Tag: sanità

Referendum. Via maestra contro l’autonomia.-di Filippo Veltri

Referendum. Via maestra contro l’autonomia.-di Filippo Veltri

Anche in Calabria è nata La Via Maestra, un comitato regionale composto da Cgil Calabria, Arci, Acli, Anpi, Collettivo Valarioti, Cdc, Associazione Controcorrente, Emergency, Legambiente, Libera, Associazione Giuseppe Dossetti.

È un fatto molto importante perché il Comitato sta pensando a concrete iniziative sui temi del lavoro, dell’ambiente e della giusta transizione, con una particolare attenzione alla vera e propria torsione democratica del Paese, in particolare all’Autonomia Differenziata che tra poco andrà in discussione alla Camera dopo l’approvazione in Senato.

Queste associazioni, in linea con quanto sta avvenendo a livello nazionale, saranno le protagoniste di un percorso che porterà al coinvolgimento e alla mobilitazione in difesa della Costituzione, contro l’autonomia differenziata, la precarietà e lo stravolgimento della Repubblica parlamentare. Una strada nuova, dunque, che dal basso punta alla partecipazione e alla mobilitazione reale. E dio solo sa quanto ce n’è bisogno in tempi in cui così scarsa è la mobilitazione financo alle competizioni elettorali (ultimo test le regionali in Abruzzo non hanno bisogno di ulteriori commenti).

In Calabria ovviamente tutto questo si colora di molti altri significati, legati alla accoglienza e all’uguaglianza, alle lotte sociali e a quelle civili (si pensi solo alla sanità e alla tutela della salute), tant’è che dopo la nascita del comitato regionale sono sorti provincia per provincia i comitati territoriali de La Via Maestra, che stanno già lavorando alla riappropriazione dei famigerati Livelli Essenziali di Prestazione (Lep), garantendo a tutti i cittadini italiani gli stessi diritti e le stesse opportunità nei settori cruciali come sanità, istruzione, trasporti, ambiente e servizi amministrativi.

«La Calabria non ha bisogno di differenziarsi – spiega Angelo Sposato, segretario regionale della Cgil – ma di armonizzarsi con le altre regioni per garantire servizi primari adeguati. La proposta di autonomia differenziata mina l’unità nazionale e rischia di accentuare ulteriormente gli squilibri tra Nord e Sud, abbandonando le regioni meridionali ai propri problemi’’.

Il Coordinamento Nazionale per la Democrazia Costituzionale aveva già proposto, insieme ad altri, di dare vita ad una discussione a tutto campo ne La Via Maestra per mettere al centro la Costituzione, il contrasto agli attacchi che le vengono portati a partire dal premierato, e il contrasto all’autonomia differenziata nella versione Calderoli.

Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale insiste da tempo sull’esigenza di dare vita ad iniziative larghe e unitarie e La Via Maestra è certamente la prima naturale sede di convergenza di una parte importante della società e della cultura. La strada che indica è chiara: quella dei referendum.

I referendum sono in questo momento l’unica possibilità per fermare le scelte su autonomia a premierato. Spiegano ancora quelli de La Via Maestra: l’elezione diretta del Presidente del Consiglio porterebbe ad uno sconvolgimento della Costituzione e del suo assetto istituzionale perché cambierebbe la sostanza democratica e antifascista della nostra Repubblica, riducendo nettamente i poteri del Quirinale e ridimensionando drasticamente il ruolo del Parlamento che, da architrave delle istituzioni diventerebbe definitivamente subalterno al capo del governo, complice il ricatto della fine della legislatura, trasformando così la nostra Repubblica in una sorta di “capocrazia”.

L’autonomia differenziata targata Calderoli, su cui tante perplessità sono nate recentemente anche in Calabria in settori non marginali del centrodestra, la si può bloccare eventualmente solo così. Con partecipazione e strumenti concreti a partire dai referendum.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 marzo 2024.

Il volto oscuro del Pnrr: tanti regali alle imprese.-di Gianfranco Viesti

Il volto oscuro del Pnrr: tanti regali alle imprese.-di Gianfranco Viesti

Il Pnrr comporta importanti scelte politiche: nel suo disegno e nella sua realizzazione. E il governo Meloni ne ha compiute alcune molto nette, di cui è utile avere coscienza.

Il Pnrr è tutt’altro che un documento tecnico che contiene un’ovvia lista di riforme e investimenti. Il governo Draghi ha compiuto molte importanti scelte, senza che il Parlamento e la stessa opinione pubblica potessero dare il loro contributo in una grande, aperta, discussione; senza che ne fossero persino pienamente informati.

Ne è scaturito un Piano con luci e ombre. Fra le più positive l’enorme investimento sui nuovi nidi: in pochi anni tanti posti quanti negli ultimi 50 anni; fra le più negative, la misura sui “borghi”, con una visione da cartolina della complessa realtà delle aree interne.

Licenziato il Piano da un Parlamento plaudente, si è passati all’allocazione delle risorse ai singoli progetti, fino al settembre 2022. Un periodo molto interessante e poco conosciuto, nel quale ministri prevalentemente tecnici hanno compiuto importantissime scelte politiche; un periodo nel quale è davvero esistita la mitica “stanza dei bottoni” di nenniana memoria: tante risorse da allocare, con criteri e destinazioni scelti discrezionalmente.

Quando è entrato in carica il governo Meloni, i bottoni erano stati quasi tutti premuti; e all’esecutivo toccava un compito istituzionale: curare la tempestiva realizzazione di quanto programmato da altri. Una beffa per un governo guidato dall’unico partito che era prima all’opposizione. Ma questo ruolo male si addiceva alla scalpitante nuova maggioranza, che voleva lasciare il suo segno.

Così il ministro Fitto, nelle cui mani erano stati concentrati tutti i poteri e che subito ha fatto piazza pulita delle vecchie strutture tecniche, ha cominciato a preparare il terreno: giudizi sempre più critici sul Piano che doveva realizzare e opinioni sempre più pessimiste sulla sua realizzazione. Si è preso il suo tempo. Tanto tempo.

A maggio 2023 ha infine prodotto un documento sul Pnrr che ne elencava tutte le supposte criticità. Poi a luglio ha colpito. Ha presentato una ipotesi di complessiva, rilevante riformulazione, profittando della necessità di aggiungere un capitolo legato alla nuova iniziativa europea RePower EU, conseguenza della crisi ucraina.

Nel dibattito pubblico, occupato da mille comunicazioni su “target” e “milestone”, su rate da richiedere e da incassare, è sfuggito il senso politico dell’operazione. Intendiamoci: occuparsi delle scadenze per ottenere le risorse è fondamentale; ma è ancora più importante capire che ne facciamo. E il governo Meloni ha scelto: ha spostato circa 15 miliardi dagli investimenti pubblici ai sussidi alle imprese.

Dare incentivi alle imprese non è in sé un male: ma, viste le straordinarie dimensioni di queste misure (fra vecchio Piano e aggiunte siamo a 50 miliardi) e le loro caratteristiche prevalentemente a pioggia, molti dubbi sono leciti. Ma le forze di opposizione sembrano timorose nel criticare qualsiasi misura per le imprese; e la maggioranza è decisa a rafforzare la sua alleanza con le associazioni imprenditoriali, nell’industria, nei servizi, nell’agricoltura.

Sono invece usciti dal Piano importantissimi interventi: nella sanità, nelle aree interne, a Taranto e soprattutto nelle città, a vantaggio dei cittadini. Le motivazioni tecniche per il taglio proprio di questi interventi sono apparse subito molto deboli. È stato un atto politico d’imperio: più alle imprese, meno agli investimenti pubblici.
Nell’estate, di fronte alla protesta dei sindaci il governo ha garantito che gli interventi urbani sarebbero stati rifinanziati. Poi a novembre la Commissione (che lascia le scelte di merito agli Stati membri) ha approvato la proposta italiana, con diverse modifiche.

E siamo all’oggi. Come è fatto il nuovo Piano? Sembra incredibile, ma è impossibile saperlo perché non esiste ancora un testo ufficiale. Che effetti territoriali avranno queste modifiche?

Ci sono seri motivi per pensare che i tagli colpiranno più il Mezzogiorno, ma il governo, semplicemente, non pubblica più l’apposita relazione semestrale. Da dove verranno le risorse per rifinanziare i progetti esclusi? Un decreto promesso da novembre dovrebbe stabilirlo, ma ancora non si è visto. Si naviga nell’oscurità e nell’improvvisazione. E tutto questo ha pesantissime implicazioni: massima incertezza per i “vecchi” progetti, con i nuovi che non possono ancora partire.

Insomma, il Pnrr è assai più interessante di quanto sembri. Perché è anche una cartina al tornasole che fa vedere più aspetti del governo: determinatissimo nell’usare le risorse pubbliche per i propri fini; arrogante e opaco nei modi e nella comunicazione; azzardato e poco capace sui complessi nodi tecnici.

da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2024

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

«Livelli essenziali», il triplo inganno di Calderoli.-di Francesco Pallante

Tre inganni si nascondono dietro la promessa che i Lep controbilanceranno il regionalismo differenziato: uno formale, uno sostanziale, uno finanziario. La sigla Lep sta per «livelli essenziali delle prestazioni». L’espressione indica quell’insieme di attività e servizi che, pur nell’ambito di un Paese regionalizzato, dovrebbe essere ovunque erogato uniformemente.

Lo schema retrostante è semplice – forse semplicistico – ma chiaro: una volta fornite a tutti i cittadini le medesime prestazioni di base, secondo quanto stabilito nel dettaglio dalla legge del Parlamento (articolo 117 della Costituzione), spetterà poi a ciascuna regione decidere se fornirne ai propri cittadini di ulteriori e quali.

Quanto alle risorse necessarie a sostenerne i costi, la legislazione sul federalismo fiscale prevede che per ciascun Lep sia definito il «costo standard», in modo che dalla loro somma si possa poi ricavare l’ammontare della somma da assegnare a ciascuna regione: il cosiddetto «fabbisogno standard». Spetterà quindi alle regioni che vorranno erogare prestazioni ulteriori procurarsi autonomamente le risorse necessarie, grazie ai risparmi generati dall’efficienza amministrativa o all’introduzione di imposte aggiuntive.

Un quadro, insomma volto a differenziare, ma a partire da un nucleo di uguaglianza: per questo – affermano i paladini delle regioni – nessun pericolo potrà venire dal regionalismo differenziato. Peccato che il disegno di legge Calderoli smentisca sotto tutti i punti di vista tale rassicurante visione.

Anzitutto, il parlamento – vale a dire, l’organo che rappresenta tutti – è escluso dalla definizione dei Lep. E ciò non tanto perché il progetto Calderoli affida tale compito al governo tramite decreti legislativi. Quanto, piuttosto, perché i Lep saranno successivamente soggetti ad aggiornamenti periodici tramite decreti del presidente del Consiglio dei ministri (gli ormai famosi Dpcm) e, soprattutto, perché nell’attesa dei decreti legislativi è previsto che i Lep siano anticipati tramite Dpcm – o, se il premier dovesse ritardare, tramite intervento di un Commissario: come se definire il contenuto di un diritto equivalesse a realizzare un’infrastruttura! – la cui normativa «è fatta salva… alla data di entrata in vigore dei decreti legislativi».

In sintesi, i Lep saranno definiti con Dpcm, i decreti legislativi li recepiranno pro forma e potranno poi essere modificati con Dpcm: tutto nelle mani del governo.

Di seguito, il lavoro preparatorio compiuto dalla commissione Cassese incaricata di una prima ricognizione dei Lep risulta nel merito del tutto insoddisfacente. Come messo per iscritto dall’ex governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco (lettera alla commissione del 10 ottobre scorso), «le prestazioni qualificate come Lep effettivi … sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio».

