Tag: servizio sanitario nazionale

Dopo la manifestazione, le proposte. Così si può cambiare la Sanità pubblica.-di Enzo Paolini

Dopo la manifestazione, le proposte. Così si può cambiare la Sanità pubblica.-di Enzo Paolini

Sì, molto partecipata la manifestazione di sabato sulla sanità raccontata dalle cronache del Quotidiano e suggestivamente commentata sulle sue colonne da un attento ed acuto osservatore come Marcello Furriolo.

Rimane, però, una sensazione di incompiutezza a chi – come me – opera da tempo nel campo del servizio sanitario pubblico e si aspettava che la manifestazione originata dal dibattito quanto mai opportunamente suscitato dal Quotidiano, si sviluppasse oltre che in modalità “protesta” anche in termini di (anche vaga, abbozzata) “proposta”.

Invece no, a meno di voler assegnare seriamente l’abito di un ragionamento propositivo alle enunciazioni del tipo “rilanciare la sanità pubblica” “migliorare i pronto soccorso” “ridurre la spesa privata” “out of pocket” (cioè le cure a pagamento) “potenziare i reparti”, “ridare dignità ai medici”, “valorizzare il sistema infermieristico”, “potenziare la ricerca”, “migliorare la rete ospedaliera” e così via, potrei continuare per due pagine.

Tutti slogan condivisibili a cui manca però poi la conseguenza (che sarebbe auspicabile e doverosa) del “come”. Proviamo a dirlo noi, consapevoli che ciò che diciamo non piacerà ad alcuni, ma da tempo ce ne siano fatti una ragione ed insistiamo.
Partiamo dalla premessa: v’è la necessità e l’urgenza di difendere e potenziare il servizio pubblico.

Il che vuol dire cancellare per sempre dal lessico e dall’azione di qualsiasi governo che il diritto alla salute non sarebbe assoluto ma sacrificabile sull’altare delle esigenze di contenimento della spesa dello Stato e/o dei bilanci regionali. Abbiamo visto il disastro che, in termini di forza e di efficienza hanno provocato i tagli alle risorse sanitarie disposti dai governi degli ultimi 25 anni.

Ovunque è dimostrato che il sistema dei tetti non funziona, produce inevitabilmente la lista d’attesa e l’emigrazione sanitaria. I soldi pubblici vanno usati meglio, non distribuiti con criteri come quello della spesa storica tali da consolidare posizioni di rendita e scoraggiare investimenti.

Il servizio sanitario è pubblico, tutto, ed è fatto da strutture di mano statale e da altre gestite da imprenditori privati che, per legge, se vogliono stare in un sistema solidaristico e universale, devono avere gli stessi requisiti strutturali tecnologici e ed organizzativi degli ospedali pubblici, devono essere controllate, verificate, dagli uffici della Regione e pagate con tariffe fissate dallo Stato in base alle prestazioni rese secondo gli standard stabiliti dalle norme. Senza oneri per i cittadini.

Qui ci vuole la politica.
Non la politica che si straccia le vesti e lancia altissimi lai sull’incremento della spesa privata senza la lucidità di sapere o l’onestà intellettuale di dire che per ridurre la spesa di tasca del cittadino occorre aumentare gli stanziamenti per la sanità accreditata nel servizio pubblico. Dove non si paga e si assicurano le cure con gli standard di legge. Se si riduce questa inevitabilmente si spinge il cittadino verso la sanità a pagamento.

E’ talmente ovvio e semplice da capire che viene il dubbio che quello di creare la sanità per ricchi e quella residuale per gli altri il dubbio sia un disegno consapevole.
E forse lo è.

Dunque la politica. Ma non i politici con la faccia come il bronzo, cioè quelli che sono dirigenti e/o componenti delle consorterie che governano da lustri e poi si presentano in piazza a dire che le cose non vanno e bisogna fare qualcosa, come se loro, invece di sedere sulle comode poltrone, comunali, regionali e delle ASP fossero stati nell’eremo di Camaldoli a studiare incunaboli.

E’ una offesa all’intelligenza dei cittadini così come lo è non dire – a beneficio del dibattito e delle proposte sulle cose da fare – che dopo l’onda del disastro lungo venticinque anni, si avverte oggi una oggettiva inversione di tendenza.

