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Sulla Calabria una lastra di cemento. Troppe abitazioni vuote e troppe abusive.-di Battista Sangineto

Sulla Calabria una lastra di cemento. Troppe abitazioni vuote e troppe abusive.-di Battista Sangineto

La Calabria è sepolta sotto un’enorme ed orribile lastra tombale di cemento, il cemento armato di un milione e 375.504 abitazioni certificate dall’ultimo censimento dell’ISTAT del 2023 a fronte di un milione e 855.454 abitanti molti dei quali, lo sappiamo, non sono neanche davvero residenti in questa regione.

A queste abitazioni vanno aggiunte le altre 143.875 che, secondo una indagine condotta nel 2013 dall’Agenzia delle Entrate in Calabria, sono totalmente sconosciute al fisco e al catasto. Nella nostra regione, dunque, c’è una casa ogni 1,3 calabresi la qual cosa significa che il cemento ha irreversibilmente impermeabilizzato ogni lembo della regione come dimostrano i dati dell’ISTAT e dell’ISPRA del ‘23 secondo i quali è stato consumato ben l’11,7% dell’intera superficie di una regione che comprende -per una larghissima percentuale del suo territorio- inconsueti e multiformi paesaggi composti da valli impervie, altopiani, alte colline e montagne.

Questa varietà e singolarità di orizzonti geografici e climatici che Guido Piovene, nel suo bellissimo “Viaggio in Italia”, descrive mirabilmente così: “Viaggiare in Calabria significa compiere un gran numero di andirivieni, come se si seguisse il capriccioso tracciato di un labirinto … Rotta da quei torrenti in forte pendenza, non solo è diversa da zona a zona, ma muta con passaggi bruschi, nel paesaggio, nel clima, nella composizione etnica degli abitanti. È certo la più strana delle nostre regioni … Nelle sue vaste plaghe montane talvolta non sembra d’essere nel mezzogiorno, ma in Svizzera, nell’alto Adige, nei paesi scandinavi. Da questo nord immaginario si salta a foreste di ulivi, lungo coste del classico tipo mediterraneo … La Calabria è una mescolanza di mondi … Si direbbe che qui siano franati insieme i detriti di diversi mondi; che una divinità arbitraria, dopo aver creato i continenti e le stagioni, si sia divertita a romperli per mescolarne i lucenti frammenti”.

Come se l’inconcepibile mostruosità della lastra tombale di cemento che ci ha sottratto per sempre la multiforme bellezza della Calabria, non fosse sufficiente per far cambiare mestiere alla classe dirigente calabrese, si apprende, per sovrappiù, che l’ISTAT -nel suo annuale rapporto “Il benessere equo e sostenibile in Italia” pubblicato nel maggio del ‘25- riporta un dato rilevato dal Cresme (Centro di Ricerche di Mercato).

Questo rapporto pone, nel 2022, la Calabria in cima alla classifica dell’illegalità edilizia con il 54,1% delle abitazioni abusive al pari della Basilicata (anch’essa con il 54,1%), ma prima della Campania (50,1%), della Sicilia (48,2%) e della Puglia (34,8%), mentre la media nazionale è del 15,1%.

Al danno irreversibile inferto alla bellezza del paesaggio si deve aggiungere la beffa dell’illegalità delle costruzioni che è intimamente legata, com’è evidente, all’evasione fiscale. In un recentissimo rapporto la CGIA di Mestre rileva che -nonostante la legge in vigore riconosca ai Comuni che segnalano all’Agenzia delle Entrate situazioni di infedeltà fiscale (l’Irpef, l’Ires, l’Iva, le imposte di registro/ipotecarie e catastali) un importo economico del 50% di quanto accertato- solo il 4% dei sindaci ha denunciato irregolarità.

Su 7.900 Comuni presenti in Italia, infatti, solo 296 (pari al 3,7 per cento del totale) hanno trasmesso, in materia di evasione, delle “segnalazioni qualificate” agli uomini del fisco. In Calabria, “ça va sans dire”, solo 10 su 404 Comuni (il 2,5%) hanno inviato le suddette ‘segnalazioni’: Villa San Giovanni (Rc), Reggio Calabria, Bisignano (Cs), Luzzi (Cs), Acquappesa (Cs), Melito di Porto Salvo (Rc), Castrolibero (Cs), Altilia (Cs), Fuscaldo (Cs) e Crotone. Dal 2016 al 2023 dei 5 capoluoghi di provincia calabresi solo Reggio Calabria ha ricevuto regolarmente contributi recuperati dall’evasione (circa 400mila euro dal 2016 al 2023).

Cosenza, Catanzaro e Vibo Valentia, invece, non avendo segnalato nulla non hanno ottenuto alcun contributo, mentre Crotone ha ottenuto ben 3 (tre) euro, ma solo nel 2023.

Si deve aggiungere –grazie, di nuovo, alle statistiche ISTAT del 2023 – che questo profluvio di cemento armato non serviva a soddisfare i bisogni abitativi dei calabresi perché la Calabria è terza, dopo la Valle d’Aosta ed il Molise, per numero di case non abitate permanentemente con l’altissima percentuale del 42,2% di abitazioni vuote.

A chi, e a cosa, servono tutte queste case vuote?

Credo che sia arrivato il momento di smetterla di consumare suolo agricolo, di devastare il paesaggio rurale e quello delle città; è arrivato il momento di porre fine alle colate di cemento sia quelle legalizzate dai PSC e dai PSA sia, soprattutto, a quelle illegali, ma bisogna ristrutturare, ammodernare, abbellire le abitazioni esistenti e abbattere il maggior numero possibile delle case abusive.
Un “vaste programme”, come sarcasticamente avrebbe detto Charles De Gaulle, se un simile proponimento venisse da parte di un Amministratore di un Comune o di una Regione, ma l’imperatore Diocleziano, molti secoli prima, era già convinto che “nihil difficilius est quam bene gubernare”.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 giugno 2025
foto: Battista Sangineto, vista di via Popilia dal Castello di Cosenza

La posta in gioco dei referendum, in Calabria è più alta.-di Filippo Veltri

La posta in gioco dei referendum, in Calabria è più alta.-di Filippo Veltri

La posta in gioco è molto alta, direi altissima e in Calabria lo è ancora di più per tanti motivi. Il non raggiungimento del quorum renderebbe inutilizzato l’unico strumento ancora integro rimasto a sorregge la democrazia costituzionale nata dalla Resistenza. La nostra democrazia poggia su tre capisaldi strategici diversi, ma fra loro strettamente legati: la rappresentanza, la partecipazione popolare e la democrazia diretta.

Un Parlamento che rappresenta gli interessi parziali di una parte del popolo esprime la sua fiducia a un Governo che si lega agli stessi interessi parziali. Così lo stesso Parlamento finirebbe per soccombere alla prevalenza del Governo riducendosi al rango di mero ratificatore. Così come sta avvenendo in Italia e le armi usate per tale disfatta sono due: il sistema elettorale e la riduzione del numero dei parlamentari.

Soprattutto quest’ultima sciagura, molto funzionale a questo progetto antidemocratico, è contro la rappresentanza e ha portato a completamento la trasformazione del Parlamento in uno strumento dell’esecutivo a guida postfascista che oggi decide per tutti, nonostante che sia espressione di una compagine di forze politiche che rappresenta una minoranza della popolazione.

In questo quadro così preoccupante, la posta in gioco è dunque altissima perché una sconfitta (consistente nel non raggiungimento del quorum minimo per la validità dei referendum dell’8 e 9 giugno) rappresenterebbe purtroppo la perdita di questa grande opportunità di utilizzo del terzo pilastro della democrazia costituzionale. Quello che gli elettori possono esercitare direttamente senza la presenza intermedia di partiti e altre forme associative.

La vittoria del SI abrogativo farebbe sparire una legge o parti di essa dall’ordinamento giuridico e nessun giudice potrebbe riesumarla; e il Parlamento non potrebbe nemmeno riproporla se non dopo almeno un quinquennio e dopo un mutamento sostanziale della situazione politica del Paese. Il mancato raggiungimento del quorum nei referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno porterebbe, purtroppo, a una situazione completamente nuova: questo Paese si mostrerebbe ormai privo di capisaldi democratici e si aprirebbero scenari autoritari.

In Calabria i 5 quesiti referendari pongono ancora maggiore urgenza nella partecipazione al voto, sia nel merito dei migranti che del lavoro. La precarietà è la costante dei rapporti di lavoro e di pseudo lavoro dalle nostre parti e non è più tollerabile, rendendo la vita di giovani e meno giovani più complicata e al limite dell’impossibile. Il jobs act non solo ha inoltre reso tutto più difficile nei pochi luoghi di lavoro dove si applicano contratti e leggi.

Il voto è dunque un diritto e un dovere civile dovunque ma non farlo qui in Calabria sarebbe oltre modo grave, nonostante la crisi di fiducia e credibilità di cui (non) godono le istituzioni e la scarsa partecipazione popolare al voto. Ma il popolo nella sua accezione più nobile e grande ha già dimostrato che è soprattutto uno strumento di lotta per cambiare e la politica come ci insegna il grande Nicolò Machiavelli (1519) è praticamente tutto: ‘’non esiste zona dalla vita umana sottratta alla necessità della politica. Senza la politica né gli individui né gli aggregati collettivi resisterebbero al turbine di accadimenti’’.

La manifestazione di Catanzaro del 10 maggio sul diritto alla salute ne è la dimostrazione più vicina a noi e più lampante. Sono fiducioso che il popolo calabrese lo dimostrerà ancora.

da “il Quotidiano del Sud” del 24 maggio 2025

Sanità, dalla piazza di Catanzaro idee e proposte da portare a Roma.-di Filippo Veltri

Sanità, dalla piazza di Catanzaro idee e proposte da portare a Roma.-di Filippo Veltri

Dopo otto giorni si può tornare a parlare con freddezza di quella bella piazza del 10 maggio a Catanzaro, soprattutto per cercare un filo conduttore per il futuro.

Finalmente migliaia in piazza per una problematica vitale. In una città che facile non è: Catanzaro è meno ricettiva di altre ma comunque ha dato un segno di vitalità. In generale una risposta di alto livello, motivo che se ci fosse una chiamata alle armi (metaforicamente parlando ovviamente) da parte di dovrebbe farla non è vero che troverebbe solo apatia e disinteresse in Calabria.

Bisogna capire perché manchi tutto questo, ma è un altro ragionamento che magari riprenderemo separatamente.

Sabato 10 maggio notate anche alcune assenze: pensiamo ad esempio ai medici, direttamente interessati al problema del diritto alla salute, ma erano pochi in piazza. Si poteva cioè avere una presenza ancora maggiore (e va capito il perché), garantita invece dal grandissimo sforzo fatto dalla CGIL. Ciò naturalmente evidenzia, in ogni caso e ancora di più, la grande riuscita della manifestazione ed il merito di chi l’ha promossa e ci ha creduto fin dall’inizio e ci ha messo la faccia.

Questo giornale e il suo Direttore in primo luogo ed è per questo che ora bisogna valorizzare quel giorno che segna uno spartiacque ed andare avanti con la mobilitazione.

