Mese: settembre 2019

Agire prima che si sciolgano i ghiacciai di Piero Bevilacqua

Agire prima che si sciolgano i ghiacciai di Piero Bevilacqua

Le immagini più drammaticamente evidenti con cui ormai quasi ogni giorno i media ci mostrano le conseguenze del riscaldamento globale, sono quelle dei ghiacciai: clamorosamente assottigliati o addirittura scomparsi, ridotti a sterili petraie. Poco o nulla tuttavia si dice sulle conseguenze prossime venture di questo fenomeno, che oggi appare molto più accelerato di quanto fosse stato previsto dai climatologi. Vorrei perciò almeno accennare alle possibili conseguenze prossime che la sparizione dei grandi ghiacciai alpini provocherà, in tempi ancora imprevedibili, in alcuni territori della Penisola. La loro estinzione più o meno totale avrà affetti giganteschi sulla Pianura padana. Nel XIX secolo Carlo Cattaneo aveva descritto in maniera mirabile le caratteristiche fisiche di quell’immenso catino ai piedi delle Alpi in cui precipita il più complesso sistema idrografico d’Europa e uno dei più ricchi e intricati del mondo. I ghiacciai alpini, che hanno dato vita e ancora alimentano fiumi, canali, rogge, risorgive, ecc hanno costituito la risorsa idrica su cui è nata, soprattutto in Lombardia e nella Bassa padana, l’agricoltura irrigua. Per almeno un secolo la più prospera economia agricola del mondo. Grazie alla ricchezza delle acque, non solo sono state rese possibili colture tropicali: il riso arriva in Lombardia nel ‘400 e ancora ci rende primi produttori di questo cereale in Europa. Ma le acque hanno permesso navigazione interna, trasporti, energia motrice, con un abbondanza che non si ritrova in nessun altra geografia d’Italia. Gran parte del dinamismo economico e della ricchezza di tanta parte dell’Italia settentrionale si deve all’abbondanza delle acque, dunque ai ghiacciai alpini, che la versano in pianura con corsi perenni e soprattutto d’estate, quando è più necessaria. La più grande e ricca città di quest’area, Milano, non sarebbe stata possibile senza questi vantaggi idrici. Scriveva nel 1288 Bonvesin De La Riva nel suo De Magnalibus Mediolani: «Non si ha notizia di alcuna altra città al mondo che sia altrettanto ricca di sorgenti di così elevata qualità» (1288) Ebbene la sparizione dei ghiacciai prefigura la scomparsa di questi immensi vantaggi naturali di cui questa parte d’Italia ha goduto per millenni. Naturalmente non è saggio avventurarsi in previsioni più o meno catastrofiche. Quel che invece si può utilmente fare, di fronte a un orizzonte così minaccioso e imprevedibile, è cominciare a pensare strategicamente a una eventualità che ormai possiamo considerare inevitabile, anche se con tempistiche e caratteristiche difficili da calcolare. E dunque si può cominciare a pensare a un’agricoltura necessitata a produrre con sempre meno acqua. Ecco allora emergere alcuni interrogativi su cui imprenditori e poteri pubblici devono cominciare a interrogarsi. Difficilmente credo le colture del riso resisteranno allo stravolgimento idrografico e climatico in corso. E sarà ancora possibile, ed economicamente conveniente, coltivare in Pianura padana colture idrofile come il mais? Quel mais che la senatrice Cattaneo vorrebbe addirittura Ogm? Come fanno in genere gli scienziati riduzionisti, che esaltano il successo strumentale del singolo manufatto tecnico-scientifico – in questo caso il mais modificato – separandolo dal contesto generale della natura vivente, che comprende anche la variazione del clima e del regime idrico. In un contesto di siccità, in assenza di grandi apporti d’acqua, quella cultura sarà fallimentare e, Ogm o meno, porterà gli agricoltori alla rovina. Occorre dunque incominciare a pensare a colture alternative, a piante capaci di adattarsi a un nuovo contesto climatico. L’espansione delle colture tropicali in Sicilia e in Sardegna, che dalla scoperta dell’America in poi non erano mai attecchite nelle nostre campagne, è un segnale importante di questa inversione. È questo un semplice esempio del modo di pensare prospettico con cui occorrerà accompagnare la protesta contro gli stati inquinanti e l’obiettivo di una riconversione ecologica generale. Il Manifesto 29.9.2019