L’arrivo dei medici cubani, può piacere o non piacere, ma è un fatto, un concreto innesto di servizio che aiuta a dare risposte; si è rimesso mano ad una rete ospedaliera nella quale si era follemente fatto ricorso alla chiusura di ospedali lasciando intere comunità senza alcun riferimento; si è ridotta la lista d’attesa e si è avviato il recupero della emigrazione sanitaria che era arrivata alla cifra record di 300 milioni regalati inutilmente ad altre Regioni del nord. Sono numeri, non chiacchiere.
Di cui la piazza descritta da Marcello Furriolo dovrebbe – deve – tener conto se si vuole fare politica seria.
Altrimenti è la solita fuffa di chi deve ogni tanto farsi sentire per giustificare la propria esistenza politica.

Invece ci vuole politica più seria in sanità. Quella che sceglie e decide, si assume responsabilità e poi si fa giudicare; la politica che serve per trasformare il nostro servizio sanitario da centro di consenso elettorale in centro di consenso politico. Ciò che deve essere in un paese finalmente moderno e veramente ispirato al socialismo liberale.

In questo modo si passerà dallo slogan delle tre A (autorizzazioni, accreditamenti, accordo) al centro delle quali c’è il Direttore Generale, a quello delle tre E, (eccellenza, efficacia ed efficienza) con al centro veramente e finalmente il cittadino.
E qui sta la prima proposta, di base.

Occorre ripensare almeno in parte allo sgangherato titolo V della Costituzione così come modificato da un Parlamento largamente inadeguato sul piano tecnico e culturale e votato alla creazione di piccoli e grandi centri di potere locali.
Dobbiamo ripartire in senso inverso rispetto alla idea della autonomia differenziata che, per una sorta di eterogenesi dei fini, mostra tutti i suoi limiti in termini di tutela non solo della salute ma dei diritti e della libertà dei cittadini.

I diritti fondamentali, quelli che definiscono l’identità di un popolo e danno il senso della comunità, non possono essere interpretati ed applicati in maniera diversa a Roma a Reggio Calabria o a Trieste.
Sono il patrimonio politico della Repubblica e non hanno prezzo, in tutti i sensi.

Altro punto è come contemperare la dimensione della richiesta di assistenza da parte dei cittadini (tutti aventi diritto, ovviamente, in egual misura) con la limitatezza delle risorse che potrebbero essere insufficienti per il numero di prestazioni richieste e valorizzate con la tariffa stabilita dallo Stato.

Sistema non particolarmente complesso. Si chiama programmazione, ed è un lavoro che compete ai governi ed alla burocrazia regionale che però per sciatteria ed incapacità sono più inclini ad applicare un altro sistema più sbrigativo: questi sono i soldi e basta. Oltre questo i cittadini devono rivolgersi altrove e le strutture devono smettere di lavorare.

Non va bene affatto. Occorre pensare e agire, non dormirci sopra con direttori generali e politici che pensano che il problema non è loro, ma di chi verrà dopo. Occorre coraggio e visione o, meglio nell’ordine inverso, visione prima e coraggio dopo.
La visione è quella che deve ampliare lo sguardo oltre i bastioni del castello del tirare a campare.

La Corte Costituzionale con la sentenza 195/2024 ha indicato la strada, ha messo il cartello: non sono i soldi che mettono i limiti alla politica sanitaria; questo dei soldi è un limite che può valere per altro, per le autoblu e per i vitalizi, per i ripiani dei bilanci delle aziende private, a spese dello Stato, per i riarmi necessari ad alimentare guerre, per le opere pubbliche non necessarie, ma non può valere per la tutela della salute, diritto primario, costituzionale ed incomprimibile.

Dunque è l’esigenza economica del servizio pubblico che detta l’agenda e la priorità per il bilancio dello Stato. Che non può e non dovrebbe dire al Ministro della Salute (e poi ai presidenti di regione ed ai DG) questi sono i soldi fateveli bastare. Non dovrebbe.
E qui sta il coraggio.

