggi i beni immobili confiscati alle mafie superano le 23.000 unità e 3.500 sono le aziende confiscate. Al primo posto la Sicilia con oltre 5.000 beni immobili confiscati, seguita dalla Campania, Calabria, e Lombardia dove la penetrazione delle organizzazioni criminali sta crescendo a vista d’occhio. Sono complessivamente 12.480 i beni confiscati alle mafie e restituiti alla collettività: 11.604 beni immobili e 876 imprese. Palermo è il Comune con il maggior numero di beni confiscati (1.744), seguita da Reggio Calabria (386), Napoli(233) e Milano (217). Oltre la metà dei beni immobili è utilizzato per finalità sociali. Secondo Rosy Bindi, la presidente della Commissione Parlamentare antimafia, i beni confiscati alle mafie , o meglio alla borghesia mafiosa, valgono circa 25 miliardi al momento del sequestro ( poi per le lungaggini burocratiche perdono negli anni di valore per cui una stima credibile è difficile).

 

La deriva criminale del capitalismo

Sappiamo bene che il sistema di destinazione sociale di questi beni, grazie alla Legge 109/96 voluta da Libera che raccolse all’epoca un milione di firme, è ancora poco efficiente e farraginoso, ma quello che conta è la direzione. Stiamo andando, infatti, verso una redistribuzione della ricchezza che passa dalle mani della borghesia “mafiosa”, la nuova classe sociale emergente, a quella delle cooperative di giovani che coltivano le terre confiscate, a spazi pubblici , a servizi sociali, agli enti locali. Grazie al sacrificio del mai ricordato abbastanza Pio La Torre abbiamo in Italia una legge che colpisce al cuore l’accumulazione mafiosa del capitale. Una legislazione che ci stanno copiando tanti altri paesi che sono duramente colpiti dal dominio di questa nuova borghesia che usa i proventi dei mercati illegali per controllare in misura crescente l’economia e le istituzioni di paesi piccoli (come il Montenegro) e grandi (come il Messico).

La deriva criminale del capitalismo è ormai un fatto palese che viene ancora negato dall’ideologia del libero mercato, del pensiero unico che lo riduce al rango di devianza sociale. Non vorrei essere frainteso: non esiste un capitalismo buono ed uno criminale, ma esiste una linea di demarcazione tra imprenditori ed imprese che hanno dei vincoli sociali e etici e imprenditori/imprese che agiscono “liberamente”al solo scopo di massimizzare il profitto. Per esempio le imprese multinazionali che in Centro America hanno per decenni finanziato gli squadroni della morte per tenere sotto scacco i lavoratori che si organizzavano e si ribellavano, non sono per nulla diversi da quei mafiosi che ti fanno saltare il negozio se non gli paghi il “pizzo”. Ma, l’emergente borghesia mafiosa o criminale ha un suo specifico modo di operare: da una parte controlla il territorio dove è insediata, attraverso il suo braccio armato, dall’altra opera “legalmente” nel mercato capitalistico tradizionale investendo i proventi delle attività illegali. Questa nuova borghesia è l’unica classe sociale ad essere veramente glocal: è radicata nel proprio territorio, dove trova protezione e controlla/riproduce l’esercito criminale di riserva, ed allo stesso tempo agisce a livello internazionale, sia sul piano commerciale che finanziario. Ciò che contraddistingue questa nuova borghesia è la velocità con cui riesce ad accumulare il capitale attraverso gli extraprofitti generati dai mercati illegali (droghe, armi, rifiuti tossici, ecc.), paragonabile solo alle enormi fortune accumulate dai grandi speculatori di Borsa.   Ed è spesso proprio nelle Borse di tutto il mondo, oltre che nei paradisi fiscali, che l’accumulazione criminale del capitale trova il suo sbocco, oltre che nell’acquisto di case e terreni, di preziosi e di oro, di aziende grandi e piccole, in tutto il mondo. Non a caso abbiamo ormai un intreccio inestricabile tra borghesia finanziaria e borghesia mafiosa, veri padroni dell’economia mondo.

Come scriveva il grande Fernand Braudel in “Dinamica del capitalismo”[2] il vero motore di questo sistema, che va distinto dall’economia mercantile, è l’extraprofitto, il profitto eccezionale che si può ricavare in alcuni settori e fasi del ciclo economico.  Alti rischi ed alti profitti segnano il passaggio dall’economia di mercato (quella descritta da Marx con la sequenza Merce-Denaro-Merce) al mercato capitalistico in cui l’accumulazione di capitale è il fine assoluto (la sequenza diviene Denaro-Merce-Denaro). Questo modo di produzione era destinato, secondo Marx, ad una polarizzazione sociale crescente che avrebbe creato le condizioni per una rivoluzione ed un cambio di sistema. Questa polarizzazione la stiamo vivendo e subendo, è certificata anche dal famoso saggio di Piketty[3] sulle diseguaglianze patrimoniali crescenti, ma non ha finora generato quella reazione di massa, la rivoluzione di quella maggioranza della popolazione che viene sempre più impoverita.   Quello che Marx non poteva prevedere era che la componente criminale diventasse dominante e creasse una nuova contraddizione di classe. Non solo. Abbiamo scoperto in questi ultimi decenni che anche le forme dell’accumulazione originaria[4] non appartengono solo al passato, al periodo coloniale ed a quello delle inclosures (recinzioni delle terre ed espulsione dei contadini) , ma nelle aree periferiche esiste una via criminale al capitalismo che rappresenta un’altra forma di accumulazione originaria che crea quel capitale necessario per avviare un processo di sviluppo capitalistico.   Un processo sempre più violento e distruttivo proprio nelle aree dove l’inserimento nel mercato globale e nella mercificazione onnivora è stato più veloce.

 

 

Le alternative all’economia criminale

Direi di più: il carattere distruttivo del capitalismo maturo, ben documentato da Piero Bevilacqua nel “Il grande saccheggio”[5], non riguarda solo la sfera ambientale, la distruzione degli ecosistemi, ma anche quella sociale ed economica. E qui è entrata sulla scena della storia quella reazione sociale che Karl Polanyi definiva come “autodifesa della società”. Ed è proprio il nostro paese, in cui sono state poste le basi di questa autodifesa sociale, che dovremmo guardare con estrema attenzione. L’Italia, anche in questo caso, si presenta come un laboratorio politico di prima grandezza. Siamo stati il paese che ha inventato il fascismo come forma di governo (poi imitato da tanti), quello che ha avuto il più grande partito comunista d’occidente, il sindacato più forte e conflittuale (anni ’60 e ’70), e siamo anche il paese occidentale dove più rapida e violenta è stata la penetrazione dell’economia criminale, ma altrettanto forte è stata la risposta. Innanzitutto, nel Mezzogiorno.

Val la pena qui richiamare molto brevemente la condizione sociale ed economica del nostro Sud Italia in questi anni di Lunga Recessione. Come ci dicono tutti gli indicatori economici il Mezzogiorno ha subito un impatto dalla crisi che è stato mediamente il doppio di quello che si è riscontrato nel Centro-Nord : il 16% in meno di Pil rispetto all’8% del C-N, un tasso di disoccupazione che ha raggiunto l’apice del 24% contro l’11 % del C-N, una caduta degli investimenti di oltre il 50% contro una caduta nel C-N di circa il 24%, e via dicendo.[6] In questa situazione di forte impoverimento di ceti medi e popolari, la morsa della economia criminale è diventata insostenibile. In questo scenario va letta la reazione di una parte della società al predominio delle mafie. Una reazione che ha portato in breve tempo ad una intensificazione della lotta di classe in varie aree del Mezzogiorno tra le organizzazioni criminali e imprese locali, cooperative, imprese sociali, che hanno avuto dallo Stato la gestione di beni (terreni, case, aziende) confiscate alla borghesia mafiosa. Come in passato la lotta di classe nel Mezzogiorno vedeva da una parte gli agrari e dall’altra le masse contadine impoverite, così oggi abbiamo da una parte la nuova borghesia mafiosa – che controlla non solo una buona parte dell’economia locale, ma anche una parte importante delle istituzioni locali- e dall’altra imprese individuali, cooperative sociali, movimenti anti- mafia, che si oppongono con determinazione e coraggio.

 

 

Sono soprattutto le tre regioni a più forte presenza dell’economia criminale dove si registra da anni una vera e propria guerra a bassa intensità condotta dai mafiosi-‘ndranghetisti-camorristi a cui sono stati confiscati i beni accumulati con i proventi dell’economia criminale. Migliaia di alberi tagliati (di ulivo, kiwi, melograno, ecc.), di case e terreni dati alle fiamme, di bombe a negozi ed altri beni immobili. Da Sessa Aurunca, dove la cooperativa “Al di là dei sogni” subisce da anni attacchi continui a Progetto Sud a Lamezia, una straordinaria comunità animata da Don Giacomo Panizza che è impegnata da mezzo secolo nell’inclusione di soggetti svantaggiati , alla Coop. Valle del Marno nella piana di Gioia Tauro a cui sono arrivati a tagliare in una sola notte centinaia di ulivi secolari, alle cooperative agricole di Libera in Sicilia e Calabria(Crotone), alla cooperativa “Giovani in vita” di Cittanova, al Consorzio di cooperative Goel, noto ormai in tutta Italia, che negli ultimi tre anni ha subito più di dieci attentati, a Michele Luccisano, presidente di “Calabria Solidale” che ha mandato in galera gli usurai/mafiosi, a cui hanno fatto saltare in aria più volte l’azienda di produzione di olio di oliva, ecc. ecc. Abbiamo citato solo alcuni casi di un panorama ben più vasto[7]  che mette a dura prova queste esperienze, ma anche le rafforza perché crea intorno a queste cooperative o imprese sociali una rete robusta di solidarietà, base fondamentale di una “Altreconomia”.   Ed è questo un punto fondamentale.

