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La posta in gioco dei referendum, in Calabria è più alta.-di Filippo Veltri

La posta in gioco dei referendum, in Calabria è più alta.-di Filippo Veltri

La posta in gioco è molto alta, direi altissima e in Calabria lo è ancora di più per tanti motivi. Il non raggiungimento del quorum renderebbe inutilizzato l’unico strumento ancora integro rimasto a sorregge la democrazia costituzionale nata dalla Resistenza. La nostra democrazia poggia su tre capisaldi strategici diversi, ma fra loro strettamente legati: la rappresentanza, la partecipazione popolare e la democrazia diretta.

Un Parlamento che rappresenta gli interessi parziali di una parte del popolo esprime la sua fiducia a un Governo che si lega agli stessi interessi parziali. Così lo stesso Parlamento finirebbe per soccombere alla prevalenza del Governo riducendosi al rango di mero ratificatore. Così come sta avvenendo in Italia e le armi usate per tale disfatta sono due: il sistema elettorale e la riduzione del numero dei parlamentari.

Soprattutto quest’ultima sciagura, molto funzionale a questo progetto antidemocratico, è contro la rappresentanza e ha portato a completamento la trasformazione del Parlamento in uno strumento dell’esecutivo a guida postfascista che oggi decide per tutti, nonostante che sia espressione di una compagine di forze politiche che rappresenta una minoranza della popolazione.

In questo quadro così preoccupante, la posta in gioco è dunque altissima perché una sconfitta (consistente nel non raggiungimento del quorum minimo per la validità dei referendum dell’8 e 9 giugno) rappresenterebbe purtroppo la perdita di questa grande opportunità di utilizzo del terzo pilastro della democrazia costituzionale. Quello che gli elettori possono esercitare direttamente senza la presenza intermedia di partiti e altre forme associative.

La vittoria del SI abrogativo farebbe sparire una legge o parti di essa dall’ordinamento giuridico e nessun giudice potrebbe riesumarla; e il Parlamento non potrebbe nemmeno riproporla se non dopo almeno un quinquennio e dopo un mutamento sostanziale della situazione politica del Paese. Il mancato raggiungimento del quorum nei referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno porterebbe, purtroppo, a una situazione completamente nuova: questo Paese si mostrerebbe ormai privo di capisaldi democratici e si aprirebbero scenari autoritari.

In Calabria i 5 quesiti referendari pongono ancora maggiore urgenza nella partecipazione al voto, sia nel merito dei migranti che del lavoro. La precarietà è la costante dei rapporti di lavoro e di pseudo lavoro dalle nostre parti e non è più tollerabile, rendendo la vita di giovani e meno giovani più complicata e al limite dell’impossibile. Il jobs act non solo ha inoltre reso tutto più difficile nei pochi luoghi di lavoro dove si applicano contratti e leggi.

Il voto è dunque un diritto e un dovere civile dovunque ma non farlo qui in Calabria sarebbe oltre modo grave, nonostante la crisi di fiducia e credibilità di cui (non) godono le istituzioni e la scarsa partecipazione popolare al voto. Ma il popolo nella sua accezione più nobile e grande ha già dimostrato che è soprattutto uno strumento di lotta per cambiare e la politica come ci insegna il grande Nicolò Machiavelli (1519) è praticamente tutto: ‘’non esiste zona dalla vita umana sottratta alla necessità della politica. Senza la politica né gli individui né gli aggregati collettivi resisterebbero al turbine di accadimenti’’.

La manifestazione di Catanzaro del 10 maggio sul diritto alla salute ne è la dimostrazione più vicina a noi e più lampante. Sono fiducioso che il popolo calabrese lo dimostrerà ancora.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 maggio 2025

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Lo strano no al referendum che seppellisce la Calderoli.-di Francesco Pallante

Dal punto di vista giuridico, sorprendono, stando ai virgolettati riportati sui giornali, le parole pronunciate dal neopresidente della Corte costituzionale durante la conferenza stampa del 21 gennaio. Spiegando le ragioni della bocciatura del referendum contro la legge sull’autonomia regionale differenziata (legge Calderoli), il presidente Amoroso avrebbe detto che «la decisione della Corte sulla non ammissibilità del referendum si riferiva alla non chiarezza del quesito, perché l’oggetto del quesito (la legge Calderoli, ndr) è oramai ridimensionato» per via della sentenza dello scorso anno che ne ha sancita la parziale, benché amplissima, incostituzionalità, sicché «ciò che residuava era difficilmente comprensibile dall’elettore».