Siamo la classe dirigente che deve contribuire a guidare responsabilmente un Paese e dobbiamo, possiamo dire che è il momento di una riforma strutturata, per potenziare il servizio pubblico assicurare gratuitamente a tutti, tutte le cure primarie, quelle importanti, la cronicità, le terapie salvavita, l’assistenza della terza età e della non autosufficienza, del dopo di noi, le emergenze urgenze, tutto insomma a tutti. Ma per far questo occorre cambiare radicalmente la prospettiva e l’agenda. Subito.

Occorre potenziare la prevenzione e la medicina del territorio. Ridisegnare la figura del medico di base e potenziare l’altro estremo, quello della urgenza/emergenza, magari assegnando un ruolo obbligatorio a tutte le strutture, anche a quelle a gestione privata, che curano acuti ed ai policlinici. Devono avere un punto di pronto soccorso con riconoscimento dei soli costi per gli accessi non seguiti da ricovero. Ciò consentirebbe di deflazionare tanti pronto soccorso che sono un imbuto che non riesce ad assorbire la domanda nonostante l’eroismo di tanti operatori.

Ma soprattutto sarebbe una rivoluzione rivedere il concetto di essenzialità per l’assistenza e le cure semplici, (l’alluce valgo o il tunnel carpale sono gli esempi che mi vengono, ma ce ne sono tanti altri) per chi ha un reddito che gli consente di pagare in proprio o di sostenere un’assicurazione.
Ciò manterrebbe intatto il principio di universalità delle cure, liberando solidaristicamente risorse per chi non può permettersi di pagare in proprio neanche quelle più semplici e meno costose.

Insomma, chi ha di più continuerebbe a sostenere chi ha di meno, mediante il prelievo fiscale progressivo e proporzionale ma con raziocinio, con politica sociale liberando le risorse pubbliche per il servizio pubblico accreditato e sostenendo il sistema delle imprese a pagamento puro impegnando chi può permetterselo, senza fare di imprenditori seri e onesti un esempio deteriore con una suggestione iniqua, ingiusta e permeata di pregiudizi non degni di un Paese civile.

È l’uovo di Colombo? Forse, ma ciò non deve banalizzare ciò che pensiamo di dover proporre o fare, perché a distanza di secoli quell’uovo è ancora lì ritto sul tavolo e ci dice che niente è scontato per chi vuole cambiare le cose.

da “il Quotdiano del Sud” del 14 maggio 2025

Dalla parte della Riforma sanitaria.-di Enzo Paolini

Dalla parte della Riforma sanitaria.-di Enzo Paolini

Alcune riflessioni a margine di un dibattito sulla sanità.
C’è che non lo vuole difendere. Chi intenzionalmente pone in essere le condizioni per smantellarlo e rendere sterile il principio sancito nella legge 833/78 e poi nel D. Lvo 502/92, quello relativo alla assistenza solidaristica ed universale cioè senza oneri per i cittadini, garantiti dalla fiscalità generale ove chi ha di più paga proporzionalmente anche per chi ha di meno.

Premettiamo per la milionesima volta che il servizio pubblico è svolto concretamente da strutture pubbliche e private, tutte accreditate con il SSN sulla base di identici criteri di appropriatezza e di qualità. Ripetesi, senza alcun impegno economico per i cittadini.

C’è chi dolosamente rema contro ed ha nomi e cognomi. Ed è la classe dirigente tutta, un unicum che non ha alcuna distinzione, che ha consapevolmente omesso l’applicazione della legge, del buon senso e dell’equità.
Andiamo con ordine e ripercorriamo i luoghi comuni che emergono, alcuni con un insopportabile demagogia altri sotto forma di denunce, apparentemente coraggiose e nuove, nei dibattiti e nelle trasmissioni televisive ed individuiamo con chiarezza le responsabilità.

A) La rete ospedaliera: responsabilità molto risalente nel tempo ed ascrivibile a chi – inconscientemente e senza alcuna conoscenza di territori e fabbisogni – ha dissipato un patrimonio di conoscenza e professionalità disponendo d’imperio riconversioni, soppressioni di ospedali in zone disagiate, riduzione di assistenza senza aver prima messo mano e potenziato da un lato l’assistenza di base, cioè la prevenzione, la medicina di famiglia, la specialistica ambulatoriale, e dall’altro le funzioni di urgenza/emergenza.