Non diversa la valutazione fornita a inizio mese dall’Ufficio parlamentare di bilancio, per il quale ai Lep sono stati ricondotti, oltre alle prestazioni, procedure di selezione dei beneficiari, modalità di accesso e presa in carico, profili organizzativi e programmatori e numerosi altri elementi eterogenei. Nessuna definizione sostanziale del nucleo di uguaglianza a partire dal quale differenziarsi, dunque: con il risultato che la differenziazione non potrà che tradursi in (ulteriore) disuguaglianza. Più in radice, la verità è che ridurre i diritti ai Lep è – oltre che in molti casi impossibile – profondamente sbagliato, perché l’obiettivo dovrebbe essere la piena, e non l’essenziale, tutela dei diritti.

Infine, il meccanismo di finanziamento delle regioni che si differenzieranno previsto dal disegno di legge Calderoli è definito in modo tale da svincolare i Lep dai costi standard e affidare la determinazione delle risorse a un’apposita commissione paritetica tra lo Stato e la regione interessata. Dunque, in concreto: una commissione nominata per metà da Calderoli e per metà da Zaia, nel caso del Veneto; per metà da Calderoli e per metà da Bonaccini nel caso dell’Emilia Romagna; e via dicendo. Malizioso immaginare che a muovere gli orientamenti di tali organi sarà un’attitudine più attenta all’egoistica rivendicazione del residuo fiscale che alla solidaristica perequazione inter-regionale?

da “il Manifesto” del 18 febbraio 2024

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Autonomia differenziata. Il trucco dei Lep.-di Filippo Veltri

Oggi dunque nelle piazze e davanti le Prefetture scenderanno in strada sindaci e cittadini per una protesta si spera corale contro il disegno di legge Calderoli sulla cosiddetta autonomia differenziata.

Un DDL già approvato al Senato e prossimo alla Camera, che una vulgata non si capisce bene da chi orchestrata dipinge come un provvedimento che tanto non entrerà mai in attuazione, che non si farà mai, statevi tranquilli voi meridionali, i LEP (acronimo divenuto leggendario che pero’ in pochi sanno davvero cosa sia) non ci sono i soldi, è tutta una manovra politica, etc. etc. Insomma tranquillanti soporiferi diffusi a volontà per acquietare gli animi (peraltro nemmeno tanto bellicosi).

Nulla però di più falso e ingannevole.

Il problema non è l’autonomia in sé e la gente sarebbe bene che iniziasse a ragionarci sopra. C’è l’autonomia e va benissimo, c’è una legge di applicazione dell’articolo 119 della Costituzione, rispettiamola e andiamo avanti. La legge – infatti – prevede i famosi livelli essenziali delle prestazioni, quei LEP di cui sopra, ma questa autonomia prevista dal disegno di legge Calderoli è un trucco, di questo dobbiamo essere consapevoli.

Perché non è l’autonomia secondo Costituzione: è piuttosto la costituzionalizzazione della spesa storica, esattamente quello che la legge Calderoli del 2009, la 42, diceva di voler eliminare». «Ed è un trucco – spiega bene Adriano Giannola, presidente SVIMEZ – perché si dice che tutto quello che è legato ai Lep almeno per due anni non si tocca, perché non ci sono i soldi e non sono definiti’’.

Ma tutto il resto – questo il richiamo allarmatissimo del presidente Svimez – si tocca subito e questo poca gente lo ha capito. Non è la sanità, non è la scuola che il Nord ha già. Il resto sono le strade, le autostrade, gli aeroporti, la protezione civile, tutto ciò per cui non è specificata la necessità di rispettare i livelli essenziali delle prestazioni è infatti trasferibile oggi.

Per Giannola la conclusione è presto detta «quando passa alla Camera questo disegno di legge, si attivano subito le intese per tutta una serie di materie di cui oggi non si discute. E quando l’intesa va in Parlamento non potrà essere emendata, è una legge rafforzata che può essere accolta o bocciata e non c’è la possibilità di referendum.

Sono veramente preoccupato perché nessuno parla di ciò che c’è veramente dietro, si mette il carro davanti ai buoi perché i Lep non bloccano ma ritardano un pezzo che solo apparentemente è tutto. Invece il tutto viene subito messo in contrattazione e una volta raggiunta l’intesa se rispettiamo la categoria di legge rafforzata la situazione è inemendabile e irreversibile’’.

Fatta questa doverosa chiarezza sarebbe perciò giunta l’ora che si sveglino i cittadini, appresso ai sindaci che – seppure in ritardo, in grave ritardo – hanno capito l’antifona. Le manifestazioni di oggi a Catanzaro, Cosenza, Reggio, Vibo e Crotone hanno infatti un senso se accompagnate da una diffusa presa di coscienza che sin qui è mancata per colpa di partiti, sindacati e associazioni varie, tutti intenti a macinare grandi discussioni ma non a far capire nel concreto cosa si nascondeva dietro il disegno leghista.

O, peggio, a tracciare linee di distinzione tra opposizioni e maggioranze, destra o sinistra, aprendo la classica autostrada a quattro corsie a chi vuole invece distruggere il Paese. Speriamo che non sia troppo tardi.

da “il Quotidiano del Sud” del 13 febbraio 2024.
foto da “il Quotidiano del Sud”.

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Gentile Presidente
ho avuto modo di conoscerla e di apprezzare le sue capacità e un indubbio coraggio ad affrontare situazioni complesse (per usare un eufemismo) come quelle della sanità. Per questo sono rimasto stupito che lei non abbia protestato per la sottrazione di risorse alla nostra Regione, finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto, come ha fatto energicamente il presidente della Regione Sicilia, per altro del suo stesso partito.

Ma, questo taglio effettuato dal governo alle risorse regionali non è niente al confronto dei danni irreparabili che comporterà l’adozione della “autonomia differenziata”, che sta per essere approvata dal Parlamento. Infatti, sta per essere trasformato in legge l’esiziale progetto della Lega che spaccherà radicalmente il nostro paese. Quello che era il progetto originario di Bossi si sta realizzando dopo trent’anni. Me ne sono occupato in tempi non sospetti e ho dedicato un capitolo del volume “Lo sviluppo insostenibile “ (Liguori ed. 1994, oggi ristampato dalla casa ed. Città del sole) per quantificare i danni inflitti al Mezzogiorno dalla secessione fiscale del Nord.

Come scriveva negli anni ’80 il noto economista Paolo Sylos Labini, la spesa pubblica è il motore del Mezzogiorno, una variazione verso l’alto o il basso ha una immediata ripercussione sul reddito pro-capite, investimenti, occupazione. Non solo tra spesa pubblica e struttura socio economica del Mezzogiorno c’è una forte correlazione, ma gli effetti di una significativa variazione sono percepibili già in capo ad un triennio. Per questo possiamo prevedere l’impatto di breve e medio periodo della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero della “secessione del Nord”.

Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le sole regioni che hanno un surplus consistente tra le tasse che pagano e quello che ricevono dallo Stato, tutte le altre o sono in pareggio con piccoli scostamenti positivi (le regioni del Centro-Italia) o sono in deficit come la Liguria e tutte le regioni a Statuto Speciale, e naturalmente il Mezzogiorno con in testa la Calabria. Se la spesa per la sanità e la scuola dovesse essere regionalizzata le regioni in deficit si troverebbero nell’impossibilità di pagare gli attuali salari e stipendi e mantenere, contemporaneamente, l’occupazione in questi settori.

La coperta diventerebbe improvvisamente corta. Sicuramente ci sarebbe un blocco totale e di lungo periodo nel turn over, anzi verrà favorito il pensionamento anticipato, le tasse regionali portate al massimo, nuovi contratti con i sindacati su base regionale. Lo scontro sociale, il blocco delle attività sarebbe inevitabile e il caos regnerà sovrano. Quando l’autonomia differenziata sarà messa a regime, dopo un triennio le conseguenze sull’economia del Mezzogiorno, tenendo conto della correlazione della spesa pubblica con le altre variabili socio-economiche, possono essere così prefigurate: il reddito pro-capite subirà una caduta intorno al 12% , l tasso di disoccupazione arriverà sopra la soglia del 25%, gli investimenti subiranno un tracollo di quasi il 30%.

Possono apparire dati esagerati se non si conosce l’effetto a spirale, quello che Gunnar Myrdal, Nobel per l’economia, chiamava il principio di “causazione circolare”. Il delinking del Nord non avrà solo un impatto negativo su una gran parte del paese (non solo nel Mezzogiorno) ma porterà ad una frantumazione politica del nostro paese, ad una Unità fittizia in un territorio diviso in tanti statarelli.

Quello che meraviglia è come FdI, il partito della Nazione, possa accettare tutto questo in cambio di un presidenzialismo inseguito come un mantra dai tempi di Almirante. Diversamente Forza Italia, se non avesse la memoria corta, potrebbe rivendicare il fatto che il suo fondatore riuscì a bloccare strategicamente quella secessione del Nord che, all’inizio degli anni ’90, sembrava inarrestabile. I “patrioti” meridionali, per usare le categorie della presidente del Consiglio, debbono essere ricompensati così dopo aver dato il proprio sangue per liberare Trento e Trieste, dopo aver dato braccia e cervelli alla ricostruzione del Nord uscito a pezzi dalla seconda guerra mondiale.

Caro Presidente, Lei ha in questo momento una grande responsabilità: l’autonomia differenziata è la tomba della Calabria e segna la fine dell’Unità nazionale. Non si illuda che i Lep possano risolvere la questione, ci sono tanti modi per renderli inefficaci. Mi creda, non è una questione di appartenenza politica (anche il Pd ha il suo scheletro emiliano nell’armadio), ma di rivendicare il diritto ad una esistenza degna per le popolazioni meridionali, a partire da quella calabrese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2023

La Calabria ruminante e passiva.-di Filippo Veltri

La Calabria ruminante e passiva.-di Filippo Veltri

Ho aspettato un po’, forse troppo, per scrivere di una cosa che avevo
ascoltato in diretta sin dai primi d’agosto e che poi ho, più o meno
ritrovato identica ma su pagina scritta alcune settimane dopo: parlo
della pensata di Mimmo Cersosimo, docente dell’Unical (e non solo)
sulla Calabria.

Ho atteso perché mi sembrava (ed ancora oggi in parte mi sembra)
un quadro dipinto a tinte fosche, forse troppo fosche, con le tante
maglie nere collezionate dalla Calabria ma che poi alla fine disegna
uno sviluppo possibile.

I guai della sanità, il tasso di disoccupazione, i giovani che scelgono
di vivere e lavorare lontano dalla loro terra, la pressione della
criminalità organizzata. Una societa’ definita da
Cersosimo «ruminante, adattiva, ma soggetta ad una
modernizzazione passiva». In una parola «estrema».

Andiamo a rileggere il saggio scritto per il Mulino “Calabria, l’Italia
estrema“: Cersosimo si sofferma sui mali di una regione «dove la
somma delle patologie nazionali si raccolgono». E poi ci sono i soliti
stereotipi. La ‘ndrangheta genera altra ‘ndrangheta? «C’è una
narrazione negativa sulla Calabria: terra degli ultimi, maledetta, di
‘ndrangheta, di scansa fatiche, di illegalità, di evasione fiscale. Siamo
entrati in un meccanismo perverso dove se evadi quasi quasi ti
seguo, se tendi a sopraffare le idee altrui lo fanno anche gli altri,
quindi lo stereotipo alimenta lo stereotipo e alcune volte quando
succede la realtà si avvicina molto allo stereotipo».
Chi è, o chi sono, i colpevoli di questo inesorabile declino? «Le colpe
sono tante, soprattutto di alcune politiche. 

