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E adesso cambiamo rotta: serve anche una politica di ‘accoglianza’.-di Tonino Perna

E adesso cambiamo rotta: serve anche una politica di ‘accoglianza’.-di Tonino Perna

La categoria della ‘restanza’; è ormai entrata nel linguaggio comune, un evento raro per una parola coniata in ambito scientifico, nella fattispecie dal noto e valente antropologo Vito Teti. In generale, quello che è il dibattito nelle scienze sociali rimane all’interno dell’accademia, mentre in questo caso la categoria della ‘restanza’; è stata rilanciata da più parti e, in particolare, dalla traduzione “sul campo” condotta da Giuseppe Smorto su questo giornale.

Attraverso una serie di storie, ben documentate, sono stati resi visibili e comprensibili gli sforzi, la passione, la costanza, l’amore per questa terra che sono racchiuse in questa categoria. Una operazione di grande valore culturale e politico, quella di Smorto, che cuce tante singole realtà in un vestito invisibile alla maggior parte della popolazione a cui vengono raccontate normalmente storie di cronaca nera, di corruzione, di invivibilità. Non che questa realtà triste della Calabria e del Mezzogiorno non esista, ma è corretto, oltre che giusto, andare a scoprire quello che il grande Karl Polanyi chiamava il “Contromovimento”.

Da una parte abbiamo una fuga di giovani come mai si era vista, dall’altra c’è chi resiste, chi ritorna, chi scommette coraggiosamente, chi lotta in condizioni proibitive, e tutti accumunati da questo sentimento che viene chiamato <>. Storie esemplari, importanti, generatrici di altre storie, per imitazione, gemmazione, testimonianza.

Purtroppo, se andiamo a dare un’occhiata ai dati sul gap demografico della Calabria, sulla perdita secca ogni anno di decine di migliaia di persone, tra emigrazioni e morti che superano le nuove nascite, dobbiamo prendere atto che non bastano queste scelte coraggiose di chi decide di rimanere o tornare in questa terra, ma servirebbe un flusso rilevante di immigrati ogni anno. E il fenomeno non riguarda solo noi: secondo l’Istat tra quindici anni in Italia il numero di persone in età lavorative diminuirà di 5,4 milioni di persone, con un impatto sul Pil, secondo il governatore della Banca d’Italia, di un – 13%.

E su questa nuova visione e prospettiva insiste il rettore della Bocconi, Francesco Billari, che ha pubblicato recentemente un saggio ( Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia . Egea, Milano , 2024) in cui sostiene con determinazione che se ci vogliamo salvare “ dovremmo gestire le sfide e le opportunità dell’immigrazione e dell’integrazione delle prime e seconde generazioni”. Il che non significa che non dobbiamo sforzarci di fermare la fuga dei nostri giovani laureati all’estero.

Si tratta di agire su un corpo che ha subito una profonda ferita: allo stesso tempo dobbiamo fermare l’emorragia (di giovani) e irrobustire il fisico con una cura ricostituente (immigrazione).

Lo sappiamo: non basta dire accogliamo, ma dobbiamo farlo con intelligenza e umanità. In primis, con strutture di formazione per i giovani immigrati che risponda alla domanda di lavoratori da parte di tanti settori della nostra economia, dall’industria, all’agricoltura, ai servizi, partendo da un serio e adeguato insegnamento della lingua italiana.
Tutto quello che non si fa nei centri di accoglienza, o lo si fa senza professionalità, con le dovute eccezioni. Su questo obiettivo convergono oggi in tanti, compreso Salvini che dichiara al Sole 24 ore: “Ci vogliono più immigrati, ma regolari”. Ma, come si creano flussi regolari se non si fanno dei piani seri di immigrazione e non si dà alle popolazioni che ambiscono di venire in Europa una prospettiva credibile.

Da una esperienza che ho fatto negli ultimi sette anni attraverso i corridoi umanitari dal Libano promossi dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e gestiti dall’Associazione Interculturale International House, ho capito una cosa che ritengo importante. Tante di queste persone che arrivano con i corridoi umanitari hanno aspettato mesi ed anni prima di poter partire, ma non hanno mai pensato di salire su un barcone perché avevano una chance, sia pure indefinita nel tempo. È solo quando non hai nessuna speranza di salvarti dall’inferno che rischi la vita.

Se vogliamo che il Mediterraneo finisca di essere quel cimitero liquido che è diventato da troppi anni, dobbiamo cambiare rotta e progettare seriamente una politica di accoglienza che si sposi con una speranza di vita migliore: una politica di accoglianza.

da “il Quotidiano del Sud” del 4 giugno 2024
Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

Eolico e solare sotto attacco. Regolare, non bloccare le rinnovabili.-di Tonino Perna

In tutta Italia sta emergendo una critica incessante e capillare alla diffusione delle energie rinnovabili, in particolare rispetto al solare e all’eolico. Paradossalmente, questa critica proviene in questo momento storico proprio da una parte significativa del mondo ambientalista. È come se persone impegnate da tanti anni in difesa dell’ambiente avessero dimenticato che dobbiamo uscire dalla dipendenza dalle fonti fossili che ancora rappresentano nel nostro Paese oltre la metà della produzione di energia, pari al 56 per cento del totale dell’energia prodotta.

Certo, l’Italia ha fatto passi da gigante negli ultimi quindici anni nel campo delle energie rinnovabili, soprattutto solare ed eolico. Ma, dobbiamo ancora avanzare nella sostituzione dei combustibili fossili, che vergognosamente ricevono notevoli contributi pubblici, anche per gli impegni presi a livello internazionale ed europeo.

Le critiche mosse da una parte del movimento ambientalista, da alcuni noti intellettuali, hanno un fondamento che non va sottovalutato. Questa crescita degli impianti eolici e solari è avvenuta molte volte senza un criterio, sfruttando incentivi e la mancanza di una pianificazione territoriale. Importanti estensioni di terreno sono state sottratte all’agricoltura per essere utilizzate da una miriade di pannelli solari.

Così come impianti eolici in località che hanno una particolare valenza paesaggistica sono stati installati senza tenerne conto. Va detto con chiarezza: non bisogna fermare la crescita degli impianti solari ed eolici, ma bisogna che questo sviluppo avvenga all’interno di una pianificazione sul piano regionale. I pannelli solari vanno messi sugli edifici, ad iniziare da quelli pubblici (scuole, ospedali, ecc.) e vanno collegati (questo è uno scandalo di cui poco si parla, frutto della sciatteria di alcuni enti locali, e di cui potrei fornire un vergognoso elenco).

Gli impianti eolici vanno impiantati dopo uno studio attento e possibilmente, là dove ci sono le condizioni, vanno messi off shore. Chi scrive, in qualità di presidente del Parco Nazionale Aspromonte promosse il primo parco eolico in Italia all’interno di una area protetta, dopo aver avuto il supporto delle principali associazioni ambientaliste, infischiandosene dei soliti Sgarbi, Ripa di Meana e compagnia blasé che nelle pale eoliche avevano visto i mulini a vento del Don Chisciotte della Mancia.

Infine, vanno moltiplicate le iniziative che vanno nella direzione del risparmio e della gestione migliore dell’energia da fonti rinnovabili come avviene con le “Comunità energetiche”, che andrebbero promosse dovunque come giustamente affermava su questo giornale l’ingegnere Piero Polimeri qualche giorno fa.

E veniamo al dibattito che si è sviluppato in Calabria nell’ultimo anno. Diversi interventi critici sull’avanzata degli impianti solari ed eolici hanno sottolineato il fatto che la Calabria consuma meno energia di quella che produce, e quindi non avrebbe senso continuare a installare impianti per le rinnovabili. Intanto va subito chiarito che questo surplus energetico è dovuto alla presenza della centrale termoelettrica di Rossano, senza la quale dovremmo importare energia dalle altre regioni.

Pertanto, se vogliamo essere veramente indipendenti dal petrolio dobbiamo aumentare la produzione di energia rinnovabile. Ma, soprattutto, ragionare in questo modo fa il paio con chi sostiene l’autonomia differenziata, ovvero guardare al proprio territorio fregandosene del contesto nazionale. Il Mezzogiorno nel suo complesso produce oggi oltre il 90% dell’energia eolica che viene messa in rete e intorno al 45% dell’energia solare. In una logica di autonomia differenziata si dovrebbe dire basta: non mettiamo più pale eoliche nel territorio meridionale.