È difficile nascondere la sensazione di disagio suscitata da tali parole. La decisione circa la idoneità della legge Calderoli a rimanere sottoposta a referendum dopo il suo parziale annullamento da parte della Corte costituzionale spettava, infatti, alla sola Corte di Cassazione, la cui valutazione a favore della idoneità non è suscettibile di revisione da parte della Corte costituzionale.

Quest’ultima avrebbe dovuto limitarsi a valutare il rispetto dei limiti alle iniziative referendarie previsti dall’articolo 75 della Costituzione (esclusione delle leggi di bilancio e tributarie, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, di amnistia e indulto) e dalla sua stessa giurisprudenza (a partire dalla sentenza 16 del 1978, che esclude altresì i quesiti referendari disomogenei o vertenti su leggi costituzionalmente necessarie o a contenuto vincolato). Invece, a quanto pare, il referendum sarebbe stato ritenuto non ammissibile proprio per via del parziale annullamento della legge, operando un irrituale rovesciamento della precedente decisione della Cassazione.

Altrettanto sorprendente è leggere che, con il referendum, «i cittadini sarebbero stati chiamati a votare sull’articolo 116 comma terzo della Costituzione, e cioè sul principio dell’autonomia differenziata, ma questo è contro la Costituzione». Non è così. La Costituzione attribuisce alle regioni la possibilità di chiedere l’autonomia differenziata, ma la decisione se accogliere la richiesta è rimessa allo Stato. L’autonomia differenziata non è un diritto, è una facoltà che lo Stato può decidere di attivare o di non attivare.

Dunque, decidere di eliminare la legge Calderoli, in quanto volta ad agevolare l’esercizio di quella facoltà, non significa affatto pronunciarsi sulla Costituzione, bensì assumere una decisione di principio sull’attivazione o meno della facoltà in questione (il che, peraltro, non impedisce la possibilità di utilizzare direttamente l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, come mostra l’esperienza dei Governi Gentiloni e Conte I).

Dal punto di vista politico è indubbio che la mancata ammissione del referendum produca il doppio effetto negativo di far venire meno un forte collante tra le opposizioni al governo e di indebolire l’importantissima campagna referendaria che si aprirà in primavera. A beneficiarne non è solo la destra, che rischiava di spaccarsi nelle urne tra favorevoli e contrari all’autonomia, ma anche quella consistente parte del partito democratico che continua a vedere nel regionalismo una risorsa – sia pure trincerandosi dietro l’ambigua formula del regionalismo cooperativo e non competitivo – ed era terrorizzata dall’idea che il referendum sancisse l’esistenza di un diverso orientamento popolare.

C’è, tuttavia, anche un risvolto positivo. Proprio le parole del presidente Amoroso certificano, in via definitiva, che il disegno del regionalismo differenziato è fallito. L’incostituzionalità della legge Calderoli sancita dalla Corte costituzionale è così radicale da aver reso politicamente insostenibile la posizione dei pasdaran del regionalismo (sebbene alcuni di loro continuino, incuranti del ridicolo, a tenere la posizione).