Da diverse ricerche sul campo emerge che i beni e le aziende confiscate all’economia criminale hanno difficoltà a sopravvivere nell’agone del mercato capitalistico che tende a distruggerle in breve tempo, dimostrando che gli imprenditori mafiosi gestiscono le aziende meglio dello Stato e delle cooperative giovanili. I motivi sono diversi. Il primo è l’isolamento sociale di cui è vittima chi va a gestire un’azienda o terreno confiscato alla borghesia mafiosa.   L’impresa mafiosa è bene embebedd nel territorio in cui è localizzata, ha una rete di acquisti e di vendita che non è facile riprodurre o riprendere in mano. Il secondo motivo è che tutte queste esperienze sono per lo più portate avanti da giovani che non hanno capitali iniziali rilevanti da investire, hanno difficoltà di accesso al credito ordinario, sono quindi ricattabili sul prezzo di vendita dei loro prodotti da parte delle grandi imprese. Questo è per altro il vero problema di tutta l’agricoltura contadina in tutta Italia, ma riguarda anche altri settori. Il piccolo produttore è strangolato dai meccanismi del mercato oligopolistico (che Scalfari definirebbe mercato democratico) e solo una rete alternativa di vendita dei propri prodotti , come quella che si basa sui principi del “commercio equo e solidale”, può permettergli di vivere e lavorare con dignità. Per fare un esempio, chiaro e diretto, le arance che i piccoli produttori della piana di Gioia Tauro vendono alla Fanta (Nestlè) vengono pagate mediamente negli ultimi anni intorno agli 8 centesimi al Kg. I produttori locali per stare nel prezzo sfruttano bestialmente i migranti africani (per lo più nigeriani) pagandoli venti euro per dieci ore di lavoro (di cui cinque euro vanno al “caporale”che li recluta) e facendoli dormire e mangiare in condizioni disumane. Da questa condizione materiale sono nati i tristemente famosi “fatti di Rosarno” del Gennaio 2010[8] . Da questa stessa condizione è nata anche l’idea che fosse possibile dare dignità al lavoro dei braccianti attraverso la vendita diretta ai G.A.S. della Toscana, Lombardia, Piemonte, ed altre regioni del Centro-Nord.   Nasce così S.O.S. Rosarno, un consorzio di piccoli produttori che pagano regolarmente e registrano i migranti grazie al fatto che i G.A.S (Gruppi d’Acquisto Solidali) pagano le arance a 35-40 centesimi al chilo, pur facendoli pagare ai propri soci/acquirenti meno di quello che pagano al supermercato. Il Consorzio Goel che ha ormai una struttura di produzione e vendita significativa vive grazie a queste reti (GAS, Commercio equo, comunità) che garantiscono un prezzo socialmente sostenibile. Infine, non va dimenticato che sul piano del credito da oltre quindici anni interviene la Banca popolare Etica, che finanzia queste esperienze anche senza le garanzie richieste dal sistema creditizio tradizionale.

Da queste confische di beni/aziende può nascere un’Altreconomia, basata sui principi del fair trade e sulle reti dell’economia solidale. In poche parole: dalla putrefazione del capitalismo, di cui l’economia criminale è parte costituente, possono nascere i fiori di una nuova società più umana e vivibile.

 

[1] Vedi la rivista Altreconomia, numero di Aprile 2016 , ed. Altreconomia , Milano.

[2] Cfr. Fernand Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino ed. Bologna , 1981.

[3] Cfr. Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo , Bompiani ed. 2014

[4]   Come è noto Marx dedica un interio capitolo nel primo volume del Capitale all’analisi dell’accumulazione originaria.

[5] Cfr. Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio , Laterza ed, Roma-Bari, 2011.

[6] Per un approfondimento degli effetti economici e sociali della Lunga Recessione nel Mezzogiorno vedi T. Perna, Lo sviluppo insostenibile: la fine della Questione Meridionale e il futuro del Mezzogiorno, città del sole ed. 2016

[7] Vedi per esempio l’inchiesta di Angelo Mastrandrea sul quotidiano “il Manifesto” dell’8/7/2016.

[8] Per un approfondimento della filiera degli agrumi e dei “fatti di Rosarno”, vedi F. Mostaccio. La guerra delle arance, Rubettino ed. , Soveria Mannelli, 2012

Demolizioni antistoriche a Catanzaro Di Maria Adele Teti*

Demolizioni antistoriche a Catanzaro Di Maria Adele Teti*

Venerdi 23 marzo il sindaco ha convocato alcuni rappresentati delle forze sociali e culturali della città per esporre il programma relativo ai finaziamenti Por 2013-2020 relativo all’Agenda Urbana della città, la prima ad essere presentata alla Regione . Come rappresentante di Italia Nostra sezione di Catanzaro ho apprezzato il progetto proposto dal Sindaco Abramo soprattutto per quanto riguarda la necessità di intervenire nel centro storico. Dalla lettura del documento si evince la complessità del progetto, sviluppato in un quadro esaustivo che, speriamo possa essere attuato nelle ipotesi di fondo: speriamo, in definitiva, che quadri analitici possano poi generare progetti reali e non diventino libri di sogni come molti progetti regionali e comunali elaborati in questi anni..

Periferie, mobilità sostenibile, energia, acquedotto, istruzione, social hausing, sostegno al disagio abitativo e molto altro, compone il quadro degli investimenti che dovrebbe essere attuato tramite consistenti risorse finanziarie (circa 35 milioni oltre ai finanziamenti in atto nei vari canali attivati da precedenti finanziamenti di cui non si conosce la consistenza effettiva). Per quanto riguarda il centro storico. che nell’ambito dell’Agenda Urbana occupa un posto privilegiato, devo ammettere che, finalmente, si è preso visione dei problemi presenti e si propongono azioni volte al superamento dell’attuale propensione allo spopolamento e al depauperamento del patrimonio edilizio ed economico di questa parte di città.

Si deve tuttavia porre attenzione su alcune ipotesi d’intervento, destinate a catalizzare l’attenzione delle Associazioni e cittadini nel prossimo futuro e cioè di affidare la “rigenerazione “ essenzialmente a nuove costruzioni da realizzare tramite demolizioni di alcuni manufatti storici, quali l’ospedale vecchio ex Convento di S. Agostino e la scuola Maddalena anch’esso Convento delle Donne entrambi costruiti nel corso del XVI sec.; si prevede inoltre la ricostruzione dell’area Serravalle con un nuovo fabbricato. Tutto ciò rappresentano ferite al tessuto storico della città già ampiamente mortificato da demolizioni e sostituzione improprie che hanno contribuito ad alterare l’assetto complessivo.

L’ex convento Sant’Agostino

In seguito al mio intervento, in sede di presentazione dell’Agenda, che mirava a far presente l’antistoricità di interventi di demolizione nei centri storici il sindaco ha sostenuto che il restauro costa più di una nuova costruzione, ma ciò è vero solo parzialmente se si tiene conto dei costi di demolizioni e smaltimento dei materiali di risulta che fanno levitare i costi complessivi di costruzione dei nuovi edifici. Comunque si contesta il metodo che vede i “costi” come unico parametro di valutazione rispetto al progetto complessivo che si pone come intervento di Rigenerazione Urbana e quindi volto al recupero dell’identità urbana già ampiamente mortificata. Per quanto attiene il progetto di attuare edilizia sociale (social hausing) nel patrimonio pubblico comunale e nel patrimonio privato abbandonato da acquisire da parte del comune a favore di giovani coppie, anziani, immigrati ecc al fine di attenuare il disaggo abitativo di queste categorie, si plaude a questo progetto, più volte auspicato da Italia Nostra, da considerare l’unico in grado di rivitalizzare il centro storico urbano,

Per attuare questo progetto di individuerà un “Agenzia” in grado di realizzare, per conto del comune il progetto di rigenerazione urbana. Sicuramente questo progetto è il più delicato tra tutti in quanto se il parametro costi e benefici sarà prioritario si potrà assistere alla compromissione di tutto il centro storico, con sopraelevazioni e interventi impropri in grado di alterare i valori ambientali diffusi di cui non sempre si ha contezza, visto che trattasi di edilizia minore – di tessuto connettivo -ma indispensabile a garantire la sopravvivenza del centro.storico inquanto tale.

Visto la mancanza di una legge regionale sui criteri da perseguire nella rigenerazione dei centri storici, ad esempio come quella approvata in Puglia ormai da molti anni, sarà necessario mettere a punto un decalogo e un “manuale di buone pratiche” alfine di evitare interventi impropri. Più volte, infatti, alcuni esponenti di costruttori e di associazioni costruttori hanno sottolineato, in convegni e riunioni, la necessità di demolire, sopraelevare, aumentare i volumi per rendere remunerativi gli interventi nel centro storico. Bisognerà dunque capire cosa si farà e analizzare i progetti attentamente senza delegare a scatola chiusa interventi che potrebbero giocare contro la rigenerazione effettiva del centro storico. Infine altri progetti preoccupano e non poco ; la localizzazione di un nuovo ospedale, l’area Giovino che cresce senza piano complessivo, Germaneto nell’assetto complessivo ed infine il progetto di consumo di suolo zero: ma quest’ultimo giustissinmo progetto sarà in grado di bloccare le moltissime nuove costruzioni autorizzate dalla Commissione urbanistica che ormai punteggiano e stanno compromettendo tutto il territorio di Catanzaro?.

*presidente Italia Nostra sezione di Catanzaro

La cicala e la formica di Piero Bevilacqua

La cicala e la formica di Piero Bevilacqua

Nata per scongiurare i nazionalismi che avevano devastato il Vecchio Continente e il mondo nella prima metà del ‘900, l’UE ritorna sui suoi passi. Torna ad alimentarli con rinnovato vigore. E lo fa per iniziativa del paese che avviò, ogni volta, la carneficina: la Germania. Oggi il nuovo nazionalismo egemonico tedesco possiede tutti i presupposti per durare ed espandersi. L’Unione tutte le condizioni materiali e politiche per disintegrarsi. Come tutti i vedenti han potuto osservare, la vicenda greca l’ha mostrato in maniera esemplare. Alla base dell’egoismo nazionalistico tedesco, ben orchestrata dai media, opera infatti una narrazione ideologica potente: la leggenda che la Germania, seria e laboriosa, stia a svenarsi per sostenere una vasta platea di popoli debosciati. Sappiamo che l’opinione pubblica tedesca è una delle più colte, se non la più colta, d’Europa. Ma nella patria di Lutero il messaggio di una nazione del Nord, laboriosa e risparmiatrice, che si contrappone ai popoli del Sud, oziosi e dissipatori ha una capacità di presa difficilmente resistibile. Tanto più che in soccorso di tale convinzione viene una serie di stereotipi lunga diversi decenni, una Grande Retorica, che divide il Nord ed il Sud in due sfere separate dello spirito umano. E a rendere materia di senso comune tale divisione contribuisce anche il linguaggio popolare, che separa i popoli in cicale e formiche. Antica metafora del regno animale nobilitata dalla letteratura del mondo classico.Chi non conosce la favola di Esopo, tradotta da Fedro nel suo elegante e musicale latino? << Olim cicada in frondosa silva canebat/ laboriosa formica autem assidue laborabat>>. Non è necessario tradurre. Ora, questa favola, comprensibile in un’epoca che doveva ancora costruire la sua etica del lavoro, si fonda su una serie interessante di errate conoscenze. E soprattutto condensa oggi la metafora di un capitalismo che ha smarrito ogni senso e progetto e corre verso la propria autodistruzione. Già a suo tempo Gianni Rodari, poeta di genio, non aveva ceduto all’autorità degli antichi:<< Chiedo scusa alla favola antica/se non mi piace l’avara formica./Io sto dalla parte della cicala/che il più bel canto non vende, regala.>> Ma oggi noi possiamo aggiungere che la favola non è più proponibile innanzi tutto sul piano biologico. Le operose formiche, e soprattutto le operaie e i maschi fecondatori, vivono pochi mesi. Le cicale hanno un ciclo più complesso e possono vivere 4-5 anni, nel terreno, allo stato di larve, prima di mettere le ali. La cicala nord americana – ci informano gli entomologi – può superare i 15 anni di vita. Anni passati sugli alberi, non a raccattare cibo da accumulare nelle tane come accade alle formiche. I maschi e le operaie, i lavoratori alla base della piramide del formicaio, non godono gran che dei beni accumulati durante i lavori dell’estate. Proprio come tanti operai poveri delle società avanzate di oggi. Tanto lavoro, poco reddito. D’inverno, in genere, muoiono. Occorre aggiungere che le formiche, impegnate tutto il tempo della loro breve esistenza in lavori faticosissimi, sono inquadrate in una società gerarchica e castale, una caserma piena di soldati, sempre alla ricerca di beni e di prede, una monarchia assoluta in cui comanda una dispotica regina. Le cicale, all’ombra di ulivi o di pini – i loro alberi preferiti – riempiono del loro incanto il cielo dell’estate, per il puro piacere del cantare, senza alcuna finalità utilitaria. Offrono gratuitamente, a tutti gli altri viventi e perfino agli uomini, il dono della loro musica che nasce da luoghi invisibili, fanno sentire anche noi partecipi, se sappiamo ascoltare, della misteriosa ventura che è la vita sulla Terra. Perché dovremmo preferire la formica alla cicala? Il senso della favola antica va rovesciato. Il male non tanto oscuro del capitalismo dei nostri anni è che esso vuole imporre a tutte le società il modello sociale del formicaio, quando abbiamo risorse per vivere, tutti, da cicale. Il modello di vita più avanzato, carico di futuro, è quello di questo insetto cantore, che lavora sempre meno, è libero di esercitare i suoi talenti creativi, non è divorato dalla febbre usuraia dell’accumulazione e del risparmio. Queste virtù del capitalismo delle origini, così ben interpretate dall’ordoliberismo tedesco, sono adatte per una società che guarda al passato, ancora prigioniera di paure di un mondo di scarsità che non c’è più, che non ha più nulla di affascinante da proporre alle generazioni venture.