Se invece superiamo la logica dell’egoismo territorialista allora possiamo far pesare questo grande contributo alla transizione green che sta dando il nostro Sud, rivendicando una logica nazionale anche per la sanità, la scuola, ecc. O siamo un Paese con obiettivi condivisi e camminiamo nella stessa direzione dando a tutti i cittadini gli stessi diritti fondamentali o ritorniamo agli statarelli già condannati dal “grande fiorentino”: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello”.

da “il Quotidiano del Sud” del 5 maggio 2024

Ecolandia è un bene comune, vietato calpestare i sogni.-di Tonino Perna Sabato sarà una festa

Ecolandia è un bene comune, vietato calpestare i sogni.-di Tonino Perna Sabato sarà una festa

È incredibile la quantità di mail, messaggi, telefonate che stanno arrivando alla squadra che gestisce il Parco Ecolandia. Tutti a chiedere “cosa possiamo fare” , “come possiamo renderci utili” , “contate su di noi”, singole persone e rappresentanti di più di un centinaio di associazioni. Per sabato prossimo abbiamo indetto una manifestazione dentro Ecolandia, sotto i cipressi, a qualche decina di metri dagli uffici amministrativi che, come fosse stata sganciata una bomba, sono stati totalmente cancellati, non solo con i beni, ma soprattutto con le memorie che contenevano più di dieci anni di lavoro.

In un tempo in cui sembra prevalere scetticismo e rassegnazione questa reazione ci fa capire che Ecolandia è divenuta negli anni quello che si definisce nelle scienze sociali come un ”bene comune”. Vale a dire un bene non solo fruito dalla collettività, ma anche vissuto come una parte della propria identità.

Il fatto che la solidarietà non si sia fermata ai soli cittadini reggini, ma sia arrivata da tante parti d’Italia ci fa capire che questo Parco rappresenta un simbolo per tutti coloro che amano la natura, che credono in un altro modello di società, che in Ecolandia hanno potuto ammirare le meraviglie dello Stretto, vivere delle serate indimenticabili nell’anfiteatro, percorrere le tappe del Laudato sì.

All’ingresso del Parco Ecolandia, quando è stato inaugurato, un giovane scout ha voluto scrivere su una tavola arcobaleno “È vietato calpestare i sogni”. E la realizzazione di questo parco tematico è stato un sogno che è partito nel lontano 1998. Chi scrive, in qualità di presidente del C.R.I.C., una Ong molto attiva in quegli anni, ideò e coordinò il progetto che vinse una gara all’interno del programma Urban della Ue, promosso da Gianni Pensabene, allora assessore della giunta di Italo Falcomatà.

In poco più di due anni il progetto fu realizzato, ma l’improvvisa scomparsa del sindaco più amato dalla città impedì l’inaugurazione. Purtroppo, dal 2002 al 2012 Ecolandia rimase chiusa, per inspiegabili motivi, e venne vandalizzata come è prassi normale per tutti i beni pubblici che rimangono incustoditi. Dal 2014 si è insediato il Consorzio Ecolandia, composto da una decina di associazioni, cooperative e imprese eticamente orientate, che ha vinto il bando comunale. Il Consorzio ha dovuto indebitarsi pesantemente per ricostruire, risanare, rimettere in funzione tutto quello che era stato devastato.

Grazie alla presenza di validi progettisti, di un team capace di idee innovative, ha vinto una decina di bandi europei con i quali ha potuto fare importanti investimenti e sperimentazioni in diversi campi: dalle energie rinnovabili, all’agricoltura sostenibile (a proposito è stata progettata una serra resiliente agli eventi estremi), al riuso dei copertoni dei camion e della polvere esausta degli estintori realizzando una pavimentazione che è stata brevettata, ecc.).

Tutto ciò è stato possibile anche grazie alla collaborazione con l’Università Mediterranea, con l’Unical, con il Polo Net, di cui Ecolandia è entrata a far parte, con il C.I.R.P.S. (Consorzio Interuniversitario per lo Sviluppo Sostenibile).

Ecolandia è tante cose, ma una in particolare è quella che la rende vitale, diversa ogni anno, ogni mese, ogni giorno. Sono gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, che la visitano in gruppi guidati da operatori del Parco competenti e appassionati.

È una gioia immensa vedere i bambini delle scuole elementari attraversare il Parco e ascoltare gli educatori, rispondendo a quella missione di didattica ambientale per cui è nato questo luogo. E poi ci sono le famiglie che nei giorni di festa hanno trovato uno spazio vivibile, godibile e non mercificato.
E tutto questo non ci possiamo permettere di perderlo.

Eraclito diceva che il fuoco è l’arché , il principio da cui sono generate tutte le cose, grazie al fatto che attraverso rarefazione e condensazione si trasforma nei restanti tre elementi: aria, acqua e terra. Ora che il fuoco ha fatto la sua parte potremo assistere alla rigenerazione di tutte le cose da cui è composto il Parco Ecolandia. È un nuovo inizio nel ciclo inesauribile della vita.

L’Africa nella società dello spettacolo.-di Tonino Perna

L’Africa nella società dello spettacolo.-di Tonino Perna

L “PIANO MATTEI” DI GIORGIA MELONI. Qualcuno potrebbe perfino dare atto alla presidente Meloni della sua determinazione nel convocare venticinque capi di stato e di governo africani, coinvolgendo anche i vertici della Ue. Finalmente, si potrebbe dire, l’Italia e l’Ue capiscono che non possono ignorare un Continente con il più alto tasso di crescita demografica del mondo, con i più bassi livelli di reddito, trafitto da guerre interminabili e che per giunta subisce, come poche altre aree al mondo, gli effetti perversi del mutamento climatico.

C’è da dire in realtà che l’attuale presidente del Consiglio ha capito come pochi leader politici che viviamo nella società dello spettacolo, come scrisse Guy Debord nel ’68, per cui non hanno importanza i contenuti ma conta solo la kermesse, la qualità e quantità della comunicazione di un evento. Usando un apparato retorico capace di comunicare con la maggioranza degli italiani che non conoscono le realtà africane se non attraverso luoghi comuni, la Meloni ha rispolverato categorie come la cooperazione e lo sviluppo, ormai obsolete per chi si occupa da decenni di questi temi.

Il primo messaggio falso è che la povertà dei paesi africani è dovuta alla mancanza di investimenti che generano il cosiddetto sviluppo. Se si vanno a osservare i 20 paesi in fondo alla classifica relativamente all’ ISU (Indice Sviluppo Umano) troviamo che per i due terzi si tratta di paesi che sono attraversati da conflitti interni, da guerre di lunga durata, da permanente instabilità politica, come emerge chiaramente dai Report Last Twenty 2022 e 2023. Se si continuano ad alimentare questi conflitti, che in diversi casi durano da decenni, parlare di investimenti e sviluppo è offendere l’intelligenza umana, e pure quella artificiale. Ma, in questa performance della Patriota parlare di armi e guerre è vietato.

Una seconda causa di impoverimento è legata all’indebitamento esterno che nell’Africa sub-sahariana ha raggiunto nel 2020 il 72% del Pil, di cui il 20 per cento è detenuto dalla Cina e il resto da Usa, Ue e Arabia Saudita/Emirati. Un rapporto debito/Pil più basso di quello europeo che si sta avvicinando al 90%, ma che per essere rifinanziato costringe i governi africani a pagare rendimenti altissimi sui titoli di Stato.

Una terza causa di impoverimento è lo scambio ineguale. Non sono mancati grandi investimenti in Africa negli ultimi venti anni, soprattutto da parte cinese, ma la forbice tra l’andamento dei prezzi delle materie prime e beni alimentari che vengono esportate dall’Africa e quello dei beni di consumo è aumentata. Soprattutto, nella catena del valore ai contadini e operai africani rimane una misera parte di quello che producono. Se non si interviene su questa struttura del commercio internazionale, come ci ha insegnato l’esperienza del fair trade, è fare demagogia parlando di sviluppo e cooperazione.

Infine, una buona notizia che viene volutamente taciuta: sono quasi 40 milioni di famiglie africane, vale a dire circa quattrocento milioni di persone, un terzo della popolazione africana, che sopravvive grazie alle rimesse dei migranti. Sono gli immigrati che con il loro sudore, rischiando la vita, facendo enormi sacrifici inviano mediamente 200 dollari/euro al mese nei paesi africani e, più in generale, nei Sud del mondo.

A livello globale, secondo la Banca Mondiale, si tratta di una cifra enorme: 626 miliardi nel 2022, di cui oltre 50 sono andati nell’Africa sub-sahariana. Insomma, sono gli africani che salvano l’Africa, mentre noi ci salviamo la coscienza con quello che chiamiamo “aiuto allo sviluppo”. Ma, quello che è grave e dove potremmo intervenire è sugli alti costi delle transazioni bancarie. In altri termini, per inviare il denaro alle proprie famiglie gli immigrati devono pagare una sorta di “pizzo” al sistema bancario internazionale. Si tratta in media di circa il 9% , ma i dati sono variabili, si può arrivare anche al 20 per cento di commissioni bancarie. Una vera e propria rapina su cui si dovrebbe intervenire.

