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Il socialismo umanitario a Rende.-di Battista Sangineto

Il socialismo umanitario a Rende.-di Battista Sangineto

Il risultato del referendum sulla città unica non solo ha statuito che i cittadini di Rende non volevano una prepotente ed ingiustificata annessione a Cosenza, ma ha portato alla luce un sentimento ben più radicato ed importante: l’esistenza di una comunità che possiede un senso d’appartenenza ad un luogo che era un paese antico, prima, e, dopo, quel che sembrava essere solo una ben progettata e costruita periferia della confinante, disordinata e mal disegnata, città capoluogo di provincia.

Un senso di comunità che discende e coincide con il senso politico che ha impedito -in maniera straordinariamente lungimirante sin dagli anni ’60, ma in special modo dagli anni ‘80 in poi del ‘900- che il territorio rendese diventasse un ‘non-luogo’, una delle tante periferie del mondo contemporaneo priva di senso, di bellezza e di socialità cittadina, al pari delle tante che negano la città o che la declinano solo nelle forme di “grands ensembles” costituiti soprattutto da anonimi ed enormi palazzi con, o senza, verde intorno (La Cecla 2015).

Rende, invece, non è diventata un suburbio, ma una città: ha edificato scuole di tutti gli ordini e gradi, compresa l’università, edifici pubblici come il municipio, le case popolari, le case economiche e popolari di nuovissima concezione dello straordinario quartiere CEEP, i tanto celebrati campi da tennis, il palazzetto dello sport, l’area mercatale, i numerosi parchi pubblici ed ha costruito un poliambulatorio per favorire, con grande preveggenza, un sistema di sanità territoriale diffuso, ha piantato moltissimi alberi (che ora andranno ripiantati, dopo l’ultimo decennio di deforestazione urbana) e ha imposto che anche i privati lo facessero, ha costruito chiese.

Ha rimesso a nuovo le strade e gli edifici pubblici del Centro storico dotandolo di Musei e ristrutturando, fra le altre cose, uno storico cinema che ora aspetta solo di essere gestito nella maniera più adeguata.

Una città che è in grado di essere un indispensabile “capitale cognitivo che fornisce coordinate di vita, di comportamento e di memoria, e costruisce l’identità individuale e quella, collettiva, delle comunità” (Settis 2017).

Attorno alla realizzazione di questo disegno urbanistico e sociale di città si sono formate, appunto, una comunità e un senso di identità fra gli abitanti che non vogliono rinunciare alla razionalità, alla bellezza ed all’efficienza che Rende ha posseduto e che, ancora in gran parte, possiede. Quel senso di comunità che ha fatto dire di NO alla città unica dall’81,4% dei votanti rendesi che con questa schiacciante percentuale hanno respinto non solo l’annessione, ma anche un modello di urbanità diverso da quello che vivono quotidianamente.

Ora, a Rende, bisogna solo completare l’opera dell’edificazione di una città, si tratta di realizzare a pieno l’”urbanità” che altro non è che il risultato di un’interazione adattiva fra la ‘urbs’ –che rappresenta i caratteri fisici e architettonici della città- e la ‘civitas’ che contempla i modi d’uso e le relazioni sociali dei cittadini (Consonni 2013).

Per quel che riguarda l’’urbs’, l’aspetto fisico della città, non si può e non si deve a consumare suolo e colare cemento, dato che Rende -secondo i dati ISTAT del 2023- ha nel suo comune 20.881 case per 36.571 abitanti (una ogni 1,7 abitanti) ed ha il 17% di case vuote, ben 4.931. E se, in tutta l’area urbana, le abitazioni vuote sono addirittura 14.262, a cosa, e a chi, servono tutte queste case se la popolazione in Calabria – Censimento ISTAT al 31 dicembre 2021- è in calo dello 0,3% rispetto al 2020 (-5.147 individui) e del 5,3% rispetto al 2011 e se la Svimez stima un calo del 20% della popolazione meridionale fino al 2050? (Sangineto 2025).

In questo quadro è la proposta di Sandro Principe a convincere: ha detto che nel territorio comunale si costruiranno ‘ex novo’ solo case per i giovani e per i meno abbienti. Non verrà usato il “metodo Milano” che consisteva nell’abbattere un vecchio edificio e sostituirlo con un enorme palazzo – come è già più volte avvenuto in questi ultimi anni anche a Rende, oltre che nel centro vincolato di Cosenza- con la stessa procedura con cui si autorizza il rifacimento di un appartamento, una semplice ‘Scia’. E, infine, si eviterà l’uso indiscriminato delle ormai famigerate ‘perequazioni urbanistiche’ che vanno a vantaggio solo di chi vuole consumare ancora suolo per profitto.