L’immigrazione è necessaria di Piero Bevilacqua

L’immigrazione è necessaria di Piero Bevilacqua

Esiste un indicatore certo e indiscutibile che segnala il declino di un paese: la diminuzione della popolazione. A demografia stagnante o in calo corrisponde una economia stagnante o in regresso. L’Italia è oggi un caso da manuale.Se vivessimo in uno “stato stazionario”, regolato da flussi di input e output in equilibrio, potremmo essere anche soddisfatti. Ma poiché siamo ancora immersi in una economia-mondo capitalistica, dobbiamo preoccuparci.Anche perché non diminuisce solo e semplicemente la popolazione, quanto soprattutto e drammaticamente quella giovane. E’ un declino di lungo periodo, che si è accentuato negli ultimi anni. All’inizio del ‘900 oltre la metà dei cittadini italiani aveva meno di 25 anni, oggi sono meno del 24%. Nel 1996 i giovani fra i 20 e i 39 anni erano 17,3 milioni, nel 2015 erano crollati a 13,3 milioni: oltre 4 milioni in meno, come se in vent’anni fosse scomparsa l’intera popolazione del Piemente, con tutta la sua potenzialità di ricchezza. E’ una tendenza destinata ad accentuarsi nel prossimo futuro, come riconoscono gli esperti dell’ONU. Un fenomeno del resto comprensibile, meno giovani signica senpre meno nascite, così che si innesta una “sindrome malthusiana” a rovescio, tanto più che in Italia le coppie fanno meno di un figlio e mezzo (1,32) contro, ad esempio, i due della Francia.

Ma non è tutto.Se i giovani diminuiscono i vecchi invece aumentano.L’indice di vecchiaia, vale a dire il rapporto tra la fascia di popolazione da 0 a 14 e da 65 in avanti, tra il 2009 e il 2019 è passato da 144,1 a 172,9.(Traggo questi dati da due saggi di Luigi Campiglio e Alessandro Rosina, apparsi su << Vita e Pensiero>> 2019 n. 3 e n. 4)

Quest’ ultimo dato dovrebbe creare un deciso allarme. Mentre diminuisce il numero di chi produce ricchezza, aumenta quello di chi la consuma. Oggi la popolazione anziana in aumento è sempre meno autonoma e bisognosa di un concerto crescente di servizi (badanti, ricoveri ospedaleri, assistenza periodica, dialisi, trasfusioni, interventi chirurgici, innesto di protesi, ecc) e di medicinali sempre pià costosi. La sua sopravvivenza assorbe, di anno in anno, costi crescenti del bilancio pubblico, anche in virtù dell’incessante progresso della tecnologia medica. Un tempo per ogni anziano da assitere lavoravano decine di giovani, oggi il rapporto si è ridotto a due-.tre per ogni pensionato.

Ora noi conosciamo le cause di tale squilibrio. Disoccupazione giovanile protratta, scarsi investimenti, anche in ricerca e istruzione, assenza di servizi (asili nidi, scuole materne, presidi sanitari), mancanza di agevolezioni e incentivi alle coppie giovani, marginalità delle donne,ecc. A cui occorre aggiungere, specie per il Mezzogiorno, l’emigrazione all’estero dei giovani, ripresa in grande stile negli ultimi anni.Dunque, è auspicabile che il governo si applichi con serietà per promuovere un nuova politica verso la nostra gioventù.