Così come noi tutti dobbiamo prendere coscienza del fatto che la prima forma di cooperazione internazionale, la più efficace, è una buona accoglienza dei migranti, consentendogli di avere un lavoro dignitoso e legalmente retribuito, con cui possono sostenere direttamente, e meglio di tanti altri soggetti istituzionali, le loro famiglie.

da “il Manifesto” del 31 gennaio 2024

Sull’uccisione di Luca Attanasio il governo è latitante.-di Tonino Perna

Sull’uccisione di Luca Attanasio il governo è latitante.-di Tonino Perna

Il 22 febbraio del 2021 in un villaggio della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), ed esattamente nel Parco del Virunga, nella tormentata regione del Nord Kiwu, vennero uccisi l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Jacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo. A distanza di quasi tre anni oggi a Roma si terrà la quinta udienza che sarà determinante per la continuazione del processo che ha intentato la procura di Roma nei confronti di due funzionari del Pam (Programma Alimentare Mondiale): Rocco Leone, vice direttore, e Mansour Rwagaza (posizione poi stralciata perché irreperibile) che operavano nella Rdc quando è avvenuto l’agguato nei confronti dell’ambasciatore italiano.

Secondo l’accusa avrebbero omesso «per negligenza, imprudenza e imperizia…ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica» dei partecipanti alla missione. In effetti, risulta dagli atti che il nome dell’ambasciatore Attanasio, che partecipava al convoglio del Pam, sia stato derubricato il giorno prima della partenza per cui i caschi blu dell’Onu, che normalmente accompagnano questo tipo di missioni, non sono intervenuti come le altre volte in cui l’ambasciatore era andato in quest’area estremamente pericolosa.

La difesa del funzionario del Pam, di fatto l’agenzia delle Nazioni unite deputata ad affrontare le emergenze alimentari, ha invocato l’immunità per il vice direttore Rocco Leone, sostenendo che i funzionari Onu godono dell’immunità quando sono in missione. In realtà, esiste un elenco delle Nazioni unite per tutti i funzionari che godono dell’immunità che dovrebbe essere a conoscenza di tutti i Paesi che hanno sottoscritto l’Accordo. A quanto è finora emerso non risulterebbe il nome di Rocco Leone, anche se l’elenco sembra che non venga aggiornato da due anni. Certo è che questo dirigente era sull’auto dell’ambasciatore ed è uscito illeso dall’agguato, insieme agli altri dipendenti del Pam che facevano parte del convoglio.

Se oggi venisse accolta la tesi della difesa di Rocco Leone, basata sull’immunità del dirigente del Pam, si può ritenere definitivamente concluso l’iter processuale.

Ma, al di là dei cavilli giuridici c’è un fatto che ha una grande rilevanza politica: il dirigente del Pam avrebbe avuto tutto l’interesse a fare chiarezza sull’accaduto se non avesse niente da nascondere o giustificare. E proprio i massimi dirigenti di questa agenzia delle Nazioni unite, spesso sospettata di scarsa trasparenza nella gestione degli aiuti alimentari nelle aree di crisi, dovrebbero intervenire per riscattare la loro immagine e smontare ogni sospetto.

È noto, infatti, che sulla distribuzione dei beni alimentari in presenza di condizioni estreme della popolazione, si giocano lotte per il potere, forti pressioni e interferenze da parte dei governi locali per favorire una etnia piuttosto di un’altra, da parte delle organizzazioni criminali e movimenti politici armati. Nell’area dove è avvenuto l’agguato, al confine con il Rwanda, c’è la presenza di un coacervo di soggetti armati e di interessi che da anni hanno scatenato una guerra di lunga durata che ha causato 6milioni di morti in 25 anni per la rapina dei minerali preziosi. Una delle tante guerre dimenticate.

Ma, finora non era mai accaduto, da nessuna parte del mondo, che un ambasciatore italiano venisse ucciso in un agguato mentre era in missione. Il fatto grave è che il nostro governo non si sia costituito come parte civile al processo, mentre l’abbia fatto il Comune di Limbiate, dove è nato Luca Attanasio, e l’Associazione Vittime del Dovere. Possibile che la patriota presidente del Consiglio, che ha promosso il vertice Italia-Africa dei prossimi giorni, non abbia sentito il bisogno di difendere l’«onore della nostra Nazione» – per usare le sue categorie – per fare pressione sui massimi responsabili del Pam e sul governo della Repubblica Democratica del Congo perché si faccia vera luce su questa strage.

Non ci si può accontentare dell’ergastolo dato a sei congolesi come esecutori, mentre non si conoscono i nomi dei responsabili e dei mandanti. Come ha scritto Pierre Kabeza, sindacalista congolese residente in Italia, «cercare la verità sulla morte dell’ambasciatore italiano significa aprire uno spiraglio di luce sulla interminabile guerra nel Kiwu».

da “il Manifesto” del 24 gennaio 2024

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Caro Presidente, questa autonomia è la tomba della Calabria.-di Tonino Perna

Gentile Presidente
ho avuto modo di conoscerla e di apprezzare le sue capacità e un indubbio coraggio ad affrontare situazioni complesse (per usare un eufemismo) come quelle della sanità. Per questo sono rimasto stupito che lei non abbia protestato per la sottrazione di risorse alla nostra Regione, finalizzate alla costruzione del Ponte sullo Stretto, come ha fatto energicamente il presidente della Regione Sicilia, per altro del suo stesso partito.

Ma, questo taglio effettuato dal governo alle risorse regionali non è niente al confronto dei danni irreparabili che comporterà l’adozione della “autonomia differenziata”, che sta per essere approvata dal Parlamento. Infatti, sta per essere trasformato in legge l’esiziale progetto della Lega che spaccherà radicalmente il nostro paese. Quello che era il progetto originario di Bossi si sta realizzando dopo trent’anni. Me ne sono occupato in tempi non sospetti e ho dedicato un capitolo del volume “Lo sviluppo insostenibile “ (Liguori ed. 1994, oggi ristampato dalla casa ed. Città del sole) per quantificare i danni inflitti al Mezzogiorno dalla secessione fiscale del Nord.

Come scriveva negli anni ’80 il noto economista Paolo Sylos Labini, la spesa pubblica è il motore del Mezzogiorno, una variazione verso l’alto o il basso ha una immediata ripercussione sul reddito pro-capite, investimenti, occupazione. Non solo tra spesa pubblica e struttura socio economica del Mezzogiorno c’è una forte correlazione, ma gli effetti di una significativa variazione sono percepibili già in capo ad un triennio. Per questo possiamo prevedere l’impatto di breve e medio periodo della cosiddetta autonomia differenziata, ovvero della “secessione del Nord”.

Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono le sole regioni che hanno un surplus consistente tra le tasse che pagano e quello che ricevono dallo Stato, tutte le altre o sono in pareggio con piccoli scostamenti positivi (le regioni del Centro-Italia) o sono in deficit come la Liguria e tutte le regioni a Statuto Speciale, e naturalmente il Mezzogiorno con in testa la Calabria. Se la spesa per la sanità e la scuola dovesse essere regionalizzata le regioni in deficit si troverebbero nell’impossibilità di pagare gli attuali salari e stipendi e mantenere, contemporaneamente, l’occupazione in questi settori.

La coperta diventerebbe improvvisamente corta. Sicuramente ci sarebbe un blocco totale e di lungo periodo nel turn over, anzi verrà favorito il pensionamento anticipato, le tasse regionali portate al massimo, nuovi contratti con i sindacati su base regionale. Lo scontro sociale, il blocco delle attività sarebbe inevitabile e il caos regnerà sovrano. Quando l’autonomia differenziata sarà messa a regime, dopo un triennio le conseguenze sull’economia del Mezzogiorno, tenendo conto della correlazione della spesa pubblica con le altre variabili socio-economiche, possono essere così prefigurate: il reddito pro-capite subirà una caduta intorno al 12% , l tasso di disoccupazione arriverà sopra la soglia del 25%, gli investimenti subiranno un tracollo di quasi il 30%.

Possono apparire dati esagerati se non si conosce l’effetto a spirale, quello che Gunnar Myrdal, Nobel per l’economia, chiamava il principio di “causazione circolare”. Il delinking del Nord non avrà solo un impatto negativo su una gran parte del paese (non solo nel Mezzogiorno) ma porterà ad una frantumazione politica del nostro paese, ad una Unità fittizia in un territorio diviso in tanti statarelli.

Quello che meraviglia è come FdI, il partito della Nazione, possa accettare tutto questo in cambio di un presidenzialismo inseguito come un mantra dai tempi di Almirante. Diversamente Forza Italia, se non avesse la memoria corta, potrebbe rivendicare il fatto che il suo fondatore riuscì a bloccare strategicamente quella secessione del Nord che, all’inizio degli anni ’90, sembrava inarrestabile. I “patrioti” meridionali, per usare le categorie della presidente del Consiglio, debbono essere ricompensati così dopo aver dato il proprio sangue per liberare Trento e Trieste, dopo aver dato braccia e cervelli alla ricostruzione del Nord uscito a pezzi dalla seconda guerra mondiale.