Alcune proposte ora, scaturite da una settimana di colloqui e di incontri post manifestazione. Innanzitutto Roma: il grido incessante da sotto il palco di Catanzaro mi torna ancora nella mente. Una grande manifestazione a Roma in autunno potrebbe essere uno sbocco. Poi una proposta di legge di iniziativa popolare per incentivare i medici a scegliere di lavorare nelle regioni disagiate attraverso stipendi adeguati e benefit integrativi.

Sulla proposta di legge raccogliere migliaia di firme ed organizzare una larga mobilitazione sui territori da subito fino alla manifestazione di autunno. E ancora: una legge regionale di iniziativa popolare per incentivare i medici a scegliere di lavorare nel servizio di emergenza/urgenza e pronto soccorso. Proposte che, ad esempio, sono state avanzate nella manifestazione di San Giovanni in Fiore prima del 10 di maggio da Mario Oliverio e che sono state accolte.

Partendo dalla manifestazione di sabato scorso si può insomma fare un buon lavoro e si può recuperare fiducia e ricostruire una presenza organizzata di una rete sul territorio. L’altro scoglio da evitare è la depoliticizzazione del problema, cioè il non volere tenere conto (Razzi lo ha detto dal palco con forza ma va ribadito ogni volta) che partiti e politica sono attori indispensabili in questa partita. Così come in tutte le partite che riguardano sviluppo e futuro della nostra terra.

Sono inadeguati? Non sono quelli di una volta? Certamente sì ma lasciarli fuori dalla porta o liberarli dalle loro responsabilità o schivarli per schifarli in un cupio dissolvi non conviene a nessuno. Né al movimento e nemmeno a loro, che possono (se vogliono) trovare o ritrovare linfa vitale in quella piazza.

Che – al di là ed oltre il diritto alla salute – una cosa fondamentale l’ha dimostrata e messa in luce: dalla base, dai paesi piccoli e grandi, di montagna e di pianura, emerge una richiesta forte di intervento per bloccare l’emorragia e la fuga, alla fine la morte e la scomparsa di gran parte della Calabria.

Mi hanno molto colpito la combattività di centri medio grandi come San Giovanni in Fiore o Polistena ma anche di borghi piccoli come Bocchigliero che in piazza gridavano il loro diritto alla sopravvivenza. Una sopravvivenza che passa innanzitutto dal diritto alla salute ma che coinvolge poi tutto il resto che non c’è. Una Calabria cioè da salvare.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 maggio 2025

Dopo la manifestazione, le proposte. Così si può cambiare la Sanità pubblica.-di Enzo Paolini

Dopo la manifestazione, le proposte. Così si può cambiare la Sanità pubblica.-di Enzo Paolini

Sì, molto partecipata la manifestazione di sabato sulla sanità raccontata dalle cronache del Quotidiano e suggestivamente commentata sulle sue colonne da un attento ed acuto osservatore come Marcello Furriolo.

Rimane, però, una sensazione di incompiutezza a chi – come me – opera da tempo nel campo del servizio sanitario pubblico e si aspettava che la manifestazione originata dal dibattito quanto mai opportunamente suscitato dal Quotidiano, si sviluppasse oltre che in modalità “protesta” anche in termini di (anche vaga, abbozzata) “proposta”.

Invece no, a meno di voler assegnare seriamente l’abito di un ragionamento propositivo alle enunciazioni del tipo “rilanciare la sanità pubblica” “migliorare i pronto soccorso” “ridurre la spesa privata” “out of pocket” (cioè le cure a pagamento) “potenziare i reparti”, “ridare dignità ai medici”, “valorizzare il sistema infermieristico”, “potenziare la ricerca”, “migliorare la rete ospedaliera” e così via, potrei continuare per due pagine.

Tutti slogan condivisibili a cui manca però poi la conseguenza (che sarebbe auspicabile e doverosa) del “come”. Proviamo a dirlo noi, consapevoli che ciò che diciamo non piacerà ad alcuni, ma da tempo ce ne siano fatti una ragione ed insistiamo.
Partiamo dalla premessa: v’è la necessità e l’urgenza di difendere e potenziare il servizio pubblico.

Il che vuol dire cancellare per sempre dal lessico e dall’azione di qualsiasi governo che il diritto alla salute non sarebbe assoluto ma sacrificabile sull’altare delle esigenze di contenimento della spesa dello Stato e/o dei bilanci regionali. Abbiamo visto il disastro che, in termini di forza e di efficienza hanno provocato i tagli alle risorse sanitarie disposti dai governi degli ultimi 25 anni.

Ovunque è dimostrato che il sistema dei tetti non funziona, produce inevitabilmente la lista d’attesa e l’emigrazione sanitaria. I soldi pubblici vanno usati meglio, non distribuiti con criteri come quello della spesa storica tali da consolidare posizioni di rendita e scoraggiare investimenti.

Il servizio sanitario è pubblico, tutto, ed è fatto da strutture di mano statale e da altre gestite da imprenditori privati che, per legge, se vogliono stare in un sistema solidaristico e universale, devono avere gli stessi requisiti strutturali tecnologici e ed organizzativi degli ospedali pubblici, devono essere controllate, verificate, dagli uffici della Regione e pagate con tariffe fissate dallo Stato in base alle prestazioni rese secondo gli standard stabiliti dalle norme. Senza oneri per i cittadini.

Qui ci vuole la politica.
Non la politica che si straccia le vesti e lancia altissimi lai sull’incremento della spesa privata senza la lucidità di sapere o l’onestà intellettuale di dire che per ridurre la spesa di tasca del cittadino occorre aumentare gli stanziamenti per la sanità accreditata nel servizio pubblico. Dove non si paga e si assicurano le cure con gli standard di legge. Se si riduce questa inevitabilmente si spinge il cittadino verso la sanità a pagamento.

E’ talmente ovvio e semplice da capire che viene il dubbio che quello di creare la sanità per ricchi e quella residuale per gli altri il dubbio sia un disegno consapevole.
E forse lo è.

Dunque la politica. Ma non i politici con la faccia come il bronzo, cioè quelli che sono dirigenti e/o componenti delle consorterie che governano da lustri e poi si presentano in piazza a dire che le cose non vanno e bisogna fare qualcosa, come se loro, invece di sedere sulle comode poltrone, comunali, regionali e delle ASP fossero stati nell’eremo di Camaldoli a studiare incunaboli.

E’ una offesa all’intelligenza dei cittadini così come lo è non dire – a beneficio del dibattito e delle proposte sulle cose da fare – che dopo l’onda del disastro lungo venticinque anni, si avverte oggi una oggettiva inversione di tendenza.

L’arrivo dei medici cubani, può piacere o non piacere, ma è un fatto, un concreto innesto di servizio che aiuta a dare risposte; si è rimesso mano ad una rete ospedaliera nella quale si era follemente fatto ricorso alla chiusura di ospedali lasciando intere comunità senza alcun riferimento; si è ridotta la lista d’attesa e si è avviato il recupero della emigrazione sanitaria che era arrivata alla cifra record di 300 milioni regalati inutilmente ad altre Regioni del nord. Sono numeri, non chiacchiere.
Di cui la piazza descritta da Marcello Furriolo dovrebbe – deve – tener conto se si vuole fare politica seria.
Altrimenti è la solita fuffa di chi deve ogni tanto farsi sentire per giustificare la propria esistenza politica.

Invece ci vuole politica più seria in sanità. Quella che sceglie e decide, si assume responsabilità e poi si fa giudicare; la politica che serve per trasformare il nostro servizio sanitario da centro di consenso elettorale in centro di consenso politico. Ciò che deve essere in un paese finalmente moderno e veramente ispirato al socialismo liberale.

In questo modo si passerà dallo slogan delle tre A (autorizzazioni, accreditamenti, accordo) al centro delle quali c’è il Direttore Generale, a quello delle tre E, (eccellenza, efficacia ed efficienza) con al centro veramente e finalmente il cittadino.
E qui sta la prima proposta, di base.

Occorre ripensare almeno in parte allo sgangherato titolo V della Costituzione così come modificato da un Parlamento largamente inadeguato sul piano tecnico e culturale e votato alla creazione di piccoli e grandi centri di potere locali.
Dobbiamo ripartire in senso inverso rispetto alla idea della autonomia differenziata che, per una sorta di eterogenesi dei fini, mostra tutti i suoi limiti in termini di tutela non solo della salute ma dei diritti e della libertà dei cittadini.

I diritti fondamentali, quelli che definiscono l’identità di un popolo e danno il senso della comunità, non possono essere interpretati ed applicati in maniera diversa a Roma a Reggio Calabria o a Trieste.
Sono il patrimonio politico della Repubblica e non hanno prezzo, in tutti i sensi.

Altro punto è come contemperare la dimensione della richiesta di assistenza da parte dei cittadini (tutti aventi diritto, ovviamente, in egual misura) con la limitatezza delle risorse che potrebbero essere insufficienti per il numero di prestazioni richieste e valorizzate con la tariffa stabilita dallo Stato.

Sistema non particolarmente complesso. Si chiama programmazione, ed è un lavoro che compete ai governi ed alla burocrazia regionale che però per sciatteria ed incapacità sono più inclini ad applicare un altro sistema più sbrigativo: questi sono i soldi e basta. Oltre questo i cittadini devono rivolgersi altrove e le strutture devono smettere di lavorare.

Non va bene affatto. Occorre pensare e agire, non dormirci sopra con direttori generali e politici che pensano che il problema non è loro, ma di chi verrà dopo. Occorre coraggio e visione o, meglio nell’ordine inverso, visione prima e coraggio dopo.
La visione è quella che deve ampliare lo sguardo oltre i bastioni del castello del tirare a campare.

La Corte Costituzionale con la sentenza 195/2024 ha indicato la strada, ha messo il cartello: non sono i soldi che mettono i limiti alla politica sanitaria; questo dei soldi è un limite che può valere per altro, per le autoblu e per i vitalizi, per i ripiani dei bilanci delle aziende private, a spese dello Stato, per i riarmi necessari ad alimentare guerre, per le opere pubbliche non necessarie, ma non può valere per la tutela della salute, diritto primario, costituzionale ed incomprimibile.

Dunque è l’esigenza economica del servizio pubblico che detta l’agenda e la priorità per il bilancio dello Stato. Che non può e non dovrebbe dire al Ministro della Salute (e poi ai presidenti di regione ed ai DG) questi sono i soldi fateveli bastare. Non dovrebbe.
E qui sta il coraggio.

Siamo la classe dirigente che deve contribuire a guidare responsabilmente un Paese e dobbiamo, possiamo dire che è il momento di una riforma strutturata, per potenziare il servizio pubblico assicurare gratuitamente a tutti, tutte le cure primarie, quelle importanti, la cronicità, le terapie salvavita, l’assistenza della terza età e della non autosufficienza, del dopo di noi, le emergenze urgenze, tutto insomma a tutti. Ma per far questo occorre cambiare radicalmente la prospettiva e l’agenda. Subito.