Ma può bastare? In termini di costituzione di forza-lavoro ci vorranno almeno vent’anni perché queste politiche possano in qualche modo aggiustare il presente squilibrio. Eppure noi abbiamo di fronte l’unica, grande, rapida soluzione a questo grandioso problema e non solo non vogliamo vederla, ma la condanniamo come l’introduzione di una epidemia di peste.La soluzione è l’immigrazione, l’ingresso di centinaia di migliaia di giovani che scappano da situazioni disperate, guerre, distruzioni, schiavitù e fame, che solo con gli anni ( e con una prolungata politica di pace, che non è alle viste) può essere normalizzata nel luoghi d’origine. Ma questi giovani africani o mediorientali non vanno solo salvati e accolti, vanno anche ospitati. Quando arrivano sulle nostre terre essi vanno conosciuti intanto come essere umani, e non come stranieri clandestini,occorre apprendere dalla loro voce da dove vengono, che studi hanno fatto, che mestiere posseggono, per poter progettare un loro inserimento dignitoso nella nostra società.Ma naturalmente per fare questo ci vogliono specifici investimenti e sforzo organizzativo.Non si può operare come è accaduto sinora, lasciando questo esercito di sbandati a bivaccare nelle nostre periferiferie, ad accrescere il loro degrado in danno dei cittadini più poveri, generando la sensazione di disagio e insicurezza su cui è prosperata la politica della paura. Occorre credere nella loro capacità di lavoro, nella loro intelligenza, nella loro cultura e umanità.

Dunque bisogna rovesciare radicalmente la narrazione xenofoba su cui la Lega ha fondato le sue fortune. I dirigenti sindacali della Cgil, i cui iscritti votano per il partito di Salvini, possono raccontare loro, con serenità, che se vince la sua politica i loro figli non avranno più la pensione e loro stessi avranno sempre più difficolta ad accedere alla sanità pubblica. E’ necessario dunque raccontare al paese intero un’altra storia, la verità storica. La politica del “prima gli italiani” ha operato in danno degli italiani stessi, ha lavorato per accrescere il grave squilibrio demografico che trascina l’Italia verso il declino, eroderndo drammaticamente le basi economiche su cui si regge il nostro welfare e quello delle prossime generazioni.

 

Il Manifesto

25.9.2019

Le infrastrutture utili non sono le grandi opere care a Confindustria di Piero Bevilacqua

Le infrastrutture utili non sono le grandi opere care a Confindustria di Piero Bevilacqua

Si tratta in genere di operazioni che a fronte di cospicui guadagni delle imprese, mobilitano alcuni settori economici come quelli del cemento e di materiali di costruzione, creano un certo stock di posti di lavoro temporaneo, soprattutto di bassa qualità, e sconvolgono per sempre pezzi di habitat della penisola. Se non rientra nella logica di questo business, l’opera in Italia, non si fa.

Non a caso il raccordo ferroviario che avrebbe connesso il porto di Gioia Tauro al resto della Penisola non è stato realizzato. Ora, poiché su questo terreno il Pd rischia di entrare in conflitto con l’alleato di governo, proviamo a indicare che cosa possono essere le infrastrutture in Italia nella fase attuale.

UNA FASE, LO RICORDIAMO agli uomini di Confindustria, ai dirigenti dei partiti, agli economisti e ai giornalisti, nella quale non si può fare più economia come un tempo, quando si consumava territorio, bene comune sempre più raro e prezioso, come se fosse infinito, come se il suo consumo non avesse influenza sul clima che deciderà della nostra vita a venire su questo pianeta.

E dunque devo ritornare su un vecchio tema, reso sempre più attuale e drammatico col passare degli anni e dei mesi. Nella più completa indifferenza generale, la penisola italiana sta precipitando in uno del più gravi squilibri demografico- territoriali della sua storia. Mentre la maggiornza della popolazione si addensa, con le sue economie, i servizi, i traffici, lungo i versanti costieri, creando un caotico inurbamento, l’Italia interna si va spopolando.

L’ITALIA TUTTA, non solo quella del Sud. (Si veda il vasto affresco a più mani, con luci e ombre, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, a cura di A.De Rossi, Donzelli).