Caro Presidente, Lei ha in questo momento una grande responsabilità: l’autonomia differenziata è la tomba della Calabria e segna la fine dell’Unità nazionale. Non si illuda che i Lep possano risolvere la questione, ci sono tanti modi per renderli inefficaci. Mi creda, non è una questione di appartenenza politica (anche il Pd ha il suo scheletro emiliano nell’armadio), ma di rivendicare il diritto ad una esistenza degna per le popolazioni meridionali, a partire da quella calabrese.

da “il Quotidiano del Sud” del 17 dicembre 2023

Il dibattito sull’eolico in Calabria.-di Tonino Perna

Il dibattito sull’eolico in Calabria.-di Tonino Perna

Il “Quotidiano del Sud” ha avviato un importante dibattito sull’uso dell’energia eolica che spero continui e coinvolga anche chi ha ruoli di governo del territorio. La questione delle energie rinnovabili è una cosa seria, ma spesso viene affrontata superficialmente e con categorie ideologiche. Tra i contributi più interessanti c’è stato quello del Prof. Ferdinando Laghi, consigliere regionale e vicepresidente dell’Associazione Medici per l’Ambiente. Il contributo di Ferdinando laghi è prezioso perché pone una questione di metodo.

Ogni fonte di energia, infatti, ha i suoi vantaggi e svantaggi rispetto all’ambiente e non va vista in assoluto ma relativamente ad altre fonti energetiche e al territorio che viene coinvolto. I pannelli solari, ad esempio, sono un’ottima fonte di energia rinnovabile, ma nessuno si sognerebbe di metterli sul Colosseo o sulla Cattedrale di Gerace o la Cattolica di Stilo. Invece, purtroppo, per sfruttare gli incentivi diverse imprese agricole li hanno impiantati su terreni agricoli togliendo spazio alla produzione di beni vitali per l’alimentazione umana ed animale.

Lo stesso approccio problematico, ma non preconcetto, bisogna avere rispetto alla installazione di pale eoliche, entrando nello specifico di singoli interventi. Intanto va ricordato che esistono pale eoliche di diverse dimensioni e forme, così come esistono condizioni climatiche che rendono antieconomica questa fonte (ad esempio nel Nord Italia) per la scarsa frequenza di venti con un minimo di intensità. Va quindi utilizzato, per un periodo congruo, un anemometro prima di installare una pala eolica. In secondo luogo va scelta con cura la localizzazione tenendo presente l’impatto acustico, i campi elettromagnetici, l’incidenza sul paesaggio, la vicinanza di insediamenti umani.

Chi scrive, quando era presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, ha promosso la prima installazione di un parco eolico in Calabria, costituendo una società denominata Eolo 21 con la partecipazione dei Comuni aspromontani interessati. Per scegliere la localizzazione sono stati consultati, fra gli altri, il WWF, la Lipu, la Facoltà di Ingegneria di Roma La Sapienza, e naturalmente l’amministrazione comunale coinvolta nella scelta. Abbiamo costituito una società a maggioranza pubblica affinché i Comuni, oltre ad essere protagonisti nella localizzazione di eventuali impianti eolici, ne traessero anche un maggior vantaggio economico rispetto a quanto normalmente offre il privato.

Infine, credo che vada fatta chiarezza sulla presunta autosufficienza energetica della Calabria. E’ vero che questa regione è esportatrice netta di energia ma lo fa grazie agli impianti termoelettrici presenti, mentre la produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico, eolico e solare) coprono circa i tre quarti del fabbisogno. Per arrivare all’autosufficienza energetica “pulita” e rendere veramente green questa regione dovremmo cominciare, come suggerisce Ferdinando Laghi, a spegnere progressivamente le centrali termoelettriche mentre aumentiamo la produzione di energia da fonti rinnovabili.

Facendola finita con inerzie e sprechi, a partire dal completamento di opere rimaste inspiegabilmente sospese, come le previste centrali idroelettriche che dovevano entrare in funzione collegandole alla diga sul Metramo e a quella sul Menta. Per non parlare delle Comunità energetiche che si stanno diffondendo in tutto il Nord Italia dove le condizioni climatiche non solo favorevoli e stentano a partire nella nostra regione. D’altra parte è noto il paradosso: ci sono più pannelli solari per abitante a Bolzano che a Reggio Calabria.

Se si puntasse seriamente ad una vera transizione energetica in Calabria, si potrebbe non solo vivere meglio con minore inquinamento, ma anche rivendicare a livello nazionale ed europeo questo contributo alla riduzione della CO2. Con un programma che utilizzasse veramente questa grande risorsa ci sarebbe una rilevante ricaduta in termini di lavoro qualificato, di riduzione della bolletta elettrica per famiglie e enti pubblici.
Cosa ci manca?

da “il Quotidiano del Sud” del 28 dicembre 2023.

Italia-Albania: una lunga storia che passa per la Calabria.-di Tonino Perna

Italia-Albania: una lunga storia che passa per la Calabria.-di Tonino Perna

Il recente accordo tra il governo italiano e albanese, per la gestione di una quota di immigrati che arrivano sulle coste italiane, sta suscitando molte polemiche sia in Albania che in Italia perché i rispettivi parlamenti non sono stati coinvolti. Da parte italiana è nota l’incapacità di gestire i flussi migratori malgrado ci sia una crescente domanda di lavoro insoddisfatta: secondo Confindustria mancano all’appello circa 300mila posti di lavoro che si vanno a sommare alla carenza di manodopera stagionale in agricoltura e nel turismo.

Basterebbe organizzare veri corsi di formazione, in accordo con le aziende, per trasformare quello che viene sbandierata come una “emergenza” in una opportunità per il nostro paese, che fa registrare da anni un pesante e crescente deficit demografico. Sull’altra sponda, il presidente Rama ha accettato questo accordo con la nostra premier motivandola, in primo luogo, come riconoscenza all’Italia che ha accolto negli anni ’90 gli albanesi che fuggivano dalla miseria (91-96) e dalla guerra civile (1997).

Per la verità sulla qualità di questa accoglienza ci sarebbe qualche dubbio. Val la pena ricordare che gli “invasori”, così furono definiti nell’estate del ’91, furono stipati nello stadio del Bari come fossero prigionieri politici. Ma, soprattutto, il Venerdì Santo del 1997, esattamente il 28 marzo, in piena guerra civile, che causò la morte di oltre mila albanesi, il governo italiano decretò il blocco navale con conseguenze tragiche: la nave Kader y Radesh , carica di donne e bambini, fu affondata dalla corvetta Sibilla della Marina militare italiana causando più di cento morti.

Che il presidente Rama parli di riconoscenza per giustificare l’accordo con il governo italiano per trasferire sul territorio albanese 36.000 immigrati l’anno, suona un po’ strano. Non solo per quanto sopradetto, ma anche perché si può parlare di reciprocità se l’Albania accogliesse dei profughi italiani e non i flussi migratori che provengono da altri paesi. La reciprocità, la vera riconoscenza, tra una parte d’Italia e l’Albania si è verificata nel XV secolo e ha lasciato segni visibili e duraturi, come dimostra il legame che esiste ancora oggi tra gli albanesi di Calabria, detti arbereshe, e il Paese delle Aquile.

Quando l’impero ottomano invase l’Illiria, come si chiamava un tempo, gli albanesi che riuscirono ad attraversare l’Adriatico con mezzi di fortuna, sbarcarono sulle coste pugliesi e furono accolti, in migliaia, dal Re di Napoli, Alfonso V di Aragona, per l’appoggio militare ricevuto da Scanderberg, quando era stato in difficoltà, sia per la rivolta dei baroni, sia perché attaccato dai turchi sulle coste pugliesi.

Come mi ha spiegato un caro amico albanese, Ilir Ghedeshi, direttore di un Centro di Ricerche Economiche e Sociali, la vera posta in gioco che ha determinato la firma dell’accordo è l’entrata dell’Albania in Europa. Il Presidente Rama ha bisogno dell’appoggio italiano per vincere la resistenza del governo greco che da sempre osteggia questa opportunità che è molto cara agli albanesi. Non si capisce, infatti, perché siano entrati altri paesi dell’est europeo che in passato erano in condizioni economiche e giuridiche messe peggio dell’Albania.

Un paese che ha mantenuto una stabilità monetaria anche quando altre valute fuori dall’euro crollavano, un paese dove vivono circa ventimila italiani , centinaia di imprenditori, che ha una forte integrazione economica con l’Italia nel settore dell’abbigliamento e delle calzature, che ha fatto registrare negli ultimi anni un vero e proprio boom turistico. Insomma, non si capisce perché Bruxelles rimandi continuamente la data dell’entrata dell’Albania nella Ue. Adesso sembra che anche il 2030, che era stato fissato per ufficializzare questo passaggio, possa saltare.

Al di là di questo poco presentabile accordo, l’impegno italiano per l’entrata dell’Albania nella Ue è un atto dovuto. Lo chiedono i 242.000 cittadini albanesi che hanno ottenuto la cittadinanza italiana, gli altri centocinquantamila regolarmente soggiornanti nel nostro paese, brillantemente inseriti nel nostro tessuto economico, sociale e culturale. E, a mio modesto avviso, dovrebbe chiederlo anche la Regione Calabria per i forti legami che ha con questo popolo, come testimonia fra l’altro la recente visita in Calabria del presidente albanese Bajram Begaj e il suo caloroso incontro con il presidente Occhiuto. La Regione non ha questi poteri ma una iniziativa in tal senso avrebbe un valore simbolico e politico da non sottovalutare.