Occorre potenziare la prevenzione e la medicina del territorio. Ridisegnare la figura del medico di base e potenziare l’altro estremo, quello della urgenza/emergenza, magari assegnando un ruolo obbligatorio a tutte le strutture, anche a quelle a gestione privata, che curano acuti ed ai policlinici. Devono avere un punto di pronto soccorso con riconoscimento dei soli costi per gli accessi non seguiti da ricovero. Ciò consentirebbe di deflazionare tanti pronto soccorso che sono un imbuto che non riesce ad assorbire la domanda nonostante l’eroismo di tanti operatori.

Ma soprattutto sarebbe una rivoluzione rivedere il concetto di essenzialità per l’assistenza e le cure semplici, (l’alluce valgo o il tunnel carpale sono gli esempi che mi vengono, ma ce ne sono tanti altri) per chi ha un reddito che gli consente di pagare in proprio o di sostenere un’assicurazione.
Ciò manterrebbe intatto il principio di universalità delle cure, liberando solidaristicamente risorse per chi non può permettersi di pagare in proprio neanche quelle più semplici e meno costose.

Insomma, chi ha di più continuerebbe a sostenere chi ha di meno, mediante il prelievo fiscale progressivo e proporzionale ma con raziocinio, con politica sociale liberando le risorse pubbliche per il servizio pubblico accreditato e sostenendo il sistema delle imprese a pagamento puro impegnando chi può permetterselo, senza fare di imprenditori seri e onesti un esempio deteriore con una suggestione iniqua, ingiusta e permeata di pregiudizi non degni di un Paese civile.

È l’uovo di Colombo? Forse, ma ciò non deve banalizzare ciò che pensiamo di dover proporre o fare, perché a distanza di secoli quell’uovo è ancora lì ritto sul tavolo e ci dice che niente è scontato per chi vuole cambiare le cose.

da “il Quotdiano del Sud” del 14 maggio 2025

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sanità, la Calabria che non ci sta più.-di Filippo Veltri

Sulla sanità in Calabria si potrebbero scrivere enciclopedie, Treccani intere; fare dibattiti 2 o 3 volte al giorno; discutere e litigare per anni interi. E si è fatto e si fa anche tutto questo. Da quando? Non ne ho memoria, ve lo confesso. Ho perso il conto.

Grandi esperti, competenti emeriti, studiosi di diritto sanitario, di diritto pubblico, di sociologia, giuristi, docenti, medici e non, si dannano l’anima per cercare di spiegare alla fine una cosa che è talmente semplice da sembrare banale ma che è all’origine dell’incredibile successo che sta riscuotendo l’iniziativa che si terrà domani pomeriggio in piazza a Catanzaro.

E’ nata dalla testa del direttore di questo giornale, Massimo Razzi, che calabrese non è (e si vede dalla semplicità con cui l’ha pensata e messa in campo), il quale mesi fa dinanzi al diluvio di proteste, accuse, reclami etc., ha pensato alla cosa più semplice del mondo: organizzatevi, organizziamoci, prendiamo la parola, prendete la parola e scendiamo in piazza per il diritto alla salute.

DIRITTO ALLA SALUTE, lo scriviamo in grande così si capisce meglio di che parliamo. Finiamola, cioè, con le ardite e dotte discussioni sui piani di rientro che ci sono e forse vanno via come i commissariamenti (chissà chi lo sa), con i bilanci delle Asp che non tornano, con i fondi e le parcelle pagate 2, 3 e 10 volte, con i buchi neri amministrativi e contabili, etc etc. Cose – dio me ne guardi dal sottovalutarle – molto importanti ma alla fine della fiera il cittadino vorrebbe sapere altro.

Vorrebbe, cioè, sapere perché si può morire in ambulanze senza medici, o in ospedale a nemmeno 40 anni incinta alla prima gravidanza. O perché bisogna andarsene lontani da casa per farsi curare. O perché non si trova più un medico di famiglia. E altre amenità del genere, che pullulano sulle pagine ogni giorno dei quotidiani, dei social, dei siti e rendono tutta la vita dei calabresi più pericolosa di quanto non lo sia già. Perché il punto di fondo è centrato, infatti, sul diritto alla salute negato nonostante l’impegno, l’abnegazione, il sacrificio di medici, infermieri, paramedici che si dannano l’anima per tamponare situazioni difficilissime, a volte al limite dell’impossibile, in reparti affollati, emergenze intasate fino al collasso, tempi biblici nelle prenotazioni (quando funzionano), liste d’attesa di cui è meglio non parlare.

Tutte situazioni che si trascinano da tempo e che hanno incancrenito il settore, dove pure esistono eccellenze sparse qua e là nel territorio, stelle in un infinito mare di nebulose dove il povero calabrese paziente (sostantivo e aggettivo, in tutti i sensi) fatica a raccapezzarsi e a trovare risposte all’unica domanda che agita: il diritto appunto alla salute.

Molto si è discusso e si discute anche sull’utilizzo dei medici venuti da Cuba nelle corsie degli ospedali calabresi. I soliti leoni da tastiera non hanno perso tempo fin dall’inizio a gridare allo scandalo, a chiedere che vengano utilizzati medici italiani (domanda: chissà come e dove prenderli), a sollevare questioni di lana caprina sulla provenienza, la lingua, le metodologie utilizzate. Se c’è invece qualcosa da salvare nei tempi agri che viviamo è proprio l’aiuto fornito e che stanno fornendo questi bravi medici venuti da un altro mondo. Senza di loro sarebbe già forse definitivamente collassato il sistema.

Ecco: servono risposte immediate a quelle domande che ogni giorno, ogni ora del giorno, si manifestano dentro e fuori gli ospedali. Organizzarsi e manifestare è un segno che la coscienza civile non è morta e chiede risposte serie e concrete. A chi? Alla politica e alle istituzioni. È la regola base della democrazia. A ciascuno il suo. Domani pomeriggio questo molto semplicemente si fa.

da “il Quotidiano del Sud” del 9 maggio 2025

Sud: la solitudine degli anziani nell’inverno demografico.-di Tonino Perna

Sud: la solitudine degli anziani nell’inverno demografico.-di Tonino Perna

La piaga dell’emigrazione giovanile che colpisce pesantemente tutte le regioni meridionali, e non solo, è stata più volte posta al centro del dibattito politico senza che finora si sia trovata una efficace politica per contrastare questo fenomeno.

La SVIMEZ ha più volte lanciato l’allarme sulla fuga dei giovani dal Mezzogiorno: dal 2010 ad oggi oltre 200mila laureati e altrettanti diplomati, si sono trasferiti dal Sud nel Centro-Nord d’Italia. Questi sono i dati ufficiali: ovvero vengono censiti solo quelli che cambiano residenza e, come sappiamo, molti per diverso tempo non lo fanno.

Il rovescio della medaglia è che rimangono sempre più nel Mezzogiorno genitori anziani soli. Le fasce di anziani a reddito medio spesso mantengono i giovani che studiano nelle Università del Centro-Nord e, successivamente, sostengono economicamente i figli durante la prima fase di inserimento lavorativo, soprattutto per gli alti costi degli affitti.

Le fasce a reddito medio-alto tendono ad acquistare un monolocale per i figli emigrati anche quando hanno trovato un lavoro stabile. Complessivamente tutti gli over 60, che possono permetterselo, spendono una parte significativa del proprio reddito per sostenere economicamente i figli emigrati, andarli a trovare, e, soprattutto i nipoti, chi ha la fortuna di averli. Ormai da anni assistiamo ad un “turismo genitoriale” Sud-Nord che va a sommarsi al cosiddetto “turismo sanitario”.

In soldoni, stiamo assistendo, almeno dagli inizi del nuovo secolo, ad un rilevante flusso di denaro dal Mezzogiorno al resto d’Italia e all’estero che impoverisce questi territori creando un circolo vizioso, una perversa sinergia, con il fenomeno emigratorio.

Ben più triste è la condizione di che gode di pensioni minime o ha un reddito basso che non gli permette queste spese. Aspettano che i figli vengano a trovarli a Natale e durante le vacanze estive, che attendono con ansia per riscattare il grigiore di giornate vissute nell’ombra. Ben più grave è la condizione di vedove/i che vivono drammaticamente questo abbandono e tremano al pensiero di diventare disabili o essere colpiti da gravi malattie.

Si può obiettare che questa condizione esisteva anche durante la prima grande ondata migratoria, 1951/’71, ma sbagliamo a paragonare questa realtà ai primi decenni del dopoguerra. Innanzitutto, per il gran numero di laureati che vanno via e impoveriscono questi territori, ma soprattutto perché oggi è venuto meno il senso della comunità, la solidarietà di vicinato, le relazioni affettive che esistevano ancora in quel tempo, e supplivano alla mancanza di servizi sociali.

Particolarmente grave è la condizione degli anziani in Calabria. La percentuale di over 65 è del 24per cento, che rientra nella media nazionale, solo che viene calcolato sempre sui residenti che non corrispondono al dato reale. Pertanto, è molto più alta e si può stimare intorno al 30 per cento.

In particolare, nei Comuni con meno di 1000 abitanti, ben 78, i residenti “reali” sono spesso molto meno di quello che ci dicono i dati ufficiali, e rimangono a vivere solo quegli anziani poveri o malati che non possono spostarsi. Privi di servizi sanitari e sociali, di efficienti trasporti pubblici, l’emarginazione di questi anziani è totalmente ignorata perché non protestano e non sono visibili ai mass media.

Data la condizione finanziaria degli enti comunali che a mala pena pagano gli stipendi ai dipendenti, bisognerebbe avere un intervento regionale, un piano socio-sanitario per tutti questi piccoli paesi collocati nelle aree interne.

Senza sottovalutare la condizione di solitudine degli anziani poveri, malati, disabili che vivono nelle nostre città. Interi condomini abitati da over 70 che si ignorano, che vivono un doppio disagio: vivere in una regione con scarse risorse e politiche socio-sanitarie inadeguate e, allo stesso tempo, vivere in una modernità che ha accentuato l’individualismo “sfrenato” dei calabresi di cui già parlava Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia” di settanta anni fa.

In questo inverno demografico che, purtroppo, durerà ancora a lungo dobbiamo seriamente pensare ai servizi socio-sanitari come ad una priorità di questa regione. Magari organizzando i bisogni inevasi, come fa l’associazione “Comunità competente” da diversi anni, e trovando le risorse economiche che esistono ma vengono sprecate in interventi inutili e dannosi. A partire dai 16 miliardi per il fantomatico Ponte sullo Stretto.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2025
Foto di Mircea Iancu da Pixabay

Ambiente e sviluppo, da uno storico un progetto di futuro per Catanzaro.-di Filippo Veltri

Ambiente e sviluppo, da uno storico un progetto di futuro per Catanzaro.-di Filippo Veltri

Piero Bevilacqua fa lo storico di professione, ordinario alla Sapienza di Roma, impegnatissimo in questi mesi nella presentazione del suo ultimo libro sui temi delle guerre e del mondo in fiamme, ma torna spesso nella sua città, Catanzaro, ed ha rivolto una bellissima lettera ai suoi concittadini, su un problema di grande valenza legato al territorio sul mare del capoluogo regionale ma che va ben oltre i confini di quella città per il valore della proposta.