Il liberismo ha mortificato
e marginalizzato le aree più lontane dal centro», dice Cersosimo che
poi ammette: «anche i calabresi hanno le loro colpe, in qualche modo
si sono assuefatti adattandosi a questo status quo, c’è una sorta di
convenienza al non sviluppo, una convenienza sociale diffusa». Cosa
si può fare? «Si potrebbe fare molto, è difficile che le forze interne
riescano a risolvere e superare il problema. C’è bisogno di un
destabilizzatore esterno.Qualcuno che ha interesse a rompere questo
equilibrio, ad interrompere il sottosviluppo ma non siamo noi, deve
essere qualcuno esterno».

Ad esempio? Forse lo Stato o l’Europa, sicuramente noi non ce la
facciamo da soli». Magari gli studenti dell’Unical e delle altre
Università calabresi. «Da soli non ce la fanno, molti vanno via. I
migliori spesso tendono ad andare via, quindi c’è una sorta di exit, c’è
l’abbandono e molte energie sane – quelle che potrebbero contribuire
al cambiamento – mollano la Calabria e svanisce qualsiasi possibilità
di cambiare le cose».

La Calabria è dunque perduta? È destinata a
svuotarsi come indicano le proiezioni statistiche? Resterà lontana e
impenetrabile, nonostante la sua bellezza variopinta, che Leonida
Repaci descrisse a futura memoria? Continueremo, noi che ci
abitiamo, a ignorarne i dati e fatti crudi, a esorcizzarli, per esempio,
con il ricordo stucchevole e inattuale dell’antica scuola
pitagorica? Per quanto tempo potremo ancora sottovalutare le
storture e le risorse in ombra di questa regione? A chi gioverà
nascondere le nostre colpe, in perpetua malafede, dietro al mostro, al
mito della ’ndrangheta? Sono domande in cerca di risposte.

Alcune settimane fa di tutto ciò se ne è poi parlato all’Unical,
all’interno di un seminario proprio sul saggio di Cersosimo e
l’economista è andato ancora più giù: la Calabria ha un disperato
bisogno di «liberarsi dalle edulcorazioni retoriche: la tipicità senza
tipico, i borghi senza comunità, i paesi appesi sul mare senza acqua
nei rubinetti delle case, l’accoglienza senza ospedali umanizzati».
Conclusione: Cersosimo ha ragione nel quadro d’assieme.

Pessimista? Semplicemente realista? Ma il punto é ragionare su
come fare: dove può andare la Calabria con tali limitazioni? Non è
giunto il momento di dirci la verità, di svecchiare ad esempio – tanto
per dirne una – i reparti amministrativi, di reclutare risorse giovani, che
sono il leitmotiv di tanta retorica politica? Non c’è bisogno, nel settore
amministrativo pubblico della Calabria, nei Comuni e altrove, di
formazione adeguata ai tempi e di una capillare verifica dei risultati?
Cambierebbero le cose? Forse ma e’ l’unica strada.

Il resto sta nei calabresi stessi, se sapranno mettere in rete le cose
buone e respingere quelle cattive. Una botta di vitalita’ in un mare di
guai e’ quello che ci vorrebbe.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2023.
Foto: Salvatore Piermarini.

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

Chiarezza sull’autonomia differenziata.-di Filippo Veltri

“Attualmente esiste in media un divario di almeno mille euro pro capite per abitante tra Mezzogiorno e Centro-Nord nella spesa pubblica”. Così i dati dell’Agenzia per la Coesione fotografano il differenziale di spesa per il finanziamento dei servizi tra le due diverse aree del Paese.

Questa fonte smentisce la vulgata del Sud inondato di risorse ma conferma, invece, il contrario. E questi dati si riflettono in una minore spesa sia in conto capitale per investimenti che in spesa corrente. Si tratta di un divario di spesa in comparti essenziali: dall’istruzione alla sanità, ai trasporti pubblici e alla spesa sociale.

Quindi, il divario Nord-Sud in termini di servizi che tutti i cittadini vivono quotidianamente è dovuto, in parte, anche a sacche di inefficienza ma prevalentemente anche al fatto che al Sud dal momento che alcuni servizi non esistono, semplicemente non esistono neppure le risorse per erogarli. È il meccanismo della spesa storica: dove non ci sono servizi non c’è neanche la spesa ed è questo che ha comportato il grande divario.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato approvato in Consiglio dei ministri con ulteriori integrazioni rispetto alle prime bozze. Adesso si conferma la necessità di definire i Lep prima di procedere al trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni. Ma questo sarà un sufficiente strumento di garanzia? Questo rappresenterebbe una reale garanzia se alla definizione dei Lep facesse seguito anche un adeguato finanziamento.

Si tratta di una differenza sostanziale dal momento che la norma Calderoli ci dice che è sufficiente definire i Lep ma proprio alla luce del differenziale di servizio non basta stabilirli ma bisogna anche garantire le risorse per il loro finanziamento. Ciò vuol dire risorse aggiuntive prevalentemente per il sud, ma non solo, per erogare il servizio dove attualmente non c’è. In realtà, il problema viene aggirato e difatti rischiamo di avere una applicazione dell’autonomia anche in materie oggetto dei lep senza che i lep vengano finanziati.

Cosa potrebbe infatti avvenire nel caso in cui competenze come la sanità o la scuola venissero regionalizzate? Sono molti i rischi. In primo luogo, si rischia una frammentazione del Paese, una frammentazione delle politiche pubbliche ma c’è poi un tema di unità nazionale. Quando si impatta su materie quali l’istruzione che sono parte del nostro sentimento di unità nazionale si rischia di avere anche programmi diversi a livello territoriale. Addirittura nella proposta del Veneto si prevedeva che il personale della scuola fosse trasferito nei ruoli della Regione.

Si capisce bene che questo impatterebbe sia sulla mobilità sia sugli stipendi. Uno stesso insegnante in Veneto può guadagnare di più che in Calabria o in Campania facendo lo stesso lavoro. Oltre a ciò si indebolisce il principio di solidarietà nazionale perché con il trasferimento si bloccano le risorse e così avremo tre regioni il cui principale obiettivo è ridurre il loro contributo di solidarietà.

Restiamo in ambito scuola con un esempio. Nel nostro Paese ci sono due bambini, nati lo stesso anno. Una si chiama Carla e vive a Firenze, l’altro Fabio e vive a Napoli. Hanno entrambi dieci anni e frequentano la quinta elementare in una scuola della loro città. Ma mentre la bambina toscana, secondo i dati SVIMEZ, ha avuto garantita dallo stato 1226 ore di formazione; il bambino cresciuto a Napoli non ha avuto a disposizione la stessa offerta educativa, perché nel Mezzogiorno mancano infrastrutture e tempo pieno. Secondo la SVIMEZ, infatti, un bambino di Napoli, o che vive nel Mezzogiorno, frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del sud.

Poi ci sono i freddi numeri: secondo i dati SVIMEZ, nel Mezzogiorno, circa 650 mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200 mila (87%), in Sicilia 184 mila (88%), in Puglia 100 mila (65%), in Calabria 60 mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700 mila, il 46% del totale.

Ancora: per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, su base annua, di circa 200 ore.

Circa 550 mila allievi delle scuole primarie del Mezzogiorno (66% del totale) non frequentano inoltre scuole dotate di una palestra. Solo la Puglia presenta una buona dotazione di palestre, mentre registrano un netto ritardo la Campania (170 mila allievi privi del servizio, 73% del totale), la Sicilia (170 mila, 81%), la Calabria (65 mila, 83%).
Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado.

Parole e ulteriori commenti a questo punto non servono.

da “il Quotidiano del Sud” del 25 febbraio 2023

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

I gargarismi sulla sanità.-di Enzo Paolini

Occorrerebbe parlare con cognizione di causa e conoscenza dei problemi. Soprattutto in materie delicate che riguardano ogni giorno la vita dei cittadini. Come la Sanità.- Non è per fare polemica pregiudiziale e “ideologica” ma davvero c’è da chiedersi perché da più parti viene detto che le prestazioni offerte dal settore privato accreditato (cioè senza oneri per il cittadino) o non accreditato (cioè a pagamento) sarebbero, così, tout court, viziate, inaccettabili, sporche, perché inquinate dal fatto che il proprietario/gestore della struttura privata ne trae un guadagno.-

Si badi, non si dice che la prestazione resa dal privato non risponde agli standard di qualità o che è il frutto di una truffa o di un accordo fraudolento. No. E’ solo che “se l’obiettivo è il rispetto del diritto le prestazioni saranno di un tipo, se invece lo scopo è il profitto, le stesse prestazioni saranno di altra specie” (Ivan Cavicchi Il Manifesto 2 febbraio 2023).-

Traduzione: se si vuol fare profitto non si può rispettare il diritto. Il che la dice lunga sul rispetto del lavoro e sul pregiudizio ottuso che semina una affermazione del genere.-

E ancora: “sulle strutture private accreditate: a loro più che offrire prestazioni con il servizio sanitario nazionale conviene offrire prestazioni a pagamento” (Milena Gabanelli, Corsera 6 febbraio 2023). Qui è chiaro che si ignora come e perché sono le Regioni che impongono tetti insuperabili (peraltro in violazione delle Leggi dello Stato) che inibiscono alle strutture private accreditate di rendere “prestazioni con il servizio sanitario nazionale”.-

Questa ostilità inspiegabile verso chi – lavorando onestamente – rende un servizio pubblico traendone un giusto e lecito profitto, non agevola affatto la discussione che dovrebbe – deve – agitarsi lucidamente intorno al tema della cosiddetta “autonomia differenziata”. Questione che in realtà ne nasconde una enormemente più importante e delicata, cioè la tutela della Costituzione e dei diritti basilari di ogni cittadino di questo Paese.-
I primi guasti enormi sono stati provocati dalla sgangherata riforma del titolo V della costituzione con la regionalizzazione – tra l’altro – del servizio sanitario.

L’esigenza, sbandierata come “politica” ,di avvicinare il modo di prestare cure ed assistenze alle concrete e peculiari necessità dei territori e dei cittadini che li abitano era uno sbaglio prima che una bugia che oggi però presenta il suo conto in termini di inadeguatezza ed insufficienza.

In realtà rispondeva alla volontà predatoria di creare nuovi e più penetranti centri di potere e di formazione/ imposizione di consenso elettorale e di formazione di enormi ed incontrollati flussi finanziari senza alcun riguardo agli interessi dei cittadini che avrebbero meritato (avendolo pagato con le tasse) un sistema sanitario – e connessi circuiti di ricerca e produzione- in grado di fronteggiare qualsiasi emergenza. Ma la politica era più attenta alla nomina di direttori generali ed agli appalti truffa più che alla implementazione di un vero servizio universale e solidaristico per tutto il paese e per cittadini uguali indipendentemente dalla regione in cui si trovano.

La riflessione ci porta ancora più indietro a considerare che la tragica inadeguatezza strutturale che oggi constatiamo è figlia della subcultura politica della classe dirigente degli ultimi venti anni . Quella dei “ nominati” ,non più legati alla selezione dei partiti ed ai cittadini elettori ma alle agenzie di rating ed alla globalizzazione . E siccome tutte le matasse hanno un bandolo è quello che occorre cercare per poter capire. Il bandolo è la sciagurata revisione dell’art 81 della costituzione che nella nuova stesura impone il pareggio di bilancio .