È uno straordinario successo per tutti coloro che fin da subito avevano intuito i pericoli dell’autonomia differenziata e si sono battuti contro il tentativo di spezzare l’Italia, costruendo un movimento di opinione che ha dato un contributo decisivo alla difesa dei principi costituzionali di solidarietà, uguaglianza e unità. Paradossalmente, proprio la mancata ammissione del referendum è la più alta certificazione di tale successo. Si tratta ora di mantenere alta l’attenzione, per impedire i colpi di mano che dovessero cercare d’indebolirlo.

da “il Manifesto” del 23 gennaio 2025

Referendum elettorale, ricordando Besostri.-di Enzo Paolini

Referendum elettorale, ricordando Besostri.-di Enzo Paolini

Lo scorso 23 aprile il comitato promotore del referendum contro la legge elettorale detta Rosatellum, presieduto da Elisabetta Trenta, ha depositato i quesiti in Cassazione. Un punto di partenza che costituisce anche il compimento di un lavoro magistrale, infaticabile e straordinariamente professionale fatto da Felice Besostri, l’uomo che ci sempre ricordato che la qualità di uno Stato democratico dipende dalla sua legge elettorale. Felice, scomparso a gennaio scorso, ha fatto dichiarare incostituzionale sia il Porcellum che l’Italicum e dinanzi alla protervia di un parlamento sistematicamente elusivo delle sentenze della Corte costituzionale era diventato l’anima del movimento referendario. Ci eravamo scambiati delle idee sul senso della nostra iniziativa. Queste.

Indifferenza è la parola dalla quale si può ripartire per una disamina politica che allarghi la visuale. L’indifferenza verso una politica identitaria e coraggiosa aperta alle nuove generazioni, alla società civile, alle esperienze culturali ed alla partecipazione. La politica che l’elettore non trova, non percepisce, non intercetta di fronte a trasformismo, instabilità di centinaia di notabili che si spostano da un (sedicente) partito a un altro solo in base alle convenienze del momento, senza neanche il pudore di una parvenza di dibattito ma solo sulla base del mantra «le elezioni non servono per rappresentare le idee e per consentire le giuste alleanze tra diversi per governare, servono solo per sapere chi vince». E chi vince deve avere, mediante una legge elettorale ad hoc, una maggioranza tale da comandare, senza fastidi, per tutta la legislatura.

Su questo altare sono stati sacrificati i principi ed i valori sui quali è stata edificata la Repubblica, e cioè la funzione costituzionale dei partiti come metodo di selezione della rappresentanza istituzionale su base proporzionale. Partiti che da luogo di discussione e ricerca sono stati ridotti a sito di momentanea «appartenenza», parola che non significa più un modo di sentirsi parte di una comunità capace di condividere bisogni, speranze, aspettative e timori, bensì posizionamento in difesa di interessi particolari.

Questo è il motivo profondo dell’indifferenza, della disaffezione dei cittadini rispetto all’esercizio, allo spettacolo e alla bellezza della politica.
Negli ultimi venti anni la gran parte di noi, italiani che hanno creduto e credono nel valore della politica, ha dovuto prendere atto che la scelta e la proposta dei suoi rappresentanti non sono state fatta sulla base di capacità, competenze e impegno ma sulla creazione di rapporti personali o di cerchi magici. In questo modo il senso di comunità ha finito per non avere più alcun valore.

Il tutto ormai senza alcun alibi per chi sostiene che comunque tutto ciò assicurerebbe stabilità, perché l’esperienza dimostra come nessun artificio maggioritario abbia potuto garantire davvero la governabilità mentre, almeno nel caso italiano, ha invece certamente contribuito a destrutturare il sistema politico.

È ben chiaro a tutti al contrario come un parlamento ampiamente rappresentativo – composto da senatori e deputati che del loro comportamento nelle istituzioni rispondono agli elettori, sia stato (e sarebbe) il miglior elemento di stabilità per un paese diviso e confuso.
Nel nostro Paese continua l’indifferenza – in alcuni casi il disgusto – verso una classe dirigente indigeribile. Essa ha prodotto un altissimo tasso di astensione e prevale ancora il voto connotato da percorsi familistici o clientelari.