Inseguendo lo sviluppo di Oscar Greco

Inseguendo lo sviluppo di Oscar Greco

La profonda crisi politica, economica e finanziaria di un’Europa a vocazione atlantica, costruita come un’area indifferenziata di libero mercato in cui non trovano spazio le diverse culture, le diverse realtà economiche e sociali, è la spia del fallimento del progetto occidentale di modernità intesa come un fatto antropologico che coinvolge l’intera umanità.

Sta esaurendosi la lunga fase dominata da un ottimismo storico che ha considerato lo sviluppo e il mercato come un gioco libero e aperto nel quale tutti possono entrare con la speranza di partecipare ai suoi benefici, di scalare le posizioni e risalire le gerarchie. Si evidenzia l’illusorietà della concezione acritica della modernizzazione come necessità storica, che ne presuppone un implicito valore assolutamente positivo e progressivo.

Visti sotto tale profilo gli eventi storici, le strategie politiche e le trasformazioni sociali della Calabria del dopoguerra possono considerarsi paradigmatici del fallimento di quel meridionalismo ispirato a quei valori e che, quindi, ha valutato e affrontato i problemi del Mezzogiorno unicamente con il metro di giudizio del mancato sviluppo e del ritardo delle regioni del Sud, da colmare favorendo i processi d’integrazione di queste aree nel sistema capitalistico italiano ed europeo, nella convinzione che l’evoluzione e il benessere delle regioni meridionali dipendevano dalla capacità di favorire non solo un modello produttivo ma anche uno stile di vita identico o comparabile a quello delle regioni industriali.

In virtù di questa ottica la classe dirigente chiamata a governare il Paese dopo la svolta politica del 1948 ha considerato le condizioni economiche e socio-culturali del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, una diversità intollerabile per una nazione che si prefiggeva di rinascere attraverso un processo di industrializzazione e modernizzazione.

Ne è derivato un meccanismo destinato a bollare come arretrate tutte le realtà sociali, tutte le culture che non somigliavano a quelle delle società modernizzate e che non ha saputo cogliere la novità rappresentata dalle imponenti lotte per la terra degli anni Quaranta, veri e propri atti fondativi delle comunità contadine calabresi. Un movimento che, seppur nel suo ingenuo spontaneismo, proponeva un modello di società in cui le esigenze di democratizzazione e di riscatto sociale si coniugavano con le tradizioni culturali e i valori delle comunità e delle famiglie contadine calabresi: un modello diverso dalla tradizionale e arcaica società servile del latifondo ma anche da forme di modernizzazione poco compatibili con la realtà e le tradizioni di una società a vocazione rurale come quella calabrese.

La via scelta per la modernizzazione del Sud è stata quella della politica della ‘crescita’ e dello ‘sviluppo’, di fatto tradottasi «in una ideologia emulativa nello sforzo generale di fare assomigliare le aree ad economie tradizionali a quelle trasformate dalle innovazioni tecniche e produttive e dai mutamenti sociali indotti dal capitalismo trionfante»[1].

Indubbiamente il proposito di eliminare la ‘diversità’ del Sud, attuato con strumenti svariati, quali la Riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno, l’intervento straordinario, le politiche di sviluppo locale e quelle di assistenza, ha prodotto risultati positivi nel tessuto socio-economico calabrese. E’ stato abolito il sistema del latifondo, è aumentata la capacità di spesa delle famiglie, si è ridotto, finché è durato l’intervento straordinario, il divario con le regioni del Nord, sono state ammodernate molte infrastrutture della regione.

Ma i costi umani e sociali sono stati pesanti.

Per decenni la Calabria è rimasta imprigionata nel momento del ‘non ancora’, in quella dimensione a venire che proietta il presente, mai soddisfacente se rapportato ad altre realtà, al di là di se stesso, nell’attesa di un futuro di sviluppo economico, di progresso e di modernità.

La regione è stata indotta a crescere allontanandosi dalle sue radici storico-culturali, dissolvendo forme di aggregazione e di rappresentanza di valori e interessi tradizionali senza trovarne i sostituti.

La società contadina è stata descritta tout court come il “mondo della miseria”[2], che i contadini accettano come qualcosa che non può essere modificato e al quale si può sfuggire solo con l’emigrazione, senza considerare che in quel mondo duro e a volte abbrutito, si sviluppavano anche relazioni affettive, forme di economia di solidarietà, la cultura del dono, i rapporti di vicinato tipiche di quella povertà conviviale, descritta da Majid Rahnema[3], che ha consentito a milioni di esseri umani delle ‘società vernacolari’ di vivere nelle ristrettezze ma con dignità una vita semplice e comunitaria.

La fine di quel mondo dei vinti[4] ha comportato lo svuotamento di molte aree interne della regione, l’abbandono dei luoghi di socializzazione, la scomparsa di antiche lavorazioni, di mestieri familiari e di quelle piccole attività che erano il cuore del tessuto economico e sociale dei piccoli centri. Si sono dispersi quei meccanismi d’integrazione sociale che erano alla base degli altri rapporti e che erano fondamentali per sopravvivere in una realtà rurale povera e precaria. Per la Calabria, è stata una «catastrofe antropologica», come sostengono Vito Teti e Domenico Cersosimo[5], se non addirittura un genocidio culturale[6].

Gli eventi del secondo dopoguerra calabrese descrivono l’affermarsi di un’economia di dipendenza, di assistenza, sostenuta dall’esterno, che ha aumentato il livello dei consumi della popolazione ma non l’autonoma capacità produttiva. Narrano la storia di una regione che ha creduto di crescere, ma si è ritrovata più povera e vulnerabile perché priva dei vecchi punti di riferimento. Indotta a vivere di accattonaggio sui fondi pubblici[7] ha cercato spazi di sopravvivenza, con ogni compromesso, tra le pieghe di un mortificante meccanismo assistenziale e di una realtà degradata figlia di un pragmatismo senza valori.

Il vero protagonista e beneficiario di questa ‘modernizzazione sbagliata’ è stato il nuovo ceto dirigente, i nuovi mediatori come li ha definiti Gabriella Gribaudi[8], esponenti della nuova classe cittadina, funzionari di partito e degli enti locali, che fanno della vita politica una professione e rappresentano al meglio il passaggio dal sistema dei notabili a quello dei professionisti della politica. Questo ceto, che raramente rappresenta i reali bisogni della popolazione calabrese, non sostiene uno sviluppo del Mezzogiorno a partire dalle sue risorse, ma sempre e soltanto uno sviluppo dipendente dal centro. Alimenta tutte le richieste di sovvenzioni e assistenza, per le quali offre le sue capacità mediatorie, per acquisire consenso, per gestire potere, per mero interesse personale, incentivando in tal modo la propensione a vivere di assistenza e la convinzione che nella irredimibile situazione calabrese sia possibile soltanto sfruttare al massimo e con qualsiasi mezzo il flusso delle risorse provenienti dallo Stato e dall’Europa.

La stagione dell’intervento straordinario e del trasferimento delle risorse ha fatto emergere un altro protagonista, che forse più di ogni altro ha saputo sfruttare le occasioni che il processo di modernizzazione della Calabria offriva, la ‘ndrangheta.

Delle vecchie famiglie mafiose che imponevano rispetto e consenso con prevaricazioni e minacce ammantate da pretestuosi valori tradizionali si stanno perdendo le tracce. La ‘ndrangheta oggi manifesta la sua capacità pervasiva imponendosi nel mercato internazionale del crimine con modalità che trascendono la sua antica appartenenza culturale, anche se, in una sorta di sintesi tra locale e globale, con un abile uso esterno della tradizione. Si presenta, infatti, come partner ‘compatto’ e affidabile proprio perché legato ai simboli e alle tradizioni chiuse della sua origine geo-culturale e coglie nei meccanismi di una economia di dipendenza e nei flussi di risorse che giungono dal centro e dall’Europa l’occasione per fare un salto di qualità.

Facendo leva sul rapporto tra carisma mafioso ed economia e sulla garanzia simbolica della sua storia, penetra negli ingranaggi del sistema politico ed economico contribuendo a realizzare un amalgamato sistema di potere che lega amministratori locali e organizzazioni criminose, imprenditori ‘assistiti’ e potenti uomini di governo. In tal modo la ‘ndrangheta rivendica la pretesa di incarnare un ruolo sociale nella gestione di uffici e risorse che sarebbero di pertinenza di altri poteri. Si è così realizzata una singolare mistura di arretratezza e modernità: diventa sempre più evanescente la distinzione tra lecito e illecito e il contesto di ‘legalità debole’ e istituzioni pubbliche poco credibili consente alle organizzazione di ‘ndrangheta di inserirsi nei meccanismi economici e politici della regione quasi come un elemento fisiologico e non patologico.

Tutto ciò ha contribuito a rappresentare i ‘mali’ del Sud in rapporto alla diversità del Nord e in una contrapposizione tra luoghi e comportamenti ideal-tipizzati che schiaccia i tratti specifici della storia del Mezzogiorno sotto una massa eccessiva di elementi metaforici che inevitabilmente occultano parti della realtà.

In questa eterna contrapposizione la Calabria è diventato il luogo simbolico dei problemi che il Meridione pone al Paese, «una insopportabile palla al piede»[9], una periferia sperduta e anonima, un luogo, per usare le parole di Franco Cassano, «dove ancora non è successo niente e dove si replica tardi e male ciò che celebra le sue prime altrove»[10]. In una parola il topos del ‘paradiso abitato da diavoli’, che ha accompagnato la sua storia dall’Unità in poi.