Si tratta di un paradosso grandioso per più versi. Dal punto di vista storico, perché per millenni la nostra economia preminente, quella agricolo- pastorale, si è svolta in queste aree, dal momento che le pianure erano impaludate e malariche. Dal punto di vista presente, perché lasciamo milioni di ettari di terra all’abbandono, agli incendi, alle frane, alla desertificazione mentre potrebbero costituire aree di nuova agricoltura, di economie forestali avanzate.

Senza dire che non si abbandonano solo terre, ma anche paesi interi, cittadine, patrimoni abitativi anche di pregio, con manufatti storici e archeologici talora importanti Una vastissima area del Paese in crescente abbandono mentre noi cacciamo via come criminali, abbandoniamo nelle nuove bidonville ignifughe delle periferie urbane, i giovani migranti che potrebbero riabitarle.

DAL PUNTO DI VISTA DEL FUTURO perché con l’avanzare del riscaldamento climatico i territori di altura dell’Appennino e del preappennino diventeranno preziosi per le nostre economie agricole e non solo. Ebbene, una delle ragioni alla base dello spopolamento e dell’abbandono è visibile da tempo: l’isolamento.

La distanza dai luoghi dove sono insediati i servizi, le scuole, i presidi sanitari, ecc. Le persone che vivono nell’Italia interna non lascerebbero per nulla al mondo i centri dove sono nati, ma devono farlo se manca il lavoro, l’ospedale, la scuola, i legami sociali.

Ebbene, è qui che le infrastrutture finalizzate non al mondo degli affari, alla «crescita» e al consumo di suolo, possono svolgere un ruolo strategico di riequilibrio demografico, economico e sociale dell’intera Penisola.

LA COSTRUZIONE DI UNA RETE di linee ferroviarie leggere, vere metropolitane extraurbane, capace di collegare almeno i centri più importanti, potrebbe costituire l’intelaiatura per rivitalizzare in poco tempo l’intero territorio dell’Italia interna. Essa – insieme alla diffusione della rete e al telelavoro, strumento di accorciamento degli spazi, risparmio di tempo, spostamenti, Co2- costituirebbe la base strutturale per avviare il ripopolamento e soprattutto la fioritura di economie «nuove», vale a dire di agricolture non inquinanti, artigianato e piccola industria di trasformazione, produzioni forestali, turismo, ecc.

Ma tanti nuclei urbani possono diventare sede di ricerca scientifica avanzata, valorizzando edifici storici. Tutte economie che producono nuova ricchezza e soprattutto risultano compatibili con l’imperativo inderogabile che abbiamo davanti: il riscaldamento climatico che avanza a ritmi imprevisti dagli stessi esperti.

Non possiamo applaudire Greta Thunberg, riempirci il petto di slanci ambientalisti e poi ritornare alle vecchie politiche come se nulla fosse.

Oggi la propaganda non funziona più. Non si può far finta che le scelte economiche non abbiano un effetto ambientale. All’ignoranza abissale di tutto ciò che riguarda il territorio, connotato storico dei ceti dominanti italiani, non può più essere consentito di imporre il proprio punto di vista, prigioniero di un paradigma economicistico ormai esaurito.

Di fronte all’allarme globale, che cresce di giorno in giorno, non si può più giocare alcuna partita con le vecchie carte.

 

Il Manifesto

Edizione del 20.09.2019

Viaggio al Sud di Piero Bevilacqua

Viaggio al Sud di Piero Bevilacqua

 

 

 