È questa antipolitica o, peggio, rifiuto della politica? Noi pensiamo di no. Questa crisi non è ascrivibile agli elettori ma a chi elabora la proposta elettorale evidentemente sempre più scadente o autoreferenziale di fronte alla quale il cittadino, anche il più motivato, decide di non partecipare. È un problema, ma allo stesso tempo un segnale. Di fronte a una politica così predatoria e opportunista dobbiamo alzare il livello dello scontro e ritornare nei luoghi della politica. Tornare nelle piazze per fare in modo che l’entusiasmo, la passione, la rabbia e la voglia di esserci e di contare entrino nelle case, negli uffici, nelle scuole.

da “il Manifesto” del 30 aprile 2024
Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Referendum. Via maestra contro l’autonomia.-di Filippo Veltri

Referendum. Via maestra contro l’autonomia.-di Filippo Veltri

Anche in Calabria è nata La Via Maestra, un comitato regionale composto da Cgil Calabria, Arci, Acli, Anpi, Collettivo Valarioti, Cdc, Associazione Controcorrente, Emergency, Legambiente, Libera, Associazione Giuseppe Dossetti.

È un fatto molto importante perché il Comitato sta pensando a concrete iniziative sui temi del lavoro, dell’ambiente e della giusta transizione, con una particolare attenzione alla vera e propria torsione democratica del Paese, in particolare all’Autonomia Differenziata che tra poco andrà in discussione alla Camera dopo l’approvazione in Senato.

Queste associazioni, in linea con quanto sta avvenendo a livello nazionale, saranno le protagoniste di un percorso che porterà al coinvolgimento e alla mobilitazione in difesa della Costituzione, contro l’autonomia differenziata, la precarietà e lo stravolgimento della Repubblica parlamentare. Una strada nuova, dunque, che dal basso punta alla partecipazione e alla mobilitazione reale. E dio solo sa quanto ce n’è bisogno in tempi in cui così scarsa è la mobilitazione financo alle competizioni elettorali (ultimo test le regionali in Abruzzo non hanno bisogno di ulteriori commenti).

In Calabria ovviamente tutto questo si colora di molti altri significati, legati alla accoglienza e all’uguaglianza, alle lotte sociali e a quelle civili (si pensi solo alla sanità e alla tutela della salute), tant’è che dopo la nascita del comitato regionale sono sorti provincia per provincia i comitati territoriali de La Via Maestra, che stanno già lavorando alla riappropriazione dei famigerati Livelli Essenziali di Prestazione (Lep), garantendo a tutti i cittadini italiani gli stessi diritti e le stesse opportunità nei settori cruciali come sanità, istruzione, trasporti, ambiente e servizi amministrativi.

«La Calabria non ha bisogno di differenziarsi – spiega Angelo Sposato, segretario regionale della Cgil – ma di armonizzarsi con le altre regioni per garantire servizi primari adeguati. La proposta di autonomia differenziata mina l’unità nazionale e rischia di accentuare ulteriormente gli squilibri tra Nord e Sud, abbandonando le regioni meridionali ai propri problemi’’.

Il Coordinamento Nazionale per la Democrazia Costituzionale aveva già proposto, insieme ad altri, di dare vita ad una discussione a tutto campo ne La Via Maestra per mettere al centro la Costituzione, il contrasto agli attacchi che le vengono portati a partire dal premierato, e il contrasto all’autonomia differenziata nella versione Calderoli.

Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale insiste da tempo sull’esigenza di dare vita ad iniziative larghe e unitarie e La Via Maestra è certamente la prima naturale sede di convergenza di una parte importante della società e della cultura. La strada che indica è chiara: quella dei referendum.

I referendum sono in questo momento l’unica possibilità per fermare le scelte su autonomia a premierato. Spiegano ancora quelli de La Via Maestra: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio porterebbe ad uno sconvolgimento della Costituzione e del suo assetto istituzionale perché cambierebbe la sostanza democratica e antifascista della nostra Repubblica, riducendo nettamente i poteri del Quirinale e ridimensionando drasticamente il ruolo del Parlamento che, da architrave delle istituzioni diventerebbe definitivamente subalterno al capo del governo, complice il ricatto della fine della legislatura, trasformando così la nostra Repubblica in una sorta di “capocrazia”.