Spacciata nel 2012 per una norma virtuosa era, in realtà, il mezzo per dichiarare recessivi rispetto ai mercati, alla logica iperliberista e “aziendalista”, i diritti fondamentali , quelli che i costituenti avevano previsti in Costituzione e dichiarati dovuti e pretendibili dai cittadini senza “ corrispettivo” – scuola ,ambiente e sanità per intenderci – perché assicurati a tutti ,indistintamente , mediante il prelievo fiscale proporzionale e progressivo (chi ha di più paga questi servizi anche per chi ha di meno).

Diritti “costosi”, ed infatti previsti a carico dello Stato, perché i “ricavi” da essi prodotti non sono iscrivibili in un bilancio aziendale quanto piuttosto, essendo fatti di cultura, senso della comunità, conoscenze, benessere, in un ideale ma ben percepibile, bilancio istituzionale e politico.

Ma la storia e’ che il parlamento totalmente impregnato degli interessi della grande finanza mondiale ed incapace di opporre ad essa la visione di un equo stato sociale, voto’ la modifica con una maggioranza tale da rendere impraticabile anche l’eventuale referendum confermativo.

Da quella revisione costituzionale discendono i tagli al fondo sanitario, i blocchi delle assunzioni , la politica dei budget e degli “ acquisti “ di prestazioni (terminologia orrenda che sta a significare che un burocrate nominato dal sottobosco politico stabilisce cosa serve ad una popolazione e cosa no e di cosa possono ammalarsi i cittadini per poter usufruire della assistenza dello stato, cioè di un loro diritto. La salute come azienda,appunto).

Da qui vengono i commissariamenti delle regioni in particolare al sud , oberate da debiti derivanti in parte dal fisiologico costo del servizio sanitario (ovvio, crescono le conoscenze e la tecnologia, aumenta la vita media, si scoprono e si praticano nuove cure, e dunque si incrementano i costi) ed in altra parte, la maggiore, dagli sprechi.
Ma i commissari non hanno fatto la lotta agli sprechi, neanche un centesimo è stato risparmiato in questo campo, sono stati invece imposti nuovi tagli ,nuove riduzioni di servizi e di diritti, è stata indotta l’emigrazione sanitaria a tutto beneficio delle Regioni del nord così da presentare (senza neanche riuscirci), bilanci migliori e indirizzati verso il pareggio.

Nessuno, a meno di voler essere smentito dalla esperienza diretta di ciascuno di noi ,può dire che si sia pensato ad un progetto di sistema sanitario complessivo. Si sono chiusi ospedali a casaccio ,si sono bloccate le assunzioni , non un centesimo per la prevenzione, per la medicina del territorio, per la rete emergenza/urgenza. Non ne parliamo della ricerca rimasta affidata a nicchie di volenterosi .

Noi lo scriviamo, lo diciamo, lo urliamo da anni, inascoltati, ma ora il re è nudo: il servizio sanitario non può essere regionalizzato perché la tutela della salute e’ un diritto fondamentale cui ha diritto ogni cittadino in maniera uguale a tutti gli altri. Neppur può soggiacere ai vincoli di spesa, quella giusta, necessaria, e per fortuna, sempre maggiore se si vuole, come si deve, assicurare sempre maggiore benessere e dunque efficienza, efficacia ai cittadini che così possono produrre merci, cultura, idee formazione e quindi,in ultima analisi sostenere la crescita, giusta ed equilibrata, del sistema paese.

La vera grande opera pubblica che ci serve è questa: sostenere la scuola, tutelare l’ambiente ed il patrimonio culturale, assicurare un servizio sanitario efficace e moderno a tutti e nello stesso modo.

Gli sprechi, le truffe devono essere perseguiti con i dovuti mezzi specifici e non con i tagli lineari che falcidiano nella stessa misura spese improprie ( che vanno cancellate del tutto) ed eccellenze (che invece vanno sostenute con maggiori risorse). E men che meno con la spesa storica o con la storia dei Lep fissati dal Governo e non dal Parlamento e poi declinati in “intese” tra Regioni e Ministro. Non è così che si attua il ragionalismo costituzionale. Così si tradisce lo spirito e la lettera della Costituzione. Ripristinare semplicemente la Costituzione italiana garantendo i diritti fondamentali a tutti ed in maniera piena, è questo ciò di cui gli italiani hanno bisogno.

Roba per la Politica con la P maiuscola.

P.S.: Per fare in maniera seria questo tipo di riforme occorre una nuova assemblea costituente eletta con metodo proporzionale puro.

da “il Quotidiano del Sus” del 17 febbraio 2023

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il varo dell’autonomia differenziata, che speriamo incontri una serie di ostacoli negli step successivi, rischia di spaccare il nostro paese al di là di quello che oggi si possa immaginare. Infatti, se fosse applicata come chiedono le Regioni Lombardia, Veneto e, sia pure con qualche distinguo, l’Emila Romagna, provocherebbero in pochi anni una divaricazione salariale, prima nel settore pubblico e poi, per la caduta della domanda, nel settore privato peggiore delle gabbie salariali che c’erano negli anni ’50 del secolo scorso.

Cerchiamo di entrare nel merito, considerando i desiderata della Lega e ipotizzando che vengano attuati. Tra quello che le singole Regioni danno allo Stato con imposte, accise, ecc. e quello che ricevono si è creato nei decenni una divaricazione sempre più marcata. Tre Regioni, ovvero Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, hanno un budget negativo nei confronti dello Stato mentre le Regioni a Statuto Speciale- Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino A.A, Friuli V.G. fanno registrare un surplus, vale a dire che ricevono più di quello che danno. La Regioni del Centro Italia sono grosso modo in pareggio, il Piemonte ha un surplus marginale, mentre la Liguria presenta, unitamente a tutto il Mezzogiorno, un attivo considerevole.

Per la cronaca la regione che ha il surplus in percentuale maggiore è la Calabria, quanto per cambiare, che diventerebbe la regione più penalizzata dall’autonomia differenziata. Se i flussi di entrata ed uscita tra la popolazione calabrese e lo Stato andassero in pareggio il reddito pro-capite arriverebbe a perdere dopo tre anni circa il 30%. Questo comporterebbe in primo luogo una caduta dei salari reali dei dipendenti pubblici, salvo che il governo regionale, ipotesi non credibile, non riducesse drasticamente l’occupazione nella sanità, scuola, servizi sociali, ecc, per mantenere lo stesso livello dei salari reali con il Nord.

In media le regioni meridionali perderebbero tra il 15 e il 20 per cento del reddito pro-capite e di conseguenza dei livelli salariali. Come avverrebbe questo taglio ai salari? Semplicemente non adeguandoli all’inflazione nei prossimi anni, mentre nelle tre regioni del Nord più ricche si avrebbe più che un recupero dell’inflazione, rendendo nuovamente attraente l’impiego pubblico, come per altro avviene in Centro e Nord Europa.

E’ facile immaginare che, al di là delle proteste, una buona parte dei meridionali cercherebbe di trovare lavoro nelle aree più ricche del Nord, creando un problema di concorrenza nel mercato del lavoro. A questo problema la Lega Nord ci ha già pensato da tempo con varie proposte che finora erano state bocciate, ma che l’autonomia rende possibile. Per esempio, per entrare nella pubblica amministrazione di queste regioni del Nord, dalla scuola alla sanità agli enti locali, devi avere almeno cinque anni di residenza provata. Un deterrente che certamente susciterà non poche polemiche e proteste di piazza.

Dobbiamo prendere atto che l’autonomia differenziata se passasse nei termini proposti da Calderoli creerebbe una sorta di Linea Gotica che spacca il nostro paese in due. E il governatore Pd dell’Emilia Romagna ne è responsabile quanto i presidenti regionali della Lega.

Per fortuna i giochi non sono ancora fatti, ma il rischio è alto. Che fine faranno le cinque regioni a Statuto speciale che percepiscono un lauto surplus, tra entrate e uscite, da parte dello Stato? E la Liguria che rischia di perdere qualcosa come il 10 per cento del suo reddito continuerà a stare a guardare? E la Meloni, che dell’Unità d’Italia ne ha fatto sempre una bandiera, potrà tener fede al patto con la Lega, allo scambio del presidenzialismo con l’autonomia differenziata? Ma, soprattutto, i governatori del Sud, a qualunque partito appartengano, potranno permettersi di restare alla finestra guardando a questo scippo che metterebbe fine ad ogni sogno di riscatto del Mezzogiorno?

da “il Quotidiano del Sud” del 7 febbraio 2023

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale.-di Francesco Pallante Intervista a Gianfranco Viesti

Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?

È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?

In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?

L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è condotta dalla giunta regionale e dal governo, ma il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa, ma sarebbe assurdo che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non potesse esercitare poteri decisionali su una questione che investe l’interesse generale.

Tali dubbi procedurali potrebbero essere risolti da una legge di attuazione dell’articolo 116, comma 3 della Costituzione?

È quello che vorrebbe fare il governo con la proposta di legge Calderoli, per la quale il Parlamento può esprimere solo un indirizzo. Tuttavia, poiché l’intesa Stato-regione va approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può stabilire come quella legge dovrà essere approvata: fonti del diritto dotate di pari forza non possono prevalere l’una sull’altra. Solo una legge costituzionale, dotata di forza superiore, potrebbe vincolare la legge di approvazione dell’intesa.

Ma allora la proposta Calderoli non è vincolante nemmeno nella parte in cui stabilisce che prima dell’attribuzione delle nuove competenze alle regioni occorre approvare i livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti civili e sociali?

Esatto: le nuove competenze potrebbero comunque essere attribuite alle regioni anche senza i lep.

A proposito di lep: come e quando saranno individuati?
La legge di bilancio 2023 prevede i seguenti passaggi, da realizzarsi in un anno: (1) la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa) formula una prima ipotesi di lep; (2) la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico; (3) la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) e il Parlamento forniscono il loro parere; (4) il Presidente del Consiglio approva i lep con dPcm.

È una procedura costituzionalmente corretta?

No, la Costituzione attribuisce il compito di definire i lep al Parlamento in tutte le materie, invece lo farà il governo e solo in alcune materie. Inoltre, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che sarà il bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario (come dice la sentenza 275/2016 della Corte costituzionale).

Dai lep dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze?

No, tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione del residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere parte delle risorse versate al fisco. È una rivendicazione illogica, perché a pagare le tasse sono le persone (non le regioni) sulla base del loro reddito (non del luogo di residenza). Ed è incostituzionale, perché gli articoli 2 e 53 della Costituzione sanciscono la solidarietà economica e tributaria a livello nazionale.

Ma, allora, definire i lep a cosa serve?

Dai lep dovrebbe dipendere il livello minimo di finanziamento assegnato ugualmente a tutte le regioni, in modo che tutte possano offrire le medesime prestazioni di base. Ma c’è poco da illudersi: in sanità i lep già esistono e, tuttavia, l’ammontare del finanziamento e la qualità delle prestazioni sono tutt’altro che uniformi.

Quali regioni hanno sinora manifestato l’intenzione di avvalersi dell’autonomia differenziata?

Tutte le regioni ordinarie, tranne Abruzzo e Molise. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le più avanti nelle trattative con il governo, al punto da aver sottoscritto una bozza d’intesa.

Quali sono, secondo tali bozze d’intesa, le competenze che verranno attribuite alle tre regioni?

Sono competenze amplissime: il governo della sanità e della scuola; fondi integrativi per università e ricerca; la regionalizzazione dei musei; l’organizzazione della giustizia di pace; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale; il controllo di porti e aeroporti; la protezione civile; il ciclo dei rifiuti; le semplificazioni amministrative in edilizia; l’energia; ecc. Il Veneto vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, il reclutamento dei Vigili del Fuoco… L’Emilia-Romagna è più prudente, ma ugualmente incisiva: per esempio, non chiede il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Come fermare l’autonomia differenziata?