Malgrado le trasformazioni intervenute nel corso degli anni, la Calabria continua ad essere ritenuta nell’immaginario collettivo, che attinge all’immenso giacimento dei luoghi comuni sul Sud, come luogo di tutti gli eccessi: una società civile ancora intrisa di tradizioni e credenze arcaiche e irrazionali, divisa qua e là da faide familiari che si trascinano da decenni; una classe dirigente incapace, corrotta e priva del minimo senso civico; un potere mafioso diffuso, arrogante e predatorio che controlla vaste zone del territorio e condiziona la politica. L’immagine prevalente della Calabria che esce da alcune cronache quotidiane, insomma, è quella di una terra bella, ricca di storia e tradizioni, ma devastata dagli interessi particolari, dall’arretratezza culturale, dall’assenza di spirito pubblico, dalla violenza come pratica diffusa.

Gli spunti per giudizi del genere in effetti non mancano.

Ma il giudizio severo sulle vicende della realtà calabrese, pur se fondato su innegabili dati di fatto, grazie all’uso ricorrente di stereotipi e canoni tradizionali raramente riesce a svincolarsi da quel certo modo di pensare il Sud che aveva contribuito a descrivere il Meridione come un “tutto” indistinto e uniforme, irrigidito in uno schema sempre uguale: un approccio grazie al quale il Mezzogiorno è rappresentato immutabile nella sua staticità.

Una maggiore attenzione ai diversi contesti, alle specificità locali, alle condizioni non economiche dello sviluppo potrebbe mettere in evidenza, invece, che il Mezzogiorno si tinge a macchia di leopardo, mostrando dinamiche profondamente diverse a seconda dei singoli segmenti territoriali considerati. Persino una regione tradizionalmente considerata “immobile” e “senza storia” come la Calabria, se guardata con questa lente, presenta diversità e dinamismi insospettati.

Nel corso degli anni, i cambiamenti sono stati tanti e davvero enormi e diventa attuale, pertanto, l’esigenza di procedere a una ricognizione della realtà calabrese, complessa, densa di contraddizioni, passibile di letture molteplici e contrastanti, analizzando quel magma di tradizione e innovazione che la caratterizza. Un approccio critico non preconcetto e un’esposizione non mediatica dei mali della Calabria consente di cogliere, ad esempio, le positive realtà delle Università e dei centri di ricerca, di alcune cooperative giovanili che gestiscono produzioni innovative, di alcune industrie agroalimentari modernissime, delle piccole case editrici di notevole livello, di alcuni centri storici di città ricche di iniziative culturali, degli episodi di accoglienza e di integrazione interculturale. Consente anche di apprezzare le condizioni esistenziali di un luogo che offre, a volte, una qualità di vita gradevole, malgrado le tante difficoltà, grazie alle tante intelligenze, ai vantaggi naturali derivanti delle sue condizioni geoclimatiche, alla permanenza dei legami sociali e comunitari, all’amore per i luoghi, alla persistenza di tradizioni culturali che danno il senso della spiritualità che ha attraversato la regione, come in diverse occasioni ha rilevato Mario Alcaro[11]. Consente infine di non alimentare ulteriormente la serpeggiante mancanza di autostima che toglie spazio alla fiducia, all’impegno, alla speranza.

Un diverso approccio permette, soprattutto, di individuare le radici strutturali, legate a scelte storiche di politica economica e sociale, dei tanti episodi di degrado della realtà calabrese, troppo spesso interpretati superficialmente attraverso la riproposizione di consueti luoghi comuni.

Ne costituisce esempio evidente la vicenda dei fatti di Rosarno del gennaio 2010, da subito considerata da opinionisti e commentatori, non solo del Nord, frutto della strategia della ‘ndrangheta che nell’occasione ha inteso sfruttare le pulsioni xenofobe, se non razziste, che albergano nell’animo dei calabresi. Un’analisi frutto di uno sprovveduto rovesciamento cognitivo che scambia le cause con gli effetti e che, quindi, non è in grado di cogliere le cause economico-sociali della vicenda, tutte da inscrivere nella storia pluridecennale del declino dell’agricoltura calabrese, dell’abbandono di un mondo povero ma che forniva un patrimonio di saperi, di identità e di legami sociali, e in quella più recente dell’uso fraudolento ed illegale degli incentivi per l’agricoltura. La storia dei migranti duramente sfruttati nella raccolta delle arance che entrano in conflitto con la popolazione locale ha in realtà radici ben concrete: la crisi dell’agricoltura della piana, la caduta della domanda delle derrate alimentari e delle arance in particolare, la riduzione dei contributi europei. In questo nuovo contesto i migranti, fino ad allora utilizzati negli agrumeti, sono diventati dapprima eccedenti ed inutili e poi pericolosi vagabondi stranieri da spedire a casa loro[12].

In tanti hanno invece hanno preferito cogliere l’occasione dei fatti di Rosarno per tratteggiare un’anima razzista e xenofoba dei calabresi, ben lontana dalle loro tradizioni, senza nemmeno chiedersi come mai a pochi chilometri di distanza da Rosarno, a Riace (così come in altri paesi della filiera ionica), si stava verificando uno straordinario momento di accoglienza, mediante una politica di ripopolamento e di riempimento di spazi urbani abbandonati, da parte di una popolazione disposta al mutamento e all’integrazione con gli immigrati e i rifugiati[13]. Una storia non comune di convivenza e comprensione reciproca delle diversità, che ha sorpreso l’Italia e l’Europa intera[14].

Questo scenario variegato di una realtà multiforme impone di porre l’accento sulle cause storiche, economiche e politiche che stanno alla base del disagio della realtà calabrese, con un rovesciamento di prospettiva che si rifiuta di considerare le virtù private della popolazione calabrese come causa dei suoi vizi pubblici.

In realtà la fase storica che sta attraversando l’Europa e l’Occidente, oltre a dimostrare, soprattutto con riferimento al Mezzogiorno, il fallimento della grande narrazione dello sviluppo e della modernizzazione, rende ineludibile interrogarsi sul rapporto tra crescita economica e benessere sociale e chiedersi se sia necessariamente la crescita economica la condizione di ogni miglioramento sociale, la sua premessa, il suo strumento.

L’esperienza degli ultimi anni dimostra che dove entra l’economia muore la società.

E’ la ‘miseria dello sviluppo’, per dirla con Piero Bevilacqua[15], nel senso che i meccanismi pervasivi dell’economia globale e di mercato stanno mandando in frantumi la trama invisibile delle relazioni umane, dei legami sociali, dei rapporti interpersonali che costituiscono un modo di essere del vivere collettivo e che nelle società meridionali rappresentano un patrimonio storico e culturale insopprimibile. Il fenomeno di un’economia produttivistica e finanziaria disinserita dal livello sociale apre le porte a una nuova forma di povertà, una ‘povertà modernizzata’[16], una condizione che non è altro che l’agonia di concezioni e abitudini che avevano permesso a tante comunità di vivere nella frugalità riuscendo a combattere la miseria.

Per immaginare un radicale rovesciamento di questa tendenza, che immiserisce la società calabrese anche quando ne aumenta la disponibilità di risorse, occorre un nuovo modo di fare storia, analisi economica e sociologica cogliendo alcuni spunti offerti dal versante tematico del pensiero meridiano[17].

Bisogna ripartire dalle comunità, dai loro rapporti con l’ambiente, dai loro legami sociali, dall’amore per i luoghi, dagli scambi affettivi, dalle loro tradizioni culturali: in una parola da quei ‘marcatori di identità’ delle comunità meridionali che hanno bisogno di riconoscere se stesse e hanno bisogno delle tradizioni, dei simboli e dei luoghi attraverso i quali l’identità comune diventa più forte e può costituire una risorsa.

Per tale via si può andare oltre il mito dello sviluppo, immaginando un modello che rimette al centro del modo di essere dell’economia i valori, i progetti e le aspirazioni delle comunità e delle persone che ne fanno parte. I contributi teorici per un sistema che s’ispiri ad una economia della ‘solidarietà’, della ‘felicità’ o del ‘Bene comune’ non mancano[18]. Nel contesto territoriale del Mezzogiorno si può pensare ad una dimensione economica che non prevarichi sulle condizioni di esistenza, una economia degli affetti, in cui la dimensione conviviale può garantire uno stile di vita semplice ma non disperato, nel quale ciascuno può tentare di migliorare la proprie risorse senza trascurare i valori primari della coesione del tessuto sociale e della vita comunitaria.

Questa prospettiva presuppone un approccio ‘comunitarista’ che valorizzi la peculiarità formale, identitaria e culturale di ogni territorio, non imponendo logiche economiche esogene ed estranee. Bisogna ripartire dai luoghi per immaginare un’economia che faccia leva sui legami sociali, sull’ambiente e sui beni comuni. Perché è proprio nei territori, nelle campagne abbandonate, nei borghi interni, nella piccola dimensione che è possibile opporsi ai processi indotti dal mercato globale, là dove «luoghi e persone, intrecciando le loro presenze, si raccontano storie, formano grovigli di relazione fino a quando gli stessi luoghi entrano a far parte del mondo affettivo degli uomini e ne costituiscono una parte vitale»[19].

Per la Calabria, e forse per l’intero Mezzogiorno, ciò significa un’opera di riequilibrio, anche demografico, che miri a valorizzare vaste aree interne attraverso una possibile nuova economia locale che punti all’agricoltura di qualità, alla selvicoltura, al recupero di vecchi mestieri artigianali, allo sfruttamento delle acque interne, al turismo escursionistico, alla rivitalizzazione dei borghi minori e dei tanti villaggi pittoreschi un tempo pieni di vita, come suggerisce Piero Bevilacqua nel tentativo di prospettare vie d’uscita dalla crisi del sistema economico-sociale capitalistico occidentale[20].

Ma tutto ciò si concilia poco con il modello assunto dall’Unione Europea a forte impronta ultra liberista che nega ogni altra identità, in una dimensione monocentrica che costringe tutte le economie nazionali, regionali e locali ad adattarsi alle esigenze strutturali della globalizzazione e dei mercati. Questa Europa ‘delle banche’ che considera le regioni mediterranee solo aree di consumo, ad economie arcaiche e premoderne, sta implodendo e per i Paesi dell’area mediterranea il sogno europeo si sta trasformando in un incubo.

Solo in una diversa Europa, in un’Europa policentrica, secondo il modello da tempo suggerito Bruno Amoroso[21], che riconosce le diversità e non si prefigge di eliminarle, il Mezzogiorno d’Italia potrà essere immesso in un altro contesto che coniughi il locale con il mondiale e potrà costruire uno specifico modello economico che preservi quello stile di vita in cui il rapporto con il sociale, con l’ambiente, con il clima, con la percezione del tempo costituiscono una peculiarità delle culture e dell’antropologia dell’area geo-politica mediterranea.

Solo in questi termini si può riproporre la questione meridionale «come parte della questione mediterranea»[22].

Il vento che sta scuotendo la sponda sud del Mediterraneo può produrre cambiamenti allo stato imprevedibili, ma può forse essere un’opportunità per l’Europa di cessare di essere la cinghia di trasmissione di una politica economica atlantica e di pensare all’area mediterranea come un luogo in cui instaurare rapporti diversi. Occorre però superare lo stridente contrasto tra l’amplificazione mediatica dell’idea mediterranea, spesso poco più che una moda, e le pratiche di chiusura che si riservano quotidianamente ai popoli del Nord Africa. Occorre inoltre la consapevolezza che un’Europa mediterranea non ha bisogno di ricorrere a forme di narrazione in cui, attraverso il richiamo rassicurante a miti, storie e usi comuni, l’immagine del Mediterraneo non coincide affatto con il Mediterraneo reale.