L’autonomia differenziata targata Calderoli, su cui tante perplessità sono nate recentemente anche in Calabria in settori non marginali del centrodestra, la si può bloccare eventualmente solo così. Con partecipazione e strumenti concreti a partire dai referendum.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 marzo 2024.

Tutte le ragioni del Sì per votare convintamente No. -di Enzo Paolini

Tutte le ragioni del Sì per votare convintamente No. -di Enzo Paolini

Le argomentazioni a favore del sì rafforzano le ragioni del no. Alcune addirittura con una imbarazzante evidenza.
Analizziamole.

Si risparmia. Irrisorio, lo dicono anche i fautori del taglio (uno per tutti, Giovanni Valentini sul Fatto del 26 agosto: “E’ vero che tutto sommato il risparmio sarebbe minimo, un centinaio di milioni di euro l’anno – ½ euro a cittadino – cinquecento milioni in una intera legislatura”). Se si dimezzassero lo stipendio ed i vitalizi si risparmierebbe dieci volte di più.

Si renderà più snello il Parlamento e più efficienti i suoi lavori. Però la snellezza non è un requisito costituzionale e, soprattutto, non è il presupposto dell’efficienza dal momento che essa non dipende dal numero dei parlamentari addetti ad una commissione o ad un progetto di legge ma da altre condizioni (i regolamenti parlamentari) e da altri requisiti (la qualità, la competenza e soprattutto l’indipendenza di deputati e senatori, tutte cose che dipendono dalla legge elettorale).

Appunto, la legge elettorale. Tutti i fautori del si concordano che dopo si dovrà – per forza – mettere mano ai “correttivi ed alla legge elettorale” (sempre Valentini ma anche Fassina sull’Huffington post). Questo è l’argomento che taglia la testa al toro del si. Per quale motivo confermare una legge per la quale già si prevede la necessità di correttivi, nonché di una legge elettorale totalmente diversa (cioè proporzionale con preferenze) rispetto a quella in vigore (maggioritario con nomine? Dice (Zingaretti): perché l’hanno promessa, su questo patto abbiamo fatto nascere il governo e non votare si legittimerebbe il non mantenimento dell’impegno.

Ecco, qui siamo arrivati alle offese. Alla Costituzione (la nascita di un governo, cioè di un fatto politicamente contingente e transitorio sarebbe, secondo il segretario pd, più importante dell’assetto costituzionale del Paese) ed alla intelligenza dei cittadini italiani (cambiare prima la Costituzione perché poi Di Maio ha promesso di fare la legge elettorale è come credere a Lucignolo quando promette a Pinocchio il paese dei balocchi o a Renzi quando dice qualsiasi cosa).

La realtà, politica, morale, istituzionale, è tutt’altra. Se dovesse vincere il si il 21 settembre pochi oligarchi avranno raddoppiato il loro potere di nominare quali legislatori un manipolo di fedelissimi non rappresentativi di altro che dei loro padroni, il governo rafforzerà il predominio su un consesso ridotto ad ostaggio e l’opera di delegittimazione del Parlamento, cardine e fulcro della nostra democrazia, garanzia dello stato di diritto, contrappeso legislativo rispetto al potere esecutivo, sarà completata. Nessuna legge elettorale si farà.

In compenso, come auspicano certi costituzionalisti “a la carte”, si aprirebbe “una breccia” nella Costituzione Come dire: siccome la giustizia funziona male dimezziamo i giudici. Oppure, poiché i trasporti vanno male riduciamo i treni.
Insomma proprio una bella prospettiva quella di dare agli italiani la più esemplare eterogenesi dei fini: votare pensando di contribuire a punire la “casta”, magari a levarsela dalle balle – rimpiangendo la classe dirigente di Nenni, Pertini, Berlinguer, Moro che ha governato il Paese con questa Costituzione – e ritrovarsi con un’altra Carta Suprema fatta a piacimento ed immagine di Toninelli, Renzi, Fassina, Di Maio e Salvini. Tutta un’altra casta.

da “il Manifesto” del 2 settembre 2020