La via maestra sarebbe eliminare dalla Costituzione l’ipotesi stessa. Più realisticamente, si potrebbe modificare l’articolo 116, comma 3 della Costituzione, riducendo il numero di materie richiedibili dalle regioni, introducendo una clausola di supremazia statale e prevedendo la possibilità di referendum approvativo e abrogativo per la legge di recepimento dell’intesa (come propone il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale con una legge di iniziativa popolare che si può sottoscrivere qui). Al minimo, bisognerebbe valorizzare il principio che tutela l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e, dunque, ritenere incostituzionali le richieste regionali – come quelle di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – prive di una dimostrata esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.).

da “il Manifesto” del 4 febbraio 2023

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

La Calabria e il Mezzogiorno nel paese delle diseguaglianze.-di Tonino Perna

Lo scorso 7 novembre “Italia Oggi” ha pubblicato il Report sulla qualità della vita nelle provincie italiane, una ricerca condotta in partnership con l’Università La Sapienza di Roma. Precisiamo subito che i dati si riferiscono in gran parte al 2021 e la graduatoria finale è la media di ben 92 indicatori che spaziano dai servizi sociali ai reati, dalle criticità finanziarie al tempo libero, dal patrimonio al reddito, dall’inquinamento alla durata media della vita, dai tassi di immigrazione al tasso di disoccupazione, ecc. Ne abbiamo citato solo alcuni per la complessità della ricerca realizzata. Certamente la “qualità della vita” non è misurabile come non lo è la felicità. I testi sulla felicità percepita dai popoli mi hanno fatto sempre sorridere per l’assoluta ingenuità e presunzione di poter misurare ciò che non lo è, di voler comparare ciò che non è comparabile. Comunque, con tutti questi limiti, questa ricerca è preziosa, soprattutto se andiamo ad analizzare alcuni dati incontrovertibili.

Entrando nel merito diciamo subito che il quadro complessivo che ci viene presentato è l’immagine di un paese in cui le diseguaglianze sociali e territoriali crescono ancora. Su 107 province italiane 35 appartengono al Mezzogiorno e rappresentano circa il 34% della popolazione residente a livello nazionale, e circa il 30% della popolazione presente. La distanza tra questa parte del nostro paese e il centro-nord si è accentuata. Nella graduatoria finale nei primi 63 posti ci sono solo province del Centro Nord! Nelle ultime venti province ci sono solo quelle del Mezzogiorno ad esclusione delle province dell’Abruzzo, Molise, Basilicata e parzialmente della Sardegna. Quindi registriamo anche una divaricazione all’interno del Mezzogiorno, con alcune aree che tendono a stabilirsi su parametri più vicini al Centro Italia. Crotone, come ormai è noto, compare ancora una volta all’ultimo posto, mentre la provincia catanzarese si conferma la migliore della Calabria. Al di là delle divaricazioni nel reddito pro-capite quello che più colpisce è lo scarto in altri settori.

Colpisce in particolare lo scarto esistente per quanto riguarda la voce “istruzione e formazione”: nelle prime 68 province italiane non ce n’è una meridionale, ad eccezione di Cagliari e delle province abruzzesi e molisane. Tra le province calabresi spicca, come c’era da attendersi, la migliore performance per Cosenza, mentre si conferma all’ultimo posto Crotone e non se la passa tanto bene neanche Reggio Calabria (102°) pur avendo due Università e vari istituiti di formazione. Colpisce il quart’ultimo posto di Napoli che occupa gli ultimi posti per la partecipazione alla scuola dell’infanzia, per il possesso di almeno un titolo di scuola media superiore e persino per il possesso della laurea, pur godendo di una prestigiosa Università come la Federico II.

Rispetto al tasso di mortalità, su 1000 residenti, è stato nel 2021 leggermente più alto nel Centro Nord rispetto al Sud (probabilmente perché la pandemia ha colpito più quest’area), mentre rispetto alla speranza di vita alla nascita è nettamente migliore la condizione del Centro Nord rispetto al Mezzogiorno, con la sola eccezione di Cagliari. In sostanza chi oggi nasce a Firenze o Milano ha mediamente più di tre anni e mezzo di aspettativa di vita rispetto a chi nasce nella provincia di Napoli, Enna o Siracusa, ultima in classifica (un dato, a nostro modesto avviso, legato al grande inquinamento del polo petrolchimico di Augusta- Priolo). Una buona notizia per i catanzaresi e vibonesi: gli over 65 hanno una speranza di vita di quasi un anno superiore al resto delle altre province calabresi. Più complessa l’immagine che la ricerca ci presenta rispetto a quello che definisce “sistema salute”. Nei primi venti posti della graduatoria troviamo undici province meridionali, mentre negli ultimi venti posti sono solo cinque le province meridionali, malgrado l’esperienza ci dica il contrario.

È invece molto chiaro il quadro che emerge rispetto alla microcriminalità, che poi è quella che preoccupa di più la maggioranza della popolazione. Se prendiamo in considerazione i “furti in appartamento” nelle prime 20 province più colpite dal fenomeno, 19 appartengono al Centro Nord. Per avere un’idea della differenza basti confrontare i 413 furti in appartamento ogni centomila abitanti a Bologna contro i 51 a Nuoro e 80 a Reggio Calabria. Ugualmente alla voce “scippi e borseggi” troviamo che ad Enna sono 5 ogni centomila abitanti, a Crotone 9, mentre nella sonnacchiosa Firenze 410 e a Milano 467! Al contrario per i “furti d’auto” a Sondrio e Pordenone se ne registrano 5 mentre a Barletta si arriva a 567 ed a Napoli 482. Negli ultimi venti posti in classifica, ad eccezione di Monza-Brianza, sono tutte province meridionali quelle che sono colpite da questo reato. Più variegato è il quadro nazionale per quanto riguarda le “estorsioni” : nelle ultime venti province accanto a Foggia (la peggiore), Trapani, Catanzaro, Vibo, Napoli, troviamo Asti, Trieste, Rimini, Bologna. Ma, le prime 20 province meno colpite da questo reato sono tutte del Centro- Nord ad eccezione di Benevento e Chieti.

Nella voce “turismo e tempo libero” la divaricazione C-N e Mezzogiorno è palese. Alla voce “sale cinematografiche” (in crisi come sappiamo in tutta Italia), le prime 30 province sono tutte del Centro-Nord (ad eccezione di Nuoro e Matera), così come le “palestre” ne abbiamo 13 a Rimini ogni 100.000 ab. e 0,5 a Crotone, ugualmente per il mondo delle “associazioni” dove alle 50 di Firenze, 49 di Siena e 46 di Trieste fanno da contraltare le 2,8 di Crotone (ultima in classifica), le 3,5 di Avellino. Buona la posizione di Reggio Calabria con 11,7 associazioni ogni centomila ab. e di Cosenza con 9.1. Anche in questo caso le prime 34 province sono tutte del C-N. Anche per le “librerie” abbiamo una situazione simile: le prime 23 province sono del C-N (con l’eccezione della solita Sassari, città ormai appartenente più al Centro che al Sud) e la 24° è Catanzaro, un dato che ci fa ricordare quanto scriveva Guido Piovene a metà degli anni ’50 su questa città nel suo famoso “Viaggio in Italia”: <>.

Un dato incredibile che contrasta con gli stereotipi è quello che si riferisce alla presenza di “bar e caffè” in percentuale rispetto agli abitanti: nei primi venti posti troviamo le province del C-N (16 su 20, a partire da Sondrio !) , mentre in fondo alla graduatoria c’è Catania, insieme ad una sfilza di province meridionali che occupano gli ultimi dieci posti. L’immagine del meridionale seduto al bar che chiacchiera o gioca a carte viene rovesciata. Stesso quadro ci offre la tabella relativa ai “ristoranti”: Ai 200 di Aosta, prima in classifica, si contrappongono i 21 di Caltanissetta o i 27 di Catania (un dato sorprendente!), e tra le prime trenta province nella graduatoria solo tre sono meridionali, l’Aquila, Teramo e la solita Sassari.

Per ragioni di spazio non possiamo approfondire il noto divario economico, ma possiamo dire che si conferma la crescita di questa distanza e mostrare un dato che forse è più significativo di altri: la percentuale di immigrati rispetto alla popolazione. I primi quaranta posti sono occupati esclusivamente dalle province del C-N , con la netta prevalenza di città capoluogo di medie dimensioni, mentre gli ultimi 25 posti in graduatoria appartengono al Mezzogiorno: se a Pavia o Biella ci sono 44 immigrati ogni 1000 residenti, a Barletta sono 10, a Bari 17, come a Crotone e Reggio Calabria.
Al di là dei dati relativi al mercato del lavoro, credo che questo sia un indice che meglio di ogni altro testimonia della diseguaglianza territoriale: i flussi migratori vanno dove c’è il lavoro e indirettamente ci danno una misura delle divaricazioni territoriali.

Infine, una nota positiva per alleggerire il quadro del Mezzogiorno. Malgrado i suoi tanti problemi sul piano socio-economico, i meridionali amano di più la vita del resto degli italiani: il tasso di suicidi è nettamente più basso nel Mezzogiorno rispetto al Centro Nord (con la sola eccezione di Genova, chissà perché?). Per avere un’idea: se a Napoli registriamo 2 suicidi ogni 100mila abitanti, a Bolzano sono 10, ad Aosta 12, e a Biella (ultima) arrivano a 15.
Non possiamo esimerci da una considerazione finale. L’Italia, come emerge da questa ricerca, è un paese complesso, articolato, dove non sempre la linea di demarcazione è quella Centro Nord –Mezzogiorno.

Anche all’interno dell’area meridionale ci sono delle differenze significative, ma nel complesso rimane intatta la “questione meridionale” , nell’accezione storica di questa categoria. Ovvero, rimane una distanza pesante e crescente nella formazione/istruzione, nei servizi sociali, nella domanda di lavoro, nella spesa per la cultura e il cosiddetto “tempo libero”. Se dovesse passare la “autonomia differenziata” reclamata dalla Lega, che si fonda sulla spesa storica nella pubblica amministrazione, questo divario verrà cementificato e non ci saranno più speranze per una unificazione del nostro paese. Che non significa che dobbiamo avere tutti lo stesso reddito pro-capite, ma i livelli essenziali di assistenza, le occasioni per istruirsi e formarsi, la spesa per la cultura, ecc. insomma gli stessi diritti di cittadinanza. Niente di più e niente di meno.

da “il Quotidiano del Sud” dell’11 novembre 2022

Lo spirito Fabiofazico.-di Filippomaria Pontani

Lo spirito Fabiofazico.-di Filippomaria Pontani

“Grande sovrana è la parola: minuta e invisibile, essa compie azioni assolutamente

divine”. Forse memore del detto del sofista Gorgia di Lentini (V secolo a.C.),

e sensibile a quelle che ravvisa come le “ferite del nostro linguaggio”, Gianrico Carofiglio

rimanda in libreria, aggiornandolo, un volumetto feltrinelliano

del 2010, ora “La (nuova) manomissione delle parole”.

L’autore non è solo uno dei nostri scrittori più popolari, ma anche un ex deputato

e uno dei “saggi” che coordinano le “agorà democratiche ” tese a rinnovare

il lessico e l’agenda della politica italiana (mozione pedante: uno dei

tanti esperti pugliesi di cose antiche potrebbe ricordare la prima declinazione

e restaurare il plurale corretto che è agorài ?). Una voce dunque quanto mai

autorevole per demistificare la corrupta eloquentia del discorso pubblico.

