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L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

Dalla rivoluzione industriale in Gran Bretagna ai giorni nostri free trade e protezionismo si sono alternati. Iniziò sua Maestà britannica a predicare il libero mercato dopo aver imposto per secoli alle sue colonie il più rigido protezionismo.

Sul piano della teoria economica fu David Ricardo a battersi, con successo, per eliminare i dazi all’import di grano in UK, sostenendo che ci sia un vantaggio reciproco a scambiare beni in cui ciascun paese si è specializzato, con il famoso esempio del vino portoghese che viene scambiato con le lane inglesi. Ma, il resto dei Paesi europei quando decise di industrializzarsi ricorse a drastiche misure di protezione della propria industria nascente.

Lo fece la Francia colbertiana, la Germania di Bismark , persino l’Italia con Crispi che alla fine del XIX secolo protesse la nascente industria tessile dell’Italia del Nord ovest, con gravi ricadute per il Mezzogiorno che dovette subire la risposta della Francia, che colpiva soprattutto i prodotti dell’agricoltura meridionale.

Dalla seconda metà del Novecento, con una serie di stop and go si sono moltiplicati gli scambi internazionali, sono cadute o ridotte le barriere doganali, sia come limiti quantitativi all’importazione che come dazi. Per molti Paesi del Sud del mondo questa non è stata una scelta, ma una imposizione del FMI e della Banca Mondiale, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso.

Queste due istituzioni internazionali hanno imposto ai cosiddetti PVS, oltre al taglio delle spese sociali e dei sussidi ai produttori agroalimentari, l’abbattimento dei dazi alle importazioni e l’apertura totale dei loro mercati ai prodotti dei paesi industrializzati, utilizzando come arma di ricatto il credito. Il risultato è stato lo smantellamento di industria leggera e artigianato tradizionale, e un pesante impoverimento dei Paesi del Sud del mondo.

Così è stato creato in pochi decenni quello che viene definito Mercato Mondiale, grazie ad un incremento vertiginoso degli scambi a livello internazionale. Per averne un’idea il commercio mondiale è cresciuto dal 1950 ad oggi di quasi 38 volte (sic!), circa quattro volte il Pil mondiale. Come è noto il WTO (World Trade Organization) è l’istituzione internazionale che è stata creata per agevolare questi scambi, regolamentarli e contrastare forme più o meno ufficiali di protezionismo. E’ una delle tante istituzioni internazionali che Trump tenterà di fare saltare.

Malgrado tutti questi sforzi il “free trade” non è stato mai raggiunto, ed è più una costruzione ideologica che realtà. Basti solo pensare ai sussidi dello Stato alle imprese. Quello che Trump non dice, e non può dire, riguarda la massa di sussidi che ha ricevuto negli Usa la produzione di cotone (16 miliardi l’anno secondo gli ultimi dati disponibili), la produzione di carne (900 euro a vacca), di latte, ecc.

Grandi e piccoli paesi africani sono stati affamati da una concorrenza sleale su molti prodotti (cotone, arachidi, mais, ecc.), proprio grazie a questi pesanti interventi pubblici che hanno alterato il cosiddetto libero mercato. E lo stesso si può dire per l’agro-alimentare europeo. Per non parlare dei contributi a fondo perduto per la R&D, ricerca e sviluppo, che i Paesi del Sud del mondo non si possono permettere.

In breve il protezionismo dei paesi più ricchi c’è stato da sempre e ora assume con Trump una dimensione spettacolare, ma non per questo più efficace. Se storicamente le barriere doganali sono state usate per permettere all’industria nascente di germogliare, non si è finora mai visto un paese a capitalismo avanzato che pensi di reindustrializzarsi, senza tener conto del relativo alto costo del lavoro, della concorrenza dei paesi emergenti nel settore dell’industria tradizionale (tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, arredi, ecc.) dove i margini di profitto sono molto limitati, eccetto che nel settore del lusso, che è per altro appannaggio di altri Paesi, a partire dall’Italia, e dove l’incremento dei prezzi dovuto ai dazi non scoraggia una clientela a reddito medio-alto.