L’idea del Mediterraneo come modello unitario nella diversità, che ci viene dall’insegnamento di Braudel, non deve farci dimenticare che il Mediterraneo è il mare della complessità, un insieme di sistemi sub-regionali dalle economie, società e realtà diverse; che, come ci ammonisce Predrag Matvejevic[23], non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno ad un solo Mediterraneo, caratterizzate da tratti per certi versi simili per altri differenti e che il resto è mitologia.

Ma se il Mediterraneo è oggi uno stato di cose che non riesce a diventare un progetto è innegabile che poche aree al mondo possono uguagliare la stessa densità storica e la stessa interazione sociale, conseguenze della vicinanza e della mobilità geografica. Malgrado la sua diversità e complessità il Mediterraneo è, quindi, una delle chiavi utili ad interpretare la realtà in cui sono immerse le regioni meridionali d’Europa che possono guardare ai popoli dell’altra sponda senza restare chiusi nei propri recinti.

Tale sollecitazione giunge anche dal Rapporto SVIMEZ del 2011 che coglie l’occasione dei nuovi eventi che si stanno sviluppando nell’area mediterranea per interrogarsi su come possono modificarsi le relazioni interregionali, attraverso nuovi partenariati e nuovi percorsi settoriali specifici, quali la materia ambientale, la ricerca applicata, le comunicazioni, la formazione.

E’ un cambio di prospettiva significativo perché individua il bacino del mediterraneo come una meso-regione, unica scala istituzionale e socio-economica, all’interno della quale un’altra Europa, più conviviale, più umana, più tollerante, fondata su valori mediterranei oggi derisi o rimossi, può realizzare un diverso progetto di società e di modernizzazione, attraverso forme nuove di autorganizzazione, nelle quali le regioni e le comunità del Mediterraneo, in una visione policentrica e nel riconoscimento delle diversità, individuano i beni comuni necessari per il raggiungimento di obiettivi commisurati alla loro storia, alla loro cultura, alla loro vita.

Nel cuore di un’Europa mediterranea che assuma tali obiettivi la Calabria non solo per la sua collocazione geografica ma, forse, ancor più per il suo patrimonio culturale e identitario, pur restando ancorata al flusso della grande storia europea, può svolgere una funzione trainante e può essere un ponte tra culture che una certa concezione dell’Occidente vuole contrapposte in un conflitto insanabile.

Ma per l’adempimento di questo ruolo, per contribuire a costruire con altri Paesi uno spazio di condivisione di culture e rapporti improntati a una concezione del mondo basata sul reciproco riconoscimento, sull’equilibrio e sul senso della misura, la Calabria deve prima di tutto ritrovare se stessa riflettendo in modo critico e autocritico sulla propria storia.

 

 

[1] P. Bevilacqua, Riformare il Sud, in «Meridiana», n. 31 1998, p. 21.

[2] F.G. Friedmann, The World of “la miseria”, in «Partisan Review» n. 20, 1953.

[3] M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005, p. 165 e ss.

[4] Il riferimento è al bel libro-inchiesta di N. Revelli, Il mondo dei vinti. Einaudi, Torino 1977, che descrive lo spegnersi della vecchia società contadina del cuneese e delle langhe con l’arrivo della industrializzazione.

[5] D. Cersosimo – V. Teti, Editoriale, in «Spola», 2007 n. 2, numero monografico dedicato ai paesi della Calabria, p. 2.

[6] Come ritengono B. Amoroso – S. Gomez Y Paloma, Persona e Comunità. Gli attori del cambiamento, Dedalo, Bari 2007, p. 85 e ss. con riferimento alla civiltà contadina,  richiamando pagine indimenticabili di Pier Paolo Pasolini di Volgar’ eloquio e Scritti corsari.

[7] F. Piperno, Vento meridiano. A mò di introduzione, in ID., (a cura di), Vento del  meriggio. Insorgenze urbane e postmodernità nel Mezzogiorno, Derive Approdi, Roma 2008, p. 13.

[8] G. Gribaudi, I mediatori. Antropologia del potere democristiano nel Mezzogiorno, Rosemberg & Sellier,Torino 1991.

[9] G. Viesti, Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 5.

[10] F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 5.

[11] Il riferimento è a Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Economia totale e mondo della vita. Il liberismo nell’era della biopolitica, Manifestolibri, Roma 2003, ai tanti saggi apparsi su  «OraLocale», ora in  M. Cimino (a cura di), Politica e cultura in Calabria. OraLocale (1996-2005), vol. 1 e 2, Cosenza 2006.

[12] Tra i rari commenti dei fatti di Rosarno apparsi nell’immediatezza che abbiano cercato di individuare la cause strutturali della vicenda, va segnalato quello di E. Della Corte – F. Piperno, Rosarno. L’alibi del razzismo e della ‘ndrangheta, in «Il Quotidiano di Calabria» del 24.1. 2010.

[13] Sul fenomeno Riace cfr. M. Ricca, Riace, il futuro e il presente, Dedalo, Bari 2010.

[14] Colpito dalla vicenda di Riace Wim Wenders ha voluto restituire un’altra immagine della Calabria con un film ‘Il volo’ e sostenendo nel summit dei premi Nobel per la pace di Berlino del novembre 2009 che ‘la vera utopia non è la caduta del Muro, ma ciò che sta accadendo in Calabria, a Riace’.

[15] P. Bevilacqua, La miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008.

[16] M. Rahnema, Quando la povertà diventa miseria, Einaudi, Torino 2005, p. 220, cfr. anche M. Rahnema – J. Robert, La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano 2010.

[17] Il riferimento è a F. Cassano, Il pensiero…cit.

[18] B. Amoroso, Per il bene comune. Dallo Stato del benessere alla società del benessere, Diabasis, Reggio Emilia 2009; L. Becchetti, Oltre l’homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni,Città nuova, Roma 2009; Riccardo Petrella, Il bene comune. Elogio della solidarietà, Diabasis, Reggio Emilia 2003; L. Bruni – S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 2004.

[19] E. Scandurra, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperta, Troina 2007, pp. 50-51.

[20] P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 187 e ss.

[21] B. Amoroso, Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro, Dedalo, Bari 2000.

[22] F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, p. 74.

[23] P. Matvejevic, Tra fratture e convergenze, in «L’Agorà del mediterraneo», Fondazione CARICAL, anno 1 n. 2, Cosenza 2011, p. 5 e ss.

Il voto e l’economia debole del sud di Amedeo Di Maio

Il voto e l’economia debole del sud di Amedeo Di Maio

Le riflessioni di Piero Bevilacqua sul successo elettorale del M5S a Sud e quelle di Enzo Paolini sull’autismo post referendum e post elezioni del PD, sono, per me, pienamente condivisibili. Non meriterebbero neanche di essere menzionate quelle tesi autoassolutorie che addebitano il successo del M5S al profondo spirito plebeo e sanfedista del Sud. Un popolo ignorante che il giorno dopo le elezioni si reca nei propri municipi a riscuotere il “reddito di cittadinanza” (evidente fake news) e tuttavia dimenticando che è lo stesso popolo che nel recente passato è stato generoso anche con il PD. Si rimuove il risultato ottenuto in luoghi dove è ancora presente una consapevole classe operaia. Penso a Pomigliano d’Arco, a Taranto e anche a Bagnoli dove la “dismissione” ha creato comitati di lotta per una rinascita ambientalista del quartiere, a zone minerarie in crisi in Sardegna, alla Sicilia deindustrializzata e sicuramente esiste qualche luogo così anche in Calabria. Mi sia consentito, per amor di retorica, accettare l’idea miseranda del nostro Mezzogiorno “accattone” e impostare un ragionamento cinico. Non v’è dubbio che l’elettore medio (e mediano) meridionale è sempre stato condizionato dalla sua condizione di economia debole. E’ per questo che la DC si preoccupava, con metodi sia leciti sia illeciti, di erogare sussidi appunto alla popolazione più debole, quella incapace di emigrare e quella che trovava un rifugio modesto ma sicuro nella pubblica amministrazione. Si trattava di un implicito reddito minimo “di esistenza”, non trasparente ma efficace. Poteva questa sia pure non nobile politica proseguire nel tempo del “patto di stabilità”, della sospensione delle assunzioni nella pubblica amministrazione, delle chiusure delle fabbriche, soprattutto di proprietà estera? Si è allargata la quota di popolazione bisognosa e invece di porre un argine agli effetti sociali delle politiche economiche dell’Unione europea, gli ultimi governi hanno “esodato”, ridimensionato il welfare e precarizzato l’offerta di lavoro attraverso il jobs act, riservando il sostanziale sussidio, al Nord alle banche e alle imprese; al Sud alla parte della popolazione costituita, come nel medio evo, da vassalli, valvassori e valvassini delle baronie politiche. Insomma, si sono aiutati i pochi e abbandonati i molti. Se ad ogni testa un voto, quale altro risultato il PD poteva attendersi? Dato il risultato elettorale, il M5S non potrà cassare il Mezzogiorno dalla sua agenda e tuttavia è, a mio avviso, molto incerto lo scenario prossimo futuro. Essere riusciti a spazzar via vecchi potentati e acuti familismi è un gran merito, tuttavia costituisce, direbbero i logici, condizione necessaria ma non sufficiente per una ripresa economica e sociale del Mezzogiorno. Nel programma del M5S non vi intravedo nulla di organico. Ho eluso fin qui la vera mia domanda. Chi altri, al posto del M5S, avrebbe potuto in tutti questi anni di crisi costruire il medesimo consenso e perché non è accaduto? Non ho la risposta o forse non voglio cercarla.

 

 

Amedeo Di Maio

Non siamo noi i razzisti, sono loro che sono negri di Enzo Paolini

Non siamo noi i razzisti, sono loro che sono negri di Enzo Paolini

Sentire in TV Ettore Rosato (il figurante che ha dato tragicamente il nome alla legge elettorale) dire che evidentemente il lavoro del PD “non è stato apprezzato” perché si sarebbe “rotto il filo della comunicazione con i cittadini” e poi un tale Calderisi affermare, con sommo sprezzo del ridicolo, che il disastro elettorale (per loro) di ieri sarebbe stato provocato dal no del referendum sulla riforma costituzionale, fa riflettere. Perché il punto è proprio questo: nella loro sicumera loro ritengono di aver fatto bene, non pensano minimamente di dover ammettere di aver sbagliato e chiedere scusa per l’inguardabile abisso morale in cui hanno fatto sprofondare le istituzioni con il caso Etruria, la Consip, le intercettazioni, il Jobs act, la buona scuola, il conflitto d’interessi, le ministre che mentono sulla loro laurea, quelle che si laureano copiando la tesi, l’aereo personale pagato da noi, i vitalizi, le auto blu aumentate, le primarie abolite anzi valide solo per gli altri ma non per loro, il sistema elettorale trasformato in un sistema di nomine di amici e scudieri, le missioni di guerra spacciate per umanitarie, le sovrintendenze a tutela dei beni culturali cancellate, lo scempio del territorio con lo sblocca Italia, la legittima difesa armata consentita in base al tramonto del sole, le intercettazioni decise dal maresciallo intercettatore, la responsabilità dei giudici indiscriminata, il bonus cultura strumentalizzato per comprare voti e consenso, le interferenze dei padri negli affari pubblici, i ministri informatori degli indagati su indagini in corso, il servizio sanitario ridotto ai minimi termini mentre le commesse per gli aerei da guerra F16 prendono il volo, la riforma costituzionale scritta da un presidente di provincia e una praticante avvocatessa di Laterina, l’irrisione al dissenso ed ai professori di diritto costituzionale, l’indifferenza rispetto alla bocciatura sonora ricevuta dagli italiani, gli spot elettorali degni dei cinepanettoni, ecco tutto ciò provoca, nel semplice Rosato, una surreale consolatoria considerazione: non siamo stati apprezzati. Ad essa subito si appiglia il talentuoso Calderisi che ha pronta la soluzione e la spiegazione per il sonoro calcione elettorale che poi è quella di Renzi: non siamo noi ad aver sbagliato tutto, sono gli italiani ad aver provocato il disastro respingendo la nostra riforma costituzionale. Come dire: non siamo noi razzisti, sono loro che sono negri!