Carofiglio ha in verità poco di nuovo da dire: il libro, denso di riferimenti

e corredato da 30 pagine di note erudite a cura di Margherita Losacco, è

sostanzialmente un “gioco personalissimo”(p. 107) che saccheggia e assimila

alcuni autori classici e altri libri di scrittori “da festival” (Belpoliti sulla vergogna,

Nussbaum sull’etica, Harari sull’homo deus, Müller sul populismo,

Canfora sulla democrazia…). Nel proclamare a più riprese la necessità della

“ribellione” (non si sa bene a cosa), l’autore finisce per inanellare una serie di

citazioni che più midcult non si può: Bob Dylan e l’Attimo fuggente, don Milani

e i discorsi di Obama, Bartleby lo scrivano e Primo Levi. Il tutto farcito da

qualche facile etimologia greca e qualche riferimento a Tucidide o Sallustio,

che hanno almeno (siamo il Paese di Andrea Marcolongo!) il pregio di essere

precisi.

Rispetto alla prima edizione, dominata dall’indignazione per le giravolte

leguleie e le intemperanze verbali ed etiche di Silvio Berlusconi, l’obiettivo è

in parte cambiato: sussistono, certo, sezioni sul lodo Alfano o sulle leggi ad

personam, ma ora si constata (p. 36) che “sia Berlusconi che Bossi… utilizzavano

un lessico nonostante tutto pertinente alla sfera politica” (e alle sfere

senz’altro pertengono il celoduro e la patonza). Mentre l’abisso, signora mia,

si è toccato con il turpiloquio di Beppe Grillo e con il populismo dei Cinque

Stelle, quelli che nel loro delirio eversivo pensavano di essere “l’unico argine

alla violenza” (“se va male questo movimento, che è l’unico pacifico, è finita”

disse Grillo anni fa: ed ecco infatti che come i 5Stelle arretrano ci troviamo la

Meloni al 20%, precisamente come Le Pen e Zemmour, l’AfD, Vox, Alba Dorata;

ma Carofiglio non registra manomissioni verbali da parte della destra

estrema). Uno studio incrociato dei discorsi di Bossi, Berlusconi e Grillo ha

mostrato che tra le 20 parole “esclusive” del comico genovese (non usate cioè

dagli altri due) ricorrono “cazzo”, “culo” e “merda” – o forse il problema sta

negli altri lemmi, ancor più ostici alla pruderiedei benpensanti dimentichi di

Aristofane (“inceneritore”, “pregiudicato”, “cemento”, “Tav ”,

“bocconiano”…)?

Verso la fine di questo campionario di spirito faziofabico, di questa santa messa

di rito gruberiano, Carofiglio ostende ‘en entier’ il celebre articolo di Antonio

Gramsci Odio gli indifferenti (1917), per argomentare la necessità di prendere

posizione, perché (p. 95) “la scelta è un atto di coraggio e di allegria; di responsabilità e di

intelligenza; di rivolta e di scoperta”. Evviva. C’è da chiedersi se l’autore abbia

letto gli articoli che Gramsci pubblicava sull’Avanti! negli stessi mesi del ’17,

in cui i rivali politici erano definiti “Stenterello”, “tafano inconcludente”,

“abiezione lurida”, “morto della vita sociale”, “re degli zingari”, “pagliaccio del pensiero”.

Inquietanti risvolti cripto-grillini (o travaglieschi?) ante litteram.

Infine, lavorando sulla distorsione delle parole non si può non citare 1984

di Orwell, e Carofiglio lo fa a più riprese (pp. 24, 71 etc.). Ma a chi, pur allergico

al turpiloquio, non ritenga né che la Neolingua totalitaria s’incarni nelle sparate

di Grillo né che cammini sulle gambe di Spadafora, Appendino e Patuanelli,

consiglierei di investire i suoi 15 euro in un altro volumetto meno

pubblicizzato in tv ma senz’altro più originale: le Contronarrazioni dell ’Officina dei Saperi

(a cura di Tiziana Drago ed Enzo Scandurra, Castelvecchi 2021) raccolgono una serie di

microsaggi che mettono a tema alcuni slogan

ormai diventati luoghi comuni (questa sì, una vera neolingua che trasforma

dolosamente il nostro modo di pensare) e in poche mosse ne mostrano l’in –

consistenza, li demistificano, li perculano. “Prima i meritevoli”, “le grandi

opere aiutano lo sviluppo”, “la crescita illimitata è irrinunciabile”, “la tutela

del paesaggio impedisce lo sviluppo economico”, “aiutiamoli a casa loro”, “au –

tonomo è bello”: tutte parole d’ordine di quell’ideologia neoliberista che ha

permeato di sé anche la lingua e la prassi di certa sinistra, assurgendo a inopinata

koinè financo in larghi settori del partito di Carofiglio (il quale, sia

detto per chiarezza, è un colto galantuomo e non ne è mai stato alfiere in

prima persona).

Certo, non tutte le analisi raccolte da Drago e Scandurra (essi pure severi

coi Cinque Stelle, ma per le loro promesse tradite) saranno condivise da tutti

i lettori: esse però, anche quando giudicate troppo “radicali ”, getteranno semi

utili a chiunque voglia acquisire una prospettiva critica (o semplicemente sia

aperto a qualche sospetto) circa le smart cities e il Bosco Verticale, il project

financing e la “sostenibilità”, la digitalizzazione forzata e la performance, la

meritocrazia e la didattica a distanza, il portfolio di competenze e il problem

solving. Le Contronarrazioni servono a orientare il dibattito linguistico sulla

base non di colti riboboli o di ovvi manifesti, ma di esperienze precise di cosa

implichi, nella vita quotidiana, il cedere alla retorica dominante, e di come si

possa ricucire una lingua sincera, sfuggendo all’ipocrisia.

“Scrivere è essere qui” conclude Carofiglio citando Nadine Gordimer, e il

“qui” è il mondo immateriale dell’intellettuale pensoso. “Il varco è qui” si

chiudono le Contronarrazioni citando Montale, e il “qui”è l’aula deserta della

III C, e i suoi ragazzi che aspettano di leggere Dante.

da “il Fatto Quotidiano” dell’11 dicembre 2021

Perché siamo solidali con Mimmo Lucano, il fuorilegge.-di Gaetano Lamanna

Perché siamo solidali con Mimmo Lucano, il fuorilegge.-di Gaetano Lamanna

Trattato come un delinquente. Prima del processo aveva subito un provvedimento di allontanamento da Riace. Non poteva rientrare nel suo paese nemmeno per fare visita al padre vecchio e malato. Considerato peggio di un mafioso. Si dà il caso, però, che Mimmo Lucano non sia un mafioso, ma un cittadino onesto, buono e generoso. Una testa dura, come tante in Calabria. Ci troviamo di fronte ad una contraddizione clamorosa tra legge e giustizia. Non sempre la legge va d’accordo con la giustizia. Spesso per fare o avere giustizia si deve cambiare una legge. È stato fatto tante volte. Ma è un processo lungo e laborioso. Richiede a volte battaglie, movimenti, petizioni popolari, referendum, prima che il parlamento si decida a cambiare una legge ingiusta o a promuovere dei diritti.

È stato così per lo Statuto dei lavoratori. È così per lo ius soli. È stato così per il delitto d’onore, per l’aborto, per il divorzio, e tanti altri esempi si potrebbero fare. Il diritto, che sta alla base della legge, si evolve, segue la storia, si aggiorna in base ai mutamenti storici e politici. Al tempo dei greci e dei romani, la schiavitù non era illegale. Nel medioevo i privilegi feudali e la servitù della gleba erano legali. Il diritto non è neutro.

Il più delle volte si limita a codificare norme, convenzioni, costumi, già in uso. Trasforma in legge lo status quo. In genere prende atto dei rapporti di potere. Con la rivoluzione francese la borghesia nascente rovescia il vecchio mondo feudale, plasmato a misura dell’aristocrazia, stretto da vincoli, privilegi e regole che impedivano l’accumulazione del capitale, il libero mercato e lo sviluppo industriale. Per andare a tempi più recenti, durante i governi a guida Berlusconi abbiamo visto anche leggi ad personam, reati declassati o spariti dal codice da un giorno all’altro.

Il diritto, dunque, è stato sempre modellato sulla base degli interessi della/e classe/i al potere. È la storia. Fuori della storia e del buon senso sono i giudici di Locri. Per fare funzionare il modello Riace, un modello di accoglienza e di inclusione studiato in tutto il mondo, Mimmo Lucano ha dovuto infrangere leggi vecchie e inadeguate. Come quella, ad esempio, che non dà diritto ai bimbi che nascono e studiano in Italia di avere la cittadinanza. O come quella che nega la casa popolare, il diritto ad un alloggio agli immigrati regolari che sono residenti in Italia da meno di 10 anni. Mimmo Lucano si è inventato il lavoro, ha messo in movimento un’economia asfittica.

E per fare questo ha dovuto inventarsi perfino una moneta alternativa. Un modo che permettesse ai nuovi arrivati di vestirsi e di mangiare, fino a quando il ministero dell’Interno, guidato allora da Marco Minniti ( e poi da Salvini), non si fosse degnato di trasferire un po’ di soldi per pagare i fornitori. A Riace case, botteghe artigiane, negozi, avevano riaperto i battenti. Il paese si era ripopolato, ritornando a nuova vita, al contrario di tanti paesi morti della Calabria.
Ai coccodrilli che piangono per i borghi abbandonati, il sindaco di Riace aveva mostrato una via concreta per la rinascita.

Un’alternativa allo spopolamento e all’abbandono dei villaggi. Dopo la rottura del latifondo e la riforma agraria, la Calabria è entrata nella modernità pagando un prezzo altissimo in termini di emigrazione. Ha fornito braccia a buon mercato allo sviluppo industriale del Nord e dell’Europa. Ha distrutto un artigianato fiorente che non ha retto l’urto del mercato dei prodotti industriali. Anche molti che avevano beneficiato della riforma agraria hanno abbandonato le campagne per lo scarso sostegno pubblico, indirizzato soprattutto ad agevolare l’attività edilizia e commerciale, oltre che posti di lavoro nella pubblica amministrazione.

La Calabria diventa terra di consumo. Si sviluppa un’economia dipendente e funzionale alla crescita economica delle regioni centro-settentrionali. Con un ceto politico attento solo ad intercettare i flussi di spesa pubblica e a gestire affari e malaffari. In questo contesto non c’è posto per la Calabria dei villaggi, per le comunità rurali, collinari e montane.

Mimmo Lucano ci ha fatto intravedere (in una piccola realtà) un’alternativa possibile, un modo innovativo e solidale per far rinascere i nostri borghi. Scontrandosi con l’ottusità della burocrazia e con politici attenti al loro tornaconto personale. Nel frattempo, Marco Minniti, dopo avere avuto tutto (e di più) dal suo partito, si è seduto sul comodo treno della Fondazione Leonardo. Mimmo, invece, se l’è dovuta vedere con magistrati che invece di perseguire l’illegalità mafiosa hanno acceso i riflettori sui suoi reati. Commessi con la convinzione di fare del bene. Era l’unico modo per salvare vite, per fare andare avanti una vera integrazione, per sbloccare situazioni impigliate nei meandri della burocrazia e o ritardate da leggi inadeguate.