‘’Cari amici di Catanzaro – scrive il prof. Bevilacqua – poiché nei prossimi anni si giocherà una partita importante per il destino della città, io che ci sono nato e, per non vivendoci più da quasi 50 anni, ho con essa profondi legami, mi sono permesso di elaborare questo progetto che sottopongo alla vostra attenzione’’.

Il progetto è assai lungo e articolato, con una premessa ed un dettagliatissimo proponimento che si spera possa essere ripreso ed attuato dagli amministratori di oggi. Riguarda specificatamente l’area di Giovino, un polmone verde affacciato sullo Jonio, nei pressi di Catanzaro Lido verso Crotone, caratterizzato dalla presenza di un’ampia pineta lungo il mare e da una distesa di dune popolate da piante selvatiche e rare, circa 240 ettari, occupata da case, strade, ma anche orti, aziende agricole, campagne, aree incolte. Per questo vasto territorio il Comune di Catanzaro ha in progetto una lottizzazione per costruire prevalentemente edifici ‘’e io invece credo che sia possibile avviare un nuovo corso di intrapresa economica, un modo avanzato e moderno, ambientalmente sostenibile, di dare valore al territorio’’.

Cioè finalmente porre un alt al cemento selvaggio che drena risorse e distrugge l’ambiente.

A Giovino potrebbe nascere un Parco delle Varietà Frutticole Mediterranee, un’area in cui si raccolgono e coltivano le centinaia e centinaia di varietà dei nostri alberi da frutto. Oggi molte di queste piante sono presenti nei vari vivai della regione, presso i privati che le coltivano in modo amatoriale, disperse e spesso abbandonate nelle nostre campagne. Ma non formano aziende agricole vere e proprie fondate sulla varietà. Per costituire il Parco occorre dunque un’opera preliminare di raccolta a cui possono concorrere tanti nostri bravi agronomi.

‘’Non si creda – scrive Bevilacqua – che sia un’operazione del tutto nuova. Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, alcuni agronomi dell’Università di Palermo hanno costituito anni fa il Museo vivente del mandorlo: un vasto giardino con centinaia di piante che producono mandorle e che tra febbraio e marzo attraggono folle di visitatori per la loro fioritura spettacolare. Certo, Giovino non è la Valle dei Templi, ma insieme alla Pineta e alle sue dune fiorite il Parco aggiungerebbe un elemento di attrazione non trascurabile.

Naturalmente, accanto al Parco dovrebbero sorgere uno o più vivai, dove le varietà vengono riprodotte e vendute, così da sostenere la diffusione di una frutticultura fondata sulla varietà e sulla qualità in tutte le campagne del comune di Catanzaro, dentro la città, anche nei giardini, nelle aree degradate e nude, e potenzialmente nel resto del Sud’’.

Occorre dunque uscire da una subalternità culturale non più tollerabile, che riguarda l’intero Sud. ‘’Vi ricordo che la Sicilia, il giardino d’Europa, per decenni la regione prima produttrice d’agrumi nel mondo, non ha mai creato un grande marchio d’aranciata. Della Calabria, buona seconda dopo la Sicilia, quanto a produzione, non è il caso di parlare. A tal fine un completamento dell’intero progetto sarebbe la creazione di un “Istituto per lo studio della biodiversità agricola e delle piante della regione mediterranea’’.

Un centro di ricerca, che potrebbe connettersi con il Dipartimento di Agraria dell’Università di Reggio Calabria, col fine di studiare le potenzialità farmacologiche e d’altra natura delle nostre piante, ma anche il miglioramento varietale, le patologie.

La lettera, nel finale, è un auspicio: ‘’Cari catanzaresi, come sapete, nel territorio di Giovino la precedente amministrazione comunale di Catanzaro intendeva avviare un progetto di lottizzazione: nuove case, nuovi edifici, strade, nuovi centri commerciali.
Inoltre, poiché la popolazione di Catanzaro, come quella di tutta Italia, non cresce, anzi diminuisce, i nuovi abitanti di Giovino sarebbero sottratti a quelli della città. A quel punto il centro storico si svuoterebbe definitivamente e Catanzaro diventerebbe un luogo fantasma. La nuova giunta, composta anche da tanti giovani, ha davanti a sé una grande possibilità e una ancor più grande responsabilità’’.

da “il Quotidiano del Sud” del 3 maggio 2025.

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

L’impatto della Trumpeconomics sull’Italia e la Calabria.-di Tonino Perna

Dalla rivoluzione industriale in Gran Bretagna ai giorni nostri free trade e protezionismo si sono alternati. Iniziò sua Maestà britannica a predicare il libero mercato dopo aver imposto per secoli alle sue colonie il più rigido protezionismo.

Sul piano della teoria economica fu David Ricardo a battersi, con successo, per eliminare i dazi all’import di grano in UK, sostenendo che ci sia un vantaggio reciproco a scambiare beni in cui ciascun paese si è specializzato, con il famoso esempio del vino portoghese che viene scambiato con le lane inglesi. Ma, il resto dei Paesi europei quando decise di industrializzarsi ricorse a drastiche misure di protezione della propria industria nascente.

Lo fece la Francia colbertiana, la Germania di Bismark , persino l’Italia con Crispi che alla fine del XIX secolo protesse la nascente industria tessile dell’Italia del Nord ovest, con gravi ricadute per il Mezzogiorno che dovette subire la risposta della Francia, che colpiva soprattutto i prodotti dell’agricoltura meridionale.

Dalla seconda metà del Novecento, con una serie di stop and go si sono moltiplicati gli scambi internazionali, sono cadute o ridotte le barriere doganali, sia come limiti quantitativi all’importazione che come dazi. Per molti Paesi del Sud del mondo questa non è stata una scelta, ma una imposizione del FMI e della Banca Mondiale, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso.

Queste due istituzioni internazionali hanno imposto ai cosiddetti PVS, oltre al taglio delle spese sociali e dei sussidi ai produttori agroalimentari, l’abbattimento dei dazi alle importazioni e l’apertura totale dei loro mercati ai prodotti dei paesi industrializzati, utilizzando come arma di ricatto il credito. Il risultato è stato lo smantellamento di industria leggera e artigianato tradizionale, e un pesante impoverimento dei Paesi del Sud del mondo.

Così è stato creato in pochi decenni quello che viene definito Mercato Mondiale, grazie ad un incremento vertiginoso degli scambi a livello internazionale. Per averne un’idea il commercio mondiale è cresciuto dal 1950 ad oggi di quasi 38 volte (sic!), circa quattro volte il Pil mondiale. Come è noto il WTO (World Trade Organization) è l’istituzione internazionale che è stata creata per agevolare questi scambi, regolamentarli e contrastare forme più o meno ufficiali di protezionismo. E’ una delle tante istituzioni internazionali che Trump tenterà di fare saltare.

Malgrado tutti questi sforzi il “free trade” non è stato mai raggiunto, ed è più una costruzione ideologica che realtà. Basti solo pensare ai sussidi dello Stato alle imprese. Quello che Trump non dice, e non può dire, riguarda la massa di sussidi che ha ricevuto negli Usa la produzione di cotone (16 miliardi l’anno secondo gli ultimi dati disponibili), la produzione di carne (900 euro a vacca), di latte, ecc.

Grandi e piccoli paesi africani sono stati affamati da una concorrenza sleale su molti prodotti (cotone, arachidi, mais, ecc.), proprio grazie a questi pesanti interventi pubblici che hanno alterato il cosiddetto libero mercato. E lo stesso si può dire per l’agro-alimentare europeo. Per non parlare dei contributi a fondo perduto per la R&D, ricerca e sviluppo, che i Paesi del Sud del mondo non si possono permettere.

In breve il protezionismo dei paesi più ricchi c’è stato da sempre e ora assume con Trump una dimensione spettacolare, ma non per questo più efficace. Se storicamente le barriere doganali sono state usate per permettere all’industria nascente di germogliare, non si è finora mai visto un paese a capitalismo avanzato che pensi di reindustrializzarsi, senza tener conto del relativo alto costo del lavoro, della concorrenza dei paesi emergenti nel settore dell’industria tradizionale (tessile, abbigliamento, calzature, mobilio, arredi, ecc.) dove i margini di profitto sono molto limitati, eccetto che nel settore del lusso, che è per altro appannaggio di altri Paesi, a partire dall’Italia, e dove l’incremento dei prezzi dovuto ai dazi non scoraggia una clientela a reddito medio-alto.

Infine, Trump dovrebbe preoccuparsi seriamente dei Brics che hanno già deciso di non utilizzare più il dollaro per l’interscambio e che ora diventano una sponda interessante per i Paesi più colpiti dai dazi, a cominciare da alcuni Paesi della Ue. Un nuovo scenario geopolitico si sta configurando e chi tra i governanti rimane legato, o legata nel nostro caso, ad un vecchio carro, ne subirà le conseguenze.

L’impatto sull’Italia e sulla Calabria

Come ormai è chiaro l’Italia insieme alla Germania sono i paesi europei più colpiti dai dazi Usa. In particolare, il settore più penalizzato sarà quello della filiera dell’Automotive e, molto probabilmente, il governo italiano sarà costretto a seguire, in ritardo, quello spagnolo il cui leader ha già disposto 16 miliardi di contributi al settore.

Allo stesso tempo, saranno cercati altri mercati di sbocco per i prodotti più colpiti da questo incremento dei dazi decisi da Trump. Si salveranno, come è sempre avvenuto, i prodotti della fascia alta, del lusso, che più sono cari più sono ricercati dalle élite.

La Calabria, come giustamente ha sostenuto il collega e amico Prof. Cersosimo, ha un export così esiguo, circa 500 milioni su oltre 600 miliardi di export nazionale nel 2024, che non ne risentirà. Ma, allo stesso tempo, ha ragione anche l’imprenditore Fortunato Amarelli, presidente della prestigiosa Associazione Imprese Centenarie Italiane, che mette in guardia dagli effetti indiretti di questo neo-protezionismo fuori stagione.

In sostanza, il ragionamento è questo: se il nostro governo dovrà sostenere le imprese più colpite da questi dazi allora ci saranno meno risorse finanziarie e, come al solito, dai tagli della spesa pubblica e del welfare saranno più colpite le regioni più deboli dove il rapporto “spesa pubblica/Pil regionale”, è più alto. E in Calabria è più del doppio della media nazionale, il che si traduce nella storica dipendenza della nostra economia dai flussi di denaro pubblico.

Che fare, allora? Data questa situazione molti Paesi penseranno di incrementare la Domanda interna per compensare la caduta dell’export. Per questo sarebbe importante, anzi necessario, un incremento dei salari (i più bassi d’Europa).

Si potrebbero incrementare salari e stipendi nei settori protetti dalla concorrenza internazionale come la sanità, l’istruzione, ma anche l’edilizia e il commercio, ecc. dando una migliore retribuzione a medici, infermieri, insegnanti, operai, commessi, ecc. Oltre a un problema di giustizia redistributiva si darebbe una mano importante all’economia del nostro Paese.

