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Sud: la solitudine degli anziani nell’inverno demografico.-di Tonino Perna

Sud: la solitudine degli anziani nell’inverno demografico.-di Tonino Perna

La piaga dell’emigrazione giovanile che colpisce pesantemente tutte le regioni meridionali, e non solo, è stata più volte posta al centro del dibattito politico senza che finora si sia trovata una efficace politica per contrastare questo fenomeno.

La SVIMEZ ha più volte lanciato l’allarme sulla fuga dei giovani dal Mezzogiorno: dal 2010 ad oggi oltre 200mila laureati e altrettanti diplomati, si sono trasferiti dal Sud nel Centro-Nord d’Italia. Questi sono i dati ufficiali: ovvero vengono censiti solo quelli che cambiano residenza e, come sappiamo, molti per diverso tempo non lo fanno.

Il rovescio della medaglia è che rimangono sempre più nel Mezzogiorno genitori anziani soli. Le fasce di anziani a reddito medio spesso mantengono i giovani che studiano nelle Università del Centro-Nord e, successivamente, sostengono economicamente i figli durante la prima fase di inserimento lavorativo, soprattutto per gli alti costi degli affitti.

Le fasce a reddito medio-alto tendono ad acquistare un monolocale per i figli emigrati anche quando hanno trovato un lavoro stabile. Complessivamente tutti gli over 60, che possono permetterselo, spendono una parte significativa del proprio reddito per sostenere economicamente i figli emigrati, andarli a trovare, e, soprattutto i nipoti, chi ha la fortuna di averli. Ormai da anni assistiamo ad un “turismo genitoriale” Sud-Nord che va a sommarsi al cosiddetto “turismo sanitario”.

In soldoni, stiamo assistendo, almeno dagli inizi del nuovo secolo, ad un rilevante flusso di denaro dal Mezzogiorno al resto d’Italia e all’estero che impoverisce questi territori creando un circolo vizioso, una perversa sinergia, con il fenomeno emigratorio.

Ben più triste è la condizione di che gode di pensioni minime o ha un reddito basso che non gli permette queste spese. Aspettano che i figli vengano a trovarli a Natale e durante le vacanze estive, che attendono con ansia per riscattare il grigiore di giornate vissute nell’ombra. Ben più grave è la condizione di vedove/i che vivono drammaticamente questo abbandono e tremano al pensiero di diventare disabili o essere colpiti da gravi malattie.

Si può obiettare che questa condizione esisteva anche durante la prima grande ondata migratoria, 1951/’71, ma sbagliamo a paragonare questa realtà ai primi decenni del dopoguerra. Innanzitutto, per il gran numero di laureati che vanno via e impoveriscono questi territori, ma soprattutto perché oggi è venuto meno il senso della comunità, la solidarietà di vicinato, le relazioni affettive che esistevano ancora in quel tempo, e supplivano alla mancanza di servizi sociali.

Particolarmente grave è la condizione degli anziani in Calabria. La percentuale di over 65 è del 24per cento, che rientra nella media nazionale, solo che viene calcolato sempre sui residenti che non corrispondono al dato reale. Pertanto, è molto più alta e si può stimare intorno al 30 per cento.

In particolare, nei Comuni con meno di 1000 abitanti, ben 78, i residenti “reali” sono spesso molto meno di quello che ci dicono i dati ufficiali, e rimangono a vivere solo quegli anziani poveri o malati che non possono spostarsi. Privi di servizi sanitari e sociali, di efficienti trasporti pubblici, l’emarginazione di questi anziani è totalmente ignorata perché non protestano e non sono visibili ai mass media.

Data la condizione finanziaria degli enti comunali che a mala pena pagano gli stipendi ai dipendenti, bisognerebbe avere un intervento regionale, un piano socio-sanitario per tutti questi piccoli paesi collocati nelle aree interne.

Senza sottovalutare la condizione di solitudine degli anziani poveri, malati, disabili che vivono nelle nostre città. Interi condomini abitati da over 70 che si ignorano, che vivono un doppio disagio: vivere in una regione con scarse risorse e politiche socio-sanitarie inadeguate e, allo stesso tempo, vivere in una modernità che ha accentuato l’individualismo “sfrenato” dei calabresi di cui già parlava Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” di settanta anni fa.

In questo inverno demografico che, purtroppo, durerà ancora a lungo dobbiamo seriamente pensare ai servizi socio-sanitari come ad una priorità di questa regione. Magari organizzando i bisogni inevasi, come fa l’associazione “Comunità competente” da diversi anni, e trovando le risorse economiche che esistono ma vengono sprecate in interventi inutili e dannosi. A partire dai 16 miliardi per il fantomatico Ponte sullo Stretto.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2025
Foto di Mircea Iancu da Pixabay

Reddito di cittadinanza:i guasti politici dell’invidia sociale.- di Piero Bevilacqua

Reddito di cittadinanza:i guasti politici dell’invidia sociale.- di Piero Bevilacqua

Un ampio ventaglio di ragioni e di umori, posizioni teoriche e avversioni viscerali, militano contro il reddito di cittadinanza in Italia. E’ un calderone in cui si agitano i cascami della cultura neoliberista, secondo la quale non esiste la keynesiana “disoccupazione involontaria”, essendo la mancanza di lavoro responsabilità di chi non lo cerca.