Mimmo Lucano è un «fuorilegge», ha agito in difformità di leggi ingiuste o sbagliate che non gli permettevano di agire a favore degli immigrati e degli abitanti di Riace. Non è certo un ladro o un criminale, come ce ne sono tanti anche in doppio petto. Questa condanna è una vergogna. Una grave ingiustizia. Chi non accetta le ingiustizie e si batte per il cambiamento non ha che schierarsi con lui, mostrando che non è solo e isolato, ma un punto di riferimento. Il voto del 3-4 ottobre è l’occasione. È il modo per esprimergli, non solo a parole, solidarietà.

da “il Manifesto” del 3 ottobre 2021

Usciamo dalle ideologie e usiamo il buon senso.-di Tonino Perna

Usciamo dalle ideologie e usiamo il buon senso.-di Tonino Perna

Stiamo assistendo da troppo tempo ad uno scontro ideologico, incarnato da diverse forze politiche, tra gli ultrà del vaccino e i No Vax , tra coloro che sostengono fideisticamente la comunità scientifica e quelli che credono che, dietro questa forsennata campagna vaccinale, ci siano solo sporchi interessi economici e il tentativo di controllarci e sottometterci tutti.

La testimonianza del collega Battista Sangineto, apparsa su questo quotidiano e ripresa a livello nazionale, mi ha fatto molto riflettere. Il professore Sangineto non è un no-vax, è un uomo di scienza, sia pure umanistica, che si era vaccinato convinto di essere ormai immune dal virus Covid 19. Purtroppo, non solo ha preso il virus in maniera pesante, ma lo ha contratto da un soggetto a sua volta vaccinato. E non è il primo caso. Cosa significa tutto questo? Procediamo con ordine.

Prima di tutto non è vero quello che ci è stato detto fin dall’inizio della pandemia da parte di insigni virologi: se ci vacciniamo al 70% otteniamo l’immunità di gregge (pessima espressione), ovvero spegniamo la diffusione del virus. Purtroppo, non è così: anche i vaccinati possono prendere il Covid e trasmetterlo. Unico dato che spinge ancora oggi a ritenere utile il vaccino è quello dei ricoveri: dai dati disponibili sembra che circa il 90 per cento dei nuovi ricoverati, dal mese di agosto, in terapia intensiva non era vaccinato. Pertanto, se ne può dedurre che il vaccino, mediamente, dovrebbe ridurre l’impatto letale del virus.

Finora questa è l’unica certezza a cui ci possiamo aggrappare, ma che non ci lascia tranquilli come testimonia il caso sopra citato. Il buon senso ci dice che conviene vaccinarsi, almeno per le classi di età più avanzate, ma che bisogna ugualmente non abbassare la guardia e mantenere tutte le misure precauzionali. Certo, non è piacevole continuare a usare la mascherina, a disinfettare continuamente le mani, a mantenere una distanza con persone che prima abbracciavamo e baciavamo, specie noi meridionali, senza problemi.

Bisognerebbe che i virologi divenuti star della Tv , che hanno creato tanta confusione e comunicata una immagine falsa della scienza, facessero un po’ di autocritica, dicessero quello che i veri scienziati sanno da sempre: non ci sono certezze, ma solo metodi di ricerca rigorosi e mai definitivi. Questa pandemia ci ha posto di fronte a sfide inedite, unitamente alla pressione formidabile delle forze economiche hanno premuto l’acceleratore per fare ripartire il dio Pil a tutti i costi. Così, in tempi eccezionalmente brevi, sono stati creati dei vaccini che sicuramente portano una riduzione della letalità, ma non risolvono il problema della diffusione del virus.

Pertanto, la battaglia contro gli untori, cioè contro quelli che non si vogliono vaccinare, rischia di essere una battaglia ideologica quanto è quella di coloro che rifiutano qualunque tipo di vaccino e vedono dovunque dei complotti dei poteri forti. Per onestà intellettuale, se è vero quanto abbiamo sostenuto, il famoso “green pass” non può essere imposto, anche se può essere promosso e sostenuto, ma dicendo la verità: non salva il tuo prossimo dall’essere infettato. E quindi non è un gesto di civiltà, ma di sano egoismo, perché chi si vaccina rischia meno di chi non lo fa.

Continuare a chiedere prudenza, distanziamento fisico (e non sociale), misure di prevenzione, è l’unica strada percorribile in attesa che terapie mediche più efficaci possano ridurre il danno di questa epidemia e derubricarla al limite di una normale influenza stagionale.

da “il Quotidiano del Sud” del 16 settembre 2021
Foto di cromaconceptovisual da Pixabay

La variante Delta non perdona neanche chi si è già vaccinato.-di Battista Sangineto

La variante Delta non perdona neanche chi si è già vaccinato.-di Battista Sangineto

L’atteggiamento permissivo del governo nazionale interessato solo alla crescita economica combinato all’inadeguatezza del collassato Sistema sanitario calabrese potrebbero produrre, di qui a breve, una nuova strage degli innocenti. A farne le spese saranno quei cittadini italiani e, soprattutto, quelli calabresi che contrarranno il Sars-CoV-2 da un “immunizzato” nonostante siano, come chi scrive, “immunizzati” anch’essi.

Sì, nonostante sia “immunizzato” con due dosi di vaccino a mRNA dalla fine di aprile 2021, appartenendo alla categoria “fragili”, chi scrive ha contratto il virus (con una carica virale altissima, 49 milioni di copie di virus per ml., pur avendo sviluppato in precedenza, grazie al vaccino, una buona quantità di anticorpi IgG anti-Covid-19: 833 per ml.) da un suo giovane familiare “immunizzato” da luglio 2021 con due dosi di vaccino a mRNA senza aver avuto con lui contatti diretti di alcun genere se non quelli che si hanno condividendo, senza mascherine, il desco all’aperto in due o tre occasioni.

Il laissez-faire neoliberista dell’élite che ci governa ha permesso, se non addirittura favorito, gli assembramenti estivi, l’affollamento dei lidi, delle strade, degli hotel, dei B§B, dei supermercati, dei bar e dei ristoranti al chiuso e all’aperto per un mero calcolo economicistico che ha fatto rimbalzare, com’era prevedibile, il Pil, ma l’élite non è stata per nulla attenta alla salute dei suoi cittadini che, grazie alla maggiore contagiosità della variante Delta, continuano a morire a decine, fra poco di nuovo a centinaia, in tutta la Penisola.

Lo stesso ‘distratto’ governo ha derogato riguardo ai parametri di chiusura delle Regioni lasciandole in “bianco” fino alla fine della stagione turistica nonostante che i reparti Covid, quelli normali e quelli di terapia intensiva, siano pieni da settimane, soprattutto in Calabria e nel Sud, come scrive da giorni questo giornale e come hanno confermato i medici del reparto nel quale lo scrivente è stato accolto martedì 31 agosto, dopo tre giorni trascorsi a casa con sintomi abbastanza severi: febbre superiore a 39 gradi, dispnea, emicrania, raucedine e tosse secca, mialgia e artralgia, ageusia e anosmia, sudorazione, spossatezza e disordini della pressione arteriosa.

Si deve pensare che il governo dell’élite non legga e non studi, se non ha nemmeno preso in considerazione il fatto che già il 28 luglio 2021 la dott.ssa Rochelle Walensky, direttore dei CDC americani (Centers for Disease Control and prevention), sulla base di un loro studio (Outbreak of SARS-CoV-2 Infections, Including COVID-19 Vaccine Breakthrough Infections, Associated with Large Public Gatherings — Barnstable County, Massachusetts, July 2021 | MMWR (cdc.gov)) aveva raccomandato l’obbligo delle mascherine al chiuso anche per gli “immunizzati” dicendo che: “Questa non è una decisione che abbiamo preso alla leggera.

La variante Delta si comporta in modo diverso dai ceppi passati nella sua capacità di diffondersi tra persone vaccinate e non vaccinate, da qui la scelta di procedere rivedendo alcune restrizioni” (https://www.washingtonpost.com/health/2021/07/27/cdc-masks-guidance-indoors/).
Ai principi di agosto, sulla base del succitato studio dei CDC, il consulente medico del presidente Biden, Anthony Fauci, ha imposto l’obbligo della mascherina al chiuso anche agli “immunizzati” perché la variante Delta del Sars-CoV-2 è in grado di diffondersi sia tra gli “immunizzati” sia tra i non vaccinati, con la stessa virulenza della varicella.

Fauci ha detto: “Ora abbiamo a che fare con un virus diverso che non è quello originario. La variante Delta ha capacità molto più efficienti nella trasmissione da persona a persona perché le nuove prove scientifiche in possesso dei CDC mostrano che il livello di infezione nelle mucose di una persona “immunizzata” è lo stesso di quello di un soggetto non vaccinato. Due mesi fa i CDC avevano detto che le persone vaccinate non dovevano indossare la mascherina al chiuso. Ora è cambiata una cosa: il virus” (https://www.cnbc.com/2021/07/21/delta-covid-variant-fauci-says-vaccinated-people-might-want-to-consider-wearing-masks-indoors-.html).

Così come lo studio dei CDC, anche secondo lo studio più recente di cui si dispone condotto dall’Università del Wisconsin-Madison (https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.07.31.21261387v4) e una ricerca condotta in Texas (https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.07.19.21260808v2), non sono state trovate differenze significative nella carica virale presente nelle cavità nasali tra persone vaccinate e non vaccinate.

Sulla base di tutti questi studi, la rivista scientifica “Nature” (n. 586, agosto 2021, pp. 327-328 https://www.nature.com/articles/d41586-021-02187-1) nel suo numero del 12 agosto 2021 arriva alla conclusione che, nonostante un ciclo vaccinale completo, una persona può comunque diffondere il virus ad altri non vaccinati o vaccinati. La vera questione, infatti, è capire se, e di quanto, la vaccinazione possa ridurre la probabilità di trasmissione e di contagio: nel caso della variante Delta, la risposta di cui disponiamo è che una certa riduzione della trasmissibilità può esserci, anche se troppo piccola per poterci permettere di allentare le misure di contenimento anti-contagio, pur ribadendo che il rischio di malattia grave o morte sia ridotto di 10 volte o più negli immunizzati rispetto ai non vaccinati.

In attesa che gli scienziati raccolgano dati più precisi e accurati una cosa è, però, certa: la doppia vaccinazione non giustifica di per sé l’abbandono delle misure di prevenzione del contagio, dall’uso dalla mascherina all’igiene delle mani fino al distanziamento.

In Italia, invece, il governo delle élites, senza aver apportato alcuna miglioria alle strutture e sovrastrutture esistenti, non solo vorrebbe far ritornare nei luoghi di lavoro tutti gli impiegati della pubblica amministrazione e decine di adulti e giovani insieme a scuola e nelle università, ma ha fatto dire, nella conferenza stampa del 2 settembre, al ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi:” Se in una classe sono tutti completamente vaccinati ci si potrà togliere la mascherina, per sorridere tutti insieme”. In questo modo, tornando a casa, giovani e adulti potranno infettare con letizia i loro cari, essendo la variante Delta del Sars-CoV-2 diffusa al 99,7% in Italia (comunicato stampa Istituto Superiore Sanità 42/2021: https://www.iss.it/cov19-cosa-fa-iss-varianti).

Al cinismo economicistico del governo si deve aggiungere, nel caso di chi scrive, la totale inadeguatezza della Sanità calabrese che, attraverso l’Asp, non è stata in grado di fornire alcuna assistenza: a distanza di più di 12 giorni dalla comunicazione fatta dal laboratorio privato che ha eseguito il tampone antigenico (la Regione di Spirlì non ha ritenuto di dare la possibilità di far praticare quello molecolare ai privati della provincia di Cosenza!), non si è ancora appalesata in nessuna forma, né per fare il tampone molecolare, né per prestare assistenza medica di alcun genere. Quale tipo di tracciamento o, meno che mai, di sequenziamento delle varianti e di misurazione della carica virale si può avere se l’Asp non garantisce nemmeno l’esecuzione di un solo tampone molecolare?

Le disastrose Asp calabresi non hanno ritenuto importante nemmeno informare i medici di famiglia che l’Ospedale di Cosenza è uno dei 199 in tutta Italia nei quali si sperimenta l’uso degli Anticorpi Monoclonali per i soggetti “fragili”?