 

Enzo Paolini

Preistoria, o storia di Massimo Veltri

Preistoria, o storia di Massimo Veltri

 

 Se si può affermare che la storia di un territorio, di una comunità, è anche e non residualmente scritta e da scrivere in funzione delle caratteristiche strutturali del suolo e  della sua solidità e delle sue forme, del suo clima, è parimenti  necessario ricordare che, fra gli altri ma qui più significativamente di altri,  Augusto Placanica, sia con Storia della Calabria e sia con Il filosofo e la catastrofe, indica un’utile traccia di ragionamento. Riassumibile,  drasticamente, in due paradigmi: abbandonare fatalismi e rassegnazione; quello che è ci dato e troviamo in natura possiamo se non curvarlo in qualche modo adattarlo agli scopi di una vita dignitosa e civile.

Pentadattilo, le alluvioni del ’56, l’Alto Jonio cosentino, la frana di Cavallerizzo, Corigliano, Soverato, Cosenza, i trasferimenti dei centri abitati (sullo stesso luogo o altrove, come argomentano Vito Teti e Tomaso Montanari), i maremoti, i terremoti devastanti, intere montagne che se ne scendono trascinando persone, cose, affetti e beni, il mare che si mangia tutto, le fiumare pensili del reggino, gli incendi apocalittici di quest’estate… hanno contribuito a scrivere la nostra storia, a definire la nostra stessa identità, se si può dire.

E la stessa, antica e quanto mai attuale, polemica della polpa e dell’osso, del contrasto fra pianura e montagna, della progressiva desertificazione delle aree interne non sono leggibili e non aiutano a capire fenomeni fisici e antropologici legati agli insediamenti umani e tecnici nel tempo e al formarsi di un terreno sempre più fragile ed esposto?

Una storia che è possibile non solo leggere ma scrivere, per noi stessi e per i nostri figli attraverso una individuazione di cause, non solo naturali ma pure e in alcuni casi essenzialmente e sciaguratamente umane, e la messa in agenda di operazioni da compiere. Operazioni che, beninteso, travalichino sia la rassegnazione che l’indolenza rivendicazionista.

Di seguito saranno illustrati, ovviamente con caratteri di sintesi ma mi auguro non di superficialità, elementi che auspico siano utili se pure non risolutivi principalmente lungo quattro direzioni fra loro strettamente e organicamente intrecciate: il rispetto per il suolo il territorio; recuperare politiche di pianificazione  e programmazione; unire responsabilità politiche  e amministrative dell’agire con i saperi tecnici e scientifici; acquisire la coscienza diffusa che non tutto ma molto l’uomo può fare per fronteggiare e limitare insorgere e effetti di fenomeni catastrofici.

L’ANTEFATTO

 

Non si può dire che prima degli anni Settanta degli anni duemila, quando si avviarono e poi conclusero i lavori della Commissione De Marchi, messa in piedi dal Governo dopo il disastro dell’Arno a Firenze del 1966 e  si giunse poi  al varo della legge 183 – ma ci volle il 1989… –  che non si era avvertita l’esigenza, nel paese,  di un approccio sistemico alla soluzione del problema dell’assetto e della manutenzione del territorio, della difesa del suolo: basterà citare quanto ricostruisce diffusamente Giuseppe Barone nel suo libro “Mezzogiorno e Modernizzazione” del 1986, circa il potente e concertato intervento orchestrato da Bastogi, Banca Commerciale e uno stuolo di tecnocrati e di tecnici, per realizzare gli impianti silani in Calabria, a fini prevalentemente energetici, idroelettrici sì, ma inseriti in una logica esplicita di conservazione del suolo, politica di montagna e pianura, bonifica idraulica. Solo che l’idea stessa di intervenire con strumenti pianificatori, per di più intersettoriali, ha stentato ad affermarsi: forse era troppo in anticipo con i tempi.

Poi il susseguirsi con frequenza e intensità crescenti di eventi di portata particolarmente disastrosa,  l’occupazione  generalizzata di suolo e sottosuolo nel boom del dopoguerra, una maturità e una presa di coscienza adeguate, l’invalersi   della cultura della pianificazione, un vento nuovo che soffiava in Italia e che parlava di programmazione, di proiezione verso il futuro, ma aggiungerei pure l’autorevolezza e l’impegno di esponenti della comunità scientifica nelle discipline idrauliche e di scienza della terra, questo coacervo di fattori, insomma, crearono le condizioni perché ‘difesa del suolo’ non rimanesse un concetto confinato a pochi addetti.  E vissuto come particolarmente se non esclusivamente limitativo se non vessatorio. Certo, ci vollero molti anni: da che le conclusioni di Giulio De Marchi si trasferissero in un dettato normativo molta acqua passò sotto i ponti.

E nel frattempo, in un contesto non parlamentare o politico bensì scientifico, accademico, culturale, nacquero il Progetto Finalizzato Conservazione Suolo del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Gruppo Nazionale Catastrofi Idrogeologiche, sempre in ambito CNR, nelle università corsi di laurea e materie di insegnamento propri della difesa del suolo, ricerche finalizzate alla gestione e alla previsione di eventi estremi. Sembrava davvero che fosse scoppiata una nuova primavera per la gestione e la manutenzione del territorio. Figuratevi: anche con una sorta di pax fra ingegneri, geologi e agronomi, architetti, pianificatori eccetera sempre pronti in genere ad affermare il loro primato esclusivo ed escludente in materia, e a danno degli altri. Nacquero istituti di ricerca per la protezione idrogeologica, da noi nell’Università della Calabria addirittura dipartimenti universitari come Scienza della terra, Pianificazione territoriale,  finanche… Difesa del suolo.

 LA LEGGE 183

  

Molti e diversi governi nazionali, ebbe il nostro paese, durante la gestazione della legge, così che il risultato finale non può non risentire di orientamenti, equilibri politici, patteggiamenti fra diversi poteri che insistevano sulla struttura del dettato normativo. Le Regioni, il decentramento di una serie di funzioni, la sottrazione di competenze a una istituzione e il conseguente passaggio ad altre – con le immancabili contrarietà, i consueti attriti, le conseguenti paralisi – rappresentano le tortuosità, le viscosità, i compromessi con i quali ebbe a misurarsi il legislatore. Senza tacere il fatto che la superfetazione che ne conseguì, dettata da mediazioni, bracci di ferro, disaccordi e accordi, sfociò nell’impugnativa davanti alla Corte Costituzionale da parte delle Regioni in materia di conflitti di competenza, e che di fatto frenò se non addirittura bloccò l’applicazione della legge. Legge, che è bene ricordare, è una legge quadro, che rimanda cioè le diverse Regioni a legiferare con norme regionali, all’interno della cornice generale della norma nazionale.

Non era facile, è necessario affermarlo senza falsi infingimenti, misurarsi con la 183: da parte di organi dello stato, amministrazioni, cittadini, tecnici, stake holders: i così detti portatori d’interessi. Una vera e propria ‘rivoluzione’ in cui si andava al di là dei confini amministrativi e l’attenzione era incentrata su quelle porzioni territoriali definite ‘bacini idrografici’, superando così barriere che da sempre avevano delimitato competenze, responsabilità , ‘bacini’ di consenso elettorale.  Prevedere negli organismi di governo dei bacini le ‘Autorità di bacino’ con composizioni che contemplavano dicasteri diversi e poteri locali e non locali di vario tipo rimandava di fatto alla cultura della concertazione, alla multidisciplinarietà, e tutto questo in un quadro legislativo pre-esesitente estremamente complesso in merito a sovrapposizione di norme, di competenze, di procedure autorizzative, di iter da seguire: un groviglio in cui non era facile  orientarsi, che nello stesso tempo depotenziava attribuzioni e, diciamo le cose come stanno, arbitri con i quali si era fino ad allora vissuto.

Né può tacersi per un verso che l’istituto Regione non era pronto a muoversi sul piano dell’adozione di norme che di fatto costituivano una limitazione d’uso del suolo e per altro verso il termine stesso ‘difesa’ che esplicitamente richiama a politiche, o soltanto azioni, limitative e prescrittive quando in Italia stava prendendo piede la cultura della deregulation e della sempre più crescente occupazione indiscriminata di aree pur in presenza di una miriade di piani: regolatori, dei parchi, delle comunità montane, gli Ambiti Territoriali Ottimali a norma della legge così detta Galli… , e il massiccio spostamento verso valle, nelle aree urbane, della vita che prima, in un paese sostanzialmente agricolo contemplava presenze significative in collina e in montagna, proprio laddove si originano i fenomeni di cui tratta la difesa del suolo: frane e alluvioni. Dicevo che non era facile, e infatti non fu facile: fatto sta che fino alla metà degli anni novanta del secolo scorso la legge 183 rimase essenzialmente al palo.

Rimase al palo fino a quando a qualcuno venne in mente di verificare il perché, dopo dieci anni e se pure con lo stop dato dalla Consulta di cui dicevo prima, in Italia le Regioni non avevano provveduto a legiferare nella cornice della legge nazionale né nessuno (in ambito parlamentare ma non solo) si fosse curato di capirne i motivi e sollecitasse l’avvio d’una stagione susseguente, o meglio: conseguente, alla legge. D’altronde non è questo, l’unico caso che si riscontra in cui fatta la legge si ritiene d’aver risolto il problema, quasi miracolisticamente o se si preferisce illuministicamente parlando. Nel frattempo, però, frane  e alluvioni continuavano imperterrite e l’occupazione indiscriminata del suolo era un leit moiv a scala nazionale, non risparmiando nessuno.