In questi ultimi anni abbiamo assistito a un fenomeno inquietante, impensabile in altri periodi della storia repubblicana. Mentre le condizioni economiche, sociali, civili del Mezzogiorno peggioravano, con la rinascita di fenomeni da dopoguerra, come il caporalato schiavista nelle campagne, con la ripresa dell’emigrazione individuale di massa, soprattutto della gioventù colta, non un moto di recriminazone si è levato da quelle terre.Nessuna manifestazione, movimento di popolo, proteste organizzate. Una coltre di rassegnazione sembra essersi stesa sul cuore delle popolazioni meridionali. Sicché si è arrivati al paradosso che neppure di fronte alla più grande minaccia affacciatasi negli ultimi mesi all’avvenire di questa parte d’Italia, e alla stessa unità del Paese, con la cosiddetta autonomia differenziata, abbiamo assistito ad alcuna reazione popolare. Anzi, la Lega, che oggi ripropone la secessione del Nord sotto mentite spoglie, è stata premiata al Sud con migliaia e migliaia di voti. E’ un paradosso, assurdo, inaudito. La Lega, a partire da Bossi, ha imposto all’immaginario degli italiani l’idea di un Sud sprecone e criminale, sicché dagli anni ’90 ogni intervento pubblico a favore del Sud è stato guardato con sospetto, favorendo così uno squilibrio ingiusto nella redistribuzione delle risorse.Occorre rammentarlo alle popolazioni meridionali: la Lega è storicamente e attualmente, sotto la guida di Salvini, il suo più attivo nemico.

Di fronte a tale scenario, se si esclude la solitaria lotta di pochi e isolatissimi intellettuali, di alcune assemblee dei medici, delle mobilitazioni di gruppi di insegnanti, e della manifestazione unitaria dei sindacati a Reggio Calabria del 22 giugno, l’assenza di iniziativa politica appare drammatica.E anche paradossale, perché le popolazioni del Sud ignorano che cosa sia l’autonomia differenziata e votano Lega, mentre quel partito le sta condannando a una marginalità irreversibile.

Sapiamo che il PD non ha mosso un dito su tale questione, paralizzato dalle sue divisioni interne, le varie TV, pubbliche e private, non ne fanno menzione, una sistema mediatico sempre più asservito porta l’attenzione degli italiani altrove.

Ebbene, io credo che la sinistra, malgrado le poche forze a disposizione, se scatta un po’ di volontà politica, potrebbe tentare un’operazione che è insieme di dialogo e contatto con i cittadini del Sud, di mobilitazione, e al tempo stesso di tessitura tra i gruppi che compongono la sua frastagliata geografia. Non ci potrebbe essere obiettivo più unificante che rivendicare una politica di investimenti innovativi per il Sud e creare allarme, chiarimento, informazione di fronte al progetto di disintegrare l’unità del Paese, instaurando un rissoso regime di competizione regionalistica, che getterebbe l’Italia ai margini dell’Europa. E occorre ricordare qui che Veneto e Lombardia sono le regioni con il più alto tasso di cementificazione d’Italia, mentre il nuovo piano territoriale dell’Emilia Romagna prevede la ripresa di consumo di suolo.( Consumo di luogo.Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia Romagna, a cura di I.Agostini,Pendragon 2017) Volere più potere significa per queste regioni continuare la vecchia politica di grandi opere e cementificazione dei territori, una scelta insostenibile mentre incombe il riscaldamento climatico

Qual’è la proposta che avanzo ? Quella di partire, nel mese di ottobre, con un pulman, che giri per i territori, e in cui siano presenti gli esponenti di tutte le forze poitiche disponibili, le varie organizzazioni che hanno insediamenti attivi in alcune città, in primo luogo i sindacati, l’ARCI, Libera, l’ANPI, l’Osservatorio del Sud, ecc, ecc. per organizzare là dove è possibile, un incontro in piazza con i cittadini. Nei vari centri si potrebbero coinvolgere i medici, che conoscono la realtà della sanità meridionale, gli insegnanti con le loro organizzazioni, l’Unione degli Studenti, ma più in generale le scolaresche che in quel momento dell’anno sono più pronte e disponibili alla mobilitazione. L’idea di un viaggio per i territori potrebbe funzionare anche mediaticamente e avrebbe sicuramente una efficacia di gran lunga maggiore se l’inziativa risultasse presa da un soggetto unitario, ma plurale, che coinvolga soprattutto le donne, i soggetti più deboli e discriminati del Sud.