E’ chiaro a tutti che non si deospedalizza per decreto ma con una intelligente, consapevole e condivisa programmazione.
Quindici anni di Commissari hanno condotto allo sfascio.

Sul presupposto (e sul pregiudizio nei confronti dei calabresi) che la sanità è terreno di malaffare non si è combattuto il malaffare con il lavoro dei generali ed i prefetti nei Tribunali e nelle Questure, ma si sono mandati i generali ed i prefetti a fare un altro lavoro nella Pubblica Amministrazione: organizzare il servizio santiario.
Con risultati devastanti e talvolta con episodi tragicomici.

Con tutti i limiti ed i problemi derivanti da questa situazione la proposta di riorganizzazione di oggi delinea un progetto ed una visione. Staremo a vedere e daremo il contributo di cittadini ed operatori interessati ed attenti, per integrare e migliorare.
Le posizioni manichee e di parte (verrebbe da dire ideologizzate, ma ahinoi l’ideologia non è più nel cassetto della politica) non servono a niente.

B) Le liste d’attesa e l’emigrazione sanitaria. Questo è un problema la cui origine è di immediata e diretta comprensione e di ancor più facile soluzione. Deriva da un principio ottusamente penalizzante solo per le Regioni del Sud ed in particolare per la Calabria: i tetti di spesa.

Si dice, con espressione disinformata e demagogica che gli ospedali pubblici sono messi in condizione di non poter rispondere alla domanda di cura e assistenza e che perciò i pazienti sono obbligati a rivolgersi alla struttura privata, che ingrassa sulla salute dei cittadini.

In realtà, cosa succede: come si è detto prima, presso la struttura privata non si paga ma quel che rileva per questa analisi, è che il paziente, non ricevendo assistenza dalla struttura pubblica, la chiede alla struttura privata ma ad un certo punto trova la porta chiusa perché oltre il tetto stabilito dall’ASP la struttura privata non può erogare prestazioni.

Il che sarebbe comprensibile se questo blocco fosse determinato dalla carenza o inesistenza di risorse e quindi dalla impossibilità di far fronte ai costi. Motivazione odiosa, contraria alla legge, ma comprensibile.
Tuttavia così non è.

Di fronte all’impossibilità di erogare la prestazione richiesta sia da parte dell’ospedale pubblico (per saturazione) che da parte dell’ospedale privato (per esaurimento del tetto di spesa) il cittadino non ha che tre strade: 1) mettersi in lista d’attesa; 2) chiedere assistenza in altra regione; 3) farsi curare a pagamento. Ognuna di queste opzioni è altamente penalizzante ed è indotta da una gestione stupida e dannosa.

Vediamo perché: l’incremento della lista d’attesa è il fenomeno che tutti dicono di voler impedire perché comporta disagio, insoddisfazione, ingravescenza della malattia e costo sociale.

L’assistenza e la cura a pagamento, che non tutti possono permettersi, creano il fenomeno contrario al principio informatore del nostro servizio sanitario, e cioè la salute per i ricchi e quella per i poveri.
Al cittadino bisognoso di assistenza non rimane che andare fuori regione. Il che vuol dire, per lui, sommare le criticità delle prime due opzioni e cioè il disagio per se e per la sua famiglia per viaggi e permanenze in un posto lontano da casa ed il relativo costo.

Questo dal punto di vista del paziente. Ma non finisce, qui perché la Regione Calabria, disinteressata alle sorti del proprio residente è poi costretta a pagare la prestazione alla Regione in cui viene resa a tariffa più che doppia. Con questo sistema noi calabresi spendiamo oltre 250 milioni all’anno. Circa due miliardi e mezzo in dieci anni.

Soldi letteralmente regalati alle Regioni del nord perché – al netto di prestazioni di altissima complessità possibili solo in centri iper specializzati – tutte o gran parte di queste prestazioni sono di natura ordinaria (cataratte, menischi, radioterapia, protesi, colecistesctomia, PET, RMN, ecc. ecc.) che potrebbero essere rese negli ospedali accreditati delle città calabresi a costo dimezzato.