Infine, Trump dovrebbe preoccuparsi seriamente dei Brics che hanno già deciso di non utilizzare più il dollaro per l’interscambio e che ora diventano una sponda interessante per i Paesi più colpiti dai dazi, a cominciare da alcuni Paesi della Ue. Un nuovo scenario geopolitico si sta configurando e chi tra i governanti rimane legato, o legata nel nostro caso, ad un vecchio carro, ne subirà le conseguenze.

L’impatto sull’Italia e sulla Calabria

Come ormai è chiaro l’Italia insieme alla Germania sono i paesi europei più colpiti dai dazi Usa. In particolare, il settore più penalizzato sarà quello della filiera dell’Automotive e, molto probabilmente, il governo italiano sarà costretto a seguire, in ritardo, quello spagnolo il cui leader ha già disposto 16 miliardi di contributi al settore.

Allo stesso tempo, saranno cercati altri mercati di sbocco per i prodotti più colpiti da questo incremento dei dazi decisi da Trump. Si salveranno, come è sempre avvenuto, i prodotti della fascia alta, del lusso, che più sono cari più sono ricercati dalle élite.

La Calabria, come giustamente ha sostenuto il collega e amico Prof. Cersosimo, ha un export così esiguo, circa 500 milioni su oltre 600 miliardi di export nazionale nel 2024, che non ne risentirà. Ma, allo stesso tempo, ha ragione anche l’imprenditore Fortunato Amarelli, presidente della prestigiosa Associazione Imprese Centenarie Italiane, che mette in guardia dagli effetti indiretti di questo neo-protezionismo fuori stagione.

In sostanza, il ragionamento è questo: se il nostro governo dovrà sostenere le imprese più colpite da questi dazi allora ci saranno meno risorse finanziarie e, come al solito, dai tagli della spesa pubblica e del welfare saranno più colpite le regioni più deboli dove il rapporto “spesa pubblica/Pil regionale”, è più alto. E in Calabria è più del doppio della media nazionale, il che si traduce nella storica dipendenza della nostra economia dai flussi di denaro pubblico.

Che fare, allora? Data questa situazione molti Paesi penseranno di incrementare la Domanda interna per compensare la caduta dell’export. Per questo sarebbe importante, anzi necessario, un incremento dei salari (i più bassi d’Europa).

Si potrebbero incrementare salari e stipendi nei settori protetti dalla concorrenza internazionale come la sanità, l’istruzione, ma anche l’edilizia e il commercio, ecc. dando una migliore retribuzione a medici, infermieri, insegnanti, operai, commessi, ecc. Oltre a un problema di giustizia redistributiva si darebbe una mano importante all’economia del nostro Paese.

Certo, c’è il vincolo di bilancio che pesa nel Paese più indebitato d’Europa, ma si potrebbe semplicemente aumentare la pressione fiscale per i ceti medio-alti, magari introducendo la famosa patrimoniale a partire da oltre cinque milioni di asset.

E’ solo un esempio, ma la strada non può che essere questa: solo una maggiore giustizia sociale, un ruolo redistributivo dello Stato, può salvarci da una pesante recessione che si combinerà, purtroppo, anche con un incremento dell’inflazione, generando una drammatica condizione per i ceti più deboli.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 aprile 2025
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

BRICS. La rivoluzione monetaria e il nuovo ordine mondiale.-di Tonino Perna

BRICS. La rivoluzione monetaria e il nuovo ordine mondiale.-di Tonino Perna

Oggi a Kazan, sotto la presidenza russa, si riuniranno i massimi rappresentanti dei BRICS che con i nuovi ingressi (Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Iran, Egitto, Arabia Saudita) rappresentano il 42 per cento della popolazione mondiale, il 36,6 per cento del Pil globale e il 60 per cento della produzione di idrocarburi. E siamo solo agli inizi perché altri Paesi (come la Turchia, l’Armenia, ecc.) bussano alle porte di questa nuova alleanza che sta ridisegnando l’economia e la geopolitica.