Come ci ricorda ora il saggio di Mauro Callegati, Il mercato rende liberi e altre bugie del neoliberismo (Luiss,2021). Ma si rinvengono anche opposizioni “di sinistra”, come quelle del sindacato, che teme il dilagare di un assistenzialismo deteriore, destinato ad accrescere la subalternità dei ceti proletari.

Il lavoro, si sostiene, è l’unica leva del riscatto, senza troppe remore a perpetuare così la cultura del dominio capitalistico sugli individui, e tenendo in poco conto che il lavoro non c’è e la sua scarsità è un’arma formidabile in mano ai gruppi padronali. I quali la usano per fare accettare condizioni anche estreme di precarietà, soprattutto ai giovani e agli immigrati, per fare pressione sui governi, per creare egemonia col porsi come dispensatori di impiego e di reddito, i benefattori dell’umanità.

Ho ascoltato sindacalisti criticare il reddito di cittadinanza in Calabria, dove tanti giovani laureati, che arrivano a 30 40 anni con lavoretti, e non hanno la possibilità di fuggire all’estero, oggi sarebbero alla disperazione senza il cosiddetto reddito di cittadinanza. Di cui conosciamo peraltro i limiti e a cui Roberto Ciccarelli ha dedicato su questo giornale analisi circostanziate, sino alla intervista a Chiara Saraceno (10/11), dove si denunciano gli intenti punitivi delle annunciate “correzioni” governative.

Ma esiste anche un’avversione più oscura a questa forma di sostegno alla sopravvivenza, che si agita tra gli strati popolari a cui do il nome di invidia sociale. I lavoratori non sopportano che ci siano nel loro ceto persone retribuite, sia pure in forma modesta, senza fatica e impegno. Trovano intollerabile questa “ingiustizia”. Anche chi è in condizioni di estremo bisogno deve meritarsi il pane, accettando qualsiasi forma di occupazione.

E’ su questo giustizialismo rancoroso che la nostra destra plebea fa le proprie fortune, come le ha fatte con la narrazione degli stranieri che rubano il lavoro agli italiani. Si tratta di un humus culturale pernicioso con cui i gruppi dominanti e il ceto politico che li serve, scatenano la guerra tra gli ultimi e i penultimi, perpetuando il proprio soggiogamento materiale e culturale su gran parte dei ceti popolari.

Un coacervo ideologico su cui l’assenza di uno sguardo radicale impedisce un’opera salutare di demistificazione. E’ esemplare a tal proposito l’imbarazzata timidezza del ministro Orlando di fronte alle recriminazioni per gli abusi emersi nella percezione del reddito.

Egli non è riuscito a ricordare ai suoi interlocutori e all’opinione pubblica, che in Italia non si riesce a tassare le grandi ricchezze di pochi, i patrimoni immobiliari di molti, le fortune di una platea estesa di famiglie e si lascia nella povertà milioni di persone che pur lavorano, una fascia crescente di occupati precari, 2 milioni di famiglie in povertà assoluta (dati Istat 2020) mentre si costringono le migliori energie intellettuali del Paese a cercare occupazione all’estero.

Ho conosciuto gli effetti perversi dell’invidia sociale in un ambito “alto” della società italiana, l’università. Allorché incominciarono a circolare le prime notizie sui criteri di valutazione dei titoli scientifici dei docenti da parte di una autorità esterna, che sarebbe poi diventata l’Anvur.

E’ apparso evidente che a far accettare l’imposizione di un Moloch burocratico calato dall’alto per il controllo di merito sulle attività dei professori è stato il desiderio di “giustizia valutativa” da parte soprattutto dei colleghi scientificamente più attrezzati e progressisti. Non sopportavano la presenza dei (pochissimi) docenti scarsamente attivi e produttivi o l’avanzamento di carriera di quelli, altrettanto pochi, considerati non meritevoli.

Così un sistema di valutazione affidato ai concorsi e tutto interno a una istituzione secolare, l’autonomia universitaria, gestito dai docenti, e certamente segnato da pecche e punti deboli, è stato abbandonato per sanare queste mancanze. Lo scandalo sollevato dai media sul familismo nell’università, sui concorsi truccati…, ha spinto a buttare via il bambino con l’acqua sporca. Il più antico e uno dei migliori sistemi universitari del mondo è stato avviato alla sua trasformazione aziendalistica secondo i dettami europei elaborati dal cosiddetto Processo di Bologna(1999).

Nessuno dei moralisti di allora è stato in grado di sollevare lo sguardo dal pelo nell’uovo per scorgere il superiore disegno di asservimento del sistema formativo europeo alle ragioni della strategia neoliberista della Ue. In assenza della critica sociale un tempo esercitata dal movimento operaio, la grande massa dei cittadini opera così per il proprio volenteroso asservimento alla grande macchina capitalistica.

da “il Manifesto” del 13 novembre 2021
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