Certo, c’è il vincolo di bilancio che pesa nel Paese più indebitato d’Europa, ma si potrebbe semplicemente aumentare la pressione fiscale per i ceti medio-alti, magari introducendo la famosa patrimoniale a partire da oltre cinque milioni di asset.

E’ solo un esempio, ma la strada non può che essere questa: solo una maggiore giustizia sociale, un ruolo redistributivo dello Stato, può salvarci da una pesante recessione che si combinerà, purtroppo, anche con un incremento dell’inflazione, generando una drammatica condizione per i ceti più deboli.

da “il Quotidiano del Sud” del 7 aprile 2025
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Il Sud è un paese per vecchi.-di Filippo Veltri

Libri e film dei grandi americani del sudovest lo avevano da tempo certificato a suon di fotogrammi e frasi epiche. Ma all’incontrario! Non è un paese per vecchi dicevano, infatti, i terribili fratelli Coen e prima di loro Cormac McCarthy nello scenario apocalittico del New Mexico. L’Italia affronta invece, nel suo piccolo, una crisi demografica profonda, tra l’altro con dinamiche differenti tra Nord e Sud. Mentre il Mezzogiorno perde popolazione a ritmi preoccupanti, il Nord mostra infatti una maggiore tenuta.

Attraverso un’analisi descrittiva dei dati 2019-2024, Open Calabria conferma – in un recente e pregevole studio su dati ISTAT – tendenze già note: il calo demografico non è solo una questione di numeri, ma anche di un profondo cambiamento nella composizione della popolazione. Per arrivare alla conclusione che il Sud è un paese per vecchi.

Che cosa ritroviamo nello studio di Open Calabria? Dal 2019 al 2024 la popolazione italiana si è ridotta di 845 mila unità, attestandosi a poco più di 58 milioni di abitanti nel 2024. In cinque anni, il Paese ha perso l’1,4% dei residenti. Lo spopolamento è un fenomeno che inizia a mostrare caratteri di persistenza, ma è impressionante la dimensione che sta recentemente assumendo. Basti pensare che, in soli cinque anni, l’Italia ha perso l’equivalente dell’intera popolazione di città come Torino. Analogamente, è come se due regioni come Molise e Basilicata fossero diventate, ipoteticamente, completamente disabitate in così poco tempo.

Il dato medio nazionale riflette dinamiche molto differenziate a livello regionale. Delle 20 regioni italiane, 18 registrano un calo demografico, mentre solo la Lombardia e il Trentino-Alto Adige mostrano una crescita, seppur marginale. Un elemento particolarmente significativo è la forte concentrazione del fenomeno nel Mezzogiorno: quattro sole regioni meridionali – Campania, Sicilia, Puglia e Calabria – spiegano quasi il 50% dello spopolamento osservato in Italia.

Se si includono le altre quattro regioni del Sud, il Mezzogiorno arriva a rappresentare il 66% della perdita complessiva di popolazione a livello nazionale. Rispetto al 2019, le variazioni più elevate della popolazione si hanno in Molise (-4,8%), Basilicata (-4,5%) e nella nostra amata Calabria (-3,8%).

La riduzione della popolazione, dice Open, non sarebbe necessariamente un fenomeno negativo: esistono infatti economie nazionali e regionali di piccole dimensioni, ma con elevati livelli di reddito pro capite. Ciò che preoccupa nelle recenti dinamiche demografiche italiane è la distribuzione dello spopolamento tra le diverse fasce di età. Emerge che il calo demografico in Italia non è infatti uniforme, ma colpisce maggiormente alcune fasce rispetto ad altre.

In particolare si osserva una riduzione significativa nella popolazione più giovane: in Italia i bambini e ragazzi tra 1 e 14 anni diminuiscono dell’8,7%, ancora più marcata è la contrazione della popolazione tra i 35 e i 49 anni (-10,9%), segnalando un netto declino della popolazione in età lavorativa. Al contrario, le fasce di età più avanzate mostrano un andamento opposto. Gli individui in età lavorativa tra i 50 e i 64 anni aumentano del 6,1%, mentre la popolazione tra i 65 e i 74 anni cresce del 3,6%.

Ancora più accentuata è la crescita della popolazione over 75 (+5,6%), con un incremento particolarmente elevato tra gli ultranovantenni (+10,1%).

Insomma il quadro è quello di un paese per vecchi.

Lo spopolamento del Sud risulta poi strettamente legato ai flussi migratori che sono in costante ripresa nel periodo 2019-2024. Questa dinamica, che colpisce in modo trasversale le generazioni più giovani e attive, aggrava il declino demografico del Sud, riducendo progressivamente la base produttiva su cui costruire il futuro.

La frattura demografica tra Nord e Sud è, dunque, conclude lo studio Open causa ed effetto di una questione strutturale che inciderà profondamente sulla sostenibilità di tutta l’Italia ma sarà ancora una volta il Sud, e le regioni più marginali come la Calabria, a risentire di queste dinamiche: anzi ne risentono già oggi se si pensa al lento e progressivo allontanamento non solo più dei giovani ma delle stesse famiglie al seguito dei figli spostatisi nel Nord del paese, per studio o lavoro.

Nelle città soprattutto è ormai un fenomeno visibile ad occhio nudo: a passeggio sui corsi centrali dei capoluoghi ci solo anziani e pensionati. Il resto sembra sparito. In realtà non c’è proprio più. Se n’è andato.

da “il Quotidiano del Sud” del 29 marzo 2025

Dove, come e chi costruirà i nuovi ospedali della Calabria?-di Salvatore Belcastro

Dove, come e chi costruirà i nuovi ospedali della Calabria?-di Salvatore Belcastro

C’è un gran fermento in città intorno ai progetti di costruzione del nuovo ospedale dell’Annunziata di Cosenza. Numerose Associazioni si riuniscono e discutono gli atti e/o le dichiarazioni del Commissario ad Acta per la sanità calabrese, le istituzioni locali si allarmano e aprono contenziosi giudiziari perché nelle scelte vengono ignorate.

Prendo spunto dall’ultimo atto, l’ordinanza della Protezione Civile Nazionale, Ocdpc 1133 del 13 marzo 2025, con la quale viene dichiarata emergenza (Nazionale!) la costruzione di vari ospedali in Calabria e viene assegnato il compito di edificarli al Commissario ad acta per la sanità, Roberto Occhiuto.

A lui viene affidata la gestione dell’intero pacchetto, dalla scelta dei siti, appalti, ecc., fino alla realizzazione dei vari ospedali (Sibaritide, Vibo Valentia, Piana di Gioia Tauro, Locri, il Gom di Reggio Calabria, l’Asp di Reggio Calabria, Cosenza, l’Azienda ospedaliero universitaria di Catanzaro e Asp di Crotone).

Occhiuto il 7 marzo u.s. aveva chiesto al governo di considerare “emergenza da Protezione Civile” la costruzione degli ospedali in Calabria, richiesta immediatamente esaudita con la delibera del Consiglio dei Ministri dello stesso 7 marzo 2025.
Intanto va subito detto che la spesa per la costruzione di quelle strutture sarà superiore a un miliardo e mezzo di euro. Il Commissario ha sollecitato l’ordinanza della Protezione Civile per saltare gli ostacoli: le contestazioni della popolazione (il fermento a cui accennavo in apertura), i contrasti delle amministrazioni locali e i cavilli burocratici.

Infatti, negli atti inerenti questi ospedali ci sono passaggi poco chiari, ad esempio, a Crotone la delibera per il nuovo ospedale è stata fatta da un commissario che era fuori dai termini di scadenza del mandato, a Cosenza Occhiuto indica un sito sgradito alla popolazione e persino contestato dal comune. È di questi giorni, infatti, l’iniziativa del Comune di Cosenza di adire alla magistratura ordinaria contro la linea del Commissario che, senza valide motivazioni, cancella il sito di Vaglio Lise precedentemente scelto per il nuovo ospedale, e indica il sito di Arcavacata.

Il governo e la Protezione Civile hanno accettato la proposta di considerare emergenza la costruzione degli ospedali, per motivi semplici: 1) Ci sono le risorse finanziarie per costruirli e bisogna che vengano gestite da amici e non da eventuali avversari politici. La cifra è considerevole. 2) Le urgenze spesso si creano per opportunità politica, per evitare i controlli o le contestazioni. Qualcuno ricorderà che nel governo Berlusconi venne inserita come emergenza la festa di San Giuseppe da Cupertino (epoca di Bertolaso alla Prociv), nessuno ne spiegò i motivi.

Chiediamoci, però, se la costruzione dei nuovi ospedali sia la terapia giusta che risolverà i problemi della sanità in Calabria. Certamente gli operatori preferiranno lavorare in un ospedale nuovo, con spazi meglio organizzati ed efficaci, piuttosto che nelle vecchie strutture. La buona sanità, però, è principalmente organizzazione e risorse umane.

La mia personale risposta alla domanda è no, soprattutto perché le scelte della logistica vengono effettuate in conflitto con la popolazione e le istituzioni locali.

Bisognerebbe analizzare un secondo punto importante, valido soprattutto per il costruendo ospedale di Cosenza, dove è nata l’esigenza di cliniche universitarie per il Corso di laurea in Medicina.

Per evitare che nasca anche un conflitto tra gli operatori ospedalieri e quelli universitari, le cliniche devono entrare in unica azienda università-ospedale, onde evitare il grave errore commesso a Catanzaro negli anni ’80, quando nacque la Facoltà di Medicina e vennero create due aziende. Iniziò allora, infatti, un conflitto tra le due strutture sanitarie, durato oltre 40 anni e ancora non sopito, che ha danneggiato l’efficienza della sanità nella città.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 febbraio 2025
Foto di djedj da Pixabay

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La Questione meridionale e gli Stati Generali del Sud.-di Massimo Veltri

La recente decisione della Corte costituzionale sul referendum per l’autonomia differenziata e un saggio del costituzionalista professor Francesco Pallante, Spezzare l’Italia, riportano l’attenzione sulla questione meridionale. Un tema che affiora nei momenti di crisi per essere poi dimenticato quando l’emergenza sembra rientrare forse perché occuparsi del Sud significa fronteggiare una realtà che mal si presta alle facili – scontate e disattese – promesse ma il problema non può essere ignorato in quanto le fratture territoriali equivalgono a squilibri sociali e alla lunga esplodono.

Il parlamento e i partiti tacciono, divisi al loro interno e con carenze di elaborazioni, sintesi e proposte ma il nodo irrisolto della storia italiana, qui dove oggi l’esodo dei giovani è la narrazione ininterrotta di un problema che coinvolgerà in futuro il paese intero – come un unico mezzogiorno – merita attenzione massima.

Se negli ultimi dieci anni duecentomila giovani hanno abbandonato il mezzogiorno, centoquarantamila si sono trasferiti oltreconfine: non solo, come avveniva fin dagli anni cinquanta del secolo scorso sono andati in Padania ma si sono diffusi per il mondo intero.