La ‘civitas’, l’uso della città e le relazioni sociali dei cittadini, è un altro imprescindibile elemento dell’”urbanità” di una città che non ha nulla a che fare con le dimensioni di un centro abitato perché l’urbanità è avere piazze e viali alberati, è avere un passeggio mattutino e serale che i cittadini frequentano per lavoro o ‘pour loisir’ guardando le vetrine dei negozi e incontrando amici e conoscenti, ‘urbanità’ è avere bar e gelaterie con tavolini dove si possano consumare caffè e granite senza l’intralcio di ingombranti ‘dehors’.

Una misura dell’”urbanità” è, sicuramente, la vitalità dei luoghi cittadini che non può e non deve essere raggiunta solo, come sembrano credere alcuni amministratori, attraverso la movida notturna, perché se è vero, ed è comprensibile, che la varietà delle presenze e la compresenza di motivi e di modi della frequentazione è uno dei connotati distintivi dell’urbanità è altrettanto vero che l’urbanità si misura anche dall’offerta culturale complessiva che una città mette a disposizione e Rende ha già una buona rete di biblioteche pubbliche, un cinema nel centro storico, uno storico appuntamento settembrino di spettacoli che potrà essere completato con un cartellone teatrale di livello.

Ho sentito evocare da Principe il “socialismo umanitario”, che è la declinazione del socialismo di Proudhon e Fourier adeguata ai nostri tempi di recessione e di guerra. Bene, vorrà dire che sarà il momento in cui i molti ‘beni comuni’ comunali, per prima l’acqua, torneranno ad essere di proprietà dei cittadini. Debbono tornare compiutamente ad essere di nuovo ‘beni comuni’ anche lo stadio ‘Lorenzon’, i campi da tennis, i parchi fluviali, l’area mercatale, il parco acquatico, il palazzetto dello sport et cetera.

Alcuni di questi ‘beni comuni’, oggetto di grandi speculazioni private, devono tornare ad essere valorizzati ed usati nel modo più equo, perché sono fra le più belle ed importanti strutture ed infrastrutture costruite dall’Amministrazione comunale e pagate da tutti i cittadini rendesi.

Il modello al quale sono sicuro che il socialista umanitario continuerà ad ispirarsi è quello della piccola e media città storica italiana la cui principale caratteristica di città bella e buona consiste nella sua “capacità di distribuire al proprio interno beni e servizi che possano garantire la vita civile del più gran numero possibile dei suoi cittadini” (La Cecla 2024). Un luogo nel quale, insomma, la vita quotidiana sia una buona vita, più gradevole e più equa per tutti coloro che vi abitano.

da “il Quotidiano del Sud” del 20 maggio 2025

La qualità della vita tra dati, percezione e narrazione.-di Tonino Perna

La qualità della vita tra dati, percezione e narrazione.-di Tonino Perna

Bene ha fatto questo giornale a mettere in discussione la classifica del Sole 24 ore, non per uno spirito campanilistico, ma perché ogni trasformazione della qualità in quantità va osservata criticamente. Le classifiche che riguardano fenomeni qualitativi vanno sempre prese con le pinze, mai come verità scientifiche. Nel caso della qualità della vita diventa ancora più difficile trovare una valutazione oggettiva, dei pesi giusti tra i diversi indicatori, e stabilire quali indicatori siano attendibili e quali no.

Ci sono dei dati incontrovertibili come gli insoluti bancari, la percentuale dl pensionati sulla popolazione e il livello della pensione media, il tasso di fertilità e mortalità, il numero di rapine e furti, di incidenti stradali, di consumi pro-capite, ecc. Altri dati pur essendo importanti sono problematici.

Ad esempio, il reddito pro-capite. Mi viene in mente il caso della Guinea Equatoriale che in base al reddito pro-capite è tra i Paesi più ricchi dell’Africa sub-sahariana, ma se si guarda la distribuzione del reddito, usando l’indice di Gini, allora si scopre che è anche il paese africano con il massimo di diseguaglianza sociale, con la famiglia reale che concentra nelle sue mani maestose quasi il 90 per cento del reddito nazionale.