 

 

 

Il Manifesto

La sinistra collaterale di Piero Bevilacqua di Piero Bevilacqua

La sinistra collaterale di Piero Bevilacqua di Piero Bevilacqua

 << L’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre>>, diceva Keynes con geniale gusto del paradosso e acuto senso della storia.E’ accaduto l’inatteso: Salvini si è tolto di mezzo da solo. Il nuovo governo per ora ci ha salvati da una prospettiva inquietante e non mi soffermerò a dar giudizi e fare previsioni.Ma quel che realizzerà questo esecutivo dipenderà anche dalle pressioni che la società civile riuscirà ad esercitare, con le sue espressioni culrurali più avanzate

E’ il caso, ad esempio,di fare una riflessione sulle condizioni attuali della sinistra: sulle sue dimensioni, caretteri e modalità di espressione. Perché se è verò che essa è quasi ridotta all’impotenza sul piano partitico- parlamentare, non così si può dire della sua realtà effettiva nel Paese, che non si misura numericamente con la quantità dei consensi elettorali. Nè così si può dire sul piano della creatività ed elaborazione teorica e culturale, dell’ influenza sul piano ideale   presso settori ampi di opinione pubblica, sul suo radicamento locale in tante realtà del paese, sia pure in forma di gruppi dispersi. Se si guarda poi all’aspetto culturale della sinistra – da non identificare con le posizioni di democrazia liberale, che possono costituire una sua base di partenza, ma non l’esauriscono – non si può non cogliere una ricchezza di voci, organi, manifestazioni, che contraddicono la fragilità della sua corrispondente espressione politica. Esiste infatti quella che io definei una sinistra collaterale, che costitusce il paradosso della situazione italiana e che si esprime in una molteplicità davvero singolare di voci.Senza nessuna pretesa, neppure di abbozzare una rassegna, direi che si va da una realtà storica come il Manifesto – che la legge dei 5S sull’editoria vorrebbe stoltamente punire – a riviste che vantano molti anni di vita come Micromega, Internazionale, che dal ’93 fa entrare i problemi del mondo nel dibattito italiano, lo statunitense Huffington Post, che ha una versione italiana grazie al gruppo editoriale dell’Espresso, così Jacobin , Left attiva dal 2006, in Comune,la recentissima Luoghi comuni (Castelvecchi),sino alla moltitudine di siti, sia specialistici, come Sbilanciamoci per i temi economici, Eddyburg, Carte in regola, Città bene comune, dedicati all’ambiente e all’urbanistica o più generali come Officina dei saperi e Osservatorio del Sud, o di quelli che conducono campagne di varia natura come Change.org.Naturalmente occorrerebbe mettere nel conto, oltre alla loro pubblicazione libraria, la collaborazione di molti intellettuali a organi di stampa che non so quanto amano definirsi strettamente di sinistra, come il Fatto quotidiano, o che sono semplicemente liberal-democratici come Repubblica. Ricordo che a lungo su questo giornale esprimevano posizioni anche radicali collaboratori fissi come Alberto Asor Rosa, Stefano Rodotà, Luciano Gallino, Salvatore Settis e da ultimo Tomaso Montanari. Così come almeno un accenno andrebbe fatto alle mille inziative che singoli e gruppi intraprendono nei vari angoli della Penisola, nelle scuole, nelle università, in luoghi pubblici con convegni sui temi più vari del nostro tempo.Ma l’elenco è ancora incompleto: come dimenticarsi di Libera, dell’ANPI, dei circoli dell’Arci, dei gruppi di Altreconomia, dei diversi centri sociali, delle organizzazioni culturali e ambientaliste? E non includiamo le Camere del Lavoro e le organizzazioni territoriali del sindacato, perché oggi non sono politicamente omogenee.