L’integrazione europea dell’Albania è già avvenuta attraverso il nostro paese, si tratta di avere un po’ di coraggio e diplomazia per convincere il governo greco a togliere il veto, legato a storiche, e superabili, rivendicazioni territoriali.

da “il Quotidiano del Sud” del 12 novembre 2023

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Adesso è ora di dire basta con l’emergenza.-di Tonino Perna

Dopo un lungo periodo di siccità che ha colpito questo inverno il Nord Italia ecco arrivare bombe d’acqua, piogge intense che hanno provocato l’alluvione di una parte importante del territorio romagnolo con vittime e danni materiali ingenti. Ancora una volta, come da copione, la Regione Emilia Romagna chiederà lo stato di emergenza e inizierà la trattativa col governo per ottenere più risorse finanziarie possibili. Dopo aver seppellito le vittime di questa alluvione, aver sentito i soliti discorsi dai ministri di turno, tutto riprenderà come prima.

Ci domandiamo: si poteva prevedere questo ciclone che ha colpito così durante il territorio emiliano-romagnolo? No, con un sufficiente anticipo. Gli eventi estremi, come cicloni, tifoni, trombe d’aria, bombe d’acqua, tormente di neve o di vento, sono prevedibili, rispetto all’impatto di un determinato territorio, solo 24-48 ore prima che il fenomeno si verifichi. E mai con esattezza assoluta. Ecco perché alcune volte, come tutti abbiamo riscontrato, viene dichiarato, in una determinata città, l’allarme meteo arancione o rosso, chiuse le scuole, e poi l’evento si verifica magari a venti-trenta chilometri di distanza, o all’ultimo momento non si verifica proprio per un improvviso cambiamento della direzione dei venti.

Ma se non è prevedibile esattamente il giorno e l’ora in cui un determinato territorio verrà colpito da questi fenomeni è ormai noto che gli «eventi estremi» sono sempre più intensi e sempre più frequenti. E non abbiamo visto ancora niente. Saremo sempre più esposti di fronte a questi fenomeni traumatici che abbiamo provocato immettendo, in poco tempo, una quantità enorme di anidride carbonica che ha fatto saltare l’equilibrio atmosferico, secondo quanto sostenne il Nobel Prigogine per i gas in un sistema chiuso, quando solo un elemento cresce in maniera esponenziale, generando le cosiddette «fluttuazioni giganti». In altri termini siamo entrati in una fase caotica del meteo di cui dovremmo prendere coscienza e pensare ai rimedi possibili.

Ci sono per altro dei dati che parlano chiaro. Come per i territori a rischio sismico, così per le alluvioni abbiamo dei territori più esposti ed altri meno. I dati dell’Ispra sono eloquenti: l’Emilia Romagna è la regione con la percentuale più alta di territorio a rischio alluvioni, con la più alta percentuale di abitanti e di immobili ad alto rischio di essere travolti dalle alluvioni. Non si può dire che la Regione Emilia-Romagna non abbia fatto niente per curare questo territorio e prevenire le esondazioni, ma la normale amministrazione non basta più nell’era degli eventi estremi.

Occorre ripensare le città, i trasporti, la messa in sicurezza dei fiumi, la canalizzazione delle acque, approfittare dei periodi di siccità per allargare gli alvei e rafforzare gli argini, così come occorre munirsi di riserve d’acqua per i lunghi periodi di siccità. Insomma, si tratta di uscire dalla gestione ordinaria per sottoporre i territori ai cosiddetti “stress test”, ovvero a simulare l’impatto di eventi estremi per verificare la resilienza di una determinata zona, città o campagna. E questo vale per tutti, nessuno si può chiamare fuori.

Se invece continuiamo ad invocare, di volta in volta, l’emergenza, a non prendere atto che dobbiamo fare i conti con un cambiamento strutturale, ne usciremo con un territorio devastato. Tutto è diventato Emergenza. Un incremento dei flussi migratori è un’emergenza, la siccità prolungata è un’emergenza, la pioggia intensa è sempre un’emergenza, come la mancanza di case per gli studenti o la disoccupazione giovanile. Tra poco arriverà la stagione degli incendi e riempiranno le prime pagine dei giornali e saremo ancora una volta impreparati. Basta con queste emergenze inventate di fronte a fenomeni strutturali. La vera emergenza è questo governo che dovrebbe preoccuparci ed allarmarci seriamente.

da “il Manifesto” del 19 maggio 2023
Foto di Rafael Urdaneta Rojas da Pixabay

Il Pnrr per le armi. Verso la transizione bellica.-di Tonino Perna

Il Pnrr per le armi. Verso la transizione bellica.-di Tonino Perna

La decisione della Commissione Ue di utilizzare una parte dei fondi del Pnrr per finanziare l’industria bellica, per aumentare lo stock di munizioni, va preso seriamente in considerazione. Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno, così la giustifica: « Il Recovery Fund è stato specificatamente costruito per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza. Intervenire puntualmente per sostenere progetti industriali che vanno verso la resilienza, compresa la difesa, fa parte di questo terzo pilastro».

È interessante notare che la resilienza, categoria utilizzata finora prevalentemente nel mondo ecologista, ha significato la capacità degli individui di far fronte alle avversità riuscendone rafforzati. In particolare, nel Pnrr aveva finora un approccio che andava nella direzione di mitigazione degli «eventi estremi» con investimenti, dall’agricoltura all’urbanistica, che dovevano fare i conti con il mutamento climatico in atto. Si diceva e si scriveva che bisognava ripensare all’uso dell’acqua dato che dobbiamo fare i conti con lunghi periodi di siccità, così come ridisegnare le città con una maggiore presenza di verde per ridurre le emissioni di CO2. Grazie al commissario Breton apprendiamo che c’è una nuova accezione: la difesa militare fa parte della resilienza in quanto la guerra è diventato un evento naturale e permanente da cui bisogna difendersi.

La scelta di indirizzare gli investimenti in questa direzione non viene data come fatto eccezionale ma come risposta «resiliente» ad un mondo che ci minaccia.

Questa scelta di politica economica rende chiaro a tutti verso quale modello di sviluppo ci stiamo incamminando. La mitica crescita economica si basa sempre più sulla produzione di merci a «valore d’uso negativo» per l’uomo e per l’ambiente.

Se facessimo una contabilità qualitativa del Pil scopriremmo che una parte crescente di quella che chiamiamo ricchezza nazionale è legata alla produzione di merci che hanno un impatto negativo sull’ecosistema, sulla salute e benessere delle persone, sulla nostra vita quotidiana. Tutto questo è occultato dentro una bolla di falsificazione della realtà dove prevalgono in maniera ossessiva termini quali «sostenibilità» e «green». È bastata la chiusura dei rifornimenti di gas dalla Russia per fare riaprire centrali a carbone, riprendere le trivellazioni in Europa e nel Sud del mondo, a partire dai Paesi africani, costruire i nuovi rigassificatori, e infine accelerare la corsa agli armamenti, una delle prime cause del disastro ambientale. Insomma, dalla tanto sbandierata «transizione green» stiamo passando velocemente alla «transizione bellica» senza trovare una opposizione significativa. I sindacati dei lavoratori sono sempre più soggetti al ricatto dell’occupazione, per cui hanno scarsa capacità di mettere in discussione cosa produrre, per chi e come.

L’ideologia della crescita infinita, fine a sé stessa, ha impedito a quello che rimane della sinistra europea di analizzare criticamente la qualità di questa crescita monetaria, per giunta drogata da una nuova corsa all’indebitamento.
L’Ue si è ormai completamente adeguata all’american way of war come un dato strutturale e permanente del capitalismo a stelle e strisce.

Siamo entrati ormai a pieno titolo in quello che James ‘O Connor definiva “warfare state” nel famoso saggio “The Fiscal Crisis of the State”, edito a New York esattamente cinquanta anni fa. Ovvero in una Economia di guerra ( War Economy) come la definì Seymour Melman nel 1970, invitandoci a prendere atto che si stava formando un nuovo gruppo dominante, una nuova borghesia definita dai suoi rapporti con i mezzi di distruzione più che dei suoi rapporti con i mezzi di produzione, una borghesia criminale che oggi diventa prevalente.