Il saggio di Pallante, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino, analizza a partire del regionalismo italiano dall’approvazione della Costituzione fino a oggi, il progetto governativo di introdurre, come dovrebbe esser noto, una forma di autonomia regionale differenziata, che, favorendo le regioni piú ricche del Paese – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna -, non soltanto metterebbe a repentaglio la tenuta dell’unità d’Italia regionalizzando sanità, istruzione, musei, lavoro, sostegno alle imprese, trasporti, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti, paesaggio, ambiente, laghi e fiumi, rifiuti, edilizia, energia, enti locali, ma lascerebbe altresì lo Stato privo delle risorse e degli strumenti essenziali per realizzare politiche sociali, culturali, ambientali, economiche di respiro nazionale.

“L’amministrazione pubblica sarebbe disarticolata a causa della variabilità delle competenze, che in alcuni territori diventerebbero regionali, in altri rimarrebbero statali; le imprese sarebbero chiamate a fare i conti con una frammentazione normativa e amministrativa che complica le loro attività; la solidarietà nazionale andrebbe in frantumi, dal momento che assieme alle nuove competenze, le regioni otterrebbero le risorse necessarie a esercitarle, calcolate a partire dal gettito fiscale generato sul loro territorio, senza compensazioni perequative”, scrive Pallante, chiedendosi come sia stato possibile che l’egoismo di tre comparti territoriali abbia potuto far breccia nell’opinione pubblica e nelle istituzioni centrali del paese, di destra o di sinistra che fossero.

É stato possibile in forza di una considerazione banale se si vuole ma incontrovertibile: si è deciso di abbandonare il sud a sé stesso ritenendolo un peso morto, inservibile, anzi nocivo per un paese che guarda ciecamente alle valli del Reno e trascura il Mediterraneo, che si aggroviglia su parametri tecnici quali i lep e la spesa storica, il residuo fiscale e le pratiche compensative, quasi fossero formulette esoteriche e non già e solo grandezze funzionali a un progetto.

Un progetto che già fin dalla nascita delle Regioni prevedeva statuti regionali comprendenti politiche di solidarietà, inclusione, perequative, con esplicita menzione del sud quale comparto da mettere al passo con il resto del paese: così recitavano gli statuti di Piemonte, Lombardia, Emilia, ma tant’è. Insorse invece la questione settentrionale in corrispondenza della fine della seconda repubblica e la fine dei partiti di massa, tangentopoli e gli anni burrascosi che si accavallarono regalandoci i tempi bui che ancora attraversiamo.

Nel 2001, incuranti delle parole di Leopoldo Elia e di pochi altri, rapiti dalla parola sussidiarietà – orizzontale e verticale, demandare sempre più alle istituzioni più prossime ai cittadini ma anche e soprattutto sempre più al mercato e non al pubblico -, dimentichi dei moniti di Meuccio Ruini, come ricorda Pallante, il governo di centrosinistra alla guida del paese, come ultimo atto della legislatura, dopo la deregulation di Franco Bassanini portò a compimento la modifica costituzionale di cui stiamo vivendo gli effetti.

Ora, non si tratta di tratteggiare, come pure fa con una certa disinvoltura Pallante, il sud come il paese bistrattato e abbandonato a sè stesso mentre il nord è ladrone e le malefatte, le sentenze, le condanne di tanti governatori lo testimonia, lui riporta tutto con solerte acribia. No, sarebbe semplicistico ed errato: il sud è rimasto indietro per una serie di motivi che non sono ovviamente riconducibili al destino cinico e baro e nemmeno a uno stato centrale cieco e sordo o alla razza padrona settentrionale, non solo, almeno.

Riflettendo sulle ingenti risorse piovute alle regioni meridionali nel corso degli anni e malspese, non spese, tornate indietro e disperse, alcune fungenti da misteriose partite di giro, non ci si può esimere dal prendere atto che l’irrisolto dualismo non ha un solo padre. Se si vuole invertire la tendenza non resta che un esperimento – come altrimenti definirlo? -: pensare a una convention degli Stati generali del sud, indetto dalle regioni del sud.

Chissà che non sia l’uovo di Colombo.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

L’assistenza d’urgenza nel territorio non esiste.-di Salvatore Belcastro

Colpisce vedere i sindaci dei comuni di montagna, in fascia tricolore, manifestare davanti alla sede della Direzione dell’ASL in segno di protesta perché sono nell’impossibilità di garantire l’assistenza medica necessaria nei di casi urgenza-emergenza ai cittadini che vivono nei loro comuni.

Avrebbe dovuto essere con loro anche la sindaca di San Giovanni in Fiore, nonché Presidente della Provincia e dell’ANCI regionale, perché nel comune da lei amministrato recentemente s’è verificato un gravissimo episodio di mancata assistenza proprio in emergenza. Non era presente e non ha fatto conoscere la sua opinione.

Il tema più cogente per chi ha la responsabilità organizzativa della sanità, se si vuol davvero migliorare l’assistenza in Calabria, è, al di sopra di tutto, garantire una risposta adeguata alle urgenze-emergenze nel territorio. La popolazione italiana, come tutta quella occidentale, ha un’età media elevata, è sottoposta a un ritmo di vita altissimo e stressante, pertanto le patologie e gli eventi cardio-vascolari sono frequentissimi e insidiosi, si manifestano spesso imprevisti e richiedono risposte tempestive.

Purtroppo queste risposte non ci sono e la tempestività fa difetto. L’abbiamo visto nel tragico caso di San Giovanni in Fiore. I sindaci nel Testo Unico degli Enti Locali sono indicati come responsabili della salute dei cittadini, pertanto oggi denunciano a chi è preposto all’organizzazione sanitaria di non essere in grado di rispondere al mandato per quanto concerne le emergenze-urgenze nei comuni montani, considerata l’orografia particolare del territorio, la distanza dal Pronto Soccorso dell’ospedale hub della provincia, il disagio dovuto ai fattori climatici invernali e, soprattutto, perché non ci sono nelle vicinanze punti di soccorso adeguati.

Compete ai responsabili dell’organizzazione sanitaria della provincia e al Commissario Regionale della Sanità mettere quegli amministratori in condizione di esaudire le richieste dei cittadini, anche perché la legge prevede che i dirigenti della sanità consultino i sindaci dei comuni prima di redigere gli atti aziendali. Li hanno consultati? Hanno raccolto i loro suggerimenti?

A fronte di un problema così importante, dopo il tragico episodio di San Giovanni in Fiore, ho letto recentemente una strana iniziativa da parte del dirigente organizzativo: ha ordinato ai medici del Pronto Soccorso della struttura, in caso di chiamate dal territorio, di abbandonare la postazione e salire sull’ambulanza così da medicalizzare il soccorso. Un modo bizzarro, se non quasi disperato (o incompetente?) di affrontare il problema, perché così si lascia sguarnito del medico un importante servizio.

Nessuno, invece, si preoccupa di migliorare il livello di gestione della Centrale Operativa, a cui compete il ruolo d’individuare il grado d’urgenza caso per caso e decidere la medicalizzazione delle ambulanze. Come si può migliorare la sanità in Calabria se non si parte dal sistema organizzativo di base e si forniscono le necessarie garanzie ai cittadini che vivono nei paesi più lontani?

La recente pandemia ha messo a nudo la terribile fragilità organizzativa dell’assistenza d’urgenza nei territori e, infatti, l’Unione Europea ha provveduto a erogare nel PNRR fondi per potenziarla con la creazione delle case di comunità. Non ve n’è ancora traccia, anzi, oggi quasi non se ne parla più e si teme che i fondi erogati vengano distratti per altri obiettivi.

Viene, invece, annunciato l’arruolamento di luminari specialisti che opereranno nell’ospedale hub, e facendo intendere questa operazione come la principale soluzione dei problemi. I dirigenti della sanità e il Commissario Regionale hanno chiesto ai cittadini delle montagne se è prioritario chiamare illustri specialisti, certamente di gran livello professionale, o se è prioritario affrontare l’assistenza sanitaria nel territorio, soprattutto per le urgenze-emergenze?

E non voglio qui affrontare il tema della funzione attuale dei medici di famiglia nel territorio, depauperati di professionalità individuale. Occorrerebbe ampio spazio.

da “il Quotidiano del Sud” del 26 febbraio 2025
Foto di ADMC da Pixabay

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

Non è tutto chiaro nell’intervista al presidente Roberto Occhiuto.-di Salvatore Belcastro

È encomiabile e di grande interesse l’intervista del Direttore Massimo Razzi al Presidente della Regione, Roberto Occhiuto, sui problemi della sanità in Calabria. Ora sappiamo come pensa, e, pertanto, voglio analizzare le inesattezze significative che ha fatto passare, inerenti alcune inefficienze assai evidenti. Provo a schematizzare

1)Sulla mancanza del medico a bordo nelle ambulanze, prendendo spunto dal triste caso accaduto a San Giovanni in Fiore, dice che nelle altre città d’Italia solo nel 23% delle ambulanze c’è il medico a bordo. È una notizia esatta ma fuorviante, e solo un tecnico avrebbe potuto ribattere in quella sede. Di tecnici ce n’era uno solo, il Dottor Miserendino, che era dalla parte del Presidente e non aveva alcun interesse a riprendere il tema.

Nelle città dove il Pronto Soccorso e i dipartimenti Urgenza-Emergenza funzionano, esiste una Centrale Operativa gestita da tecnici di alta formazione in grado di selezionare le risposte alle chiamate e decidere se è necessario il medico a bordo. Noi sappiamo dalla statistica che in oltre il 70% dei casi le chiamate al 118 sono fatte per patologie che non richiedono il medico a bordo e la Centrale Operativa lo comprende al telefono:
a) dalla distanza del paziente da soccorrere dal Pronto Soccorso ospedaliero, che deve essere raggiungibile entro un breve tempo stabilito da parametri;
b) da due o tre domande a chi sta chiamando. Quei tecnici sono in grado di decidere se inviare il medico, che, però, è sempre disponibile.

Le Centrali Operative calabresi hanno questa capacità di selezionare i casi? L’hanno fatto per il caso di San Giovanni in Fiore? È questa la mancanza. Il medico del Pronto Soccorso aveva richiesto l’ambulanza medicalizzata, che non c’era. Occhiuto non ne fa cenno.

2)Il Presidente accusa carenza di medici nelle strutture di Pronto Soccorso e Urgenza. È un problema reale in tutta l’Italia, perché i medici d’urgenza sono pagati poco a fronte delle responsabilità che si assumono e per il lavoro usurante che svolgono. L’intervistatore chiede perché la Regione non paghi di più. Il Presidente risponde che non può, deve rispettare la legge nazionale. È inesatto.

Per la legge Bindi le aziende sanitarie ogni anno dovrebbero predisporre la distribuzione di budget per ogni settore, compreso Emergenza-Urgenza, e questo viene calcolato sulla base dello strumentario necessario, il materiale di consumo e l’organico teorico previsto per il buon funzionamento. In altri termini, se per un settore è previsto un organico di 10 operatori e ce n’è disponibile solo la metà, significa che circa il 50% del budget stabilito non viene speso. Potrebbe essere usato, allora, per pagare di più quelli che lavorano.