Ma veniamo allo specifico: fu instituito, presso il Senato della Repubblica, un Comitato Paritetico Camera dei Deputati-Senato della Repubblica con le finalità di verificare lo stato di attuazione della legge n. 183 del 1989, su tutto il territorio nazionale, individuarne criticità e proporre soluzioni. Conta, nell’attività parlamentare più che in altri ambiti, il background, il retroterra culturale, il know how professionale, e se si riesce a trasferire tutto questo in azioni istituzionali, in contesti di rappresentanza elettiva, senza però – e il punto è decisivo – pensare d’avere in mano bacchette magiche ché le virtù di mediazione, confronto, ascolto, flessibilità eccetera sono l’abicci della cultura politica, dicevo…  beh… può uscirne qualcosa non solo in termini declamatori o demagogici, ma effettivamente utili oltre che autorevoli. Il Comitato Paritetico in meno di un anno ha ultimato i suoi lavori fatti di audizioni, richiesta e raccolta di pareri, atti, proposte. Non  è questa la sede  per richiamare tutti suoi contenuti, ovviamente: chi vuole potrà consultare  i due volumi editi dalla Tipografia del Senato della Repubblica che riportano integralmente i lavori del Comitato, incluso il documento finale – quella che prende il nome di mozione – fatto di venti punti che sintetizzano in termini di operatività più o meno rapida il da farsi in sede parlamentare e governativa per quanto riguarda la ‘manutenzione’ della 183, sia attraverso modifiche legislative che attraverso atti di indirizzo volti alla semplificazione  e alla concertazione. Un documento finale ch’è stato presentato nell’Aula sia del Senato che della Camera nelle sedute di conversione in legge del decreto legge del Governo dopo i tragici fatti di Sarno, ed è stato fatto proprio dal Governo. Documenti e volumi che sono stati per anni oggetto di studio e di interesse da parte di soggetti diversi, ma oggi l’attenzione è pesantemente scemata: vedremo poi anche se succintamente perché. I punti essenziali: previsione e prevenzione esaltati e sottolineati; coniugare il sapere con il fare; promuovere la manutenzione del territorio; superare la ripartizione far bacini regionali, interregionali, nazionali; ridurre drasticamente i soggetti competenti nei bacini idrografici (ne furono conteggiati una cinquantina); abolire tutta una serie di vagli autorizzativi per le procedure esecutive dei progetti; assicurare fondi certi per la difesa del suolo; passare da una pianificazione effettivamente troppo rigida a strumenti di piano magari settoriali ma più snelli e più concretizzabili; prefigurare quanto si avvertiva era già nell’aria con la normativa europea che si percepiva si muovesse secondo certe linee; recuperare insediamenti e stanzialità nelle aree interne sia di tipo umano che tecnico e funzionale.

Ebbene: i due volumi di cui dicevo furono presentati a Palazzo Zuccari a Roma, con massiccio concorso e con convinta adesione del mondo, chiamiamolo così, della difesa del suolo. Alcuni di quelli interessati e richiamati dall’evento, presenti allora, sono qui anche oggi. Le Regioni cominciarono a muoversi, a legiferare, il Governo, attraverso decreti ma mai con leggi ordinarie, modificò la 183 secondo le indicazioni del Comitato Paritetico, e devo dire che l’impianto complessivo che ne uscì fuori era un insieme coerente, snello, poteva funzionare.

 

IN MEDIA RES

 

Poi intervenne Bruxelles, poi la grande attenzione e la grande tensione ch’erano state dedicate all’argomento, si potrebbe dire da ogni dove nel paese, molto si affievolirono e se pure possiamo e dobbiamo dire che tanto fu fatto, siamo in un limbo di indifferenza e di sottovalutazione, oggi, a un livello di  percezione dei fatti, cioè, ché di fatti si tratta, molto bassa, tanto dai responsabili e delle ruling class in generale quanto dei cittadini comuni, tutti attenti solo al ristoro dei danni e esclusivamente al post evento, che ci trovano se non disarmati certamente scoperti al cospetto di un territorio fragile, esposto a eventi gravosi, di un tessuto normativo non adeguato, di un presidio tecnico e amministrativo insufficiente, di un difficoltà persistente nello spendere le risorse finanziarie disponibili, nell’inquadrare sempre e comunque interventi e azioni tanto a livello di scala di bacino quanto e prioritariamente in termini di previsione e di prevenzione. Con per di più eventi atmosferici da un verso – non da ora, e certamente con qualche ragione si parla sempre più insistentemente di mutamenti climatici – inclementi e con manifestazioni di precipitazioni e di deflussi intensissimi sia giornalieri quanto orari, dall’altro in presenza di occupazione senza regole e indifferente a rischi direi oggettivamente conclamati di ogni porzione di suolo disponibile: l’ISPRA che è istituto dello Stato lo ha dimostrato e squadernato a chiare lettere. Niente si percepisce in direzione di un adeguamento antisismico alle costruzioni, dichiarate esposte ad altissimo rischio, le fiamme che quest’estate hanno provocato terre desolate senza distinzione di sorta per tutta la nostra regione, e non solo, hanno agevolato scoscendimenti e frane in uno scenario già di suo predisposto, a fronte di una polverizzazione di presenza umana e di strutture di controllo che rende, ahinoi, tutto più facile ad essere aggredito.

 

Dall’anno 2000 viviamo in una vacatio. La direttiva europea emanata in quell’anno in materia ha abrogato l’esistente, la legge dello Stato n. 183, i bacini, i piani… tutto. Ha introdotto il Distretto Idrografico. Il nostro paese non ha recepito la direttiva, o meglio: l’ha recepita con legge dello stato ma subito dopo questa è stata impugnata davanti la Corte Costituzionale, dichiarata incostituzionale e ancora, ad oggi, non ‘corretta’ in forza della corrispondente sentenza della Consulta, se non per un provvedimento emanato dal governo attuale nel suo ultimissimo periodo di vita, a carattere meramente formale, direi addirittura burocratico. Non abbiamo, cioè, né le Autorità di bacino ex legge 183 e né le Autorità di distretto a norma della Direttiva UE. E’ vero, alcuni compiti e taluni adempimenti sono stati nel frattempo attribuiti ad alcuni organismi in essere in ossequio alla 183, così come numerosi tavoli tecnico-istituzionali sono stati messi in cantiere per assegnare al nostro paese una legge sulla difesa del suolo per così dire europea, ma per intanto non ci siamo ancora. Né mi risulta che a livello parlamentare, oltre che governativo, l’attenzione sulla difesa del suolo sia percepita come prioritaria, se non in termini meramente declamatori in corrispondenza di questo o di quello evento, ed esclusivamente con solenni impegni volti esclusivamente alla ricostruzione e non già all’intervento organico.

In questa vacatio di cui dicevo si è, oggettivamente inserita la Protezione Civile. Con il suo encomiabile lavoro di soccorso alle popolazioni e di operazioni di pronto intervento, ma di fatto perdendo per strada gli altri due piloni della sua identità: previsione e prevenzione. Ma chiediamoci pure: può mai il Dipartimento della Protezione Civile surrogare compiti che attengono ad altre sfere? Può essere il Dipartimento della Protezione Civile l’unico braccio e l’unica mente delle politiche per la difesa del suolo, per le politiche sul territorio? Né può qui sottacersi come l’impianto della legge 183 fosse da tutti ritenuto valido, se pure con le imperfezioni cui si è accennato, in specie se lo si considera dopo le novelle legislative che si sono succedute: eppure il nostro paese non è stato in grado di difendere tale impianto, a Bruxelles, laddove più che proporre una direttiva fotocopia della 183 (non sarebbe stato opportuno, giusto, onesto) avrebbe potuto e dovuto avanzare e difendere scenari fortemente improntati alla nostra legge di riferimento. Perché così non è stato? Scarso interesse per la materia, peso specifico dell’Italia non adeguato? Entrambe le cose, ritengo, e forse pure altro.

 

SCENARI EUROPEI E QUESTIONI CALABRESI

 

Non rinvengo elementi di positività nello spezzettamento in più direttive europee dell’argomento difesa del suolo, territorio e acque, direttive numerose e a raffica, che danno il segno di come una visione per così dire di cornice non rientri più nel radar della percezione del legislatore anche a scala europea.  A me pare che un impianto, una visione, una politica generale non ci sia, appunto, nemmeno a livello europeo, oltre che in Italia: non è un continente keynesiano, il nostro, si potrebbe concludere. Con la conseguenza che abbiamo o meglio si sia scelta la via del riduzionismo, della frammentazione, dell’empirismo induttivo, che si può dire risultino la cifra prevalente del momento storico che viviamo. Oppure, diciamolo: di pianificazione e programmazione – ché in estrema sintesi di questo si tratta –  non  si vuole più sentir parlare. D’altro canto le istituzioni parlamentari sono effetto e specchio di quanto si muove o non si muove nel paese: quale vagìto si avverte da parte delle municipalità, delle comunità scientifiche, dei tecnici, degli imprenditori, dei partiti politici, delle forze sociali? Solo e soltanto richiesta di risorse finanziarie per una generica quanto fallace richiesta di ‘messa in sicurezza’ post-evento, slogan declamatori, ignoranza assoluta del ‘di-che-trattasi’, oscuramento e colpevole dimenticanza di quanto si è prodotto, pensato, realizzato negli ultimi vent’anni, almeno. E’ come se la storia non esista più e si voglia partire sempre da zero. Come se fra rischio zero e deregulation non ci siano tanti spazi intermedi, come se intervenire dopo non costi di più che intervenire prima. Come se risparmiare vite umane non fosse possibile.

Come può intendersi il lavoro di ‘Italia Sicura’, altrimenti? La struttura messa in piedi dal Governo in carica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ha l’esplicito, e meritorio, compito di accelerare, di promuovere, l’apertura dei cantieri per le numerose opere da tempo in posizione di stand by. Ebbene, per diretta ammissione del responsabile di Italia Sicura, è vero: la qualità progettuale non sempre è quella giusta, gli interventi sono invischiati in una rete perversa di procedure burocratiche, bisogna accelerare, accelerare… ma delle norme insufficienti, della politica di piano che non esiste più, di collina e montagne abbandonate non si parla: chi ne parla, chi dovrebbe parlarne? Eppure collina e montagna sono la sede dove originano i processi fluviali, dove insorgono i movimenti di massa, dove si sono bruciati quest’estate ettari e ettari, e se lì il presidio umano e tecnico sì è se non desertificato fortemente ridotto, se il modello di sviluppo è tutto incentrato a valle, come interveniamo, di che cosa parliamo? E ancora: se per aprire i cantieri di un’opera il vaglio, i vagli, durano l’enormità di anni e di timbri, e la qualità progettuale non è sempre una perla fra le perle, non ci si rende conto che la questione delle politiche territoriali va vista, va rivista, dalle fondamenta, a cominciare dalla promozione profonda e robusta della interdisciplinarietà e dal dialogo fra i diversi saperi: altro che baruffe chiozzotte fra i molteplici professionisti.

Da poco è stato pubblicato nell’Aggiornamento della Enciclopedia Treccani la voce Difesa del Suolo ed Eventi Estremi: ho in quella sede sviluppato una traccia di ragionamento improntato alla ricostruzione di un filo storico su quanto finora prodotto a livello istituzionale oltre che scientifico sulla difesa del suolo. Ho, lì, avanzato alcune proposte di recupero di un ethos come condizione necessaria per una inversione di tendenza. Un ethos essenzialmente basato su due parole chiave: responsabilità e modello di sviluppo. La responsabilità non solo delle istituzioni preposte ma anche, e direi soprattutto, dei soggetti competenti. Tecnici, ingegneri, geologi, agronomi, architetti, docenti universitari… sono o no classe dirigente? Intendono riappropriarsi d’un ruolo che ha fatto grande l’Europa, che ha scritto pagine importanti nel nostro paese? I laghi silani di cui parlavo prima si debbono ai costruttori di dighe, sì, ai progettisti di impianti, di turbine eccetera. Ma si debbono pure ed essenzialmente all’ingegnere Omodeo, questo meridionale che non con il cappello in mano, non per chiedere, non per protestare, ma per proporre è riuscito a smuovere banche, governi, imprenditori in una visione da New Deal ante litteram.