Una semplicissima cosa che potrebbe cambiare la vita dei calabresi, ed invertire la tendenza, per di più applicando la legge, quella che dice (il d.lvo 502/92) che la Pubblica Amministrazione deve consentire le cure a tutti, anche oltre i tetti di spesa, e remunerare le prestazioni con tariffe ridotte proporzionalmente e progressivamente senza oneri per i cittadini. Dunque servizio per i pazienti e risparmio enorme per le casse regionali.

Eppure tutti invocano la riduzione della emigrazione sanitaria senza indicare come fare.
E perché non si fa? I motivi possono essere due. Nel migliore dei casi, la burocrazia dovrebbe impegnarsi nel lavoro di elaborazione dati programmazione e compensazione tra regioni (mentre è meglio dire una volta per tutte, questi sono i soldi e basta, e chi arriva quando i tetti sono esauriti aspetta, emigra o paga). Nel peggiore si vuole dolosamente arricchire regioni e strutture del Nord.

Bene. Chiarito il meccanismo, va però detto che anche su questo punto, sembra che la struttura commissariale abbia idee chiare ed intenda mettere in campo tutte le iniziative necessarie per invertire la tendenza. I primi dati ci sono e costituiscono un segnale confortante: riduzione dell’emigrazione senza spendere un solo centesimo in più anzi, recuperando risorse e conseguente riduzione delle liste d’attesa.

C) La questione generale, gli sprechi, gli imbrogli, le negligenze.
Qui è lo snodo nel quale il Paese, non solo la Calabria, deve interrogarsi. A che servono le denunce – soprattutto se provengono da chi ha avuto ruoli diretti ed in partiti di governo (quindi tutti i politici che parlano e sparlano) – se non sono accompagnate da esplicite richieste di interventi giudiziari o da indicazioni di rimedi? A niente, perché questi fenomeni – il malaffare, la negligenza, l’indifferenza verso i problemi della comunità e del prossimo – sono il frutto dell’inesistenza di un meccanismo di selezione della classe dirigente.

Chi oggi siede nelle istituzioni nazionali non rappresenta in alcun modo le popolazioni di provenienza. Per il semplicissimo ed evidente motivo che non è eletto, ma è nominato e non risponde del suo operato ai cittadini che vorrebbero una sanità migliore ma al capopartito che vuole, al suo comando, solo un’alzata di mano in Parlamento.
È tutto qui. Ed è semplice. Chi davvero vuole cambiare le cose, prima che tutto diventi regime, deve chiedere che si cambi la legge elettorale e si ristabilisca la connessione politica tra eletti ed elettori.

da “il Quotidiano del Sud” del 15 aprile 2024
Foto di mspark0 da Pixabay

Solo il Servizio pubblico può contenere l’epidemia.-di Edoardo Turi Le Regioni del Sud in affanno.

Solo il Servizio pubblico può contenere l’epidemia.-di Edoardo Turi Le Regioni del Sud in affanno.

Per la previdibile recrudescenza autunnale dei casi di Covid e le nuove misure di prossima emanazione è utile uno sguardo critico. Le epidemie non sono nuove per l’umanità che convive con malattie infettive da sempre per scelte operate dall’uomo: allevamento animale (morbillo), commerci (peste), guerra (spagnola). La rivoluzione industriale dell’Ottocento modificò l’epidemiologia con comparsa di malattie cronico-degenerative (cuore, polmoni, diabete, tumori) per nocività da lavoro e ambientale, consumi e riduzione di malattie infettive per miglioramento di condizioni di vita nel mondo a capitalismo avanzato (acqua, abitazioni, alimenti, farmaci, vaccini, servizi sanitari).

Nel Sud del mondo le malattie infettive sono ancora un flagello. Il capitale ha avuto interesse a ridurre le malattie infettive interferenti con la produzione ma non le malattie cronico-degenerative: sviluppo in tarda età, non subito mortali, motivo di profitti con farmaci e diagnostica. L’epidemia da Covid nasce da sfruttamento ambientale (megalopoli), salto di specie (pipistrelli) e globalizzazione. Le società industrializzate hanno diminuito prevenzione e controlli, preferendo vaccinazioni e farmaci a più alta redditività di capitale.