3)La legge Bindi consente alle aziende di dividere il budget previsto per gli operatori in una quota di retribuzione base e una quota legata a incentivi. Quest’ultima dovrebbe essere condizionata dalla realizzazione di progetti dettagliati assegnati d’ufficio o scelti dagli operatori stessi. Il Presidente non ha fatto alcun cenno alla rendicontazione degli incentivi, che dovrebbero emergere dai bilanci annuali. Quali incentivi sono stati assegnati? Ci sono i bilanci?

4)Siamo tutti felici se la Calabria esce presto dal Commissariamento, anche se non è prevista l’uscita dal piano di rientro. Il grande problema nasce proprio dal piano di rientro che costringe le aziende a stringere i cordoni della borsa fino a stritolare l’efficienza della sanità. Intanto, l’obiettivo primario dovrebbe essere ridurre l’ospedalizzazione fuori regione e individuare gli strumenti per raggiungere questo fine. Ma osservando come vanno le cose non si uscirà mai dal piano di rientro. Il Presidente non fa alcun accenno all’emigrazione sanitaria anche per patologie di basso profilo, che continua a determinare l’emorragia delle risorse.

5)L’ultimo punto dell’intervista ha lasciato tutti perplessi, il rapporto università ospedale. La Facoltà di Medicina a Cosenza ora esige giustamente la creazione di un policlinico. Il Presidente non spiega come intende affrontare il problema. Individua il Rettore dell’Unical come l’uomo di fiducia col mandato di creare le cliniche. Bisogna allora fare due obiezioni:

a) il Rettore non è un tecnico della sanità, quindi è assolutamente improprio che abbia il mandato di gestire la creazione delle cliniche universitarie. Viene individuato solo come fiduciario del Presidente della Regione, e la cosa si presta a interpretazione politica e/o ispirata a interessi non specificati. L’unico tecnico che avrebbe la competenza per la creazione del policlinico dovrebbe essere il Preside della Facoltà di Medicina. Il Presidente non ne fa cenno.

b) Come vede il Presidente il rapporto Università- Ospedale a Cosenza? Lui certamente sa che quando, negli anni ’80, venne creata la Facoltà di Medicina a Catanzaro, iniziò un duro conflitto tra l’Ospedale e l’Università durato oltre 40 anni, responsabile di inefficienze e di mancato sviluppo di entrambe le aziende.

Nell’intervista Il Presidente Occhiuto non fa cenno a come sarà impostato questo rapporto, che, invece, è una chiave di volta per risollevare davvero la sanità a Cosenza, dove ci sono già segnali di preoccupazione per il destino dell’Annunziata.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 febbraio 2024

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

I posti a pagamento in Chirurgia a Cosenza fanno aumentare le liste di attesa.-di Salvatore Belcastro

L’assegnazione di letti a pagamento al reparto di chirurgia toracica da parte dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza va contro la ripresa della sanità calabrese, che è agli ultimi posti in Italia per la risposta al fabbisogno della popolazione di prestazioni routinarie e specialistiche. Anzi, è una rapina alla sanità pubblica. La spiegazione dei dirigenti dell’Azienda, che per comodo chiamano in causa la legge Bindi, è un balbettio di mala interpretazione della legge stessa. Provo a spiegare la rapina.

Secondo le linee guida nazionali e internazionali della branca specialistica e quelle degli anestesisti e rianimatori sempre coinvolti per necessità, la chirurgia toracica nella maggioranza dei casi richiede assistenza ai pazienti operati nel reparto di terapia intensiva (TI).

Tutti ricordano il serio problema dell’esiguità del numero dei posti letto nelle terapie intensive durante la pandemia del Covid19. E per quanto attiene ai parametri minimi dell’adeguamento alle normative nazionali e ancor più europee in merito al numero di letti di TI, la Calabria era agli ultimi posti nel quadro nazionale.

I parametri minimi europei prevedono che siano attivi 14 letti di TI per ogni 100.000 residenti (in Germania questo parametro è rispettato). In Italia siamo ancora attorno ai 9-10 letti e alcune regioni lentamente si stanno adeguando. In Calabria siamo al di sotto di 7 letti di TI per 100.000 abitanti.

Addirittura durante la pandemia eravamo sotto il 50% dei letti di TI attivi. I parametri richiesti valgono ovunque e non sono assegnati a caso, ma calcolati e codificati per fornire garanzie necessarie a un’assistenza adeguata. Là dove non vengono rispettati, ne scaturisce mala-assistenza che diventa spesso mala-sanità.

L’Azienda Ospedaliera di Cosenza (ospedale Hub della provincia) dovrebbe avere almeno 9-10 letti per ogni 100.000 abitanti residenti, i quali sono complessivamente 750.000. C’è un numero di letti di terapia intensiva e/o sub-intensiva adeguato all’esigenza dell’intero territorio provinciale, assommando a quelli dell’Annunziata anche i sub-intensivi di Castrovillari e Corigliano Rossano? No, non c’è, siamo molto lontani.

Né si può annunciare l’allargamento frettoloso degli spazi e acquisire lo strumentario necessario, perché le terapie intensive non sono limitate alla logistica e agli strumentari, ma per protocollo richiedono un organico medico e infermieristico ultra-specialistico, che non c’è.

La buona assistenza è legata all’adeguamento dell’organico, che impone parametri precisi dettati dalle associazioni nazionali e internazionali degli anestesisti e rianimatori: un medico specialista in rianimazione e TI in turno H24 per non più di 8 pazienti, un infermiere in turno H24 per non più di 2 pazienti.

L’organico attuale in servizio è molto lontano dai parametri richiesti. Per addestrare questi specialisti occorrono anni. È evidente, allora, che se vengono assegnati dei posti-letto (a pagamento) al Reparto di chirurgia toracica, i pazienti che ne fruiranno richiederanno quasi sempre un ricovero in TI, e i pochi letti di TI disponibili verranno sottratti all’attività destinata al servizio pubblico.

Questa manovra ricade inevitabilmente anche sugli altri reparti di chirurgia per gli interventi chirurgici che richiedono assistenza intensiva, allungando, ovviamente, le liste di attesa anche per gli interventi di chirurgia oncologica salvavita

da “il Quotidiano del Sud” del 27 gennaio 2025

Sanità in Calabria: un sistema morente. Analisi e proposte.-di Salvatore Belcastro

Sanità in Calabria: un sistema morente. Analisi e proposte.-di Salvatore Belcastro

Il governo sta attuando l’eutanasia del sistema sanitario pubblico in Calabria già collassato e moribondo da anni. Occorrerebbero terapie rianimatorie. Ma il Governo, per calcoli cinici, con l’autonomia differenziata delle Regioni, ha deciso di lasciar morire il sistema, fornendo spiegazioni false e ipocrite. È l’ultimo atto di un procedimento durato almeno due decenni. La sanità pubblica in Calabria morirà inevitabilmente se la riforma dovesse entrare in vigore.

Il principio della fine della sanità pubblica calabrese risale all’emanazione delle leggi di riordino del sistema sanitario nazionale, legge 592/92, legge 517/93, e legge 229/99. Vennero definite strategiche e miranti al controllo della spesa pubblica. Imponevano l’obbligo inderogabile del pareggio di bilancio tra entrate e uscite, nonostante si tratti di erogazioni di prestazioni la cui spesa è sostenuta con finanze pubbliche. Quelle leggi imponevano, inoltre, la revisione dei presidi ospedalieri identificando quali tenere attivi e con quali funzioni.

Le Regioni del nord dell’Italia si sono lentamente adeguate, tanto che entro il 2000 quasi tutte si sono avvicinate o hanno raggiunto il pareggio di bilancio. All’epoca, lavoravo in Emilia-Romagna e, in pochi anni, ho assistito al superamento di 32 ospedali in regione, trasformati ad hoc in strutture sanitarie con funzioni diverse.

La Calabria ha sempre avuto carenza di lavoro per i giovani, i quali migravano per la gran parte verso il nord dell’Italia. Quelli che restavano si affidavano agli amici politici locali. Il sistema sanitario è un grande serbatoio di consensi e i politici si battevano per accaparrarsi la gestione delle strutture sanitarie, usate come strumenti di potere, fornendo posti di lavoro, con strettissimo rapporto clientelare.

Fino a pochi anni fa, i dipendenti degli ospedali della Calabria, dalle posizioni apicali e gestionali fino ai ruoli più modesti, venivano assegnati con concorsi pilotati e ciascun dipendente parteneva a questo o quel potente politico, che l’aveva collocato al lavoro.
Le leggi di riordino del sistema sanitario disturbavano i potentati locali perché restringevano il campo d’azione e il numero dei posti da assegnare.

Pertanto, i politici calabresi hanno ritardato il più possibile l’applicazione fomentando i campanilismi locali, e le riforme non sono state completamente attuate e il riordino dei presidi non è mai entrato del tutto a regime. Le leggi prevedevano la trasformazione di 18 ospedali ad altre finalità, modifica mai realizzata completamente. Questo rilievo non significa che io sia d’accordo con la chiusura dei 18 ospedali, spiegherò più avanti come dovrebbero essere utilizzati i presidi territoriali.

Il sistema di arruolamento clientelare degli operatori ha determinato un abbassamento del livello qualitativo delle prestazioni, sul piano tecnico-scientifico e su quello umanitario, dando origine a numerosi episodi di malasanità o mala-amministrazione. Da qui è nato il fenomeno di sfiducia nei confronti della sanità pubblica calabrese che si è pian piano radicato nella società e parallelamente ha favorito lo sviluppo di strutture sanitarie private convenzionate.

Gli episodi di malasanità a cui ho accennato hanno funzionato da detonatore di un sistema poco trasparente, forse azionato anche da leve nascoste di aziende sanitarie del nord, complici i politici.

La sfiducia verso la le strutture pubbliche ha favorito la sanità privata. Per chiarire meglio questo punto ricordo che un’amministrazione regionale della Calabria avallò l’accreditamento di oltre 160 strutture private negli ultimi due mesi di legislatura, in vista delle elezioni, sottovalutando il necessario accertamento dell’esistenza dei parametri obbligatori previsti dalla legge.

Grazie all’emigrazione dei giovani, quasi ogni famiglia calabrese ha un congiunto o amici che vivono e lavorano nelle regioni del centro-nord. Dal 2000 a oggi, oltre 2 milioni di persone, dei quali 1 milione di giovani, hanno abbandonato il sud dell’Italia. Quindi, se una persona necessita di una prestazione sanitaria, si rivolge alle strutture sanitarie delle regioni del centro-nord tramite i congiunti o amici che là vivono.

Lo conferma il bilancio annuale regionale della sanità: circa il 40% della spesa per prestazioni ospedaliere ai residenti in Calabria sono effettuate in altre regioni, per una somma di circa 300 milioni di euro. Ogni anno la Calabria versa o s’indebita con altre Regioni del centro-nord per la cifra di circa 300 milioni di euro per prestazioni sanitarie.

Ovviamente, nel bilancio della Calabria il debito è considerato spesa, mentre le Regioni creditrici mettono il credito in attivo nel loro bilancio che, così, raggiunge più facilmente il pareggio. È naturale pensare che quelle regioni favoriscano l’emigrazione passiva della sanità calabrese e la sfiducia dei calabresi nella loro struttura sanitaria.