 

PER CHIUDERE UNA RELAZIONE E (RI)APRIRE UNA DISCUSSIONE

 

Possiamo, ingegneri e geologi, litigare fra di noi, possiamo, noi tutti, aspettare Godot, un Godot che, se lo aspettiamo soltanto, siamo sicuri per davvero che arriverà?! Godot lo aspettiamo, e va bene… , se però recuperiamo quel senso di partecipazione attiva che ancor più necessita, in tempi non propriamente brillanti. Fuor di metafora: coniugare saperi tecnici con scelte politiche, motivare l’azione in ambito legislativo, impegnarsi in prima persona per dare la nostro paese un sistema moderno e funzionante di difesa del suolo e assetto territoriale, attraverso una chiamata di alto profilo di quanti hanno voce in capitolo, da promuovere senza particolari indugi. Una chiamata che non può che partire dal modello di sviluppo e dagli strumenti d’intervento. Cementificazione, “stra-uso” e “stra-abuso” del territorio, urbanizzazione massiccia, abbandono della se pur minima azione programmatoria devono stare al centro di una riflessione accurata e però non soltanto improntata alla denuncia. Non basta la denuncia: serve la proposta, la proposta sostenibile e praticabile, da offrire alle sfere decisionali. E la proposta, ritengo, uscirà fuori. Non semplice, non immediatamente e di colpo realizzabile, ma uscirà fuori. Ed ovviamente non riguarderà solo la difesa del suolo. Potremmo dire: la difesa del suolo come metafora di un nuovo modello di sviluppo, come recupero dello strumento della pianificazione per il governo del territorio, che contempli una visione di insieme fra città e campagna (come si diceva una volta), di rischi, di limitazioni d’uso ma anche di prospettive reali di crescita. Ché i fondi ci sono, spesso ci si trincera dietro la loro insufficienza, ma ci sono: non si sa – piuttosto – chi deve spenderli, dove, quando e con quale priorità e a quale scala, ma ci sono. E se dopo i tragici fatti di Soverato mi indignai nel leggere la folle richiesta avanzata dalla Regione al Governo nazionale di non ricordo più, dopo quasi ventotto anni, quanti milioni di euro, quando non avevamo ancora recepito la legge 183, quando avevamo autorizzato di tutto e da per tutto, quando si costruiva tutto e da per tutto, poi quella doverosa e scontata indignazione si ebbe modo di tramutarla in altro, in proposta, per questa nostra travagliata terra, al riparo da fatalismi e attendismi.

E in qualche modo bisogna iniziare: cinquanta e più comuni della nostra regione hanno sottoscritto, fatta propria, una proposta di legge regionale sulla valorizzazione dei centri storici calabresi, una proposta redatta da diverse associazioni di cittadini che hanno sede a Cosenza e di cui faccio parte. La proposta è stata formalmente depositata ormai mesi orsono presso la Presidenza del Consiglio, a Reggio  Calabria, ma se pur avendone chiesto e sollecitato, come pure è previsto dallo Statuto regionale, l’avvio della discussione nella competente Commissione a tutt’oggi non ne avvertiamo traccia alcuna. Ma noi aspettiamo e premiamo, continuiamo a premere: perché molto crediamo nella cittadinanza attiva, perché siamo convinti che il problema delle aree interne e dei nostri comuni sia decisivo per la crescita, per la sopravvivenza stessa nostra. Il tutto non estraneo, affatto, al tema della discussione di oggi.

 

 Relazione di Massimo Veltri all’incontro pubblico sul tema “Difesa del suolo e pianificazione del territorio: una questione nazionale, fra rischio zero e deregulation” promosso dall’Associazione degli Ex Parlamentari della Repubblica Coordinamento Regionale Calabria “P. Poerio” e Associazione fra ex Consiglieri Regionali della Calabria a  Lametia Terme, il 20 gennaio 2018 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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 Veltri M., La Pianificazione della difesa Idraulica del Territorio, Atti del convegno “Corso d’aggiornamento”, Politecnico Milano, Editoriale Bios, 1999.

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 Veltri M., La difesa del suolo in Italia 1970-2010: un bilancio, Convegno Quarant’anni dopo la Relazione “De Marchi”, Roma 2010.

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Veltri M., Frane e dissesto idrogeologico: consuntivo, Atti del Convegno Accademia dei Lincei, Roma 2011.

Veltri M., Cosa non funziona nella difesa dal rischio idro-geologico nel nostro paese? Analisi e rimedi, Atti del Convegno Accademia dei Lincei, Roma 2013.

Canonico G., Rischio idrogeologico e aree archeologiche. Due casi di studio: Sibari e Metaponto, Tesi di Laurea Magistrale, non pubblicata (relatori: Massimo Veltri, Armando T. Grasso), UNICAL, A.A. 2013-14.

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Veltri M., Difesa del suolo: Direttive europee e normativa nazionale, Atti del 38mo Corso di Tecniche per la difesa del suolo e dall’inquinamento, Guardia Piemontese (Cs), 2017.

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Teti V., Quel che resta. L’Italia dei paesi. Fra abbandoni e ritorni. Donzelli, 2017.

 

 

Prime lettere dalla Calabria di Franco Armino

Prime lettere dalla Calabria di Franco Armino

Sono in Calabria e non vedo l’ora che sia giorno per vedere il paesaggio. Mi piace che qui non sia tutto nuovo. Non ci sono venti metri quadrati che siano uniformi, anche un metro di marciapiedi può essere una sorpresa. Se guardi per terra quando sei in Svizzera vedi che è tutto segnato, ogni metro di terra ha il suo compito assegnato. Lugano è l’opposto di Vibo Valentia. Noi dobbiamo stare attenti a non diventare come Lugano. Noi dobbiamo avere un pezzo di giornata in disordine, dobbiamo indugiare ogni tanto in chiacchiere inutili.
Svegliarsi in Calabria mi piace perché qui è in atto una resistenza, ma non la fanno tanto le persone, la fa il paesaggio. E io vengo qui per dare onore a questa resistenza. Che poi è un poco quella di tutto il Sud. Non date retta alle scene degli imbroglioni che anche in questi giorni stiamo vedendo. Il Sud italiano è ancora un luogo che ci può commuovere. Qui lo spazio è conteso dalla miseria spirituale dell’attualità e le tracce nobili del mondo greco e bizantino. Le tracce di un mondo dove lo spazio esterno era il cuore di tutto e le persone contavano per la felicità che potevano dare al mondo, non per la felicità che chiedevano al mondo.

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2.

In Italia esistono tre grandi isole: la Sicilia, la Sardegna e la Calabria. La Calabria non è una penisola perché ha il mare anche a Nord, un mare di montagne, il Pollino.

Bisogna guardare bene l’Italia, bisogna guardarla per quella che è adesso, non per l’abito che le abbiamo confezionato chissà quando.

Ora non è più tanto difficile arrivare in Calabria, l’autostrada è poco affollata ed è anche gratuita: viaggiare da Salerno a Reggio è un viaggio che non stanca.

Molti italiani in pensione potrebbero andare a passare qualche mese in Calabria per esempio nel mese di aprile o di maggio. Fa caldo, si mangia bene, non si può dire che ci sia un clima violento. La criminalità si occupa di altro, non certo di qualche forestiero che si fitta la casa per un mese.

Gli italiani devono andare in Calabria, c’è tanto spazio nei paesi dell’interno e ci sono tante case vuote sulla costa. Qui la modernità incivile è ben presente, ma ha solo poggiato i suo segni, non sono scesi in profondità. La Calabria se gratti un poco ti svela il suo cuore arcaico, ti dice qualcosa che ti fa bene sentire, ti muovi in uno spazio che è pieno di errori e di orrori, ma non sa di finto. In questa regione è come se ci fosse ancora una verità nelle cose e nelle persone.

Io fino a qualche anno fa la Calabria non l’avevo capita. Mi irritava e basta, ma ora la guardo con occhi nuovi. E ogni due minuti mi costringe a cacciare il telefonino per fare qualche foto. In nessun altro posto d’Italia mi capita di fare tante fotografie. È uno spazio in cui il brutto viene immesso in continuazione, ma curiosamente alla fine è un brutto cedevole, capace perfino di farti simpatia. Accade negli spazi esterni e anche in quelli interni. Il calabrese o arreda troppo o non arreda per niente. Qui sembra non ci sia posto per la sintesi, per l’intreccio, il fregio e lo sfregio vengono semplicemente accostati. È una situazione interessante dal punto di vista antropologico, oltre che estetico. Bisogna assolutamente andare in Calabria e guardarla, svuotare la testa da ogni pregiudizio e limitarsi a guardare. Questa regione non produce noia quando tace, quando guardi i suoi muri, il suo mare, i suoi alberi. La noia arriva, come in ogni parte del mondo, quando senti le persone che parlano per l’obbligo di dirsi qualcosa. La parola è essa stessa una cosa e non può essere usata come colluttorio per sciacquarsi la bocca. Ma questo è un altro discorso e non c’entra molto con la Calabria.

 

3.

La Calabria delle case e delle strade sembra molto simile a quella degli arbusti che spuntano a caso in mezzo alla strada. È come se qui l’unico piano urbanistico possibile fosse la primavera. E quando vai in giro solo raramente senti la pressione di un mondo organizzato nei suoi lavori. Si lavora ma c’è tempo per l’indugio. Ognuno anche qui ha le sue traettorie, ma sono meno dritte, a un certo punto le perdi di vista. E poi i calabresi rimasti in Calabria non sono tanti. E a me piacciono i luoghi con poca gente. Mi piace camminare davanti al mare senza vedere nessuno. Quando vedo uno spazio bello che non sta usando nessuno mi pare che questo spazio sia ancora più prezioso. Qui quello che vedi non è frutto di un progetto ma di una smania. La modernità come fioritura selvaggia più che come acquisizione lenta, condivisa. E poi la modernità qui sembra una rivalsa contro l’orografia. Le montagne ci hanno procurato tanta fatica. Ci vendichiamo costruendo tutte le case nelle pianure (che qui hanno la forma che hanno le unghie). Il calabrese ha un sangue forte perché il sangue deve scendere e salire. E la discussione subito si fa accesa, i toni non sono mai moderati. Si procede per sbalzi, scalini. Anche la vita emotiva pare senza progetto, pare una fioritura primaverile. Qui non c’è il clima depressivo col grigio chiaro che ti avvolge nelle grandi pianure. Qui hai un filamento cupo che sta nel fascio dei nervi, come se tra i colori dell’arcobaleno ci fosse anche il nero.

 

 

testi e foto di Franco Armino

p.s.

ne seguiranno altre