I medici di base e le Usca (che nel caso di chi scrive non sono mai arrivate) non sono stati informati dall’Asp di Cosenza, per esempio, che basterebbe loro mandare una semplice mail all’indirizzo anticorpimonoclonali@aocs.it per far accedere, nelle prime 72/96 ore dal tampone positivo, il proprio paziente “fragile” infettato alla sperimentazione di questa cura del Sars-CoV-2 (https://www.fda.gov/media/149534/download)?

Una vera e propria cura che ha una percentuale di guarigioni senza ricovero vicina al 90% in tutti gli 8.434 casi affrontati dal 10 marzo al 3 settembre 2021(https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1475/report_n.22_monitoraggio_monoclonali_03.09.2021.pdf), nei quali è stata somministrata in Italia, di cui solo 153 in Calabria e un centinaio proprio a Cosenza.

Solo grazie all’amore, alla tenacia e alla competenza della moglie di chi scrive si è stati in grado di accedere a queste informazioni, prima, e alle dovute procedure mediche in Day Hospital, poi.

Grazie alla capacità organizzativa del dottor Francesco Cesario, ‘Covid manager’ dell’Annunziata, alla competenza e disponibilità delle dottoresse Vangeli e Greco e alle infermiere del reparto di “Malattie infettive” diretto dal dottor Mastroianni, lo scrivente, a dieci giorni dalla somministrazione degli anticorpi monoclonali, può dirsi fuori pericolo rispetto alla possibilità di sviluppare la malattia grave.

Per evitare di passare per un antiscientista o, peggio, per un no-vax, lo scrivente conclude affermando -perché è un vecchio illuminista e marxista- che se il contesto sociale e relazionale fosse meno sregolato e almeno il 90% delle persone fosse immunizzato, tutto questo, molto probabilmente, non sarebbe accaduto.

da “il Quotidiano del Sud” del 10 settembre 2021
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Regionalismo, luci e ombre.- di Gaetano Lamanna

Regionalismo, luci e ombre.- di Gaetano Lamanna

Regioni 50 anni di fallimenti scritto da Franco Ambrogio con Filippo Veltri (Rubbettino editore, 2021) è un libro di grande attualità. Ci offre l’occasione di discutere della crisi calabrese e delle sue origini. Una crisi strutturale, non solo economica e sociale, ma anche politica, istituzionale, morale, di classe dirigente. Ambrogio è lapidario: «si è realizzato un nuovo centralismo inefficiente». Argomenta che al centralismo di Roma si è aggiunto quello di Catanzaro. Inefficienza su inefficienza. E aggiunge: «La delega agli enti locali rimane nel cassetto […] La Regione non è stata strumento di allargamento e rafforzamento della democrazia».

Ce ne siamo accorti tutti in questi due anni di grave emergenza sanitaria. E ce ne accorgiamo ogni giorno, di fronte all’incendio dei nostri boschi, una delle tante declinazioni di un malgoverno che riguarda la gestione del territorio. Devastato prima tutto dall’incuria e dall’incapacità di poteri pubblici collusi con la criminalità mafiosa Chi governa la regione o ambisce a governarla è poi del tutto silente rispetto all’attuazione del Pnrr e alla vexata quaestio dell’autonomia differenziata, cioè rispetto a scelte politiche e istituzionali destinate ad avere un peso determinante sullo sviluppo economico, sull’evoluzione delle disuguaglianze sociali e territoriali, sull’assetto e la tenuta della democrazia.

Una cosa è certa. Dopo 50 anni, in Calabria pochi credono in un ruolo positivo, di cambiamento e di sviluppo, dell’ente regione. Il fatto che alle elezioni di due anni fa abbia votato meno del 45 per cento degli aventi diritto la dice lunga sui sentimenti dei calabresi verso questa istituzione. Concordo dunque pienamente con la valutazione degli autori sul fatto che l’esperienza regionalista ha indebolito le ragioni del meridionalismo. Dagli anni 80 in poi la propaganda leghista ha diffuso un’immagine delle regioni meridionali condannate all’inefficienza e all’assistenzialismo e perdute irrimediabilmente alla causa dello sviluppo.

C’è da dire che il senso comune, diffuso tra le popolazioni settentrionali, di un Sud come «palla al piede» è avvenuto anche per la cattiva prova degli amministratori regionali e per l’abbandono, da parte degli eredi del Pci e della Dc, di un pensiero politico che aveva proprio nel meridionalismo una delle sue radici più forti. La questione meridionale diventa un problema di «coesione sociale e territoriale», viene declassata a ritardi di sviluppo da recuperare facendo leva sulle «eccellenze». Come se alcune oasi felici potessero invertire la tendenza del deserto che avanza.

In linea col pensiero liberista dominante, il Pds e a seguire i Ds e il Pd abbandonano di fatto la tradizione meridionalista e abbracciano acriticamente la «questione settentrionale». Mi pare che questo mutamento d’approccio, culturale e politico, che ha molto influito sulla vita delle autonomie regionali, non risalti come avrebbe meritato, nella conversazione tra Ambrogio e Veltri. I divari e le disuguaglianze sociali e territoriali tra Nord e Sud, a 50 anni dall’istituzione delle Regioni, sono cresciuti per una politica con una forte impronta liberista, attenta al profitto d’impresa, che si è presa cura delle aree forti a scapito di quelle deboli. Tanto la «mano invisibile» del mercato avrebbe provveduto a mettere le cose a posto. Una convinzione miope, che stiamo pagando a caro prezzo e che non poteva non avere come conseguenza politica la famigerata «autonomia differenziata».

I limiti e le difficoltà del regionalismo nel Mezzogiorno andrebbero indagati, a mio avviso, anche in un’altra direzione. Ambrogio sottolinea giustamente che gli uffici regionali si sono gonfiati, in questi 50 anni, di personale poco qualificato (di norma), con assunzioni basate poco sul merito e molto, invece, sulla logica clientelare. Mano a mano che venivano trasferiti poteri e competenze statali alle Regioni, anziché emanare provvedimenti di delega agli enti locali, in Calabria e nelle altre regioni del Sud, si rafforzavano le funzioni gestionali, creando un corto circuito tra l’aumento delle cose da fare (e dei soldi da spendere) e la lentezza e l’inefficienza dell’apparato burocratico. Sta qui una delle cause principali dell’aumento del divario Nord-Sud, particolarmente marcato negli ultimi vent’anni. Sono peggiorati tutti gli indicatori riguardanti i servizi pubblici, la qualità della vita, gli investimenti produttivi e infrastrutturali. Per non parlare, degli sprechi, della corruzione, delle infiltrazioni mafiose.

Un po’ di storia ci aiuta a capire meglio alcune dinamiche politiche ed economiche. Prima dell’attuazione dell’ordinamento regionale, la gestione della cosa pubblica era essenzialmente garantita dai comuni, dalle province e dagli enti periferici dello Stato. Con una variante significativa nel Mezzogiorno, che è stata, dagli inizi degli anni ’50, la Cassa del Mezzogiorno. Il ricorso all’intervento “straordinario” ha segnato la vita e il funzionamento del sistema istituzionale e politico meridionale L’uniformità ordinamentale si piegava, nelle intenzioni del legislatore, all’esigenza di rispondere alla peculiarità economica, sociale e culturale delle regioni meridionali.

Al dualismo economico si accompagna, dunque, una sorta di dualismo istituzionale, che ha avuto un peso rilevante. Mentre nelle aree del Nord gli interventi erano regolati sulla base di una distinzione fondamentale tra obiettivi d’interesse nazionale e quelli di scala locale, in quelle del Sud, invece, soprattutto a partire dall’istituzione della Cassa del Mezzogiorno (1950), vi è la contestuale presenza di una pluralità di soggetti pubblici operanti nel medesimo ambito territoriale, e a volte nell’ambito delle stesse materie. Inoltre le risorse necessarie derivavano dalla finanza centrale e il loro controllo dipendeva essenzialmente dagli “enti speciali”.

Si è molto discusso se la Cassa del Mezzogiorno abbia o meno contribuito a ridurre il divario economico tra Nord e Sud. Non si è riflettuto abbastanza sul fatto che il gap ha interessato non solo la sfera economica, ma anche la struttura istituzionale, quella amministrativa e quella, da non sottovalutare, degli interessi privato-collettivi (imprese, sindacato, associazionismo). Il giudizio sostanzialmente positivo, oggi in voga, sull’intervento straordinario non tiene conto del fatto che questo modello di governo ha depotenziato di fatto l’amministrazione ordinaria. Ha contribuito a dequalificarne gli apparati, ha determinato la cronica inefficienza dei servizi, e anche il degrado politico e morale che avvolge il settore pubblico. Tutto questo è, in grande misura, il riflesso dell’intervento straordinario, da molti ancora invocato come panacea di tutti i mali.

L’amministrazione ordinaria, insomma, quella che nel resto del paese è preposta al governo regionale e locale, in Calabria ha perso autorevolezza ed efficienza. E’ relegata a un ruolo subordinato, di «ancella» esecutiva del sistema di potere politico-affaristico-mafioso. La lunga transizione dalla “straordinarietà” alla “ordinarietà” dell’intervento pubblico non si è ancora conclusa e rischia di riaprirsi con la gestione del Pnrr.

L’esperienza regionalista non è stata pari alle aspettative. Non ha determinato quel salto di qualità auspicato nella politica di programmazione e nell’efficienza ed efficacia dell’amministrazione. Non ha rappresentato il punto di svolta in un percorso di autonomia politica, progettuale e finanziaria per le diverse aree del Sud. E’ prevalsa una logica di sovrapposizione di competenze tra Stato e Regione che ha prodotto una crescita della spesa pubblica e improduttiva.

Per lunghi decenni, dal 1970 in poi, la finanza regionale, totalmente derivata dal centro, ha permesso una larga autonomia di spesa senza alcuna autonomia di entrata, generando una totale deresponsabilizzazione degli amministratori e degli apparati dirigenziali delle Regioni sia sul fronte del reperimento delle risorse finanziarie (garantite dai trasferimenti erariali e dai fondi strutturali europei) sia riguardo alla gestione oculata delle stesse. Per il Mezzogiorno e la Calabria, dunque, la Regione è stata un nuovo grande centro di spesa pubblica, che, per le sue caratteristiche, ha accentuato la tradizionale “dipendenza” economica.

Lo strutturale “ritardo di sviluppo” è il frutto della crisi politica e istituzionale. La regressione culturale, il degrado della vita pubblica, l’avanzata incessante della criminalità mafiosa trovano una spiegazione nel ruolo “minimo” dei partiti, in quello che sono diventati.

Nel colloquio di Franco Ambrogio con Filippo Veltri ci sono molte verità e sono presenti molte critiche. Ma, accanto ad alcune omissioni che ho segnalato, ho colto una certa reticenza politica. Se si vuole invertire la tendenza auto-distruttiva della sinistra bisogna affermare un’idea della politica non già come presidio della stanza dei bottoni e nemmeno solo come buona amministrazione, che dovrebbero essere sempre i presupposti di chi si occupa della cosa pubblica.

La politica è innanzitutto radicamento territoriale, conflitto sociale, capacità di leggere e interpretare problemi di uomini e donne, la vicinanza a chi ha più bisogno, l’impegno nel trovare risposte immediate e concrete senza mai smarrire la prospettiva del cambiamento. Sono queste le condizioni minime perché la sinistra riacquisti forza attrattiva e diventi perno della costruzione di un più largo campo democratico e progressista. Diventerebbe anche più semplice discutere del futuro da riservare alle Regioni.

da “il Quotidiano del Sud” del 31 agosto 2021