La questione della guerra e della pace non è una delle tante contraddizioni di questa nostra società, ma rappresenta la linea di demarcazione tra socialismo e barbarie, tra la catastrofe globale e la possibilità di dare un futuro alle prossime generazioni: la Next Generation Eu, da cui ora invece vengono presi i fondi per finanziare l’industria bellica.

da “il Manifesto” del 5 maggio 2023
Foto di Brett Hondow da Pixabay

L’implosione del Mediterraneo-di Tonino Perna

L’implosione del Mediterraneo-di Tonino Perna

C’era una volta il Mediterraneo, culla di grandi civiltà, delle tre religioni monoteiste, centro dell’attività economica e commerciale del mondo conosciuto, dal tempo dei fenici-greci-romani-arabi fino alla fine del XV secolo. Poi, con la conquista dell’America, si spostano progressivamente i flussi commerciali dal Mediterraneo all’Atlantico, e dal continente americano arrivano oro e argento che costituivano allora la base reale della ricchezza di un paese, e si riduce progressivamente il ruolo del Mediterraneo, ma non scompare.

Ancora negli anni ’60 del secolo scorso i paesi che si affacciano nel bacino del Mediterraneo facevano parte dei paesi a reddito medio-basso, nella sponda sud-est, e a reddito medio alto nella sponda nord. Dopo la caduta del muro di Berlino e l’apertura cinese al mercato globale, l’asse del commercio e della finanza europea si sposta nuovamente verso i paesi dell’ex Urss e verso la Cina, all’interno di una rivoluzione geopolitica ed economica che vede l’asse centrale dell’economia mondo localizzarsi in Asia. Un cambiamento epocale paragonabile solo a quello avvenuto con la conquista delle Americhe. Solo che allora ci vollero secoli per consolidare questo cambio di rotta del mercato mondiale, oggi sono bastati pochi decenni.

Il progressivo impoverimento delle popolazioni della sponda sud-est del Mediterraneo è avvenuto già negli anni ’70 del secolo scorso, con una divaricazione crescente tra la sponda Nord e Sud-es. L’Ue, nata nel cuore del Mediterraneo con il Trattato di Roma del 1957, e due anni prima con la Carta di Messina, ha lasciato da tempo il mare nostrum come area di interesse economico e politico, abbandonando nell’emarginazione e crescente povertà le popolazioni nordafricane ed arabe. Fino alla “primavera araba” media e governi occidentali avevano ignorato l’impoverimento di queste popolazioni. Improvvisamente nel 2010 si accendono i fari su masse giovanili in piazza per chiedere più libertà e giustizia sociale, contro le rapaci élite, militari e civili, che divorano le ricchezze unitamente ai rapporti di scambio ineguali con i paesi occidentali.

Sappiamo come è andata a finire anche grazie all’ingerenza di potenze straniere comprese quelle europee. Libia e Siria, paesi relativamente ricchi e dove milioni di migranti del Sahel lavoravano, sono implose e vivono tuttora in uno stato di guerra permanente. Il Libano, la famosa Svizzera del Mediterraneo, è stato ridotto alla fame e il milione e mezzo di siriani che aveva ospitato sono oggi invisi e perseguitati. La Palestina è stata fatta a brandelli, ridotta ad un bantustan, dalla crescente tracotanza del governo israeliano che a sua volta attraversa una crisi democratica inedita. E adesso è arrivato il turno della Tunisia, l’unico paese a mantenere aperta una piccola luce sulla “primavera araba”, ormai entrato in una spirale autodistruttiva. E’ l’ennesimo paese dell’area mediterranea che implode

L’Unione europea si preoccupa dei suoi vicini di casa caduti nell’inferno? Pensa a sostenere economicamente e finanziariamente questi paesi, o pensa piuttosto a investire, come ha fatto con la Turchia, solo per creare un grande lager? Il governo Meloni vede nell’implosione della Tunisia un pericolo per l’Italia, con i principali mass media che ormai hanno lanciato l’allarme: l’invasione di milioni di migranti è alla porte di casa nostra!

Dopo il meeting di Barcellona del 1995, che pure aveva i suoi limiti neoliberisti, il Mediterraneo è scomparso dall’agenda europea, lasciando campo libero agli Usa, alla Russia, alla Cina e all’emergente politica espansionistica della Turchia del sultano Erdogan. In Italia, dopo decenni di convegni sul Mediterraneo, di evocazioni retoriche sull’Italia e la Sicilia centro e cuore pulsante di questo mare, abbiamo ricoperto l’importanza di alcuni di questi paesi solo adesso come fornitori di gas e petrolio. E questo, naturalmente, in linea con la transizione ecologica in salsa napoletana.

da “il Manifesto” del 14 aprile 2023

Il Ponte non è una protesi.-di Tonino Perna

Il Ponte non è una protesi.-di Tonino Perna

Ci risiamo, anche se è solo il primo passo di una insulsa propaganda di regime come presto verrà a galla. Durante il ventennio le opere di regime sono state tante, c’è stata la ricostruzione, in stile liberty, delle città di Reggio e Messina, completamente distrutte dal terremoto del 1908 con la morte di 100.000 abitanti dell’area dello Stretto. Ma questi odierni epigoni sono talmente incapaci da aver scommesso su un’opera impossibile da realizzare, dove, purtroppo, si butteranno miliardi e dove, se non ci sarà come è probabile, una forte resistenza del territorio interessato, si creeranno danni ambientali irreversibili.

Procediamo con ordine. Quello che è stato approvato dal Consiglio dei Ministri è il finanziamento di un progetto esecutivo del Ponte a campata unica sullo Stretto. Intanto, ci avevano raccontato per anni che c’era già il progetto e bisognava solo finanziare l’opera. Adesso ci vorranno circa due anni per arrivare all’approvazione del progetto esecutivo, e poi almeno un altro anno e mezzo per il progetto definitivo. Poi bisognerà trovare le risorse finanziare.

Ammettiamo anche che questi passaggi avvengano nei tempi previsti e che si trovino i capitali necessari nelle casse dello Stato (visto che nessun privato finora si è dimostrato disponibile), bisognerà passare agli espropri di terreni privati con inevitabili contenziosi giudiziari. Salvo emanare una legge ad hoc che affretti le procedure di esproprio in forma autoritaria, in questa fase si può fermare tutto per anni ed anni.

Seppure tutto dovesse procedere nel migliore dei modi, il Ponte sullo Stretto non potrà essere terminato prima di dieci anni. Per altro, per avviare i lavori bisognerà inventarsi una tecnologia che permetta al Ponte di sopravvivere in un’area ad alta intensità sismica (l’ultima scossa di 4,5 ° si è registrata la settimana scorsa in Aspromonte, la grande montagna che arriva ad abbracciare lo Stretto sul lato calabrese). E poi dato l’irreversibile distanziamento delle due sponde, registrato dai satelliti, pari ad 1cm ogni cinque anni, bisogna augurarsi che il Ponte una volta costruito possa arrivare almeno a mezzo secolo di vita.

Quando, superando mille ostacoli e allarmi degli scienziati, questo Ponte dovesse veramente essere costruito, resterebbe sullo Stretto come una protesi dentaria in una bocca sdentata. Il problema è che finora non è stato fatto nessuno studio serio, né una valutazione di impatto ambientale, né una stima dei costi per collegare il Ponte alla ferrovia e all’autostrada, da una parte e dall’altra dello Stretto. Che senso ha pensare di costruire un megaponte, a campata unica la più lunga del mondo, come sostengono orgogliosamente, senza porsi il problema del collegamento con la ferrovia e le autostrade lontane decine di chilometri dai tralicci del Ponte?

Finora l’opposizione a quest’opera di regime è stata portata avanti, oltre che dai movimenti ambientalisti, dal M5S, dai Verdi, da Unione Popolare e una minoranza Pd. I temi dell’opposizione sono concreti, ma deboli sul piano della comunicazione. Si dice e si scrive “bisogna completare prima la SS106, l’alta velocità ferroviaria, l’elettrificazione in Sicilia e sulla jonica calabrese dei collegamenti ferroviari, i depuratori, le strade di collegamento delle zone interne, il gravissimo dissesto idrogeologico, ecc. Sono tutte obiezioni giuste se si trattasse di una disputa accademica, ma si tratta di opporsi ad una scelta ideologica, che vogliono realizzare a tutti i costi anche lasciando per l’eternità i tralicci del Ponte che guardano le stelle.

La Destra risponde facilmente a queste critiche dicendo che proprio grazie alla costruzione del Ponte si faranno le altre opere accessorie. E, quel che è grave, stanno convincendo una parte rilevante dell’opinione pubblica nell’area dello Stretto.

Viceversa, se si spiegasse alla popolazione che non c’è nessun progetto per collegare il Ponte, che se venisse programmato un collegamento si dovrebbero fare colate di cemento sulle città che si affacciano su questo specchio d’acqua dove vive la Fata Morgana, dove chi arriva per la prima volta rimane incantato dallo spettacolo di Scilla e Cariddi, dalla vista contemporanea dell’Etna e delle isole Eolie, di Messina e Reggio, dei Peloritani e dell’Aspromonte. Chi può pensare di distruggere con decine di viadotti e gallerie questa meraviglia della Natura e parlare di transizione ecologica?