L’Italia taglia la spesa sociosanitaria, per vincoli Ue e fiscal compact in Costituzione, e indebolisce il Servizio Sanitario Nazionale(SSN) con l’idea di «Sistema» (usato da molti al posto di Servizio, erroneo sinonimo teorizzato dal pensiero neoliberale come complementarietà tra SSN pubblico e privato). La spesa sanitaria è il 70% dei bilanci regionali e il personale incide al 60%, settore ad alta intensità di lavoro umano. Qui i tagli: un falso in bilancio, che sposta la spesa da personale a acquisizione di beni e servizi: erogatori privati, esternalizzazioni, convenzioni di medici/pediatri di base, specialisti ambulatoriali, consulenze.

Più del 50%: il privato fa profitti con regole meno severe del pubblico su assunzioni, con ricorso a partite Iva, licenziamenti, riappropiandosi del prelievo fiscale. Le mutue integrative, prospettate in molti CCNL, sottraggono altre risorse con la defiscalizzazione. L’epidemia conferma: privati posti letto Covid, test sierologici e tamponi, Unità domiciliari Covid, precariato. Toscana, Veneto, Lombardia, Le Case della Salute invece inEmilia-Romagna autorizzano tamponi molecolari nel privato. Recovery Fund e Mes al 50% prenderanno queste strade. Una «ri-mutualizzazione» del SSN, che compra prestazioni private a costi elevati e non produce servizi, anche nell’epidemia è subalterno al privato.

Il SSN è impreparato all’epidemia perché, in attesa di vaccino o farmaco, e l’imbuto di tamponi, laboratori, difficoltà al tracciamento dei contatti, che richiede centinaia di operatori, non si è pensato in questi mesi a specifici servizi di prevenzione e cura Covid con organico dedicato, come si fece in passato per l’Aids. Alla morte da Covid si somma anche quella per blocco di attività sanitarie come durante il lockdown. Il SSN deve attrezzarsi a convivere con la pandemia, per non chiudere il Paese, con danni a salute, lavoratori esposti (iniziando con classificare correttamente Covid nel rischio biologico 3, trasmissibile alla popolazione), istruzione e reddito dei cittadini.

Il lavoro agile è un privilegio di classe senza regole che scarica costi sui lavoratori. Serve subito una ripubblicizzazione della sanità con assunzioni sufficienti, concorsi regionali per discipline, graduatorie a scorrimento e re-internalizzazioni, compresa la medicina di base, ripensandone la formazione collocandola in ambito universitario oltre il numero chiuso.

Le Regioni, con tagli di spesa, diventano traduttrici di confuse indicazioni di Governo e Ministero della salute: siamo al regionalismo differenziato anticipato da un governo di centro sinistra con la modifica del titolo V della Costituzione e il Sud al palo con guerra delle ordinanze e costo diverso dei tamponi. Non serve il centralismo, ma un giusto rapporto costituzionale Stato-Regioni-Comuni, negli organismi previsti, per l’ uniformità dei diritti. Il SSN ha poi un vulnus democratico, aggravato dagli accorpamenti di Aziende Sanitarie, Distretti enormi, incapacità dei Comuni di rappresentare le realtà locali nei confronti delle Regioni e direzioni aziendali anacronisticamente simbolo di una verticalizzazione autoritaria.

Decentramento e partecipazione sono negate, erano le bandiere della sinistra che, dopo anni di governo, non può accusare altri. Le Case della salute, che Maccacaro pensò nel 1975 erano realtà partecipative in Usl e Distretti piccoli, riviste nel 2004 dalla Cgil, per una trasformazione della medicina territoriale come presa in carico dei cronici in ASL. Le Case della salute invece in Distretti di grandi dimensioni, presenti in poche Regioni, sono spesso proposte come soluzione a tutto, senza adeguate risorse e progettualità. Ma serve un movimento di lotta a partire dall’epidemia che apra su questo conflitti e vertenze, scuotendo la pigra sinistra.

L’autore è medico-Direttore Distretto ASL Roma e partecipa al Forum per il diritto alla salute- Medicina democratica

da “il Manifesto” del 18 ottobre 2020
Foto di fernando zhiminaicela da Pixabay