Così se si guardano i flussi migratori dal Mezzogiorno verso il Nord Italia ed Europa, si ha un dato che non risponde alla realtà perché molti giovani lasciano la residenza nella terra natìa anche se da diversi anni vivono nel Centro-Nord Italia.

Ancora più difficile è la valutazione della qualità della vita che è strettamente legata alla percezione dei cittadini, ed è il frutto di diversi fattori che entrano in gioco. E un po’ come la felicità. Mi fanno sorridere le classifiche sulla “felicità nei diversi Paesi del mondo” che sono basati su risposte campionarie sulla percezione della felicità. Niente di più etereo.

Certo, siamo tutti gli italiani molto più felici dei palestinesi o sudanesi o congolesi che sono tragicamente travolti dalle guerre in corso. Né d’altra parte la felicità è legata alla crescita economica o al livello del Pil: sono più felici gli statunitensi o i messicani? Secondo queste classifiche internazionali sono i messicani che, malgrado livelli notevoli di povertà ed emarginazione, sanno godersi di più le poche cose materiali che gli offre la vita. Sarà!?

Tornando alla vivibilità delle province italiane la controclassifica che è stata pubblicata su questo quotidiano alla vigilia di Natale mette nelle prime dieci province tutte città del Centro-Nord di piccola-media dimensione. Devo dire che questa è la percezione che abbiamo avuto, chi scrive con Pino Ippolito, nel nostro “Viaggio in Italia”.

E’ un fatto che la qualità della vita nelle grandi città, che troviamo agli ultimi posti della controclassifica, è oggi entrata in crisi: affitti insostenibili, overturismo, microcriminalità, inquinamento, anomia (già denunciata da Emile Durkheim alla fine dell’XIX secolo), ecc. Eppure molti giovani meridionali quando devono scegliere una università preferiscono quelle delle grandi città anche se il costo della vita è più alto, i disagi maggiori, ma ci sono molte altre occasioni di svago e opportunità culturali e lavorative che compensano.

Viceversa, un anziano con una pensione minima o bassa vive meglio in un paesino dell’Aspromonte che in una periferia di una metropoli dove rimane confinato nella sua solitudine, privo di quelle relazioni amicali e parentali che ancora riscaldano le vene nei piccoli centri quando non vengono abbandonati.

Quindi quando parliamo di qualità della vita nelle città dovremmo costruire, su base campionaria, diverse classifiche in base al dato anagrafico, alla classe sociale, al livello culturale di una determinata popolazione. Sarebbe auspicabile un lavoro del genere anche se è probabilmente insufficiente a modificare il nostro immaginario. Infatti, è determinante la narrazione che ne fanno i media. In questo Milano è bravissima.

Continua a presentarsi al mondo come la città della moda, delle innovazioni tecnologiche, della finanza e della cultura. Tutto vero. Ma esiste anche una gran parte della popolazione che fa fatica a trovare un lavoro non precario, a guadagnare per consentire una vita dignitosa, che vive in anonime periferie con la paura del vicino di casa, dell’immigrato, delle bande giovanili. Su questa paura diffusa tra i ceti popolari l’attuale governo ha costruito la sua larga base elettorale riuscendo a costruire un immaginario che non ha niente a che fare con la realtà.

Pochi sanno che l’Italia, insieme alla Grecia, è il Paese con la più bassa percentuale di omicidi, che il Paese che accoglie più immigrati in percentuale della popolazione è la Germania, seguita da Francia, Grecia (sic!) ed altri Paesi del Nord Europa. Invece i mass media ci parlano di “invasione” e di un Europa che ci lascia soli di fronte a questo arrivo dei barbari. Pochi mass media raccontano la verità: la gran parte degli immigrati che arrivano in Italia transitano nei paesi del Centro-Nord Europa.

Lo stesso, fatti dovuti distinguo, vale per la Calabria. Mettendo il Sole 24 ore la Calabria agli ultimi posti della classifica nazionale sulla qualità della vita nelle province, non fa che confermare un immaginario, basato in parte sui dati di fatto e in parte su un pregiudizio. Per onestà intellettuale bisognerebbe parlare di “percezione della qualità della vita” e non di un dato scientifico, intervistando con un campione stratificato, per età, sesso e classe sociale, i cittadini delle diverse province italiane.

da “il Quotidiano del Sud” del 30 dicembre 2024