Se questo Ponte è green, come dice il ministro allora sarà costruito con cemento di cartapesta riciclata, perché diversamente, con cemento armato e collegato alle infrastrutture esistenti, richiederebbe tanto calcestruzzo e ferro, quanto ce ne vorrebbe per costruire ex novo una città di 700 mila abitanti, secondo una stima prudente. Senza considerare che ci troviamo di fronte ad aree ad altissimo valore naturalistico che verrebbero sfigurate dall’insana voglia di gloria di una brutta compagnia di ventura.

Ci si può chiedere il perché di tanto accanimento su quest’opera folle e devastante oltre che in gran parte irrealizzabile. La risposta è nel distretto degli acciai speciali di Brescia, nel business delle grandi imprese italiane delle costruzioni, a partire dalla Webuild S.p. A., già Salini-Impregilio, nelle macchine di movimento terra, ecc. Una domanda aggiuntiva per alcuni settori industriali del Nord Italia dove la Lega ha una buona parte del suo elettorato. Investire al Sud per creare domanda aggiuntiva al Nord, e se questo significa distruggere un ecosistema l’importante è usare la parola magica “un Ponte sostenibile!”

da “il Manifesto” del 18 marzo 2023

Aiutiamoli a morire a casa loro.-di Tonino Perna

Aiutiamoli a morire a casa loro.-di Tonino Perna

L’ennesima tragedia dei migranti che muoiono davanti alle nostre coste, che potevano tranquillamente essere salvati prima, ha provocato una reazione unanime nel governo italiano che è stato ben espresso dalla premier addoloratissima per questo ennesimo naufragio: “Basta. Dobbiamo impedire le partenze”. Le ha fatto da megafono il ministro Piantedosi: “Non dovevano partire”.

Giusto, logico e pragmatico, non fa una grinza. Se nessuno parte su un barcone, gommone o altro mezzo, nessuno muore. Per questa intuizione dovrebbe essere conferito alla presidente del Consiglio, unitamente al suo Ministro degli Interni, uno speciale premio Nobel per pace, magari con una piccola specificazione: “per la pace eterna”.

Cosa significa “dobbiamo bloccare le partenze”? Significa che milioni di profughi che fuggono dalle guerre, dalla fame, dalla miseria, dalla siccità, dalle inondazioni, devono restare a morire nella propria terra. Ma, stia tranquilla, signora presidente del Consiglio: il 94% dei rifugiati, dei cosiddetti “diplaced people” si spostano all’interno dei loro paesi o in paesi confinanti, come il Niger, il Congo, il Sud Sudan, ecc. Solo il 6% emigra verso altri continenti, non necessariamente in Europa. Quelli che s’imbarcano per raggiungere le coste del Sud Europa sono quelli che non hanno più niente da perdere.

Sono una piccola parte del’1,3 milioni di siriani rimasti intrappolati in Libano in una spaventosa crisi economica che ha generato una forte pressione per rimandarli in Siria dove li attende a braccia aperte Bashar Assad, per dargli l’estrema unzione. Sono i curdi bombardati quotidianamente dal grande mediatore pacifista, il presidente Erdogan, che ricatta persino la Nato per poter giustiziare quei leader curdi che sono rifugiati politici nei paesi scandinavi. Sono tunisini che fuggono dalla miseria che dilaga in questo paese dove le grandi speranza accese dalla Primavera araba stanno definitivamente tramontando. Chi sale, pagando, su un barcone sovraffollato per venire in Italia, sa perfettamente che rischia la vita, ma non ha alternative, non ha una prospettiva diversa, una piccola fiammella di speranza.

Bene. Volete farli morire a casa loro in modo da poter dire “abbiamo salvato tante vite umane da quando abbiamo impedito le partenze verso l’Europa” ? Avete ragione: occhio non vede cuore non duole. Infatti, quanti europei o nordamericani sanno che gli ultimi 20 paesi del mondo per reddito pro-capite, aspettativa di vita, livello di istruzione, ecc. , i cosiddetti Last Twenty, sono per oltre i 2/3 paesi attraversati da guerre e conflitti. Guerre alimentate dalle nostre industrie delle armi, fomentate da chi vuole prendersi le risorse di questi paesi, guerre dimenticate che producono fame, devastazione ambientale e migrazioni di massa. Non è la mancanza di investimenti, di risparmio, di know how, di tecnologia, che hanno provocato l’impoverimento di questi paesi, ma le guerre di lunga durata.

E noi cosa facciamo? Aumentiamo la spesa per armamenti fino al 2% del nostro Pil, in modo tale che possiamo continuare ad aiutare questi popoli a casa loro. Se solo spendessimo una piccola parte di questi miliardi per i corridoi umanitari molti rinuncerebbero a rischiare la vita puntando su una futura possibilità di arrivare dignitosamente nel nostro paese. Come già avviene grazie alla Caritas, a Sant’Egidio e alla Federazione delle Chiese Evangeliche, che finanziano i corridoi umanitari dal Libano, dalla Libia, dall’Afghanistan ecc.

Si tratta, purtroppo, di piccoli numeri che hanno un grande valore umano – ogni vita salvata ha un valore- ma non possono offrire una risposta adeguata come potrebbe offrirla lo Stato. Ed invece il nostro governo pensa a murare le frontiere, a fare morire in mare i profughi impedendo alla Ong di salvarli, spostando verso Nord i porti autorizzati in modo tale che queste navi umanitarie possano salvare il meno possibile, le nostre industrie cercano disperatamente manodopera che non trovano più, devono ridurre le attività per mancanza di personale.

Ma, neanche i richiami di Confindustria riescono a incidere su un governo così spietato, cinico, crudele, come non l’avevamo mai visto. Se non ci sarà una ribellione di massa, se la maggioranza degli italiani resterà indifferente rispetto a queste stragi di migranti, allora avremo perso definitivamente la nostra umanità.

da “il Manifesto” del 28 febbraio 2023

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il rischio di una nuova Linea Gotica.-di Tonino Perna

Il varo dell’autonomia differenziata, che speriamo incontri una serie di ostacoli negli step successivi, rischia di spaccare il nostro paese al di là di quello che oggi si possa immaginare. Infatti, se fosse applicata come chiedono le Regioni Lombardia, Veneto e, sia pure con qualche distinguo, l’Emila Romagna, provocherebbero in pochi anni una divaricazione salariale, prima nel settore pubblico e poi, per la caduta della domanda, nel settore privato peggiore delle gabbie salariali che c’erano negli anni ’50 del secolo scorso.

Cerchiamo di entrare nel merito, considerando i desiderata della Lega e ipotizzando che vengano attuati. Tra quello che le singole Regioni danno allo Stato con imposte, accise, ecc. e quello che ricevono si è creato nei decenni una divaricazione sempre più marcata. Tre Regioni, ovvero Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, hanno un budget negativo nei confronti dello Stato mentre le Regioni a Statuto Speciale- Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino A.A, Friuli V.G. fanno registrare un surplus, vale a dire che ricevono più di quello che danno. La Regioni del Centro Italia sono grosso modo in pareggio, il Piemonte ha un surplus marginale, mentre la Liguria presenta, unitamente a tutto il Mezzogiorno, un attivo considerevole.

Per la cronaca la regione che ha il surplus in percentuale maggiore è la Calabria, quanto per cambiare, che diventerebbe la regione più penalizzata dall’autonomia differenziata. Se i flussi di entrata ed uscita tra la popolazione calabrese e lo Stato andassero in pareggio il reddito pro-capite arriverebbe a perdere dopo tre anni circa il 30%. Questo comporterebbe in primo luogo una caduta dei salari reali dei dipendenti pubblici, salvo che il governo regionale, ipotesi non credibile, non riducesse drasticamente l’occupazione nella sanità, scuola, servizi sociali, ecc, per mantenere lo stesso livello dei salari reali con il Nord.

In media le regioni meridionali perderebbero tra il 15 e il 20 per cento del reddito pro-capite e di conseguenza dei livelli salariali. Come avverrebbe questo taglio ai salari? Semplicemente non adeguandoli all’inflazione nei prossimi anni, mentre nelle tre regioni del Nord più ricche si avrebbe più che un recupero dell’inflazione, rendendo nuovamente attraente l’impiego pubblico, come per altro avviene in Centro e Nord Europa.

E’ facile immaginare che, al di là delle proteste, una buona parte dei meridionali cercherebbe di trovare lavoro nelle aree più ricche del Nord, creando un problema di concorrenza nel mercato del lavoro. A questo problema la Lega Nord ci ha già pensato da tempo con varie proposte che finora erano state bocciate, ma che l’autonomia rende possibile. Per esempio, per entrare nella pubblica amministrazione di queste regioni del Nord, dalla scuola alla sanità agli enti locali, devi avere almeno cinque anni di residenza provata. Un deterrente che certamente susciterà non poche polemiche e proteste di piazza.

Dobbiamo prendere atto che l’autonomia differenziata se passasse nei termini proposti da Calderoli creerebbe una sorta di Linea Gotica che spacca il nostro paese in due. E il governatore Pd dell’Emilia Romagna ne è responsabile quanto i presidenti regionali della Lega.