Mentre il G20 ha perso di rilevanza, di fatto si è rimpicciolito trasformandosi in G7 (ma qualcuno se n’è accorto?), rinunciando agli ambiziosi disegni di egemonia che si era dato, rinchiudendosi nei confini degli Stati Uniti e dei suoi satelliti, i BRICS avanzano sulla scena mondiale con un chiaro progetto per il futuro: liberarsi dalla “Signoria” del dollaro.

Infatti, il vertice che inizia oggi nella capitale della repubblica russa del Tatarstan non sarà un incontro rituale, uno scambio di buoni propositi, ma ha un obiettivo preciso: la creazione di una nuova moneta di scambio internazionale. “The Unit” è il nome della nuova valuta che i BRICS intendono introdurre, una unità di conto che regoli gli scambi tra questi Paesi ed è il frutto della media ponderata delle diverse divise nazionali.

E’ molto simile alla proposta che John Maynard Keynes nel 1944 fece nell’incontro storico di Bretton Woods: il “bancor” una moneta-unità di conto internazionale, il cui valore doveva essere il risultato di una media ponderata tra le monete più forti, nell’ambito di una visione di un mondo multipolare. E’ quello che oggi intendono fare i BRICS spinti dalla Russia che in questi anni di dure sanzioni ha cercato altri mercati e altre alleanze, a partire da quella con il colosso cinese. Ma, una nuova moneta di scambio che abbia un riconoscimento a livello internazionale non si improvvisa.

Negli ultimi dieci anni, tra i Paesi BRICS si sono moltiplicati gli scambi bilaterali – soprattutto tra Russia, India e Cina- con un picco nell’ultimo anno che ha interessato in maniera particolare l’interscambio Russia- Iran che è avvenuto al 60 per cento in rubli e rial. Allo stesso tempo è cresciuta la corsa all’oro come riserva delle banche centrali.

Per questo oggi, secondo alcuni analisti che seguono da vicino l’evolversi delle trattative per la creazione del “The Unit”, questa nuova moneta avrà il sostegno per il 40 per cento dall’oro e per il resto da un paniere di valute nazionali dei vari Paesi membri, creando così un percorso virtuoso che esclude l’egemonia di uno Stato su un altro.

E la corsa all’oro per sganciarsi dalla “Signoria” del dollaro sta interessando anche alcuni Paesi africani, come lo Zimbabwe, Nigeria e Uganda, le cui banche centrali stanno aumentando le riserve auree con l’obiettivo dichiarato di ridurre la dipendenza dal dollaro.
Se si concretizzerà la nascita di “The Unit” il 22 ottobre di quest’anno verrà ricordato come una svolta di portata storica paragonabile al 15 agosto del 1971 quando il presidente Nixon decise unilateralmente lo sganciamento del dollaro dall’oro, infrangendo gli accordi di Bretton Woods.

Per oltre cinquant’anni gli Usa hanno potuto godere di questo privilegio che gli ha permesso di avere un tenore di vita nettamente superiore alle loro possibilità, grazie ad un continuo indebitamento con il resto del mondo che ha superato quest’anno i 21.000 miliardi dollari.

Anche se ci vorrà più tempo per rendere vigente l’uso di questa nuova moneta/unità di conto, la strada è tracciata e la crisi del dollaro sarà irreversibile con conseguenze imprevedibili. Come sostiene la giornalista economica Saleha Mohsin (Paper Soldiers. How the Weaponization of the Dollar changed the World Order, Penguin, 2024) il dollaro è diventato progressivamente la vera arma di Washington per dominare il mondo.

Ma, i tempi sono cambiati e quest’arma ogni giorno che passa diventa sempre più arrugginita, malgrado il governo nordamericano continui a stampare dollari facendo arrivare il debito esterno, oltre che quello interno pari a tre volte e mezzo il Pil, ad un livello insostenibile. E l’Ue farebbe bene a prendere le distanze, a sganciarsi progressivamente dalle strategie belliche e finanziarie di Washington, se non vuole finire nel baratro trascinata dal crollo dell’impero nordamericano.

da “il Manifesto” del 22 ottobre 2024