Perché ricordo sommariamente tali realtà? Non certo per tornare a invocare la nascita di nuova formazione politica.Tale progetto non è alle viste.Finché esso si porrà a ridosso di elezioni, per inziativa dei frantumi dei vecchi gruppi politici, e senza un precedente movimento di lotta popolare, non avrà speranza. E tuttavia non ci si può non porre la domanda:se questa sinistra collaterale che costituisce quasi l’unica fonte innovativa di produzione teorico-politica dell ‘Italia, che non trova ascolto nel Pd e non si traduce in iniziativa politica nei gruppi radicali, deve limitarsi a una esclusiva azione culturale? Non è possibile che attraverso un paziente lavoro di tessitura organizzativa dia vita, di tanto in tanto, a singole forme di mobilitazione che coinvolgano i cittadini, con una capacità di incidenza che superi quella – pur meritoria – dei comitati locali ? Potrebbe nascere così una forza politica che non assomiglia alle forme partitiche tradizionali, carsica e liquida quanto vogliamo, ma capace di imporsi all’opinione nazionale, di volta in volta,con singole campagne. Ricordo che una ragazzina di nome Greta ha sconvolto in poco tempo la geografia dei movimenti di massa.

Ancora una volta sottolineo che davanti a noi abbiamo un obiettivo di prima grandezza, che ancora molti intellettuali di sinistra non hanno afferrato nella sua potenzialità: la secessione dei ricchi, denominata dalla Lega, per truccare le carte, autonomia differenziata. Potrebbe costituire la più grande battaglia unitaria dopo la Resistenza, perché si opporrebbe alla disgregazione dell’Italia e alla dissoluzione del welfare nazionale, difenderebbe le autonomie dei comuni e la Costituzione, metterebbe il Mezzogiorno al centro della lotta contro il declino dell’Italia. Grazie a un impegno su tale terreno il fenomeno Salvini, alle prossime elelezioni, potrebbe ritornare alle sue vecchie dimensioni regionali.

 

Il Manifesto

10.9.2019

I rischi dell’autonomia all’emiliana. Ora restituire un ruolo forte a Roma di Gianfranco Viesti

I rischi dell’autonomia all’emiliana. Ora restituire un ruolo forte a Roma di Gianfranco Viesti

Si avvia il nuovo governo. E trova sulla sua strada, tra i tanti temi aperti, quello dell’autonomia regionale differenziata. Un dossier scottante per la portata estrema delle richieste. Le richieste delle regioni Lombardia e Veneto, e in larga misura anche Emilia-Romagna: non a caso battezzate “Spacca-Italia” da questo giornale; per le loro profonde implicazioni sui meccanismi di finanziamento delle amministrazioni, e quindi dei servizi ai cittadini; per le ricadute a catena che un’eventuale intesa con una o più di queste regioni può provocare anche nei rapporti con le altre e nel complessivo funzionamento del Paese.

Nel testo dell’Intesa fra Pd e 5Stelle, il tema è estesamente affrontato al punto 20. Sono posti dei chiari paletti di principio a meccanismi di finanziamento che possono provocare vantaggi ad alcuni a danno ad altri; viene auspicata, un po’ vagamente una «ricognizione ponderata delle materie e delle competenze da trasferire»; viene affermata la centralità del Parlamento in tutto il processo.

Una formulazione accettabile nelle sue cautele, ma che rischia di non affrontare il nodo di fondo della questione. La forte iniziativa politica delle tre Regioni fa partire la discussione dal punto sbagliato: la differenziazione delle competenze, per averne specifici vantaggi. Non da quello più corretto: e cioè il completamento dei meccanismi di finanziamento ordinario delle Regioni e una attenta discussione del riparto delle competenze fra Stato e autonomie, per far funzionare meglio l’Italia. Non sarà affatto semplice tenere insieme il «portare avanti il dossier delle tre Regioni» con la considerazione che è «un lavoro che riguarda tutte le Regioni», come si legge nella prima dichiarazione del neo-ministro. Soprattutto considerando le pressioni che eserciterà la giunta emiliana, anche in vista delle prossime elezioni regionali.