Per fortuna i giochi non sono ancora fatti, ma il rischio è alto. Che fine faranno le cinque regioni a Statuto speciale che percepiscono un lauto surplus, tra entrate e uscite, da parte dello Stato? E la Liguria che rischia di perdere qualcosa come il 10 per cento del suo reddito continuerà a stare a guardare? E la Meloni, che dell’Unità d’Italia ne ha fatto sempre una bandiera, potrà tener fede al patto con la Lega, allo scambio del presidenzialismo con l’autonomia differenziata? Ma, soprattutto, i governatori del Sud, a qualunque partito appartengano, potranno permettersi di restare alla finestra guardando a questo scippo che metterebbe fine ad ogni sogno di riscatto del Mezzogiorno?

da “il Quotidiano del Sud” del 7 febbraio 2023

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Altro che precipizio, siamo in guerra.-di Tonino Perna

Mandiamo al governo ucraino armi sempre più potenti e sofisticate, ne addestriamo le truppe, martelliamo i nostri concittadini con una propaganda bellica martellante.

Guidiamo gli attacchi all’esercito russo dai nostri satelliti che spiano il fronte, e tutta l’area interessata al conflitto, 24 ore su 24.
E stanno per chiederci di mandare le nostre truppe, secondo i generali in pensione Marco Bartolini, già a capo del Comando operativo interforze (Coi) e Leonardo Tricarico, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica.

Tra l’altro questi generali, che certamente non possono essere annoverati tra gli ingenui pacifisti, si sono pubblicamente espressi contro l’invio dei famosi carri armati Leopard perché rischiano di provocare una risposta dagli esiti imprevedibili che potrebbe portarci alla catastrofe.

Siamo in guerra contro la Russia senza che sia stata ufficialmente dichiarata. Malgrado il famoso articolo 11 della nostra Costituzione ci vieta di partecipare ad una guerra offensiva e ci invita a contribuire a risolvere con mezzi pacifici le controversie internazionali, non abbiamo fatto neanche un timido tentativo di mediazione.

Abbiamo lasciato questo ruolo di mediazione tra Zelensky e Putin ad un governo liberticida come quello turco del Sultano di Erdogan, che ha imprigionato migliaia di dissidenti e continua a bombardare impunemente il popolo curdo in Siria, lo stesso popolo che ha lottato, con noi, coraggiosamente contro la barbarie dell’Isis, liberando le città che questi criminali avevano occupato e distrutto.

Siamo in guerra malgrado tutti i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani sia contraria a continuare a mandare armi all’Ucraina, a proseguire nel sostenere questa escalation bellica che sta diventando irreversibile.
Siamo in guerra contro la Natura, la Madre Terra, perché questo conflitto tra la Nato e la Russia ha prodotto un’impennata nella corsa agli armamenti che è una delle cause principali dell’inquinamento del pianeta e dell’effetto serra. Siamo in guerra, malgrado gli appelli addolorati di papa Francesco, voce di colui che grida nel deserto. Siamo in guerra senza se e senza ma.

Siamo in guerra e ci sentiamo impotenti. Possiamo ritornare a scendere in piazza, ma abbiamo visto che questa iniziativa non ha scosso di un millimetro l’appoggio alla guerra, all’invio di armi. Ma, se non facciamo niente siamo complici di questo massacro annunciato.

In questo momento nessuno ha la chiave magica che serve a bloccare questa corsa verso il baratro, ma tutti coloro che credono che non ci sia alternativa alla trattativa, al cessate il fuoco, al fermare la bestialità che è in noi e fare parlare la ragione, devono sforzarsi di trovare una risposta, a immaginare una iniziativa per uscire da questo silenzio complice. Personalmente credo che bisogna riprendere la battaglia contro le armi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, attraverso l’obiezione fiscale. Semplicemente facendo sapere al governo in carica che si rimanda per quest’anno il pagamento di tasse e tributi finché saremo in guerra.

Non penso che così fermeremo questa guerra, ma almeno prenderemo le distanze e potremo dire “NON CON I MIEI SOLDI”. Ma, credo soprattutto in uno sforzo collettivo per trovare tutti i modi possibili per opporci a questa assurda deriva dell’umanità. Perché di questo si tratta, non solo della nostra pelle. La guerra nucleare non è lo spauracchio usato dal governo russo come ci vogliono far credere, ma una possibilità concreta che nasce dalla convinzione che Putin sia proprio un dittatore spietato che pur di non essere cacciato dal potere è disposto a tutto.

Così come Zelensky pur di vincere questa guerra è disposto a vedere rase al suolo le città dell’Ucraina e ridotto alla fame e alla miseria l’intero popolo ucraino.

da “il Manifesto” del 26 gennaio 2023
Di Bundeswehr-Fotos – originally posted to Flickr as Leopard 2 A5, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11586260

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Guerra ibrida. Il bisogno crescente di un’informazione indipendente.-di Tonino Perna

Da quando è scoppiata questa maledetta guerra in Ucraina si è percepita subito una nuova dimensione del conflitto giocato oggi su più piani, che sempre più spesso troviamo sulla stampa con la qualificazione di «guerra ibrida». Significa una guerra che si conduce non solo sul piano militare, ma anche su quello della propaganda, diventata un’arma ugualmente letale, ed anche sull’uso degli hackers e della cyberwar che mettono fuori gioco interi sistemi logistici e possono mettere in ginocchio un paese più delle armi.

Nella letteratura scientifica sono stati pubblicati alcuni testi su questa nuova categoria della guerra ibrida. Ne è nato un dibattito a livello accademico, partito da alcuni studiosi di Oxford, sulla definizione di Hybrid warfare dove sono analizzate tutte le possibili strategie di guerra che non appartengono ai sistemi tradizionali caratteristici de i conflitti nel secolo scorso.

C’è da dire che la propaganda è stata un’arma ampiamente usata anche in passato, da quando sono nati e si sono diffusi i moderni mezzi di comunicazione di massa.

Certamente non lo era al tempo dei Romani o nel Medio Evo, ma già con la nascita dei quotidiani il potere politico ha messo tutte e due le mani sull’informazione in tempo di guerra. Oggi i social network sono uno strumento potente di diffusione delle notizie che è diventato prevalente nell’ultimo decennio. La novità consiste nel fatto che mentre prima ogni governo in guerra tempestava la propria popolazione con informazioni manipolate, sui danni al nemico e sulle proprie perdite, così come sulle ragioni del conflitto, oggi grazie alla tecnologia digitale un governo può usare i social dell’avversario per diffondere fake news a volontà. In altri termini, riesce a fare la sua propaganda sul terreno dell’avversario.

Anche le immagini catturate durante il conflitto non costituiscono più una prova al cento per cento, possono essere manipolate a piacere e seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere. In sostanza, la guerra ibrida fa emergere un fatto di cui dobbiamo prendere atto: la prevalenza della costruzione politica della realtà. Nell’era della scienza e della tecnica in cui l’umanità sembrava essersi liberata da magie e superstizioni, una sfida ben più grande si pone per chi vuole conoscere la Verità, non in astratto ma rispetto ad un conflitto come quello in Ucraina in cui muoiono migliaia di persone e non se ne vede la fine.

In un tempo in cui siamo bombardati letteralmente da un’infinita di informazioni non sappiamo, per esempio, quanti sono stati i militari ucraini morti in guerra, mentre sappiamo, forse, che quelli russi sono centomila. Come mai, ci domandiamo, non esiste un dissenso rispetto a continuare questa guerra suicida da parte del popolo ucraino? Una parte del popolo russo ha protestato i primi mesi contro questa guerra e l’ha pagata duramente, ma non sappiamo quanti sono fuggiti per non essere reclutati e, dall’altra parte, quanti giovani ucraini sono scappati per non finire al fronte. O sono tutti eroi? E che fine hanno fatto ministri e generali rimossi da Putin o le migliaia di dissidenti incarcerati?

Si può dire con un grande filosofo che «non esistono fatti ma solo interpretazioni», ma così si cade in un relativismo assoluto che impedisce qualunque pensiero critico o iniziativa politica. Ed invece abbiamo bisogno per agire di capire, di farci un’idea più chiara delle partite che si stanno giocando in questa tremenda guerra ibrida.

Come la sordida guerra tra le valute, che non si può lasciare agli analisti finanziari, ma che ha ricadute politiche importanti come l’uscita del dollaro dagli scambi commerciali e finanziari tra Russia, Cina e India.

Una informazione indipendente è fondamentale in questa fase storica. Per questo sostenere questo giornale e gli altri pochi spazi di informazione libera costituisce un atto politico di primaria importanza. Certo, sappiamo che è una lotta impari contro gli oligopoli/piattaforme dell’informazione ma non abbiamo alternative se non vogliamo rinunciare a pensare con la nostra testa. La campagna abbonamenti per sostenere il manifesto, con la bella foto di Luciana Castellina, non poteva cadere in un momento storico più cruciale.

da “il Manifesto” dell’11 gennaio 2023
Foto di Дмитрий Буханцов da Pixabay