Se consideriamo le spese annuali per prestazioni presso le strutture private, oltre che per ospedali pubblici, aggiunte alle spese annuali per assistenza ospedaliera presso altre regioni, al netto di mala-amministrazione spicciola, di malaffare e sprechi, si capisce perché il debito del sistema sanitario calabrese sia andato fuori controllo e sia quasi impossibile contabilizzarlo.

Le leggi citate prevedevano l’esigenza di riportare il sistema in equilibrio e il Governo dispose il piano di rientro dal debito, affidando la gestione del sistema sanitario calabrese a Commissari nominati dal Ministro della Salute. Dal 2010 al 2021 la sanità calabrese è stata gestita da Commissari tecnici. Da tre anni direttamente dal Governatore.

I Commissari per oltre 11 anni hanno bloccato assunzioni e turn-over del personale: gli operatori pensionati non vengono rimpiazzati, e in pochi anni s’è registrato un gravissimo depauperamento delle risorse umane, a cui s’è aggiunto l’abbandono di molti operatori che dalle strutture pubbliche sono passati al privato o emigrati in altre regioni. In qualche branca il depauperamento dell’organico ha raggiunto livelli quasi incompatibili con il normale funzionamento, ad esempio nella Medicina d’Urgenza e di Pronto Soccorso. Il depauperamento delle risorse umane, di conseguenza, ha incrementato la sfiducia della popolazione, che continua a ricorrere alle regioni del nord per prestazioni sanitarie.

Vediamo ora quale terapia si potrebbe applicare per salvare la moribonda Sanità in Calabria.
La proposta che avanzo qui potrebbe essere adottata non solo dalla Calabria, ma dall’intero Paese. Perché questa sciagurata politica liberista sulla Sanità, riguarda tutti. Mi piace, però, parlare della Calabria, che oggi è la vittima sacrificale di questo sistema.

a)È fondamentale e primario recuperare la medicina del territorio. I medici di medicina generale, oggi in rapporto convenzionale con il Sistema sanitario pubblico, retribuiti, quindi con finanze pubbliche, ma non direttamente dipendenti dalle ASL, svolgono un ruolo che svilisce la professione medica. Sono raramente chiamati a curare in prima persona. Per l’andazzo inveterato, i pazienti si fidano poco, pertanto, anche per piccole prestazioni si rivolgono alle strutture sanitarie pubbliche o direttamente agli specialisti. Il risultato è l’intasamento delle strutture. Eppure è accertato che il 70% delle richieste ai Pronto Soccorso potrebbe essere trattato con successo nel territorio dai Medici di famiglia. Questi potrebbero usare direttamente i Presidi Ospedalieri semi-abbandonati e trattare direttamente i loro pazienti. Ecco, allora, che i presidi ospedalieri quasi abbandonati potrebbero rinascere.

b)I Presidi semi-abbandonati tornerebbero al pieno splendore. D’altra parte, il PNRR ha già previsto una spesa per il recupero della Medicina del territorio sotto la dicitura “Creazione di Case di Comunità”. Le strutture esistono e andrebbero solo incrementate per i territori più periferici.

c)Gli Ospedali Hub vanno ridisegnati sul territorio. In Calabria al momento sono solo 5, uno per provincia. Sono pochi. Considerato il territorio molto vasto e la geografia fisica, ritengo ne occorrano almeno 8.

d)Va rivisto e rimodernato il rapporto con le strutture sanitarie universitarie, che vanno considerate strutture Ospedaliere Hub in un’unica gestione territoriale.

e)Visto che è impossibile portare la Calabria al bilancio col piano di rientro, è necessario cancellare il debito e ripartire da zero.

La rianimazione della moribonda sanità pubblica necessita di una NUOVA RIFORMA che riveda il sistema di arruolamento degli organici, lo schema delle competenze, i rapporti interpersonali e inter-strutture, l’utilizzo dei presidi, i rapporti con l’Università e le Specializzazioni. Così forse si restituisce la fiducia alla popolazione.

C’è la volontà politica? È una domanda alla destra adesso al governo, ma anche alla sinistra, che sull’argomento è balbettante.

da “il Quotidiano del Sud” del 20 gennaio 2025

Foto di StockSnap da Pixabay

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Il bluff del ponte che non serve.-di Gianfranco Viesti

Certo, non tutti gli argomenti contrari sono convincenti. Sostenere che “con tutti quei soldi si farebbe un regalo alle mafie”, non lo è. Implica una resa preventiva dello Stato di fronte alla criminalità organizzata, sconsiglierebbe di fare qualsiasi opera pubblica; rischi ci sono, ci si deve attrezzare per affrontarli. Sostenere che “quei territori sono poveri, con basso reddito e pochi traffici; meglio spendere altrove” è obiezione persino peggiore della precedente, dato che interventi per migliorare la mobilità sono fra i più opportuni per determinare un maggiore sviluppo.

In Sicilia e in Calabria (come in Sardegna) il deficit nelle infrastrutture e nei servizi di trasporto è colossale: nell’Isola circolano poco più di 450 treni regionali (vecchi e assai lenti), la metà che in Emilia-Romagna, un quarto rispetto alla Lombardia; l’accessibilità ferroviaria è la metà rispetto al Nord.

Perché allora il Ponte non è una buona idea? Tanto per cominciare, ci sono ancora dubbi tecnici sulla fattibilità dell’opera, che ha caratteristiche che non si ritrovano in nessun altro caso al mondo. Sono legati alla lunghezza della campata, alla sismicità dei luoghi, all’altezza del ponte sul mare e a quella delle sue torri (da realizzare, tra l’altro, in zone di grande pregio ambientale), all’impatto dei venti. Le sfide ingegneristiche difficili vanno affrontate, non demonizzate: ma la realizzazione di un intervento così grande va avviata solo quando vi sia assoluta certezza di fattibilità.

Le grandi opere possono avere un notevole fascino simbolico (si pensi all’Autostrada del Sole) nella vita di una comunità nazionale: ma solo se e quando si completano. In Italia sono già molte le dighe senza condotte, i binari senza treni. Vi è il rischio tangibile che il Ponte alla fine non si faccia, ma vengano intanto assicurati alle imprese coinvolte grandi benefici economici anche in caso di mancato completamento; peggio, che si proceda anche a immani lavori preliminari (treni e auto devono essere portati alla notevole altezza del Ponte) lasciandoli poi in futuro abbandonati.

Ipotizziamo che i dubbi tecnici siano superati. Sarebbe bene farlo? Un elemento fondamentale di cui tenere conto è il suo costo: al momento quasi 15 miliardi, ma destinati assai verosimilmente a crescere molto; e che non si aggiungono ad altri interventi infrastrutturali, ma che in larga misura li stanno sostituendo. Il suo finanziamento sta già drenando ampiamente le risorse disponibili per interventi trasportistici, e in genere per investimenti pubblici, nelle due regioni. Potrebbe farlo a lungo. Quindi la vera domanda non è sì o no al Ponte. È: quale è il modo più opportuno di spendere 15 miliardi a vantaggio della Sicilia, della Calabria, e quindi dell’intero Paese?

Una forte riduzione dei tempi di percorrenza, soprattutto ferroviari, fra le due regioni e poi verso Nord è certamente molto auspicabile. Poter salire su un Frecciarossa a Catania e scendere a Napoli avrebbe un significato economico e psicologico notevole. Ma puntando tutto e solo sul Ponte, tantissimi Siciliani e Calabresi resterebbero comunque isolati; impossibilitati, come sono ora, a raggiungere le stazioni delle città. I trasporti sono un sistema a rete: toccare solo un punto può non migliorare molto le cose.

I collegamenti interni alle due regioni resterebbero nella attuale, arcaica, situazione. Basta consultare il documentatissimo rapporto Pendolaria di Legambiente per una gran mole di fatti e dati. Uno per tutti: fra Caltagirone e Catania ci sono solo due treni al giorno, che impiegano circa due ore per percorrere gli scarsi 80 chilometri che le separano. Il Ponte avrebbe il paradossale effetto di rinviare molti miglioramenti a un futuro imprecisato. Inoltre, le distanze in termini di tempo, e quindi la fluidità degli spostamenti, fra le città di Messina e Reggio Calabria sarebbero marginalmente toccate: il Ponte non collegherebbe le due città ma il punto di minor distanza fra le due coste, che è relativamente lontano dall’una e dall’altra.

Benissimo i treni a lunga distanza: ma la geografia resta un vincolo. In base alle migliori proiezioni ci vorrebbero comunque 7 ore da Palermo a Roma; tutta la fascia adriatico-jonica resterebbe irraggiungibile; al Nord non si potrebbe che continuare ad andare in aereo. Per il trasporto merci con l’Europa, poi, è il mare molto più che la strada a rappresentare la migliore opzione. Per di più, la realizzazione di un’opera non garantisce affatto sul servizio disponibile: quanti treni in più, con quale frequenza e quali standard qualitativi partirebbero da Catania solo perché potrebbero passare sul Ponte? E questo, quando?

Domande senza risposta. L’attraversamento dello Stretto può essere assai migliorato (si veda il Rapporto del 2021 della Struttura Tecnica di Missione del ministero), con costi e tempi infinitamente minori rispetto alla grande opera. Attraversare lo Stretto in treno non implica necessariamente smontare i convogli ferroviari vagone dopo vagone, traghettarli, e poi rimontarli. La tecnologia può aiutare, e molto: a ridurre i tempi morti; a integrare meglio ferro e mare con strutture di interscambio; attraverso nuovi mezzi marittimi.

Alcune grandi opere servono, specie al Sud. Non sempre, non tutte. Insieme ad alcuni grandi interventi sono soprattutto indispensabili efficienti sistemi di opere anche minori, disegnati con intelligenza e ben funzionanti nel produrre in tempi ragionevoli servizi per cittadini e imprese: come per il trasporto pubblico in Calabria e in Sicilia. Inoltre, le risorse per gli investimenti, così come per i servizi pubblici, potrebbero tornare ad essere scarse con la nuova austerità. Tutti elementi che dovrebbero imporre una discussione collettiva aperta, serrata, informando e coinvolgendo i cittadini, su come utilizzare al meglio ciò che abbiamo, sulle scelte migliori per il futuro.

Da questo punto di vista il percorso verso il Ponte sullo Stretto è l’esatto contrario: la retorica degli annunci roboanti, l’inganno della soluzione facile, la ricerca del consenso immediato, l’ombra del grande intervento che oscura le difficoltà quotidiane di milioni di persone, l’opacità dei processi, gli interessi nascosti. Destinare con queste modalità colossali risorse al suo avvio è l’immagine non di un futuro, ma del difficilissimo presente del nostro Paese.

Una grande questione, che richiede una diversa soluzione. Forse, allora, Schlein e Conte potrebbero pensare di trasferirsi con i loro gruppi parlamentari per un weekend in Sicilia e in Calabria. Per tenere cento e cento assemblee nelle città. Per raccontare come loro utilizzerebbero quelle risorse, per discuterne con i cittadini, per raccogliere suggerimenti, per dar forma e rendere chiara un’offerta politica alternativa, a partire da un esempio molto concreto.

da “il Fatto Quotidiano”