Il perché non è difficile da capire. In materia finanziaria Veneto e Lombardia hanno proposto un vestito disegnato sui loro possibili vantaggi, abbandonando la strada maestra dei meccanismi già previsti sin dalla legge 42 sul federalismo fiscale. Ed è da questi meccanismi che occorre invece ripartire, abbandonando le bozze predisposte dal precedente governo: regole chiare, valide per tutti. Sapendo bene che in tempi di risorse scarse non è affatto facile, politicamente e tecnicamente, transitare come auspicabile dal “costo storico” a indicatori più equi e basati sui numeri.

L’esperienza tragica del federalismo fiscale per i Comuni, che ha visto quelli più ricchi contrapporsi vittoriosamente a quelli più poveri, è lì a mostrarlo. In materia di competenze c’era stata già una netta rottura fra i due vecchi partner di governo, con i 5 Stelle contrari ad alcune delle richieste più importanti, ed estreme, di Lombardia e Veneto, come l’istruzione e i beni culturali o la cessione al patrimonio regionale delle infrastrutture.

Il punto è che molte delle altre richieste regionali sono del tutto simili (altro che regionalismo differenziato!), fra le tre e fra le altre: e quindi riguardano non l’attuazione dell’articolo 116 ma una rilettura dell’articolo 117 della Costituzione. Cioè molto più il riparto di competenze, specie amministrative, fra Stato e tutte le Regioni, che casi specifici. Discussione anch’essa molto utile e non semplice: che non sarebbe male condurre, per averne indirizzi, in Parlamento.

Ma partire dall’inizio, e cioè ridiscutere confini fra poteri e meccanismi di finanziamento, porta a nuovi importanti interrogativi. L’equità delle regole per le Regioni a statuto speciale: molto del malessere veneto viene proprio dal confinare con regioni “speciali”. E soprattutto Roma. Questione dirimente per il nostro Paese; non banalmente «una città come le altre» come argomentato improvvidamente da qualche sindaco (argomentazioni probabilmente alla base dei cambiamenti fra prima e seconda versione del programma di cui questo giornale si è estesamente occupato ieri).

Roma è la capitale del Paese; è la parte largamente preponderante della regione Lazio; e, oltre a questo, è in profonda difficoltà. Tutte questioni che richiedono riflessioni attentissime su poteri e risorse; non per un banale campanilismo ripetibile in ogni municipio, ma perché una capitale e un Paese che si rilanciano sono due facce della stessa medaglia. E poi, Milano non diventa certo più forte se Roma si indebolisce, ma solo se è un nodo importante di una rete di città competitive, che innervano tutto il Paese. Non se imita Londra isolandosi, e contrapponendosi economicamente e politicamente al resto del Paese (che poi si vendica con la Brexit), ma se si inserisce, come Monaco di Baviera e Francoforte, in un efficiente sistema-Paese.

E questo ci porta all’ultimo tema. Si è fatta una polemica estiva sulla supposta lontananza del governo dal Nord, che certamente sarà rinfocolata dai governatori leghisti sul tema delle autonomie differenziate. Polemiche che meriteranno una risposta attenta. Da un lato, sul merito delle questioni, spiegando bene ai cittadini di quelle regioni che non si parla genericamente di “autonomia” o “responsabilità” ma di specifiche materie, specifiche disposizioni. O davvero pensiamo che tutti i lombardi abbiano come priorità il fatto che l’Autostrada del Sole diventi regionale, o che gli insegnanti dei loro figli dipendano dall’assessore?

Dall’altro, sul futuro possibile del Paese. Che non può stare in una lotta di campanile di tutti contro tutti per i soldi; nell’egoismo dei ricchi: nel loro stesso interesse. Ma in un disegno condiviso, che premi l’efficienza di chi ben governa e i diritti di tutti i cittadini, a tutte le latitudini, alla salute, all’istruzione, all’assistenza, alla mobilità; e che soprattutto rilanci gli investimenti, pubblici e privati. La sfida che ha davanti questo governo è cominciare a tracciarlo, facendo un serio “tagliando” all’Italia del XXI secolo; cosa nient’affatto semplice, ma indispensabile per cominciare ad uscire dalle secche in cui da troppi anni ci siamo arenati.

 

Il Messaggero

6.9.2019